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martedì 23 aprile 2013

Progenie Terrestre Pura - U.M.A.

Avantgarde Music, 2013
Erano stati una delle più interessanti realtà di underground metal italiano che mi fosse capitato di scoprire; inutile dire che, nel momento in cui mi hanno ricontattato per informarmi che il loro primo full length era in fase di pubblicazione, non ho potuto trattenere la curiosità e sono andato immediatamente ad ascoltarmelo, sapendo che avrei trovato la continuazione ideale di quell'eccellente Promo che il duo veneto propose nel 2011. Questa volta, i due "collisori mentali" Eon [0] e Nex [1] ritornano con un album fatto e finito, dalla copertina affascinante e futuristica, e dai contenuti musicali che a scanso di equivoci definirò subito con una parola unica: eccellenti. Anzi, eccellenti oltre ogni limite, talmente eccellenti da risultare quasi inconcepibili. Non sto esagerando, fidatevi.

Strutturalmente, il disco si compone di cinque tracce, tutte molto lunghe e delle quali solo tre sono inedite, mentre due sono semplicemente una nuova registrazione delle tracce già presenti sulla demo. I pochi fortunati che avevano ascoltato tale demo sono rimasti impressionati da un modo alquanto originale e personale di concepire il black metal, che non si limitava semplicemente a contaminarsi con sottogeneri come l'ambient, l'industrial e l'elettronica, ma che vedeva questi diversi aspetti musicali compenetrarsi perfettamente in una cosa sola, quasi come se fosse stato creato un nuovo genere musicale. La volontà della band di esplorare i confini della musica e di creare qualcosa di nuovo, come traspare dal loro comunicato ufficiale di presentazione, è assolutamente genuina, ma soprattutto ha trovato uno sbocco concreto, cosa che non capita spesso in un mondo musicale sempre più inflazionato e difficile da sondare nei suoi aspetti ancora celati. I cinque brani infatti assomiglianoa viaggi nel tempo, a divagazioni cosmiche e a riflessioni iperuraniche, più che a meri e semplici brani musicali; la potenza inarrestabile dei fiumi di chitarre distorte richiama un infinito viaggio nelle profondità spaziali, mentre l'eccellente gusto sonoro degli arrangiamenti di tastiera e di campionature elettroniche fa il resto, conferendo alla musica un carattere talvolta sognante, talvolta graffiante, talvolta ancora misterioso. Creatività allo stato puro, ottima tecnica, ottime idee, suoni meravigliosi, mille sfumature diverse a stimolare i sensi e l'anima in maniera ogni volta differente: come biglietto da visita, per essere degli esordienti, è a dir poco impressionante.

Un track by track, in questo caso, semplificherà le idee a chi si ritrovi disorientato da una proposta tanto eclettica. Si inizia con "Progenie Terrestre Pura", uno dei due brani già presenti nella demo, allora come adesso scelto per aprire le danze; ed è subito stupore, tra tremolo picking nervosi che viaggiano assieme a tastiere liquide e fluttuanti, tra ritmiche che improvvisamente accelerano diventando spaccaossa, tra voci filtrate e allucinogene che mimano un perfetto viaggio nei meandri di qualche droga sintetica. Produzione e qualità sonora eccellenti, ricorrenti sapori post rock, psichedelia a tonnellate, maniacale cura dei dettagli e delle sfumature più minime, e il primo capolavoro è già servito. Ma è con la successiva "Sovrarobotizzazione", il primo dei brani inediti, che le danze si fanno veramente distruttive: un'atmosfera da terrore metropolitano pervade questo brano indiavolato, ruggente, ritmicamente imprevedibile e contorto, sempre in bilico tra furia cieca e sapienti pennellate melodiche, mentre le tastiere per l'appunto "robotiche" arricchiscono la musica in una maniera che mi riesce perfino difficile descrivere, tanto sono perfette e geometricamente ineccepibili. Talmente trascinante è questo brano, che pare di trovarsi sulle montagne russe, in mezzo ad avvitamenti vorticosi e a discese violentissime, di quelle che fanno salire il cuore in gola. Notevole è la scelta, iniziata nel 2011 e mantenuta anche adesso, di non cantare nè in growl nè in scream, ma semplicemente con una voce tombale e sussurrata, sempre in secondo piano rispetto agli strumenti, e che si affianca tavolta ad un pulito etereo; uno stile vocale che non fa che sottolineare l'atmosfera "aliena" e siderale, dando un perfetto senso al titolo dell'album: "U.M.A.", vale a dire "Uomini, Macchine, Anime". Un triplice ossimoro di termini che si sposano alla perfezione con la musica nella loro improbabile unione.

