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venerdì 31 agosto 2012

Nile - "At The Gate Of Sethu"

Nuclear Blast, 2012
Presentazione: C'è poco da fare: ormai quando esce un disco dei Nile lo si attende come un disco di una delle più grandi realtà della musica metal. I Nile sono meritatamente diventati nel tempo un'ingombrante leggenda vivente del death metal dei giorni nostri, e sono per il metal ciò che gli attori hollywoodiani sono per il cinema: delle icone. I loro album sono degli autentici kolossal. Grazie al loro stile mastodonticamente epico e tecnico al tempo stesso, assolutamente unico, sono stati capaci di spingersi oltre il recinto del singolo genere, profilandosi come band di indiscutibile rilievo per chiunque ami il metal in generale. Ed oggi eccoci qui tutti riuniti per il debutto del nuovo kolossal del trio americano: At The Gate Of Sethu. Cosa aspettarsi da questa nuova impresa discografica? Varcando la soglia ci attende...

Stile: ...un inaspettato ritorno alle origini! Chi l'avrebbe mai detto? A ben vedere già Those Whom The Gods Detest (2009) aveva fatto segnare un lieve ritorno alle grezze sonorità del lontano In Their Darkened Shrines (2002) – qui però parliamo addirittura dei primi due dischi! Nonostante At The Gate Of Sethu sia ricolmo di riff complessi e scale che appartengono allo stile più moderno e maturo della band, con tanto di maestosi passaggi sinfonici, e nonostante l'esecuzione strumentale sia molto precisa, la sua ferocia e i suoi ritmi sono incredibilmente vicini a quelli dei loro vecchi primi lavori, che troppo sovente cadono dimenticati. Assoli selvaggi e fulmicotonici, brani corti, ritmi indiavolati: At The Gate Of Sethu è estremamente compatto, e in alcuni passaggi persino caotico. Tutto ciò che i Nile sono diventati col tempo è qui compresso e compattato in poco spazio, costretto in un angusto vaso canopo senza potersi dispiegare sulle ampie dune del deserto. Ne risulta un mix vincente tra la loro tecnica attuale e il loro vecchio stile impulsivo, oscuro come sempre, viscerale come non mai.

Valutazione: L'idea di ripescare dal vecchio repertorio mi ha stupito, e ne sono piacevolmente colpito. Ascoltare i Nile che suonano è sempre un piacere: feroci, tecnici, pesanti, melodici, incontenibili. Il problema sorge però quando il disco finisce. Qui si devono fare i conti con quello che ha lasciato all'ascoltatore; dunque, cosa gli ha lasciato? Quali indelebili segni gli ha scolpito sulla pelle? Quali inenarrabili colpi di genio ha marchiato a fuoco nella sua mente? Pochino, per la verità. La grandezza di dischi perfetti come Annihilation Of The Wicked (2005) e Ithyphallic (2007) consisteva soprattutto nel fatto che tutti i brani avevano qualcosa di particolare, che erano perfetti anche da soli, che ognuno aveva una propria identità. Tanto per fare qualche esempio concreto, si pensi all'assolo pauroso di Cast Down The Heretic, al ritornello di Lashed To The Slave Stick, o ai riff pazzeschi di As He Creates So He Destroys, Papyrus... e Eat Of The Dead – potrei continuare così a lungo. Cotanto splendore si era un po' affievolito già in Those Whom The Gods Detest, che però poteva ancora vantare pezzi di bravura suprema come la lentezza macinante dei riff di 4th Arra Of Dagon, le “strazianti” linee melodiche di Iskhander Dhul Kharnon, l'inafferrabile pomposo ritornello della titletrack. Ora però esso è scomparso quasi del tutto: seppur tutti grandiosi, i brani del nuovo disco sono pressoché tutti identici – non so come faranno Sanders e soci a ricordarseli quando dovranno suonarli dal vivo – e le idee potenzialmente memorabili sono confinate a brevi istanti; nessuna emerge mai in maniera duratura e determinante. Le cose più belle i Nile ce le fanno sentire negli ultimi tre brani, i migliori del platter, ma ancora niente che riesca a dispiegarsi ed ergersi come una possente sfinge come lo erano ad esempio What Can Be Safely Written, Annihilation Of The Wicked (brano) e Unas Slayer Of The Gods. Come detto poco sopra, tutto ciò che i Nile sono diventati col tempo è qui compresso e compattato in poco spazio, costretto in un angusto vaso canopo senza potersi dispiegare sulle ampie dune del deserto. Questa è a un tempo la grandezza e il difetto di questo disco, a seconda dei personali punti di vista.

Conclusione: Leggendo le righe che ho scritto potrà forse sembrare che io sia deluso da questo disco, e che lo stia in qualche modo criticando. La verità è piuttosto che ho ritenuto opportuno confrontarlo con i dischi precedenti per metterne in risalto quelli che secondo me sono i suoi punti deboli, senza soffermarmi troppo sugli elogi. Ciò però nulla toglie all'apprezzamento che nutro per gran bel disco come At The Gate Of Sethu, che non fa altro che estendere il perentorio dominio dei Nile. Nondimeno mi sovvien spontaneo un quesito: che anche loro, così come l'Antico Egitto che tanto li affascina, abbiano vissuto il loro glorioso apogeo e vivano ora più di rendita che di nuovo impeto vitale? Io non ci credo, ma non sta a me stabilirlo; dal canto mio non posso che sperare che in futuro sappiano regalarci di nuovo brani e riff indimenticabili invece che semplicemente della buona musica.

01 - Enduring The Eternal Molestation Of Flame (04:29)
02 - The Fiends Who Come To Steal The Magick Of The Deceased (04:30)
03 - The Inevitable Degradation Of Flesh (05:30)
04 - When My Wrath Is Done (03:11)
05 - Slaves Of Xul (01:24)
06 - The Gods Who Light Up The Sky At The Gate Of Sethu (05:43)
07 - Natural Liberation of Fear Through the Ritual Deception of Death (03:30)
08 - Ethno-Musicological Cannibalisms (01:40)
09 - Tribunal of the Dead (05:54)
10 - Supreme Humanism of Megalomania (04:49)
11 - The Chaining of the Iniquitous (07:05)

lunedì 27 agosto 2012

Moonsorrow - "Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa"

Si dia fuoco alle polveri: il nuovo, fiammeggiante album dei viking metallers finlandesi Moonsorrow è appena giunto dall'alto dei cieli per riempire i nostri cuori di furoreggiante intensità battagliera. Per chi già conosce la band, è sufficiente sapere che essa ha pubblicato un nuovo album per fiondarsi immediatamente al negozio di dischi, o sul sito del proprio rivenditore di fiducia. Da quello che fu il primo ottimo "Suden Uni" ad oggi, i cinque finlandesi guidati dai cugini Sorvali hanno rapidamente costruito attorno a sè un mondo quasi mitologico, sfornando dischi mostruosamente ispirati e poderosi come se niente fosse, e superandosi di disco in disco con una naturalezza che ha dell'incredibile. Kivenkantaja, Verisakeet, Havitetty sono nomi che richiamano storie leggendarie ed epiche, dolore e sofferenza incatenate assieme da un vincolo di sangue, grandiosità e pompose melodie sostenute da sonorità capaci di polverizzare le montagne con la loro irruenza. Dagli inizi folkeggianti alla svolta black - epic che ha visto i sopracitati dischi schiudersi piano piano fino ad acquisire lo status di capolavori, la band ha imparato molto e ha sommato tutte le proprie abilità per produrre il disco della definitiva conferma: questo "Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa", che tradotto significa "come ombre camminiamo nella terra dei morti".

