BadMoodMan Records, 2013 |
Ammettiamolo: la copertina del secondo disco degli Alley è talmente brutta che si fa fatica a guardarla, ed è solo per coerenza che includo l'immagine in questa recensione, altrimenti avrei tranquillamente evitato. Quel faccione verdastro immusonito, dai capelli in stile alghe sott'olio e con quell'improbabile sfondo di stelline luminose da cartone animato giapponese, gli Alley se lo potevano proprio risparmiare, anche perchè è risaputo che la copertina incide molto su quello che sarà il giudizio finale dell'ascoltatore, il quale oltre alle orecchie per ascoltare è dotato anche di occhi per vedere e di un cervello per associare inconsciamente musica e immagini. Quello che non si può dire, invece, è che la musica contenuta dietro una tale bruttura sia brutta anch'essa: la band russa è infatti tornata alla carica con altri settanta minuti di musica che non mancheranno di sfamare l'insaziabile appetito di chi costantemente esplora l'underground in cerca di band interessanti da scoprire.
Ricordate il debutto "The Weed", uscito nel 2008? Chi ha ascoltato quell'album non può non avere presente come gli Alley si rifacessero ai maestri Opeth, praticamente copiandoli in tutto e per tutto: la voce growl era uguale, le sporadiche clean vocals erano praticamente identiche sia nello stile sia nel timbro, il suono roccioso e aggressivo delle chitarre era anch'esso molto simile, il riffing era della stessa identica natura, così come lo erano le strutture spiccatamente progressive death, che lasciavano spazio anche a momenti riflessivi dominati dalla chitarra acustica, dopo aver spinto sui distorsori per minuti e minuti. Elementi distintivi propri, nel sound degli Alley, erano praticamente inesistenti, e quel disco spaccò in due gli scandagliatori dell'underground che lo acquistarono. C'era chi apprezzava la loro dedizione alla storica band svedese, perdonandogli una grande derivatività in nome di una resa sonora impeccabile e di un'indubbia abilità che è necessaria anche solo per suonare come la pallida copia di Akerfeldt e soci; e c'era invece chi invece bocciava senza mezzi termini la loro proposta, bollandoli come cloni senza il minimo guizzo di originalità, perlopiù aridi come pietre. Probabilmente avevano ragione entrambi: la band suonava un progressive death corposo ed elaborato, forte di una tecnica sicuramente ottima e di un lodevole intento compositivo, ma non creava praticamente nulla di personale, limitandosi a ricalcare uno stile altrui, e peraltro lo stile non di una band poco conosciuta, ma di un gruppo fenomenale e conosciutissimo come gli Opeth, cosa che li espose a non poche critiche. Inoltre, anche se "The Weed" era sicuramente un buon disco, piacevole da ascoltare e riascoltare, mancava quasi totalmente della devastante carica emotiva e animalesca degli Opeth, come a sottolineare che i maestri sono unici e inimitabili, e che una minestra riscaldata non potrà mai in alcun modo eguagliare l'originale.
