Roadrunner Records, 2011 |
Non è mai facile recensire un disco degli Opeth, non lo è mai stato: troppo complessa e troppo varia è la loro musica, troppe volte hanno cambiato influenze (seppur di poco alla volta) nel corso della loro fortunata storia, e troppe volte hanno cambiato line - up, risultando alla fine in un collage di diversi musicisti, il cui unico punto fisso è ed è sempre rimasto Mikael Akerfeldt. Con la dipartita degli ultimi due membri "storici" della band, vale a dire Martin Lopez e Peter Lindgren, il gruppo ha ormai cambiato faccia quasi completamente. Non solo dal punto di vista umano (ormai Steven Wilson, mastermind dei Porcupine Tree, esercita una tale influenza sulla band da poter essere considerato quasi come un membro di essa), ma anche musicale: questo "Heritage" infatti è il risultato di una lunga serie di trasformazioni, partite molto indietro, da quando gli Opeth cominciarono a sperimentare con "Blackwater Park", arrivando a pubblicare poi il capitolo prog - acustico "Damnation, passando per dischi via via più raffinati e ricchi di tastiere come "Ghost Reveries" e soprattutto "Watershed", per poi arrivare al compimento dell'evoluzione, ovvero l'approdo ad un puro progressive rock, che ormai di metal mantiene ben poco.
In "Heritage" sparisce il caldo, animalesco cantato growl che tanto ha reso famosi gli Opeth per la passione che riusciva a sprigionare; spariscono le distorsioni più pesanti, sparisce l'aggressività di un "Deliverance", per non parlare di quella più antica risalente ad un capolavoro come "My Arms, Your Hearse". Quella vena di freschezza ormai non c'è più, la musica degli Opeth è diventata qualcosa di molto elaborato ma dal sapore più "costruito", forse meno genuino di quello che era un tempo. Musica d'eccezione, sempre: ma profondamente diversa da quel che era. Se prima infatti il progressive rock era una semplice influenza (per quanto forte) nel sound della band, con "Heritage" esso diventa l'ingrediente principale, e lo si nota in una volontà di spingere i confini della band molto più in là di quanto sia stato fatto in precedenza, con risultati piuttosto difficili da interpretare.
L'Opeth sound, così conosciuto e inconfondibile, è indubbiamente rimasto: troppo familiari sono le note curve, oblique, oscure ed enigmatiche, che hanno sempre caratterizzato le produzioni della band. Quelle atmosfere a tratti sornione, a tratti tese, a tratti rilassate e concilianti, che poi sfociavano in improvvise variazioni da lasciare a bocca aperta: ciò è rimasto, almeno in parte. Qualcosa però se n'è andato, oserei dire irrimediabilmente. Sono sparite le cavalcate di chitarra che facevano sognare, i funambolici e tortuosi assoli, i riff a cascata che non si riusciva quasi a seguire tanto erano turbinosi, e in definitiva tutto ciò che rendeva il suono degli Opeth una vera esperienza purificatrice, in ogni senso. In "Heritage" troviamo brani formalmente ineccepibili, che spaziano tra le influenze più varie ed impensabili, andando a pescare un po' dal progressive rock alla King Crimson, un po' dal minimalismo moderno (non esaltante, a dire il vero), un po' dalla psichedelia, mettendo in gioco tastiere eclettiche e timbricamente tuttofare, episodi vagamente veloci e in cui fa ancora capolino qualche distorsione degna di nota (vedi il contorto singolo "The Devil's Orchard", o la veloce e rockeggiante "Slither", che in alcuni punti ricorda non poco "Cygnus X-I" dei Rush...), e molto altro ancora. Tutto mischiato assieme con sicura perizia tecnica, che ormai anche i sassi sanno essere propria degli Opeth, ma con quale scopo?
Non sono un nostalgico e non ritengo che una band debba suonare sempre allo stesso modo: se c'è un evoluzione, ben venga. Tuttavia, l'evoluzione deve avere un senso, non può essere semplicemente il passare di palo in frasca, come hanno fatto per esempio i Pain of Salvation con il tristissimo "Road Salt One": con quell'uscita poco felice, hanno rovinato una carriera che per quanto eterogenea fosse, è stata sempre brillantissima. L'impressione è che gli Opeth abbiano fatto la stessa cosa: volendo osare troppo, e forzare un po' troppo la mano, hanno perso di vista la visione d'insieme, pubblicando un lavoro sicuramente ben costruito, ma non pienamente all'altezza. Ai brani interessanti, come quelli già citati sopra, si alternano episodi piatti e abbastanza noiosi, nei quali a malapena si percepisce la presenza di un qualcosa di musicale (vedi, ad esempio, le insipide "Nepenthe" e "Haxprocess", carine sì, ma prive di respiro e di direzione, per non parlare di "Famine"). Nel finale il disco si risolleva un po', con episodi buoni come l'irruenta "The Lines In My Hand" e soprattutto l'epica "Folklore", ma si sente che manca qualcosa, che il gruppo avrebbe potuto fare di più. L'assenza del growl contribuisce ad acuire la sensazione di incompletezza, perchè la voce in clean di Mikael è sì splendida, ma rendeva al meglio quando era accoppiata con il growl, così da creare quei magistrali chiaroscuri che ben conosciamo. Qualcuno potrebbe dire: "e Damnation allora?" Ma in quel caso il contesto era ben diverso: "Damnation", che esplorava unicamente l'universo melodico della band lasciando da parte la potenza animalesca e ferale, aveva una propria idea di fondo, un proprio percorso da seguire e una propria personalità. Era concepito come una sperimentazione dai confini ben definiti, e così infatti è rimasto, risultando convincente. "Heritage", invece, è un album a tutti gli effetti che vorrebbe essere Opeth al 100%, ma che appare più come un collage slegato di idee che a volte vanno a buon fine e a volte no. Inserire le chitarre acustiche (ben lontane da quelle che erano in una "Godhead's Lament", molto lontane...), o qualche mellotron, e mettere la batteria in sordina non significa per forza essere delicati e introspettivi, ma può voler dire semplicemente noia. Ci sono diversi episodi che risollevano la media del disco, e sono quelli in cui appunto la classica vena Opeth è ancora presente: pezzi in cui appaiono i complessi sentimenti che hanno sempre animato questa band. Sentimenti che però vengono comunque offuscati da una certa attitudine che io definirei macchinosa, priva di mordente. Merita però un plauso l'opener pianistica "Heritage", semplice e malinconica cascata di note dal sapore quasi psichedelico, che personalmente ritengo il brano più riuscito dell'album. Ma è pur sempre solo un'introduzione: questo dovrebbe far riflettere.
In sostanza, forse è presto per dirlo, ma mi sento di dire che gli Opeth sono incappati nel loro primo album malriuscito. Non sento più quella genuina spontaneità che li ha sempre contraddistinti, nè quella sana aggressività che faceva di loro un gruppo eccezionale. Ho come la brutta impressione che si stiano adagiando sugli allori, contando forse sul fatto che "ormai qualsiasi cosa col nome Opeth venderà per forza centinaia di migliaia di copie". Spero di sbagliarmi, ma temo proprio che Akerfeldt abbia intrapreso la strada del declino. Qualcuno mi dica che non è così, che mi sono sbagliato.
01 - Heritage (2:05)
02 - The Devil's Orchard (6:40)
03 - I Feel The Dark (6:40)
04 - Slither (4:03)
05 - Nepenthe (5:40)
06 - Haxprocess (6:57)
07 - Famine (8:32)
08 - The Lines In My Hand (3:49)
09 - Folklore (8:19)
10 - Marrow Of The Earth (4:19)