"Kivenkantaja" manteneva un buon grado di pomposa festosità che sapeva però tramutarsi in profonda e drammatica riflessione; "Verisakeet" era espressione di un dolore impossibile da esternare se non con le note musicali, e racchiudeva nei suoi settanta minuti un'epopea grezza e affascinante come poche; il gigantesco "Havitetty" sbalordiva pubblico e critica con un'ora di musica che ricorda le più sontuose sinfonie dei grandi compositori classici, delle quali condivide maestosità, complessità strutturale e totale assorbimento dell'ascoltatore nelle trame musicali. Questo ultimo disco invece rimescola le carte in tavola, offrendo tutto ciò che di buono hanno da dire i Moonsorrow, un po' tutto assieme. Quattro brani veri e propri intervallati da alcuni intermezzi d'atmosfera, corrispondenti a quattro storie di uguale intensità e bellezza, messe sulla nostra strada come un ultimo gelido monito da parte della band, che pare dire "nonostante il nostro successo sia ormai affermato, non abbiamo perso la volontà di farvi rabbrividire con la nostra musica". I tormentosi solchi del disco non perdono nulla di intensità, se paragonati ai loro illustri predecessori; le sempre lunghissime composizioni guadagnano molto in compattezza e in struttura, perdendo un po' in songwriting ma senza che ciò infici in alcun modo il risultato finale. La maggiore ripetitività delle trame non è assolutamente un difetto, quando si ha a che fare con una band vulcanica come i Moonsorrow: ecco quindi che si presentano alle nostre orecchie brani davvero colossali e stupefacenti. Più arcigni, più arroccati, meno accessibili: in definitiva più freddi e severi. Vale la pena di descriverli uno per uno, senza timore di risultare prolissi: questo è uno di quei dischi che devono essere sviscerati, che è un piacere analizzare e scoprire per poi raccontarli ai posteri.

"Tahdeton" parte con ritmi lenti e marziali, quasi lugubri nel loro incedere minaccioso; il lamentevole viaggio all'interno della terra dei morti è appena cominciato. Percussioni sempre potentissime, chitarre saturate al punto giusto e l'inconfondibile voce gracchiante di Ville Sorvali sono una ricetta che già conosciamo, ma servita in modo ancora più freddo, crudele, privo di sbocchi ariosi. La stessa strumentazione folk, così massicciamente presente ai tempi di "Suden Uni" e "Kivenkantaja", è ora un vago ricordo; pochissime sono le incursioni dei flauti, delle fisarmoniche e di tutti gli altri strumenti che hanno reso famosa la band. Prevale ora un gelo diffuso, una nebbia mista a neve che ghiaccia i nostri cuori e ci conduce in una terra desolata, spoglia, arida e improduttiva. La fine del mondo sta arrivando, tutto è stato saccheggiato e distrutto, non rimangono che rovine: i maestosi cori non fanno che aumentare il senso di morte e desolazione che aleggia nel disco. Non si tratta però di una luttuosità priva di mordente: anzi, c'è quasi da spaventarsi per la potenza di fuoco che il gruppo è in grado di sprigionare, anche grazie ad una produzione che se non è perfetta poco ci manca. 

Il breve ma intenso intermezzo "Havitetty" ci porta alla monumentale "Muinaiset", dedicata ai popoli antichi e alle loro gesta: la musica acquista vigore e diventa più irruenta, più acida e nervosa, ma anche terribilmente più evocativa ed emozionante nel momento in cui finalmente il nero velo si squarcia e la musica acquista toni commoventi e celebrativi, specialmente nei fantastici inserti corali e nelle melodie progressive e stupendamente laceranti. I numerosi cambi di tema portante non fanno che esaltarci sempre di più, fino al giungere di un finale distruttivo e trascinante, per quello che considero come uno dei migliori pezzi mai scritti dai Moonsorrow. Ma non è finita qui: gli stanchi passi di "Nälkä, Väsymys Ja Epätoivo" ci portano alla lunghissima "Huuto", ovvero "L'urlo", sedici minuti di ininterrotte folgori melodiche che si ripetono insistentemente alternandosi le une con le altre, nel brano che può essere considerato apparentemente il più aperto e solare del disco, ma che in ultima analisi mostra, dietro le muraglie di strumenti, un'inquietudine profonda e un desiderio di qualcosa che non verrà mai, e che mai smetterà di tormentarci con la sua malia. Dopo la massacrante tempesta di "Huuto", torniamo nella disperazione più cupa con le roche urla di "Kuolleille", le quali non fanno altro che preparare il terreno per la tragica conclusione "Kuolleiden Maa". Il brano più strutturato e complesso dell'album è la perfetta conclusione di quest'epopea che ci vede camminare come fantasmi in questa terra morta e desolata; trame di chitarra sempre fittissime si uniscono a linee melodiche secondarie che creano uno stato di perenne e progressiva tensione, fino all'incupirsi del finale dove un coro funereo e un inquietante rallentamento ci segnalano che tutto è finito, il dramma ha avuto atto, e che dinanzi a noi non restano che "ombre e polvere".

Conosco poche band capaci di emozionarmi come i Moonsorrow, e conosco altrettante poche band capaci di mantenere un così alto livello qualitativo in ciascuno dei propri album. "Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa" è nato quasi per dispetto: pensavamo tutti che "Havitetty" fosse il loro disco definitivo, o forse qualcuno pensava che fosse "Verisakeet", sta di fatto che adesso abbiamo un nuovo rivale con cui competere nello stilare la classifica. Dal Nord, un'ora di nevoso e appassionante dramma che lascerà bene o male un segno in ciascuna persona che l'ascolterà, e che ha tutte le carte in regola per diventare un classico. Chissà se mai sentiremo i Moonsorrow suonare male o senza ispirazione, un giorno...

01 - Tähdetön (12:44)
02 - Hävitetty (1:34)
03 - Muinaiset (11:43)
04 - Nälkä, Väsymys Ja Epätoivo (1:12)
05 - Huuto (15:58)
06 - Kuolleille (1:35)
07 - Kuolleiden Maa (16:23)

venerdì 24 agosto 2012

Blut Aus Nord - "Memoria Vetusta II (Dialogue With The Stars)"

Candlelight Records, 2009
Presentazione: E’ giunta l’ora della grande sintesi. Nel lontano 1996 i Blut Aus Nord, allora neonati, suonavano ancora black metal e diedero alle stampe un certo Memoria Vetusta I, con sottotitolo Fathers Of The Icy Age. Inutile dire che quel ”I” lasciava supporre ad un seguito, ma poi la storia cambiò: dopo ben cinque anni di silenzio la band si orientò verso sonorità sempre più aliene e avanguardistiche – con gli eccellenti risultati che tutti sappiamo – e di quell'epoca non si seppe più nulla. Ma come James Clerk Maxwell nell’ottocento generalizzò la Legge di Ampère per il campo magnetico e sintetizzò secoli di scoperte in quattro equazioni, opera teorica poi rinominata “la grande sintesi”, così i Blut Aus Nord nel 2009 giungono a sintetizzare quindici anni di carriera ed esperimenti in un solo disco: signore e signori, ecco a voi quel tanto atteso seguito Memoria Vetusta II - Dialogue With The Stars.

Stile: I primi secondi creano immediatamente l'illusione di essere scivolati indietro nel tempo, e caduti di nuovo nel gelido dimenticato cratere rovente di Ultima Thulee: un’introduzione di soppiatto, appena sussurrata, dai toni a metà tra l'epico e il metafisico. Poco dopo inizia la musica vera e propria, che mette in risalto fin dal principio cosa è riuscita a fare la band: ha racchiuso la fragrante essenza delle sue antiche melodie nell'angusto infinito spazio mentale dei suoi lavori avantgarde più recenti. E' assolutamente incredibile e sconvolgente appurare come le ritmiche e il riffing siano identici a quelli dei recenti lavori introversi e opprimenti, e come al tempo stesso le luminose, ariose melodie ripeschino direttamente dai loro primissimi fantastici dischi. Melodie sognanti a sfondo epico che leggere come un gas creano ampie volute nell’aere circostante, indossando però una veste surreale, quasi futurista. E sotto questo sensuale drappo celeste la novità più voluttuosa: gli assoli di chitarra. Mai prima d'ora i Blut Aus Nord ne aveva fatto uso, eppure sono così ben contestualizzati che sembra che appartengano al loro repertorio da sempre – quasi non ci si accorge della loro presenza. Ci si ritrova così di fronte ad una sintesi di black metal e avantgarde alieno, di melodie epiche e di sonorità trascendenti, un affollato dipinto di tutto ciò che il trio francese ha suonato nella sua lunga carriera.

