Silent Tree Productions, 2007 |
Dopo aver fatto ristampare il loro esordio autoprodotto, Portrait Of Wind And Sorrow, alla Concreto Records nel 2006; dopo aver firmato un contratto con la Silent Tree Productions; dopo aver rinnovato la formazione cambiando due membri su tre; dopo aver compiuto un salto di qualità nell’artwork della cover, che da un muschiame indistinto si tramuta ora in una splendida foresta con tanto di albero secolare, e nel logo, che da scritta qualunque improvvisata prende ora le sembianze di uno splendido arzigogolo miniato che a sua volta riprende il tema naturalistico della foresta; dopo aver fatto tutto ciò - e a tempo di record! - ecco che nel 2007 gli spagnoli Kathaarsys sono già pronti a sfoderare il loro secondo full-length, uscito con una formazione che rimarrà stabile nel tempo:
- J.L. Montáns, leader e fondatore della band, come cantante e chitarrista;
- Marta Barcia al basso;
- Adrián Hernández alla batteria.
In questo rapido valzer di notizie e novità, quello che paradossalmente sembra essere cambiato poco è la musica: Montáns ricomincia proprio da dove era rimasto, dal suo epico Progressive Black Metal che stavolta colpisce di striscio anche i volti di Death e Doom, e alla domanda “lascia o raddoppia” ecco che lui raddoppia: il risultato è “Verses In Vain - Etude About Death in E Minor, Narration And Drama in II Acts”, un ambiziosissimo doppio CD della durata di quasi novanta minuti spalmati su appena cinque brani, cinque articolate suites che compositivamente parlando cercano proprio di riprodurre quell’attitudine quasi inafferrabile della musica classica alla quale fa riferimento il titolo, in cui brani non seguono semplicemente un paio di motivetti fissati ma si evolvono in direzioni sempre diverse. Da questo punto di vista Verses In Vain mi ricorda parecchio Morningrise degli Opeth, con quel songwriting apparentemente un po’ sconclusionato che ha però il merito di far vivere mille emozioni diverse, tutte concatenate, una dopo l’altra ed una dentro l’altra. Non c’è tempo di seguire una trama che subito lo scenario cambia, e ci si ritrova ad essere parte integrante di un vortice di idee e melodie che tra arpeggi, assoli e blastbeats stimola la mente e fa correre scalza la fantasia sull’erba imperlata di rugiada di un verde sconfinato prato. Ma per apprezzare fino in fondo le scorribande musicali di Verses In Vain bisogna conoscerne la trama: per quanto ho potuto discernere si tratta della descrizione degli ultimi istanti di vita di un uomo, tale “the insignificant one”, che, recatosi in una foresta, si suicida. Si tratta di cinque momenti, cinque fasi che costui vive nella propria psiche, una per ciascun brano, tutte condite da uno squisito simbolismo naturalistico in linea con la percezione cosciente dell’uomo. L’introduzione Doom/Death di Doomed In The Black Abyss è il modo migliore per figurare l’entrata nella foresta, luogo contemplativo in cui i raggi del sole possono a malapena penetrare le folte, alte chiome verdi degli alberi; ed è qui che l’uomo viene risucchiato in un turbinio di pensieri e ricordi che ci parlano delle sue sofferenze.
He talks... l’uomo sembra intento nel suo monologo interiore, facendo intendere chiaramente tutta la sua delusione nei confronti della vita e del mondo in cui ha vissuto. Sebbene cerchi di prendere tempo egli sa già quale sarà l’epilogo di questo suo ultimo viaggio, di questo suo ritorno alle origini della natura.
...Now the forest talks to him... dopo aver espresso il suo dolore, il suo rancore e la sua mascherata rassegnazione, gli sembra quasi che la foresta gli risponda cercando ora di spronarlo, ora di compatirlo; ma ovviamente si tratta solo di un’elaborazione mentale dei complessi che si agitano nella sua psiche in questi attimi di irreversibile scoramento, un velleitario risveglio di vecchie esperienze di vita che si manifestano consciamente sottoforma di voci interiori.
...He thinks about the stagnant water in the abyss... l’uomo allora riflette su quanto ha concepito finora, ma sente che la voglia di vivere è ormai solo un vago ricordo. La sua attenzione viene inghiottita dall’abisso, dall’oscuro abisso in cui ristagnano le putride acque della morte, quello stesso abisso psicologico di cui Nietzsche dice “E quando guarderai a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarderà dentro di te”.