Dunque, con questo "Amphibious", cosa è cambiato? A caldo direi: non moltissimo, ma sicuramente qualcosa. Tutti gli elementi che componevano "The Weed" sono rimasti invariati, non si sono aggiunti nuovi strumenti nè nuove sonorità, ma stavolta non ci troviamo di fronte ad una raccolta di B-side degli Opeth; è innegabile che gli Alley in quest'occasione abbiano cercato di differenziare la loro proposta e di ampliare i propri orizzonti. Il trucco è in questo caso è lavorare sui dettagli: a fronte di un impianto sonoro ancora molto Opethiano, sono numerosi i punti in cui la band si distacca dai canoni degli svedesi e tenta di prendere strade ancora non battute. I chilometrici brani, dalle strutture sempre complesse e articolate, si snodano tra sezioni che rallentano oltre i limiti di guardia così come accelerano oltre misura, sconfinando nello sporadico blast beat; la voce pulita, sempre sognante e carica di mistero come nei migliori dischi degli Opeth, acquista talvolta un carattere più etereo, meno legato all'idea di linea melodica e più simile ad un elemento che accompagna il fluire strumentale; le sezioni melodiche prive di distorsioni vedono come protagoniste delle chitarre che esplorano terreni di improvvisazione, con raffinati arzigogoli che paiono pescare un pochettino dal jazz. Il riffing di chitarra, sempre molto vario, perde un po' della freddezza meccanica che affliggeva in parte "The Weed" e diventa più intenso, coinvolgente, multistratificato: "Amphibious" ha dalla sua alcuni passaggi davvero da capogiro, che nel precedente album si stentava a trovare. Si intensifica la durezza e la severità delle atmosfere, i consueti giri di accordi obliqui tengono costantemente i brani sospesi in una condizione di dubbio, le dissonanze diventano crude e stridenti, le ritmiche si mostrano più eclettiche, i rari momenti di pura emozionalità e di positività risaltano notevolmente in rapporto alla continua ricerca di sonorità ruvide e atmosfere plumbee (emblematiche sono alcune brevi parti melodiche nella conclusiva "Washed Away", insolitamente solari). Talvolta si vivono momenti di impazzimento e panico: ascoltate l'introduzione di "Skull & Bones" (che tuttavia nel finale sfoggia un assolo insospettabilmente sereno!), o il riff iniziale di "Amphibious", seriamente da capogiro: ciò dovrebbe bastare per affermare con certezza che gli Alley sono migliorati in modo tangibile. In sostanza, quello che rende questo disco più maturo e interessante è quel minimo di sperimentazione aggiunta e qualche guizzo di dinamismo compositivo in più, il quale fa la differenza. Si tratta sempre di sfumature, perchè comunque l'album non si discosta in maniera netta da "The Weed" in quanto a stile generale, ma i cambiamenti introdotti sono comunque sufficienti per togliere dagli Alley l'etichetta di gemelli brutti degli Opeth, ponendo le basi per quella che potrebbe essere un'evoluzione futura ricca di sorprese. I sei brani di "Amphibious", tutti molto simili tra loro e quindi considerabili come un unico lungo brano, non sono dei ricettacoli di emozione nè dei brani sbalorditivi (qualche lungaggine di troppo appare anche stavolta), ma gli Alley sono comunque musicisti di qualità che stanno pian piano riuscendo ad emergere dall'anonimato e a scrollarsi di dosso un'etichetta sgradevole, che rappresenta un po' la loro croce e delizia (in fondo, chi non avrebbe piacere ad essere nominato a fianco degli Opeth, nel bene e nel male?). C'è da dire che si sono evoluti piuttosto lentamente, considerando che tra "The Weed" e questo "Amphibious" sono passati ben cinque anni; se la band vuole definitivamente emergere, il prossimo disco dovrà essere quello decisivo, e soprattutto non dovrà metterci un altro lustro a uscire.
Nonostante la lunghezza pachidermica, il disco si ascolta volentieri e tiene sufficientemente lontano lo spettro della noia, per cui il mio giudizio è sostanzialmente positivo, se non altro per il tentativo che ha mostrato di distaccarsi dalla derivatività del debutto. Nessuno riterrà gli Alley dei musicisti irrinunciabili, e nessuno si strapperà i capelli se non riuscirà a procurarsi "Amphibious", ma più o meno tutti saranno d'accordo nell'affermare che si tratta di un buon disco, riservato comunque a palati fini, a chi gode nell'avventurarsi in trame musicali ostiche, tutte da scoprire. Attendiamo comunque la definitiva maturazione della band e l'affermazione della loro vera personalità: "Amphibious" è un iniziale ed importante passo avanti in quella direzione, ma il cammino deve proseguire. E speriamo che per il prossimo disco scelgano una copertina più decente...
01 - Lighthouse (15:21)
02 - Weather Report (12:00)
03 - Amphibious (13:08)
04 - Skulls & Bones (7:42)
05 - Time Signal (13:07)
06 - Washed Away (8:03)