Valutazione: E’ difficile parlare di migliore e peggiore in una discografia magnificente come quella dei Blut Aus Nord, in cui gli episodi peggiori sono comunque tra i primi della classe. Ciononostante non riesco ad evitare di dire che Memoria Vetusta II è il loro miglior disco dai tempi di quel lontano misconosciuto miraggio dal nome Ultima Thulee. Un songwriting perfetto, melodie irresistibili e trascinanti, riff memorabili e assoli di chitarra come non se ne sono mai sentiti. La perfetta coesione tra tutti questi elementi è quasi scioccante; più si memorizza il disco, più si rimane a bocca aperta quando lo si riascolta. Siamo di fronte ad un'opera musicale, anzi ad un'opera d'arte nell'accezione più ampia del termine, che va oltre ogni confine, oltre ogni limite, oltre ogni possibile aspettativa: varcate le soglie dell'assoluto, entrate nello sconfinato regno dell'illimitatezza, e lasciate che le colossali melodie di Memoria Vetusta II vi guidino coi loro ampi respiri attraverso i chiaroscuri delle vallate e delle sponde rocciose che questo metafisico paesaggio musicale ha da offrirvi. E alla fine sdraiatevi sulla sua fresca erba e guardate in alto, guardate alle stelle, ascoltatele, dialogateci: la volta celeste vi abbraccerà e vi porterà lassù, lassù sulla vetta nascosta del vostro Io, sulla volta dell'universo. Questo disco è la Cappella Sistina del metal. Lo arricchisce come la grandiosa opera di Michelangelo ha arricchito il mondo dell'arte.

Conclusione: Maxwell suggellò il suo capolavoro teorico con una frase che rimase nella storia: “D'ora in poi la fisica non dovrà fare altro che dedicarsi a piccole correzioni teoriche”. Pochi decenni dopo la relatività e la meccanica quantistica rivoluzionarono completamente la fisica e il modo dell'uomo di guardare la realtà. Maxwell aveva preso il più grosso granchio della storia. Allora noi, memori della sua esperienza, non saremo così stolti da dire che i Blut Aus Nord hanno ormai raggiunto la loro grande sintesi definitiva sulla quale si adageranno nei secoli dei secoli – anzi! Questo sincretico capolavoro non fa altro che spalancare al trio un emozionante futuro ancora tutto da esplorare, con la certezza che, in qualsiasi direzione sceglieranno di andare, ciò che produrranno sarà sempre di qualità eccelsa.

01 - Acceptance (Aske) (01:30)
02 - Disciple's Libration (Lost In The Nine Worlds) (09:07)
03 - The Cosmic Echoes Of Non-Matter (Immaterial Voices Of The Fathers) (06:30)
04 - Translucent Body Of Air (Sutta Anapanasati) (02:24)
05 - The Formless Sphere (Beyond The Reason) (07:54)
06 - ...The Meditant (Dialogue With The Stars) (10:14)
07 - The Alcove Of Angels (Vipassana) (08:44)
08 - Antithesis Of The Flesh (...And Then Arises A New Essence) (09:28)
09 - Elevation (04:11)

mercoledì 22 agosto 2012

Summoning - "Dol Guldur"

Napalm Records, 2007
"Dol Guldur" è ad oggi il disco di maggior successo commerciale per i Summoning, ed è spesso quello che viene descritto come il loro album più rappresentativo. I dischi che lo hanno preceduto erano ancora piuttosto grezzi e bisognosi di una certa evoluzione; quelli che lo hanno seguito sono un'evoluzione che è partita da qui, dalle note di questo ennesimo discone che il duo austriaco cala sul tavolo da gioco con la consueta maestria. Protector e Silenius, i due componenti, iniziano così ad entrare nel mondo della leggenda, per quanto riguarda l'epic metal.

La pesante oscurità di "Minas Morgul", che a sua volta derivava dal marcio grezzume del debutto "Lugburz", viene ulteriormente mitigata e incanalata verso lidi meno crepuscolari; le tematiche tolkieniane vengono sviluppate in modo sempre più convincente, lo stile comincia a delinearsi con precisione e conferisce al gruppo la sua indiscussa personalità ed originalità. Questo è il disco che renderà famosa la band ed evidenzierà l'unicità del genere proposto, un black metal lento, estremamente elaborato e fuso con massicce dosi di strumenti sinfonici e musiche da colonna sonora cinematografica. Ormai è la drum machine e non più un batterista a scandire le ritmiche, quasi sempre cadenzate e marziali a discapito della velocità; la scelta potrebbe apparire addirittura più azzeccata rispetto a quella di far suonare la batteria ad una persona, in quanto il suono ripetitivo e cullante della drum machine è ottimo per accompagnare le lente e monolitiche cavalcate di chitarra e sintetizzatori che hanno il compito di portarci nei chiaroscuri della Terra di Mezzo, tra paurose miniere sotterranee (la lunga "Khazad Dúm" le simboleggia perfettamente) e lussureggianti distese di alberi incantati e fiumi magici. La musica è sempre visionaria, epicheggiante, scandita da possenti suoni di trombe, corni e percussioni, mentre la gracchiante voce in screaming ha il compito di lacerare l'etere, come l'occhio di Sauron che trafigge impietosamente muraglie e ombre. Notevole è la ripetitività delle melodie, che pur incastonandosi le une sulle altre in modo sempre cangiante, risultano quasi ossessionanti nel loro incedere ipnotico; "Dol Guldur" infatti è probabilmente il disco più onirico che la band abbia mai prodotto. Nei suoi quasi settanta minuti di durata, pare di essere sempre in un sogno, nel quale si sorvolano le leggendarie terre in cui sono ambientati i classici di Tolkien.

Il disco contiene alcuni dei brani più apprezzati dai fan dei Summoning, come ad esempio "Elfstone" con i suoi severi suoni di tromba, o la sopracitata "Khazad Dúm", che contiene una delle più belle linee melodiche mai scritte dai Summoning; un altro classico è la lunghissima "Kôr", undici minuti di pura estasi sonora che si ripete con costanza sfiancante e ha un sapore più impalpabile e fluttuante rispetto alle altre composizioni. Notevole anche l'intermezzo di pianoforte "Wyrmvater Glaurung", insolitamente posto a metà disco quando normalmente i brani strumentali vengono sempre usati dai Summoning come introduzioni poste in apertura di album. A mio parere, tuttavia, il momento in cui il disco tocca il suo momento più alto è la conclusione, affidata alla tremenda "Over Old Hills" (rifacimento di un brano degli Ice Ages, side - project dello stesso Protector). Un pianoforte marziale e minaccioso ci accompagna dall'inizio alla fine, innestandosi su trame magnificamente oscure e sorrette da una voce a dir poco catacombale, fino a giungere ad un emozionante epilogo di soli sintetizzatori che fanno sognare ad occhi aperti grazie ad atmosfere finalmente lucenti e angeliche.

"Dol Guldur" è una marcia attraverso terre fantastiche, che possono essere luminose colline o tetre paludi. Va ascoltato con il cuore in mano,  in modo da riuscire a reggere la sua programmatica ripetitività e monoliticità. Non si presta ad ascolti attenti e cerebrali, nè a fini elucubrazioni mentali: va preso così com'è, esattamente come quando si parte per un viaggio cercando l'avventura, e non tentando di definire tutto nei minimi particolari. Solo con quest'attitudine mentale si potrà comprendere appieno il valore di quest'ennesimo grande album dei Summoning. Senz'altro, gli amanti del fantasy troveranno pane per i propri denti.