Dopo i tredici parossistici minuti di "Sovrarobotizzazione", le carte in tavola si rimescolano con la suggestiva strumentale "La Terra Rossa Di Marte", nella quale diventano protagoniste le atmosfere industrial / ambient; chitarre questa volta assenti lasciano piena libertà di espressione alle tastiere, abili contorsioniste e cangianti conduttrici della scena, come sempre di stampo alieno - futuristico e, perchè no, un po' distopico. Senza dimenticare la batteria, estremamente fantasiosa, in grado di fare la differenza tra un buon brano e un brano eccellente. Episodio relativamente breve, ma tutt'altro che insignificante nell'economia del disco, dato che funge da ponte di passaggio verso le tracce che più mostreranno la vena creativa dei Progenie Terrestre Pura. Arriva quindi "Droni", che parte malinconica, seguendo la strada tracciata dal precedente brano, mentre le chitarre piano piano riprendono vita e tornano ad avvolgere i sensi, ributtandoci indietro nel vortice diabolico. Bellissimi gli accostamenti tra voce lisergica, campionature noise e tra una melodia semplice ma toccante; quando poi riparte la paranoia, non ce n'è più per nessuno. Confusione e marasma di una lucidità spaventosa, tutto concentrato assieme in un battito schizofrenico di tamburi, in un'orgia di crash e ride nonchè in un riffing isterico, ma che non dimentica mai di mantenere il senso melodico, facilmente percepibile tra le note, in particolare nei rari momenti di relativa quiete, dove si recupera un barlume di umanità in mezzo a tanta alienazione. Mette quasi i brividi la capacità degli strumenti di unirsi assieme quasi come se fossero uno solo, senza la minima sbavatura e con una coesione perfetta tra i suoni e gli intenti, cosa che solo i professionisti veri riescono a fare, magari dopo cinque o sei album come rodaggio. Questi invece ci riescono, e con scioltezza, già dal debutto: traete voi le conclusioni. E per finire, "Sinapsi Divelte" (l'altro brano già presente sulla demo) chiude il disco ancora una volta in maniera magistrale, lasciando un po' più di spazio alle sonorità post rock, all'atmosfera cupa e per certi versi epica (l'introduzione è semplicemente da brividi), alla voce pulita, ai riff catchy ... ma non dimenticando di picchiare duro quando serve, nè più nè meno. 

Nel momento in cui chiudevo la recensione del "Promo 2011", avevo detto che se le premesse erano quelle, c'era da aspettarsi un grande disco. Così è stato, e posso dire con orgoglio che non avevo dubbi, questa band ha classe da vendere ed è riuscita a creare qualcosa di estremamente interessante, originale e personale. Nell'obbligare moralmente tutti voi ad iniziare a conoscere i Progenie Terrestre Pura, mi auguro solo che questo inizio di carriera non si spenga in breve tempo, ma che invece il duo continui a lungo il proprio percorso artistico, perché niente è più triste di un talento che non viene coltivato come dovrebbe, specie se si tratta di un talento sfolgorante come questo. Ma lasciando perdere questa considerazione di carattere filosofico ... diamine, hanno partorito un capolavoro di proporzioni colossali, c'è bisogno di aggiungere altro? Procuratevelo e basta, si tratta senza ombra di dubbio di uno dei dischi più incredibili partoriti nell'ultimo ventennio metal.

01 - Progenie Terrestre Pura (10:17)
02 - Sovrarobotizzazione (13:00)
03 - La Terra Rossa Di Marte (7:13)
04 - Droni (9:48)
05 - Sinapsi Divelte (11:03)

martedì 9 aprile 2013

Australasia - "Sin4atr4"

Golden Morning Sounds, 2012
Fa sempre piacere ascoltare un buon disco di una band esordiente, specialmente quando la band in questione è tutta italiana. Ne ho sentiti diversi, di dischi come questo, e gli Australasia si inseriscono in un filone molto fortunato, che ultimamente ha spopolato: quello del post rock strumentale, tutto basato su atmosfere fluide e mutevoli, tese a creare un substrato rilassante nel quale immergersi per una mezz'oretta senza pensieri nè preoccupazioni. 

