Roadrunner, 2008 |
Infatti nonostante i pareri decisamente positivi - anche se non unanimi - di molte recensioni che si possono trovare in rete, non sono da meno i fan che trattano Watershed con sufficienza e mezza delusione - fenomeno che ho potuto osservare io stesso parlando con diverse persone. Che gli Opeth avessero voglia di cambiare lo si sentiva già da un po’: nel 2003 si sono giocati la carta acustica, nel 2005 hanno introdotto le tastiere nel sound di quello che io ritengo uno dei loro album migliori, Ghost Reveries, donando nuovo intenso fascino alle loro caratteristiche melodie acustiche. Questa volta però escono più allo scoperto: Watershed è parecchio diverso da tutti i suoi predecessori pur rimanendo in pieno ambito opethiano, le tastiere di Per Wiberg rivestono un ruolo ancor più centrale che in Ghost Reveries e le influenze prog-rock si fanno più esplicite. Una simile diversità è anche dovuta ad un colpo durissimo subito dalla band: l’abbandono in un colpo solo di due colonne portanti come il chitarrista Peter Lindgren e il batterista Martin Lopez. Mikael li ha rimpiazzati con due ottimi elementi quali, rispettivamente, Fredrik Akesson e Martin Axenrot, ma è inevitabile che la resa sia differente...del resto se voi foste il presidente del Barcellona e perdeste Leo Messi, come diavolo lo rimpiazzereste?
Sostanzialmente questo è il background di avvenimenti a causa dei quali il popolo sta progettando a bassa voce di caricare la croce sulle spalle di Mikael Akerfeldt. Beh, io non ci sto, tutto questo è assurdo. La verità è che se Watershed venisse messo a confronto in modo oculato con gli altri album sulla piazza sarebbe ancora una volta tra le migliori uscite dell’anno, grazie alla sua inventiva e ad un songwriting fresco e ispirato. Ma la verità è anche che questo per il popolo non conta: a loro interessa solo il fatto che gli Opeth stanno mutando, questo è quanto gli basta per riempirsi la bocca di grossolani proclami. Siamo arrivati al punto in cui una band non può più nemmeno cambiare le virgole nel proprio stile senza subire stupide critiche. Assurdo. Quando una band susisce delle perdite importanti nella sua formazione giunge necessariamente ad un trivio: compatirsi per poi arrendersi; reclutare nuovi musicisti e tentare di emulare lo stile dei precedenti, ovviamente con scarsi risultati; reclutare dei nuovi musicisti e seguire le loro inclinazioni, portando una folata di aria fresca allo stile della band. Voi cosa scegliereste? Voi non lo so, ma Mikael Akerfeldt è un uomo dotato di giudizio e quindi ha scelto la terza via, e seguendola con curiosità e ricercatezza è giunto a Watershed. Io, che pure sono un grande fan di capolavori quali Morningrise e Blackwater Park, vedo in quest’album una grande sapienza compositiva che si sposa con un gusto raffinato, vedo un’intro appassionante e sofisticata col suo duetto di voci maschile-femminile, vedo l’ineguagliabile delicatezza di Burden con le sue linee gentilmente arabescate, vedo il superbo assolo di tastiera in The Lotus Eater, vedo gli occasionali leggeri venti di oboe, flauto, violino e violoncello che arricchiscono le melodie. Vedo questo ed altro: ma il resto scopritelo guardando coi vostri occhi.
Un’altra delusione per l’ignorante popolino di fanatici e conservatori, perché per Akerfeldt non è ancora giunta l’ora della Via Crucis: egli continua piuttosto a camminare con tranquillità lungo un fresco sentiero boschivo in esplorazione della nuova vegetazione che per forza di cose muta e si rinnova. Quanto ai detrattori, che di questo sentiero neanche sospettano l’esistenza, non posso che consigliare di lasciarsi trasportare dalla musica che ascoltano piuttosto che farle violenza cercando a tutti i costi di adattarla a quello che si aspettavano: l’aspettativa distrugge il godimento, e limita drasticamente l’apprezzamento.
01 - Coil (03:07)
02 - Heir Apparent (08:51)
03 - The Lotus Eater (08:48)
04 - Burden (07:42)
05 - Porcelain Heart (08:01)
06 - Hessian Peel (11:26)
07 - Hex Omega (06:59)