01 - Angbands Schmieden (3:30)
02 - Nightshade Forests (10:48)
03 - Elfstone (10:51)
04 - Khazad Dúm (10:57)
05 - Kôr" (10:59)
06 - Wyrmvater Glaurung (3:05)
07 - Unto A Long Glory... (9:37)
08 - Over Old Hills (8:57)

Thy Catafalque - "Tűnő Idő Tárlat"

Autoprodotto, 2004
Presentazione: Questa è la storia di un'idea, un'idea che ha generato una delle band più interessanti che il sottoscritto conosca. Tamás Kátai e János Juhász: due ragazzi ungheresi che un bel giorno, nel 1998, decidono di metter su la loro band black metal, i Thy Catafalque. Questo è il silenzioso inizio di qualcosa di grande. Il sound della chitarra è di quelli marci e malprodotti, come vuole la tradizione, e lo scream non è affatto da meno. Ma fin dal primo istante ci si rende conto che non si tratta di semplice black metal: il duo dimostra di avere iniziativa e personalità, e si cimenta subito nella ricerca di uno stile proprio, particolare, unico, inserendo arpeggi e un po' di elettronica opportunamente mascherata tra le raschianti increspature delle chitarre distorte. Ne risultano due full-length fantastici, Sublunary Tragedies e Microcosmos, due dischi in cui l'atmosfera è finemente intarsiata nei più selvaggi dei riff. Poi, un bel giorno, la grande svolta. Lasciata la KaOtic – probabilmente perché chiuse i battenti – i Thy Catafalque si rimboccarono le maniche e realizzarono da soli il loro terzo full length, intitolato Tűnő Idő Tárlat.

Stile: Quello che fecero i Thy Catafalque quando si inventarono Tűnő Idő Tárlat è qualcosa di unico. A prima vista potrebbe sembrare una strada già intrapresa da altri, come ad esempio gli Ulver, tanto per citare l'esempio principe. In fondo che c'è di così strano oggigiorno nello stravolgere il proprio metal con l'elettronica? I Thy Catafalque rimpiazzarono le loro sonorità grezze con un sound tutto nuovo, marcatamente moderno seppur ancora molto pesante, e allo scream tagliente sostituirono uno scream filtrato in qualche maniera che non saprei classificare. Anche gli inserti melodici in arpeggio e in sintetizzatore vennero completamente rivisitati: assunsero un appeal tutto nuovo grazie a sonorità fortemente elettroniche, sonorità che tra l'altro farciscono spesso e volentieri anche le chitarre. Ma alla fin della fiera, come ci chiedevamo poche righe fa: cosa c'è di straordinario in tutto questo? La risposta sta nel mood: incredibile a credersi, nonostante tutta questa elettronica i Thy Catafalque riuscirono a conservare quel piglio marcatamente epico e antiquato, spesso sognante, che avevano sempre avuto. Il risultato era una musica tutta nuova dal costume moderno ma dai saggi sapori antichi. Di black metal rimanevano soltanto riflessi lontani. I Thy Catafalque avevano finalmente trovato la loro strada, ed eccoci giunti a Tűnő Idő Tárlat.

Valutazione: Non voglio lanciarmi in pomposi giri di parole per arrivare a dire ciò che si può dire in poche lettere: Tűnő Idő Tárlat è uno dei dischi più belli, incredibili, sensazionali, straordinari, stratosferici che io conosca. Solitamente quando una band inizia a contaminarsi con l'elettronica si concentra su atmosfere futuristiche, aliene, e passa dall'epicità del metal estremo al mood urbano dell'industrial. Chi ha mai pensato di usare l'elettronica per fare l'esatto contrario? Chi ha mai pensato di usare le sonorità futuristiche per narrare l'antico passato? Chi ha mai pensato di usare una musica da scenario urbano per descrivere la bellezza dei paesaggi naturali? Ma soprattutto, cosa di gran lunga più importante, chi ha mai fatto una cosa simile riuscendo a proporre una musica geniale, bellissima e ispirata? I Thy Catafalque. Tűnő Idő Tárlat è un'opera monolitica che passa con coraggio e ardore da imponenti muri sonori, duri come il diamante e pesanti tonnellate, a levigate distese che si snodano negli eoni del tempo. E' un viaggio tra gli altipiani della fantasia. E dopo aver assistito a tale granitica consistenza, ecco che spuntano anche episodi completamente melodici – Zápor su tutti –, squisiti intermezzi che impreziosiscono quest'opera d'arte figlia del nuovo millennio come variopinti boccioli su una pianta rampicante. E se tutto ciò non fosse ancora abbastanza, aspettate di sentire Neath Waters, il brano migliore del platter, autentico diadema nel centro di questa corona: quasi diciannove minuti più elettronici che metallici che sembrano narrarci di una battaglia combattuta in una dimensione fantasy parallela. Stupefacente. E così Tűnő Idő Tárlat è un disco dalla doppia anima: una rocciosa, titanica, possente, l'altra sconvolgentemente poetica.

Conclusione: La musica epica per mezzo della musica elettronica, il passato per mezzo del futuro: questa è l'idea geniale che gli intraprendenti Kátai e Juhász non solo ebbero, ma seppero anche realizzare magistralmente. Questa è l'idea che si incarnò in Tűnő Idő Tárlat, uno dei dischi più belli che io abbia avuto l'onore di ascoltare e ammirare. Questa è l'idea che ha generato una delle band più grandiose e ineguagliabili che il sottoscritto conosca: i Thy Catafalque.

Curiosità: La versione autoprodotta del disco fu limitata a 130 copie. Venne però ristampato nel 2010 dalla Epidemie Records, etichetta che diede alle stampe anche il loro quarto full-length Róka Hasa Rádió (2009). Si tratta di un'edizione digipack con una nuova cover, ed una tiratura di 500 copie. Visto che non sono tante, vi consiglio caldamente di ordinarlo prima che ricada nella voragine oscura del fuori catalogo.

01 - Csillagkohó (09:14)
02 - Neath Waters (Minden Vízbe Mártott Test) (18:43)
03 - Bolygó, Bolyongó (09:47)
04 - Kék ég Karaván (05:00)
05 - Héja-nász Az Avaron (05:50)
06 - Zápor (04:34)
07 - Az ősanya Szól Ivadékaihoz (09:32)
08 - Varjak Fekszenek (06:18)

Galera - "Roma Isterica"

Autoprodotto, 2012
Dietro il divertente titolo "Roma Isterica" si nascondono i Galera, formazione thrash - hardcore italiana di quelle che non le mandano a dire. Questo breve ma incisivo extended play è il primo vagito della loro discografia e, pur durando molto poco e contenendo solo cinque pezzi, mostra già una discreta capacità tecnica e un'attitudine adatta soprattutto alla musica dal vivo, più che alla musica da studio: in fondo, è risaputo che il thrash metal dà il meglio di sè quando è suonato come un torrente incandescente che travolge una folla di gente impegnata in pogo ed headbanging selvaggio. A riprova di ciò, bisogna segnalare che i Galera hanno aperto nientemeno che il Gods Of Grind, nell'occasione in cui suonarono i Napalm Death, e fecero anche la loro figura, dimostrando buone capacità con gli strumenti. Ciò non toglie che questo dischetto possa fare una figura carina anche in versione studio; la compattezza dei brani, la buona produzione e il diffuso sentimento di rabbia e livore che sprigiona dai brani sono già un buon biglietto da visita per gli amanti del genere, anche se obiettivamente la band non propone nulla di originale nè di indimenticabile.

Nella sua brevità, in questo extended play posso segnalare comunque una buona prestazione vocale (ottimo lo screaming dal sapore bruciato - raspante) e dei brani che riescono a variare la loro proposta in maniera abbastanza convincente, alternando parti veloci e lente e ficcandoci dentro perfino qualche arpeggio inquietante che ha il compito di preparare il terreno per la successiva esplosione (come nella buona "Sanguine" e nell'ancora migliore "Notturno Mannaro", a tratti perfino malinconica). Come ho già detto prima, nulla di nuovo sotto il sole, solo un piatto di onesto thrash metal che colpisce dritto in faccia e probabilmente farà da trampolino di lancio per un'evoluzione futura. Rimaniamo in attesa di sviluppi e auguriamo buona fortuna ai Galera!
01 - Serena (1:48)
02 - Ronette Pulaski (2:28)
03 - Sanguine (3:11)
04 - Roma Isterica (1:45)
05 - Notturno Mannaro (4:03)

martedì 21 agosto 2012

Summoning - "Lost Tales"

Napalm Records, 2003
Gli austriaci cantori della Terra di Mezzo, dopo la pubblicazione dell'ottimo "Let Mortal Heroes Sing Your Fame", ci hanno messo un bel po' prima di tornare sulle scene; ciò è stato attribuito ad alcune incomprensioni interne e alla mancanza di idee originali con cui portare avanti il progetto Summoning. Nei cinque anni che separano il disco sopracitato dall'ultimo full length "Oath Bound", tuttavia, il duo è riuscito a pubblicare anche questo piccolo EP, che supera a stento il quarto d'ora di durata ma che comunque mostra un volto finora tenuto nascosto dalla band. Per la prima volta, infatti, la componente black metal "marcia" che ha fatto la fortuna della band viene abbandonata, in favore di sonorità affidate soltanto ai sintetizzatori e ad una voce unicamente recitata, pensata come semplice contorno.