...He feels the abyss... l’abisso è ipnotico, lui lo fissa e quindi l’abisso guarda dentro di lui, scrutando le sue più intime profondità...egli si sente come spogliato, nudo al cospetto di siffatta voragine il cui richiamo è ormai troppo forte, e non può fare a meno di camminare verso la sua eterna oscurità...
...He says farewell. L’uomo trova la forza psicologica definitiva per compiere il gesto estremo in precedenza pianificato, e lascia questo mondo.
Il finale di In The Everlasting Misery assiste dunque al suicidio dell’insignificante, ed è accompagnato da una mesta outro in pianoforte che coi suoi magnifici toni sfiorenti ricorda una sorta di onoranza funebre. Solo ora la scelta musicale compositiva, estremamente frammentaria e inafferrabile, risulta del tutto comprensibile: essa ci narra degli stati mentali che vive il protagonista, ci narra degli ultimi pensieri della sua vita, degli ultimi istanti in cui necessariamente le emozioni più contrastanti si mescolano l’una con l’altra, passando repentinamente da momenti di falsa serenità all’apprensione più lancinante, da incontrollati ma effimeri scatti d’ira ad un’inguaribile grigia rassegnazione: la rassegnazione al fatto che il mondo delle favole promessoci da bambini è solo una finzione, non è reale, non esiste, e quindi non si può far altro che convivere con la dura e cruda realtà dei fatti, al cospetto della quale il suicidio rimane l’unica via d’uscita.
Non resta che balzare in piedi e ricoprire i Kathaarsys di applausi scroscianti per questa fantastica opera che hanno dato alle stampe, un dramma raccontato per mezzo di un dramma il cui vero dramma è forse il fatto che probabilmente rimarrà sconosciuto anche alla maggior parte di coloro che il Metal lo masticano quotidianamente. Il che è realmente un dramma...perché Verses In Vain è uno di quei dischi sui quali si potrebbe scrivere un libro, così ricco e intriso di significati ed emozioni com’è. E allora quali pretese posso avere io di rendergli giustizia con queste poche irrisorie righe di recensione? Nessuna pretesa infatti, ma il mio scopo sarà raggiunto se per mia mano qualcun altro saprà farsi rapire completamente dalle spire di questo insaziabile monolite, proprio come è successo a me.
Disco 1
01 - Doomed In The Black Abyss (19:52)
02 - And All My Existence In Vain... (16:21)
03 - The Revenge Of The Old Spirit Will Never Arrive (13:17)
Disco 2
01 - The Dawn Leaves Pieces Of Rottenness(15:46)
02 - In The Everlasting Misery (20:22)
- J.L. Montáns, leader e fondatore della band, come cantante e chitarrista;
- Marta Barcia al basso;
- Adrián Hernández alla batteria.
In questo rapido valzer di notizie e novità, quello che paradossalmente sembra essere cambiato poco è la musica: Montáns ricomincia proprio da dove era rimasto, dal suo epico Progressive Black Metal che stavolta colpisce di striscio anche i volti di Death e Doom, e alla domanda “lascia o raddoppia” ecco che lui raddoppia: il risultato è “Verses In Vain - Etude About Death in E Minor, Narration And Drama in II Acts”, un ambiziosissimo doppio CD della durata di quasi novanta minuti spalmati su appena cinque brani, cinque articolate suites che compositivamente parlando cercano proprio di riprodurre quell’attitudine quasi inafferrabile della musica classica alla quale fa riferimento il titolo, in cui brani non seguono semplicemente un paio di motivetti fissati ma si evolvono in direzioni sempre diverse. Da questo punto di vista Verses In Vain mi ricorda parecchio Morningrise degli Opeth, con quel songwriting apparentemente un po’ sconclusionato che ha però il merito di far vivere mille emozioni diverse, tutte concatenate, una dopo l’altra ed una dentro l’altra. Non c’è tempo di seguire una trama che subito lo scenario cambia, e ci si ritrova ad essere parte integrante di un vortice di idee e melodie che tra arpeggi, assoli e blastbeats stimola la mente e fa correre scalza la fantasia sull’erba imperlata di rugiada di un verde sconfinato prato. Ma per apprezzare fino in fondo le scorribande musicali di Verses In Vain bisogna conoscerne la trama: per quanto ho potuto discernere si tratta della descrizione degli ultimi istanti di vita di un uomo, tale “the insignificant one”, che, recatosi in una foresta, si suicida. Si tratta di cinque momenti, cinque fasi che costui vive nella propria psiche, una per ciascun brano, tutte condite da uno squisito simbolismo naturalistico in linea con la percezione cosciente dell’uomo. L’introduzione Doom/Death di Doomed In The Black Abyss è il modo migliore per figurare l’entrata nella foresta, luogo contemplativo in cui i raggi del sole possono a malapena penetrare le folte, alte chiome verdi degli alberi; ed è qui che l’uomo viene risucchiato in un turbinio di pensieri e ricordi che ci parlano delle sue sofferenze.