Pescando un po' dallo shoegaze, un po' dalla scuola melodeath e mettendoci un pizzico di fantasia propria, questo duo nascente assembla un extended play molto piacevole, scorrevole e abbastanza coinvolgente, nel quale la voce (femminile) compare solo come sporadico intervento ed è usata come uno strumento musicale, omettendo parole e testi che in questo contesto non sono necessari. Tra chiaroscuri interessanti, melodie accattivanti e sprazzi aggressivi, nonché un pizzico di elettronica, le sette tracce costituiscono ciascuna parte di un insieme organico, che ha senso solo se viene ascoltato tutto di fila, con l'intento di gustarsi ogni singola nota e ogni singolo passaggio senza dedicare troppa attenzione a nessuno di essi. Come potrebbe essere un viaggio in treno o in automobile, nel quale si osserva dal finestrino un paesaggio che cambia in continuazione, stupendosi di ogni cambiamento e godendo di ogni dettaglio interessante che appare alla vista, ma senza poterlo fissare nei ricordi in modo permanente, data la velocità con cui si attraversa lo scenario. Nei suoi ventidue minuti, "Sin4tr4" dà proprio l'impressione di essere un breve viaggio in una terra multicolore, nella quale passare senza quasi lasciare traccia, ma conservandone un buon ricordo. Non si può infatti dire che i brani contenuti in questo esordio siano memorabili o particolarmente creativi, ma si tratta di musica assolutamente godibile e che, come biglietto da visita iniziale, lascia intravedere ottime possibilità, soprattutto se la band deciderà di investire il proprio potenziale dal lato immaginifico della musica, lavorando su arrangiamenti e su intarsi strumentali che qui sono solo accennati, ma che potrebbero essere sviluppati in maniera decisamente pregevole.

Per emergere in un genere che ormai sta diventando abbastanza inflazionato, servono idee interessanti e grande bravura: continuate quindi a lavorarci sopra, e i risultati arriveranno.

01 - Antenna (2:56)
02 - Spine (4:23)
03 - Apnea (2:38)
04 - Scenario (2:26)
05 - Satellite (2:53)
06 - Retina (3:06)
07 - Fragile (3:55)

venerdì 5 aprile 2013

Alley - "Amphibious"

BadMoodMan Records, 2013
Ammettiamolo: la copertina del secondo disco degli Alley è talmente brutta che si fa fatica a guardarla, ed è solo per coerenza che includo l'immagine in questa recensione, altrimenti avrei tranquillamente evitato. Quel faccione verdastro immusonito, dai capelli in stile alghe sott'olio e con quell'improbabile sfondo di stelline luminose da cartone animato giapponese, gli Alley se lo potevano proprio risparmiare, anche perchè è risaputo che la copertina incide molto su quello che sarà il giudizio finale dell'ascoltatore, il quale oltre alle orecchie per ascoltare è dotato anche di occhi per vedere e di un cervello per associare inconsciamente musica e immagini. Quello che non si può dire, invece, è che la musica contenuta dietro una tale bruttura sia brutta anch'essa: la band russa è infatti tornata alla carica con altri settanta minuti di musica che non mancheranno di sfamare l'insaziabile appetito di chi costantemente esplora l'underground in cerca di band interessanti da scoprire.

Ricordate il debutto "The Weed", uscito nel 2008? Chi ha ascoltato quell'album non può non avere presente come gli Alley si rifacessero ai maestri Opeth, praticamente copiandoli in tutto e per tutto: la voce growl era uguale, le sporadiche clean vocals erano praticamente identiche sia nello stile sia nel timbro, il suono roccioso e aggressivo delle chitarre era anch'esso molto simile, il riffing era della stessa identica natura, così come lo erano le strutture spiccatamente progressive death, che lasciavano spazio anche a momenti riflessivi dominati dalla chitarra acustica, dopo aver spinto sui distorsori per minuti e minuti. Elementi distintivi propri, nel sound degli Alley, erano praticamente inesistenti, e quel disco spaccò in due gli scandagliatori dell'underground che lo acquistarono. C'era chi apprezzava la loro dedizione alla storica band svedese, perdonandogli una grande derivatività in nome di una resa sonora impeccabile e di un'indubbia abilità che è necessaria anche solo per suonare come la pallida copia di Akerfeldt e soci; e c'era invece chi invece bocciava senza mezzi termini la loro proposta, bollandoli come cloni senza il minimo guizzo di originalità, perlopiù aridi come pietre. Probabilmente avevano ragione entrambi: la band suonava un progressive death corposo ed elaborato, forte di una tecnica sicuramente ottima e di un lodevole intento compositivo, ma non creava praticamente nulla di personale, limitandosi a ricalcare uno stile altrui, e peraltro lo stile non di una band poco conosciuta, ma di un gruppo fenomenale e conosciutissimo come gli Opeth, cosa che li espose a non poche critiche. Inoltre, anche se "The Weed" era sicuramente un buon disco, piacevole da ascoltare e riascoltare, mancava quasi totalmente della devastante carica emotiva e animalesca degli Opeth, come a sottolineare che i maestri sono unici e inimitabili, e che una minestra riscaldata non potrà mai in alcun modo eguagliare l'originale.