Trattasi di un esperimento isolato, il materiale a disposizione non è molto ma si lascia ascoltare volentieri. Notevole la prima traccia "Arcenstone", fluttuante nell'etere sognante e scandita da una cupa melodia che ogni tanto prende la parola con forza vigorosa; per il resto si tratta solo di celestiali tastiere che ci trasportano sopra le nuvole, facendo volare la fantasia. Il titolo è chiaramente ispirato alla storia del nano Thorin che va alla ricerca dell'Archepietra, dimostrazione che ancora una volta è Tolkien il massimo ispiratore della band, e che la band stessa non ha alcuna intenzione di abbandonare le tematiche per la quale è diventata famosa. Ancora più evidenti sono i riferimenti quando inizia la seconda traccia "Saruman": dopo che Gandalf ha picchiato minacciosamente sulle porte di Isengard, ingiungendo allo stregone bianco di farsi vedere, parte una musica insistente e ficcante che ricorda proprio l'ammaliatore Saruman, con i suoi mille incantesimi e la sua veste multicolore, che disorienta qualsiasi persona la guardi e rende impossibile ritenere i ricordi. A differenza che in "Arcenstone", che è praticamente un brano ambient liquido, qui è presente una ritmica e delle percussioni incalzanti, che donano al brano una tensione insospettabile se si considera che le chitarre sono state accantonate. Con i suoi rallentamenti vagamente inquietanti e le sue atmosfere misteriose, potrebbe essere il pezzo più particolare mai inciso dai Summoning.

Non lasciatevi ingannare dalla scarsa durata: "Lost Tales" è un prodotto di qualità (e non potrebbe essere altrimenti, dato che è stato composto dai Summoning!) ed è un ottimo esempio di come questa band sia in grado di mantenere una coerenza stilistica invidiabile e allo stesso tempo sappia anche tentare nuove strade. Non lo consiglierei ad un neofita che volesse avvicinarsi per la prima volta alla band, in quanto la musica qui proposta è molto diversa dal solito; tuttavia, per un fan della band questo dischetto rappresenterà un bocconcino succulento, nonchè un pezzo da collezione.

01 - Arcenstone (9:17)
02 - Saruman (7:40)

lunedì 20 agosto 2012

Summoning - "Lugburz"

Napalm Records, 1995
Se chiediamo ad un sincero appassionato di underground che tipo di musica suonino i Summoning, è difficile che egli riesca a risponderci in tempi brevi: tenderà piuttosto a fare un lungo giro di parole per spiegare quanto la musica di questo duo austriaco sia epica e sontuosa, grezza e raffinata allo stesso tempo, concettuale e particolarmente attenta alle atmosfere, maestosa e meravigliosa quando partono certe melodie che si stampano in testa come francobolli indelebili. Egli vi citerà probabilmente, come migliori esempio della vita della band, dischi eccellenti come "Minas Morgul", "Dol Guldur" e "Stronghold"; ma quasi nessuno si ricorderà di questo "Lugburz", il primo vero album della band dopo gli svariati demotape, l'unico disco in cui il gruppo era ancora un terzetto e annoverava tra le proprie fila un batterista in carne e ossa. Perchè questo disco viene spesso tralasciato e relegato ad esordio debole e scialbo?

La risposta più semplice è: perchè non è un disco "alla Summoning" ! E non mi sento di criticare quest'affermazione, poichè è assolutamente vera. "Lugburz" è molto lontano dalle magniloquenti cavalcate che troviamo nei successivi album, è lontano dal concetto di epicità in senso stretto, è un disco se vogliamo "primordiale" e gelido. La componente black metal, che con gli anni andrà sempre più a sfumare in favore della melodia e della pomposità, è qui presente in massima parte, e si esprime in brani abbastanza brevi (secondo gli standard del gruppo), veloci e martellanti, dai riff taglienti come spade di ghiaccio, e poco popolati dai sintetizzatori che successivamente verranno usati in quantità industriali. Si intuisce nel riffing una buona propensione verso la ricercatezza e le melodie sviluppate, ma il tutto deve ancora sbocciare e per ora è espresso solo in parte, come una crisalide che ancora non è diventata farfalla ma che già cela al suo interno, ben nascosti, i suoi meravigliosi colori. Queste tinte cromatiche appaiono di tanto in tanto come aperture melodiche che spezzano la crudezza della batteria e della voce, latrata e distante come il lamento di un lupo solitario e ferito; oppure in evocativi intermezzi puliti come il pianoforte posto al centro di "Flight Of The Nazgul" (spesso considerata come il miglior brano del CD, e il più vicino a ciò che i Summoning diventeranno poi). Niente male anche la drammatica "Dragons Of Time", dall'introduzione particolarmente coinvolgente, e fa la sua bella figura anche l'intro "Grey Heavens", momento di serenità e spensieratezza che viene poi spazzato via dall'incedere ruzzolante del resto dell'album.

Per quanto "Lugburz" venga spesso bistrattato, io non lo ritengo affatto un album poco riuscito o privo di idee; il suo problema è il confronto con i dischi che sono seguiti, i quali lo schiacciano impietosamente sotto tonnellate di superiorità. Ma preso così com'è, questo disco è di tutto rispetto: una violenta e grezza rappresentazione delle malvagità racchiuse nelle lande di Mordor, o della veloce marcia dei perfidi Uruk - Hai lungo il fiume. Non gli manca l'atmosfera, nonostante sia ben lontana dai veri Summoning; e non gli manca l'ispirazione, poiché il disco non annoia e si lascia ascoltare piacevolmente, pur nella sua lieve staticità. "Lugburz" è un tassello fondamentale per comprendere appieno la storia dei Summoning, e non può essere ignorato, sarebbe un vero peccato metterlo da parte così impietosamente. Sostanzialmente, un album da rivalutare.

01 - Grey Heavens (1:45)
02 - Beyond Bloodred Horizons (3:37)
03 - Flight Of The Nazgul (7:07)
04 - Where Winters Forever Cry (4:04)
05 - Through The Valley Of The Frozen Kingdom (6:22)
06 - Raising With The Battle Orcs (5:44)
07 - Master Of The Old Lure (4:14)
08 - Between Light And Darkness (3:29)
09 - The Eternal Lands Of Fire (3:36)
10 - Dragons Of Time (6:01)
11 - Moondance (4:46)

Oskoreien - "Demo 2006"

Autoprodotto, 2006
Se conoscete gli Oskoreien, probabilmente siete degli appassionati di ultra underground, quel genere di ascoltatori piacevolmente malati che cercano sempre di scoprire le band più nascoste possibile, consapevoli del fatto che è tra quel substrato che si nascondono le migliori sorprese. Anch'io faccio parte di questa categoria, come penso sia abbastanza evidente, e quando ho scoperto gli Oskoreien sono rimasto veramente stupito, per non dire folgorato, dalla bravura e dalla naturalezza con cui un ventunenne cantante e polistrumentista riuscisse a imbrigliare generi come il black e il folk per farne musica fresca, genuina e ricca di contenuti e significati. Per ora, l'omonimo full length "Oskoreien" è ancora l'unico disco della band, ma se si va un po' a spulciare nei siti specializzati, si scopre che prima di quella pubblicazione gli Oskoreien hanno prodotto questo demo strumentale, dalla durata di appena dieci minuti, ma più che sufficiente per inquadrare la bravura della band nascente.

