Code666 Records, 2011 |
Con l'ombroso debutto "Ancient Sorrow" si sono mostrati come band promettente, anche se ancora da sgrezzare. Con il primo album in studio "The Malediction Fields" hanno poi superato sè stessi, creando una vera e propria opera d'arte che univa un passionale romanticismo "naturalistico" ad atmosfere umide e piovose, derivate dalla sapiente rielaborazione del black metal più all'avanguardia. Il terzo lavoro discografico "Epoch" è qui per mostrarci un'ulteriore lato dei Fen, gruppo britannico che sta riscuotendo sempre più consensi nell'ambito post rock - black metal - shoegaze. Unire questi tre generi musicali, che a loro volta sono il frutto delle unioni di altri generi, è diventato ormai un ottimo sistema per proporre musica originale e potenzialmente ricca di espressività, a patto ovviamente di avere la classe sufficiente per farlo. Classe che non manca e non è mai mancata ai Fen, che fin dal primo vagito musicale sono riusciti a convincere critica e pubblico delle loro capacità artistiche.
Come già possiamo aspettarci conoscendo i Fen, "Epoch" non è un album aggressivo nè feroce, nonostante le sue sonorità relativamente spinte e distorte, che potrebbero suggerire sentimenti negativi ad un ascoltatore poco attento. Lo scopo dei Fen è invece quello di avvolgere l'ascoltatore in un'atmosfera grigia e depressiva, talvolta concedendogli qualche sprazzo di luminosità, talvolta ammaliandolo con momenti strumentali suadenti e dilatati, e solo raramente investendolo con la potenza di uno tra i più intensi screaming che io conosca. I fiumi strumentali di "The Malediction Fields", che suonavano come impetuosi torrenti in piena, hanno infatti lasciato il posto a composizioni più rarefatte, maggiormente improntate alla melodia e ricche di break atmosferici, nei quali vagare senza meta aspettando che la musica ci riporti sui binari principali. Rispetto alla componente black metal, acquistano maggiore forza ed espressività le suggestioni post - rock, particolarmente evidenti in brani ipnotici e nebulosi come la title track "Epoch", posta in apertura di album. Chitarre "sporche" ma aggraziate, timbriche evanescenti e una sezione ritmica pregevole (in particolare per le linee di basso) vorrebbero suggerirci, e ci riescono, di aprire la mente alle fantastiche sensazioni procurate dal vento che soffia impetuoso tra gli alberi ormai privi di foglie, o da mille scaglie di ghiaccio che si muovono ritmicamente ai bordi di un lago gelato, sbattendo l'una contro l'altra e producendo suoni surreali. Ma anche dallo stato d'animo di chi le osserva, a metà tra il malinconico e il meditativo, sicuramente non felice o spensierato. Sensazioni che traspaiono perfettamente da ciascuno degli otto brani, che scorrono con gentilezza e accarezzandoci con mutevole intensità, a seconda del momento. A volte la carezza è un semplice e leggero tocco di chitarra acustica, quasi impercettibile; a volte è uno strofinio deciso di strumenti distorti e tuonanti, che mescolano passione e tristezza con l'abilità che solo dei musicisti talentuosi possono immettere nelle loro composizioni. Ecco dunque che nascono, come fiori dall'accecante bellezza, brani come la magistrale "Carrier Of Echoes", dal piglio deciso e irruento ma sempre splendidamente melodico; la rilassata "Half - Light Eternal", molto Alcest - style specialmente nelle parti arpeggiate e nell'emozionante finale a base di assolo spaccacuore e vocals pulite sognanti (migliorate notevolmente rispetto ai precedenti album); l'enigmatica girandola di "The Gibbet Elms", popolata da stupendi cori di sottofondo e da linee tastieristiche fini e ben amalgamate con le ruvide chitarre; oppure la malinconica "Of Wilderness And Ruin", che sfoggia melodie così affilate da tagliare in due il cuore; e la disperata corsa finale dei tremolo picking in "Ashbringer", brano che accelera e rallenta in modo repentino, come a simboleggiare il continuo cadere per poi rialzarsi e proseguire, fino all'ultima caduta, troppo dolorosa per rimettersi nuovamente in piedi.
"Epoch" ci colpisce con la sua musica intrigante, intima e crepuscolare, come se volesse trascinarci in un vivido sogno ad occhi aperti. Non c'è da aspettarsi perfezione stilistica nè pulizia sonora, così come non c'è da aspettarsi un lavoro facilmente fruibile: per assimilare tale musica serve tempo, pazienza e la giusta disposizione d'animo. Su questo disco, così come sui precedenti, si trova libera espressione dei sentimenti, che non va sempre di pari passo con la ricercatezza tecnica o la raffinatezza a tutti i costi: chiede semplicemente di potersi esprimere, e di poter arrivare direttamente al cuore dei destinatari. Quel che è certo è che i Fen proseguono magistralmente la loro evoluzione, senza curarsi delle critiche a cui talvolta vengono sottoposti: critiche che in realtà non fanno che trasformare in difetti quelli che sono i punti di forza della band. Con grande onestà e impegno, i Fen ci propongono una musica "a modo loro": sta a noi prendere o lasciare.
01 - Epoch (6:18)
02 - Ghosts Of The Flood (6:25)
03 - Of Wilderness And Ruin (8:18)
04 - The Gibbet Elms (6:29)
05 - Carrier Of Echoes (10:38)
06 - Half - Light Eternal (8:22)
07 - A Warning Solace (9:51)
08 - Ashbringer (8:34)