Dunque, con questo "Amphibious", cosa è cambiato? A caldo direi: non moltissimo, ma sicuramente qualcosa. Tutti gli elementi che componevano "The Weed" sono rimasti invariati, non si sono aggiunti nuovi strumenti nè nuove sonorità, ma stavolta non ci troviamo di fronte ad una raccolta di B-side degli Opeth; è innegabile che gli Alley in quest'occasione abbiano cercato di differenziare la loro proposta e di ampliare i propri orizzonti. Il trucco è in questo caso è lavorare sui dettagli: a fronte di un impianto sonoro ancora molto Opethiano, sono numerosi i punti in cui la band si distacca dai canoni degli svedesi e tenta di prendere strade ancora non battute. I chilometrici brani, dalle strutture sempre complesse e articolate, si snodano tra sezioni che rallentano oltre i limiti di guardia così come accelerano oltre misura, sconfinando nello sporadico blast beat; la voce pulita, sempre sognante e carica di mistero come nei migliori dischi degli Opeth, acquista talvolta un carattere più etereo, meno legato all'idea di linea melodica e più simile ad un elemento che accompagna il fluire strumentale; le sezioni melodiche prive di distorsioni vedono come protagoniste delle chitarre che esplorano terreni di improvvisazione, con raffinati arzigogoli che paiono pescare un pochettino dal jazz. Il riffing di chitarra, sempre molto vario, perde un po' della freddezza meccanica che affliggeva in parte "The Weed" e diventa più intenso, coinvolgente, multistratificato: "Amphibious" ha dalla sua alcuni passaggi davvero da capogiro, che nel precedente album si stentava a trovare. Si intensifica la durezza e la severità delle atmosfere, i consueti giri di accordi obliqui tengono costantemente i brani sospesi in una condizione di dubbio, le dissonanze diventano crude e stridenti, le ritmiche si mostrano più eclettiche, i rari momenti di pura emozionalità e di positività risaltano notevolmente in rapporto alla continua ricerca di sonorità ruvide e atmosfere plumbee (emblematiche sono alcune brevi parti melodiche nella conclusiva "Washed Away", insolitamente solari). Talvolta si vivono momenti di impazzimento e panico: ascoltate l'introduzione di "Skull & Bones" (che tuttavia nel finale sfoggia un assolo insospettabilmente sereno!), o il riff iniziale di "Amphibious", seriamente da capogiro: ciò dovrebbe bastare per affermare con certezza che gli Alley sono migliorati in modo tangibile. In sostanza, quello che rende questo disco più maturo e interessante è quel minimo di sperimentazione aggiunta e qualche guizzo di dinamismo compositivo in più, il quale fa la differenza. Si tratta sempre di sfumature, perchè comunque l'album non si discosta in maniera netta da "The Weed" in quanto a stile generale, ma i cambiamenti introdotti sono comunque sufficienti per togliere dagli Alley l'etichetta di gemelli brutti degli Opeth, ponendo le basi per quella che potrebbe essere un'evoluzione futura ricca di sorprese. I sei brani di "Amphibious", tutti molto simili tra loro e quindi considerabili come un unico lungo brano, non sono dei ricettacoli di emozione nè dei brani sbalorditivi (qualche lungaggine di troppo appare anche stavolta), ma gli Alley sono comunque musicisti di qualità che stanno pian piano riuscendo ad emergere dall'anonimato e a scrollarsi di dosso un'etichetta sgradevole, che rappresenta un po' la loro croce  e delizia (in fondo, chi non avrebbe piacere ad essere nominato a fianco degli Opeth, nel bene e nel male?). C'è da dire che si sono evoluti piuttosto lentamente, considerando che tra "The Weed" e questo "Amphibious" sono passati ben cinque anni; se la band vuole definitivamente emergere, il prossimo disco dovrà essere quello decisivo, e soprattutto non dovrà metterci un altro lustro a uscire.

Nonostante la lunghezza pachidermica, il disco si ascolta volentieri e tiene sufficientemente lontano lo spettro della noia, per cui il mio giudizio è sostanzialmente positivo, se non altro per il tentativo che ha mostrato di distaccarsi dalla derivatività del debutto. Nessuno riterrà gli Alley dei musicisti irrinunciabili, e nessuno si strapperà i capelli se non riuscirà a procurarsi "Amphibious", ma più o meno tutti saranno d'accordo nell'affermare che si tratta di un buon disco, riservato comunque a palati fini, a chi gode nell'avventurarsi in trame musicali ostiche, tutte da scoprire. Attendiamo comunque la definitiva maturazione della band e l'affermazione della loro vera personalità: "Amphibious" è un iniziale ed importante passo avanti in quella direzione, ma il cammino deve proseguire. E speriamo che per il prossimo disco scelgano una copertina più decente...

01 - Lighthouse (15:21)
02 - Weather Report (12:00)
03 - Amphibious (13:08)
04 - Skulls & Bones (7:42)
05 - Time Signal (13:07)
06 - Washed Away (8:03)