Lo stile cambierà e si raffinerà con l'arrivo del primo album ufficiale, ma già qui non si scherza. Le cinque brevi tracce che compongono il demo sono paragonabili a cicloni di melodia e potenza; con un'attitudine derivante in buona parte dalla scuola melodeath svedese, unita al sano grezzume del black metal, il dischetto risulta semplicemente irresistibile. Se ascoltato tutto di fila, sembra un'unica lunga canzone che contiene di tutto, evolvendo le proprie melodie in maniera costante e irresistibile, come una cavalcata che passa continuamente dal trotto al galoppo, ma senza quasi mai arrivare al passo. Una sezione ritmica ben pompata, accompagnamenti di tastiere un po' alla Summoning (e un po' alla Monsorrow), un gusto melodico sopra il normale, energia dirompente: una volta arrivati in fondo si ha facilmente la tentazione di immergersi nuovamente in questa piacevolissima tempesta melodica. Non c'è voce, ma non se ne sente la mancanza: la musica riesce ad essere pomposamente ricca e convincente anche senza linee vocali. Poco materiale in senso stretto, ma di indubbia qualità considerando l'età del musicista in questione, che all'epoca era poco più di un adolescente: se vi è piaciuto il suo album di debutto (e se non lo conoscete ve lo consiglio molto caldamente), troverete in questo demo una piccola gemma che merita sicuramente più di un ascolto.

01 - Odainsvellir (2:39)
02 - Oskoreien (2:57)
03 - Mjöllnir (2:28)
04 - Heidenlärm (2:41)

sabato 18 agosto 2012

Mournful Congregation - "The Book Of Kings"

Weird Truth Productions, 2011
Qualcuno ci salvi dalla bellezza del nuovo lavoro dei Mournful Congregation. La prima frase che mi viene in mente per descriverlo è proprio questa: tanta e tale è la quantità e la qualità di materiale presente nei suoi settantasei minuti, che si rischia di venire soffocati da una tale dimostrazione di forza e superiorità. Nel loro genere, i quattro australiani non sono una band che le manda a dire: dopo una carriera ormai quasi ventennale, hanno prodotto dischi che sono rimasti nella storia del funeral doom, non solo per via della loro enorme bellezza, ma anche per via della spiccata personalità del gruppo, che viene spesso considerato come la mosca bianca della scena funeral doom. Sarà che il sound dei Mournful Congregation è sempre stato piuttosto rarefatto e onirico, sarà che hanno sempre preferito le melodie ariose e appassionate ai muri di chitarre stantii, sarà che hanno sempre amato sperimentare e inserire nelle loro chilometriche canzoni degli elementi insoliti per una band funeral, come le sezioni di chitarra acustica; sarà per tutto quello che volete, ma io continuo a considerare i Mournful Congregation come una delle migliori realtà del funeral doom metal mondiale, e questo nuovo mastodontico lavoro è qui per dimostrarci che ancora una volta i quattro depressi australiani hanno intenzione di annientare completamente le nostre già provate anime.

Ancora una volta la tracklist è composta da quattro brani di durata pressochè infinita, dato che il più corto misura "solo" dodici minuti e il più lungo arriva addirittura ai trentatrè. Ciò potrebbe spaventare l'ascoltatore neofita, ma non certo il fan di vecchia data dei Mournful Congregation, abituato alle mazzate di sontuosa depressione che il gruppo elargisce. Ma non è solo la durata delle tracce a coincidere con ciò che i nostri facevano tempo addietro: è tutto l'album a non discostarsi granchè dai canoni della band, se non fosse per qualche piccolo elemento che porta un po' di nuova varietà, ma si tratta comunque di piccolezze. Quello che i Mournful Congregation ci propongono è il solito affresco di sentimentalismo oscuro e possente forza espressiva, espresso da brani che nessuno riuscirà mai a ricordare per intero a memoria (a meno che non li ascolti per anni interi), tanto sono articolati e sviluppati al loro interno. Lentezza che in certi tratti si fa insostenibile, grandiosità cinematografica trasfigurata in poesia oscura, vocalità a dir poco opprimente e plumbea (interessante il maggior spazio dato alla voce pulita, anche se talmente funerea da superare il growl in quanto ad angosciosità), lavoro di chitarra che sfiora il sublime grazie alla meravigliosa alternanza tra riffing dilatato, melodie magniloquenti e lunghe riflessioni affidate alla sola chitarra acustica, mesta e derelitta. Inizialmente si fa molta fatica a seguire il corso dei brani, più simili al fluire di un torrente incerto che al regolare scorrere dei venti costanti equatoriali; non è difficile considerare questo lavoro come una mezza delusione, se lo si ascolta superficialmente. Ma come tutti i grandi classici, la magia è racchiusa all'interno e bisogna avere pazienza per scoprirla: sarà così che, in un momento dove l'anima è disposta favorevolmente ad accogliere le funerarie note dei Mournful Congregation, il velo si schiuderà all'improvviso e il disco rivelerà la sua intrinseca meraviglia. Ecco che le stanche chitarre acustiche di "The Bitter Veils Of Solemnity" non saranno più noiose, ma al contrario diventeranno un lento lamento che ci accompagna nei nostri momenti più bui; sarà così che le piangenti linee melodiche di "The Waterless Streams" diventeranno la cristallina sonorizzazione della nostra malinconia; sarà così che l'interminabile, bellissima suite conclusiva "The Book Of Kings", che con il suo respiro antico e sfibrante ci farà tremare il cuore, in trentatrè minuti di maestosa esultanza funebre che si concludono con un finale d'organo che ha del soprannaturale. Ecco che l'apparente staticità stilistica del gruppo si rivela essere una scelta fondamentale e importantissima, in quanto permette loro di consolidare il loro stile disco dopo disco, aggiungendo tasselli poco alla volta per migliorare sempre più il già eccelso livello qualitativo.

Difficile valutare in poche parole la portata artistica di questo lavoro, talmente complesso e pachidermico da richiedere decine se non centinaia di ascolti per essere compreso pienamente. Quello che ho scritto finora non è altro che l'inizio di un percorso che ho intrapreso con quest'album; sono ben lungi dall'averlo compreso, assimilato e interiorizzato completamente. Tuttavia, sono certo che qualsiasi nuovo sviluppo futuro non farà che confermare il mio pensiero, aggiungendo convinzione all'idea che questo disco sia un capolavoro immane e una definitiva affermazione di questa stupenda band, così ingiustamente messa in disparte. Sta a voi adesso immergervi nella sfida dell'assimilazione di "The Book Of Kings", un compito arduo ma che potrebbe portarvi a stravolgere il vostro modo di vedere la musica.

Ancora una volta, inchino ai Maestri. Non si trova facilmente un disco come questo, credetemi.

01 - The Catechism Of Depression (19:19)
02 - The Waterless Streams (12:18)
03 - The Bitter Veils Of Solemnity (12:02)
04 - The Book Of Kings (33:10)

Agalloch - "Faustian Echoes"

Dammerung Arts, 2012
Oramai, quando esce un qualsiasi nuovo lavoro targato Agalloch, serpeggia tra i fan una certa agitazione. La band di Portland ha saputo crearsi un proprio stuolo di fan che seguono con attenzione ogni loro movimento, e fremono alla notizia che c'è del nuovo materiale pronto per l'ascolto; è per questo motivo che quando è stato reso annunciato questo extended play, la gente si è precipitata in massa sul sito della band chiedendo di poterlo ascoltare in anteprima, e alla fine sono stati tutti accontentati grazie ad un link dove era possibile ascoltare il disco in streaming. Nell'attesa che il disco sia ufficialmente disponibile per l'acquisto in copia fisica, scrivo questa recensione dopo aver ascoltato più volte la traccia gentilmente offerta dalla band.