He talks... l’uomo sembra intento nel suo monologo interiore, facendo intendere chiaramente tutta la sua delusione nei confronti della vita e del mondo in cui ha vissuto. Sebbene cerchi di prendere tempo egli sa già quale sarà l’epilogo di questo suo ultimo viaggio, di questo suo ritorno alle origini della natura.
...Now the forest talks to him... dopo aver espresso il suo dolore, il suo rancore e la sua mascherata rassegnazione, gli sembra quasi che la foresta gli risponda cercando ora di spronarlo, ora di compatirlo; ma ovviamente si tratta solo di un’elaborazione mentale dei complessi che si agitano nella sua psiche in questi attimi di irreversibile scoramento, un velleitario risveglio di vecchie esperienze di vita che si manifestano consciamente sottoforma di voci interiori.
...He thinks about the stagnant water in the abyss... l’uomo allora riflette su quanto ha concepito finora, ma sente che la voglia di vivere è ormai solo un vago ricordo. La sua attenzione viene inghiottita dall’abisso, dall’oscuro abisso in cui ristagnano le putride acque della morte, quello stesso abisso psicologico di cui Nietzsche dice “E quando guarderai a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarderà dentro di te”.
...He feels the abyss... l’abisso è ipnotico, lui lo fissa e quindi l’abisso guarda dentro di lui, scrutando le sue più intime profondità...egli si sente come spogliato, nudo al cospetto di siffatta voragine il cui richiamo è ormai troppo forte, e non può fare a meno di camminare verso la sua eterna oscurità...
...He says farewell. L’uomo trova la forza psicologica definitiva per compiere il gesto estremo in precedenza pianificato, e lascia questo mondo.
Il finale di In The Everlasting Misery assiste dunque al suicidio dell’insignificante, ed è accompagnato da una mesta outro in pianoforte che coi suoi magnifici toni sfiorenti ricorda una sorta di onoranza funebre. Solo ora la scelta musicale compositiva, estremamente frammentaria e inafferrabile, risulta del tutto comprensibile: essa ci narra degli stati mentali che vive il protagonista, ci narra degli ultimi pensieri della sua vita, degli ultimi istanti in cui necessariamente le emozioni più contrastanti si mescolano l’una con l’altra, passando repentinamente da momenti di falsa serenità all’apprensione più lancinante, da incontrollati ma effimeri scatti d’ira ad un’inguaribile grigia rassegnazione: la rassegnazione al fatto che il mondo delle favole promessoci da bambini è solo una finzione, non è reale, non esiste, e quindi non si può far altro che convivere con la dura e cruda realtà dei fatti, al cospetto della quale il suicidio rimane l’unica via d’uscita.
Non resta che balzare in piedi e ricoprire i Kathaarsys di applausi scroscianti per questa fantastica opera che hanno dato alle stampe, un dramma raccontato per mezzo di un dramma il cui vero dramma è forse il fatto che probabilmente rimarrà sconosciuto anche alla maggior parte di coloro che il Metal lo masticano quotidianamente. Il che è realmente un dramma...perché Verses In Vain è uno di quei dischi sui quali si potrebbe scrivere un libro, così ricco e intriso di significati ed emozioni com’è. E allora quali pretese posso avere io di rendergli giustizia con queste poche irrisorie righe di recensione? Nessuna pretesa infatti, ma il mio scopo sarà raggiunto se per mia mano qualcun altro saprà farsi rapire completamente dalle spire di questo insaziabile monolite, proprio come è successo a me.
Disco 1
01 - Doomed In The Black Abyss (19:52)
02 - And All My Existence In Vain... (16:21)
03 - The Revenge Of The Old Spirit Will Never Arrive (13:17)
Disco 2
01 - The Dawn Leaves Pieces Of Rottenness(15:46)
02 - In The Everlasting Misery (20:22)