Firedoom Records, 2005 |
Reduci da un disco di grande spessore come "O Solitude", i belgi Pantheist tornano ad imporsi come grandi nomi del doom metal attraverso la pubblicazione di questo "Amartia", un concept album sui sette vizi capitali. Dieci brani per quasi ottanta minuti di musica: sette brani sono dedicati ai peccati, mentre tre rappresentano momenti di pausa e riflessione, atti a comprendere quali siano davvero gli insegnamenti dell'essere supremo. Un concept che si sviluppa riccamente, sia a livello musicale sia a livello lirico (aspetto per il quale i Pantheist sono ben conosciuti): un lavoro sicuramente più complesso rispetto al suo predecessore, ma alla lunga in grado di scavare maggiormente nell'anima dell'ascoltatore. Del resto, chi ascolta i Pantheist non lo fa certo per sollazzarsi: la loro musica è sempre stata di difficile comprensione, originale e introspettiva, tanto che è necessario ascoltare i dischi numerose volte prima di poterli assimilare a dovere. "Amartia" è sicuramente un pezzo grosso, ma prima di poter dire di averlo introiettato veramente, bisogna passarci settimane o più di ascolti attenti e ricettivi.
Il carattere musicale propriamente "doom" dell'esordio è mantenuto, così come sono mantenute le atmosfere elegiache e sacrali che diventeranno il marchio di fabbrica del gruppo: anzi, si può dire che tutte le caratteristiche che trovavamo su "O Solitude" sono state ulteriormente estremizzate e migliorate. Le timbriche strumentali utilizzate si ampliano ancora di più, comprendendo numerosi strumenti e andando quasi a sconfinare nella musica sacra, per brevi tratti: ciò non può che rendere "Amartia" un disco raffinato, ricchissimo di sfumature e sfaccettature, tanto che a volte sembra perfino di ascoltare uno strano metal "da chiesa". L'organo ecclesiale non è infatti scomparso, anzi: la sua carica funerea e solenne torna alla ribalta con ancora più prepotenza rispetto a "O Solitude", regalandoci momenti di profonda riflessione ed emozione vibrante (vedi il drammatico interludio "First Prayer", momento in cui il protagonista si rende conto della propria depravazione e chiede aiuto: a mio parere il climax emotivo dell'album). Le chitarre spesso si limitano a pennellare rocciosi accompagnamenti di sottofondo, sporgendosi sul vuoto e rimanendo in bilico, mentre la parola passa spesso e volentieri in mano ai sintetizzatori, che il leader Kostas Panagiotou sa utilizzare in maniera molto abile. Per rendervi conto di cosa la band è capace di fare, potete ascoltare la chilometrica opener "Apologeia": ritmi rallentati, chitarre centellinate ma pesantissime, inquietanti parti vocali che paiono uscire direttamente da una messa nera, corali di sapore vagamente medioevale, uso di parti elettroniche che ricordano quasi la musica techno - trance, stacchi e rallentamenti zeppi d'atmosfera spessa e lugubre. Un'interessante fusione tra sonorità antiche e moderne, come per simboleggiare l'antichità dei sette vizi capitali, presenti fin dagli albori della civiltà e ora rivisitati in chiave contemporanea, con le chitarre distorte. Mentre la nera litania prosegue e arriva a superare i nove minuti, improvvisamente ci troviamo di fronte ad uno di quei repentini cambi di direzione che tanto piacciono ai Pantheist e tanto esaltano i fan: un inaspettato assolo di chitarra, poi una nervosa e solitaria linea di basso, e infine l'esplosione di un magistrale blast beat, furioso assalto sonoro dominato dal growl e da una trama d'organo spaventosa e inarrestabile.
Non senza suscitare continuo stupore, il disco prosegue tra episodi lenti, pacati e riflessivi ("Gluttony", "Sloth"), intense elegie celebrative ("Lust"), momenti malinconici e quasi lacrimevoli ("Pride"), momenti di pura schizofrenia e delirio emotivo ("Greed"), perfino sprazzi di furia cieca e assassina come in "Wrath", pezzo black metal cantato in growl, nel quale è mirabile la soluzione ritmica che a tratti elimina il tom e si concentra solo su piatti e cassa, per creare un'atmosfera di paranoia inarrestabile. La produzione non è perfetta, risulta a tratti un po' impastata e incerta, ma ciò non impedisce ai brani di esprimere tutto il loro potenziale, anche se qualcuno potrà trovare il disco molto lento e pesante, dagli sviluppi pachidermici e difficili da seguire. Non metto in dubbio che ascoltare "Amartia" tutto di fila sia un'impresa ardua: tuttavia, si può considerare questo disco come una sfida, un viaggio all'interno della multisfaccettata psiche umana, cercando di immedesimarsi in ciascuno dei peccati raccontati e chiedendosi che aspetto avrebbero se fossero condensati in note e pentagrammi. Secondo me vale la pena di dedicare un po' di tempo a questo disco: complesso e ostico quanto volete, ma incredibilmente ricco e corposo, decisamente un pezzo da novanta nella discografia doom. Nessuno vuole immergersi in un peccaminoso viaggio negli abissi della tentazione?
01 - Apologeia (11:12)
02 - Gluttony (11:10)
03 - Envy (7:26)
04 - Lust (7:06)
05 - First Prayer (6:44)
06 - Pride (5:58)
07 - Greed (7:42)
08 - Sloth (9:44)
09 - Wrath (5:11)
10 - Metanoia (4:18)