Dopo un disco controverso ma a mio parere splendido come "Marrow Of The Spirit", che spostava le coordinate della band verso un sound più black oriented e più enigmaticamente oscuro rispetto agli esordi, tocca a "Faustian Echoes" il compito di portare avanti questo nuovo filone musicale. Ispirato al noto capolavoro di Goethe, questo dischetto monotraccia dalla durata di ventun minuti e mezzo ha la caratteristica di non suonare esattamente come ci si aspetterebbe dagli Agalloch, anche perchè è risaputo che quando questa band incide un extended play, il più delle volte lo fa per sperimentare qualcosa e per mostrare un volto leggermente differente da quello che si conosceva già. "Faustian Echoes" è un brano a tratti molto aspro, capace di accelerazioni repentine  e di devastazioni in blast beat così come di momenti di inquieta riflessione; è dominato da un growl non più sussurrato come in "The Mantle", ma da un growl - scream rancido e greve; è infarcito di momenti recitati e di arpeggi obliqui che ricordano quasi le gelide contorsioni del black metal norvegese. Non si fa fatica a riconoscere, comunque, la mano di Haughm e soci quando si tratta di suonare un po' più melodici, anche se questi momenti di ritorno al passato non sono poi molti, nell'economia totale dell'album. Questo brano esplora maggiormente i lidi oscuri, drammatici se vogliamo, evolvendosi progressivamente con quella flemma tipica del gruppo che lentamente arriva dove vuole e ci conduce per mano in un affascinante viaggio in terre gelate e malinconiche.

Essendo la naturale prosecuzione dell'ultimo full length, le sezioni acustiche non abbondano, e quando ci sono risultano piuttosto limitate e compresse, fungendo da abbellimenti che sottolineano i momenti chiave. Esse sono state messe in secondo piano per far risaltare maggiormente la componente elettrica e le atmosfere depressive, perfettamente espresse dalle chitarre in tremolo e da una produzione che ancora una volta  è leggermente incerta, e proprio per questo ottimamente calata nel contesto generale. In sostanza, i ventun minuti scorrono piacevolmente nel lettore, magari non facendo gridare al miracolo, ma confermando ancora una volta l'indiscussa classe di questa band, ormai affermata come una delle migliori realtà del mondo metal. "Faustian Echoes" è in definitiva un dischetto da considerare come un ponte di passaggio, un momento di transizione che presumibilmente aiuterà a spostare le coordinate sonore ancora un po' più in là nella ricerca di un suono crepuscolare e spigoloso. Ma sapendo che gli Agalloch ci hanno abituato a cambi di direzione repentini, non ci metterei la mano sul fuoco: chissà cosa tireranno fuori dal cilindro la prossima volta...posso solo scommettere che sarà ancora una volta un lavoro di qualità assoluta, come sempre.

01 - Faustian Echoes (21:35)

martedì 14 agosto 2012

Tool - "Lateralus"

Volcano Entertainment, 2001
Alla fine del secolo dei lumi, il celebre filosofo prussiano Immanuel Kant andava affermando che "la conoscenza senza ragione è cieca, senza esperienza è vuota". Da sempre al progressive è stata appiccicata l'etichetta di musica vacua, troppo razionale e senza vere buone idee che potessero reggersi da sole in una forma canzone più tradizionale, come la sola ragione, non sufficiente a definire una forma di conoscenza che potesse reggersi su se stessa. Se la rivoluzione del rock, in questo senso, è già avvenuta con dischi quali “Red” dei King Crimson, il metal, fino all'uscita di questo disco ormai nel lontano 2001, è stato orfano di un disco che combinasse composizione, riflessione e anima

E' una rivoluzione. Il disco riesce a riscrivere il modo di creare musica progressive ed influenzerà tutte le band alternative e progressive metal a venire. Musicalmente, la chitarra assume un approccio minimalista: nessuna nota fuori posto, potenti accordi scandiscono fredde sezioni ritmiche, le parti strumentali invece assumono tinte lisergiche ed oblique, lontane dalla forma assolo in uno stile che è la naturale evoluzione di quello del collega del re cremisi,  Robert Fripp. La sezione ritmica, a metà strada fra post hardcore e new wave, viene esaltata e messa in primo piano, basso e batteria si fondono applicando il tribalismo africano in una raffinata e sintetica forma metal. Questo è possibile solamente grazie a degli specialisti dello strumento che non hanno rivali in circolazione, quali Justin Chancellor al basso e Danny Carey alla batteria. Quest’ultimo in particolare riesce a suonare il proprio strumento in una particolare ed innovativa forma timbrica. Il cantato cessa di essere un esercizio di raggiungimento di tonalità elevate: agli acuti vengono privilegiati versatilità, cambio di timbro, e, non ultimo, spessore compositivo dei testi. Il risultato finale è un amalgama di suoni talmente unico che sancisce la creazione di un “prima e dopo” l’ascolto, vista la portata creativa ed innovativa di questa, davvero, nuova musica.

Ma non è solo per la forma che il disco assume un’importanza cruciale: anche nei contenuti il disco è un capolavoro. E’ impossibile non rimanere ammaliati dalle costanti progressioni di "The Grudge", prima traccia in forma quasi "classica" dove un Maynard James Keenan in stato di grazia tiene, modulando la sua voce, modificando il timbro, le redini di una elegantissima suite che si evolve, quasi mitotica, brulicante, fra richiami letterari, misticismi e ossessioni divinatorie. Subito dopo si fa largo un pezzo obliquo, fatto ora di vuoti siderali, ora di chitarre tagliate, autentiche "emozioni distorte", concedetemi il termine, incarnate in "The Patient" che, dopo un magnifico crescendo, sembra quasi implodere per poi risalire in un tripudio di sovraincisioni vocali. Uno dei punti cardine del disco è forse rappresentato dall’indescrivibile “Lateralus”, la title track propone, infatti, oltre ai già preziosi ingredienti degli altri brani, anche un cantato dove le sillabe vengono scandite in modo da formare una sequenza di Fibonacci. Anche i tempi sono mescolati a seconda dello strumento in modo da creare chiari richiami alla matematica. E' importante sottolineare che questo è tutt’altro che un esercizio fine a se stesso: il testo e la musica, assieme alla sequenza di Fibonacci, crescendo come una spirale, si fondono assieme dando vita ad un vortice ascetico che sembra muoversi fino ai confini dell'universo, anche quando la splendida traccia finisce. Nella sezione più eterea di questo album segue, però, quello che è l'altro grande capolavoro del disco: “Reflection”, una batteria dall'approccio tribale guida un Maynard davvero “illuminato” in un rarefatto canto dalle meravigliose liriche, ispirate alle fasi lunari, sospeso fra un tappeto di sintetizzatori ed eteree propagazioni di chitarre strozzate. Il risultato di questa straniante stratificazione è un brano atipico, dalla devastante bellezza. Va detto che tutti i brani di questo disco meriterebbero una menzione a se, l’elevatissimo livello qualitativo dell’album è mantenuto intatto per tutta la durata del disco, ad eccezione forse di 3 piccolissimi pezzi filler, secondo chi recensisce evitabili, ma che, comunque, contribuiscono a creare un'idea "estetica" del contenuto del disco. Parlando di estetica i Tool sono riusciti nell'impresa di comporre, con un'abilità ineguagliata, una musica dal carattere impressionista, dove davvero la piacevolezza dell’ascolto è unita, in qualche modo, alle sensazioni date dalle arti visive. Infatti, nonostante si "ascolti" un disco, la sensazione che si ha è quella di "vedere" lo scorrere di mutevoli immagini. Una nota a parte va al meraviglioso lavoro del chitarrista Adam Jones, autore dei visionari quanto enigmatici video della band che aggiungono, incredibilmente, altro spessore creando un’esperienza di fruizione artistica difficile da definire se non “totalizzante”.

Tutto questo ancora non basta a far capire quanto bello ed importante sia questo “Lateralus”, potrei parlare delle meravigliose citazioni letterarie, dei cenni alla filosofia, orientale e occidentale, di quelli alle teorie dell’inconoscio collettivo di Jung e Strauss, dell’arte divinatoria e di tantissimi altri riferimenti, per un disco che fa della profondità il suo vero punto di forza riuscendo, sopratutto, a giocare anche con la cultura di chi ascolta, oltre che con la propria. Tutto questo però sempre con una certosina attenzione a non creare inutili orpelli: tutto dev’essere funzionale, perchè ricordando le parole di Maynard “Over thinking / over analyzing / separates the body from the mind”, non bisogna prendersi troppo sul serio. Razionalizzando troppo non si ottiene nulla, verità applicabile anche alla musica. Ed è proprio partendo da questa consapevolezza che, passando per il loro terzo occhio, i Tool creano il più  importante disco del metal moderno. Saturno è asceso, fra il primo e il decimo, percorrendo una spirale eterna: rivoluzione copernicana avvenuta.

01 - The Grudge (8:36)
02 - Eon Blue Apocalypse (1:05)
03 - The Patient (7:14)
04 - Mantra (1:13)
05 - Schism (6:48)
06 - Parabol (3:04)
07 - Parabola (6:04)
08 - Thicks And Leeches (8:10)
09 - Lateralus (9:24)
10 - Disposition (4:46)
11 - Reflection (11:08)
12 - Triad (8:47)
13 - Faaip De Oaid (2:39)

domenica 12 agosto 2012

The Ocean - "Precambrian"

Metal Blade Records, 2007
Presentazione: In principio era il caos. Ma ciò non per un fantasioso intervento divino o per scelta di qualche improbabile architetto, bensì in virtù del Big Bang che diede il via all’espansione dell’universo. Fu in questo processo che a lungo andare ebbe origine il nostro sistema solare, e con esso il nostro pianeta, circa quattro miliardi e seicento milioni di anni fa. Il nostro pianeta...la sua storia e di come su di esso ebbe origine la vita è qualcosa di emozionante, di mozzafiato. Sebbene le prime semplici forme di vita comparvero già circa quattro miliardi di anni fa, fu solo con la cosiddetta esplosione cambriana, vecchia di 530 milioni di anni, che le forme di vita conobbero un vero e proprio sviluppo: in questo periodo di tempo relativamente breve, esse si differenziarono in modo molto più rapido di quanto non fosse mai successo. Da qui in avanti la vita andò evolvendosi verso forme sempre più complesse, fino ad arrivare al mondo come lo conosciamo oggi. Ma che ne è del lunghissimo periodo di oltre quattro miliardi di anni che precede l'esplosione cambriana? Esso è detto Precambriano, ed è a sua volta suddivisibile in tre sottoperiodi: l'Adeano, il più antico e breve, in cui il bombardamento di asteroidi e le copiose eruzioni vulcaniche rendevano la Terra un luogo proibitivo; l'Archeano, caratterizzato dall'inizio della fotosintesi da parte di alcuni organismi acquatici; e il Proterozoico, in cui l'atmosfera terrestre si arricchì di ossigeno. Imprimetevi questi nomi nella mente, e poi guardate la tracklist di Precambrian: scoprirete così che anche Robin Staps, leader e fondatore dei The Ocean, coltiva questa grande passione per l'origine della vita, e ha deciso di dedicarle il terzo full-length della sua band.

Stile: Un doppio CD? Strano...ma poi che senso ha? Perché il secondo dura un'ora abbondante, e il primo supera di poco i venti minuti? E perché il secondo disco presenta brani complessi, virtuosi e strumentalmente vari, mentre il primo è composto da cinque brevi pezzi semplici e diretti? A cosa cavolo serve questo primo mini-dischetto? Potevano benissimo risparmiarselo e pubblicare solo il secondo. Questi sono i commenti degli ignoranti, i quali a quanto pare non sono stati sfiorati nemmeno lontanamente dall'idea che se una band come i The Ocean fa una scelta, essa ha sicuramente un senso ben preciso. Nella fattispecie questa scelta stilistica è dovuta al voler rappresentare musicalmente i succitati periodi geologici del nostro pianeta. L'Adeano e l'Archeano, selvaggi, furibondi, senza fronzoli né mezzi termini, senza nulla di diverso da chitarra, basso e batteria; e poi il Proterozoico, la complessa formazione dell'atmosfera, primo raffinato passo in direzione della vita e della sua futura evoluzione nelle mille e mille forme che conosciamo oggi. E' per questo che nel secondo, lungo disco compaiono brani progressivi, generosi nei loro ricercati passaggi musicali, sfarzosamente arricchiti da violino, viola, violoncello, pianoforte e sassofono. Per il resto l'impatto sonoro è simile a quello ben noto della band: sonorità pesanti ma pulite che danno vita al loro caratteristico post-sludge, stile canoro misto tra harsh e clean. Così possiamo dire che il secondo disco può essere considerato come un'ulteriore evoluzione di quel capolavoro chiamato Fluxion, mentre il primo è una chiara ripresa dell'aggressività organizzata di Aeolian.

Valutazione: Non è raro che i dischi così ambiziosi sulla carta finiscano per deludere nella pratica non poche persone, quelle persone che vorrebbero vivere tutta la vita della solita solfa trita e ritrita dai sapori fin troppo familiari, e troppo facile da digerire. E' forse anche per questo che non pochi dei dischi più belli non vengono compresi, e vengono di conseguenza trattati con irritante sufficienza, o addirittura umiliati. Ma fortunatamente i The Ocean hanno sempre abituato il loro pubblico ad una musica ambiziosa, e riuscirà quindi meno difficile concedere a Precambrian la gloria che gli spetta di diritto. Ascoltare il secondo disco Proterozoic è qualcosa di indescrivibile: nell'ammirare le sue circonvoluzioni c'è letteralmente da perdersi, e i suoi numerosi passaggi sopraffini sono in grado di emozionare come se si trattasse della storia più commovente che vi abbiano mai narrato. Ascoltarlo dopo essersi sparati un po' di adrenalina in endovena con Hadean/Archean è ancora meglio! Ascoltarlo immaginando poi di rivivere la storia del nostro pianeta non ha prezzo...sembra di essere dapprima investiti da una devastante tempesta di meteoriti, e di passeggiare in seguito tra le insidie del desolante inospitale scenario che rimane una volta che questa è cessata. E' un'emozione unica, ferocia e tecnica che si mescolano alla perfezione, pesantezza e raffinatezza insieme in un corpo unico. Superbo. Ma la genialità di Robin Staps non è mai paga, ed è dai sottotitoli di ciascun brano che si intravede l'ulteriore sorpresa: egli ha probabilmente usato i periodi geologici dell'evoluzione del nostro pianeta come metafora per trattare tematiche di stampo sociale, politico e religioso. La continua evoluzione del pianeta Terra usata per descrivere la continua involuzione della stupidità umana: indubbiamente allettante. Vi confesso tuttavia che, mea culpa, non ho approfondito questo aspetto del disco; mi limito quindi a sussurrarlo timidamente...ora la pulce è nel vostro orecchio.

Conclusione: Così come l’esplosione cambriana è stato uno dei passi più repentini e significativi nella storia dell’evoluzione della vita, allo stesso modo Precambrian è il passo decisivo nell’evoluzione stilistica dei The Ocean: si fa ritorno con decisione alla complessa magniloquenza di Fluxion, magniloquenza che diviene ancor più arabescata e raffinata; ed è un ritorno più che gradito. Precambrian è un discone che fa gola a chiunque ami la musica nella sua accezione più generale, oltre che un doveroso tributo alla umile luce della ragione e della conoscenza contrapposta al presuntuoso buio pesto del dogmatismo religioso. Capolavoro. Lavatevi le orecchie prima di ascoltarlo.

Disco 1: Hadean/Archean
01 – Hadean (The Long March Of The Yes-Men) (03:48)
02 – Eoarchaean (The Great Void) (04:46)
03 – Palaeoarchaean (Man And The Sea) (02:46)
04 – Mesoarchaean (Legions Of Winged Octopi) (05:20)
05 – Neoarchaean (To Burn The Duck Of Doubt) (05:24)

Disco 2: Proterozoic
01 – Siderian (01:57)
02 – Rhyacian (Untimely Meditations) (10:57)
03 – Orosirian (For The Great Blue Cold Now Reigns) (06:29)
04 – Statherian (05:58)
05 – Calymmian (Lake Disappointment) (08:19)
06 – Ectasian (De Profundis) (08:58)
07 – Stenian (Mount Sorrow) (08:20)
08 – Tonian (Confessions Of A Dangerous Mind) (07:18)
09 – Cryogenian (03:32)

venerdì 10 agosto 2012

Ignition Code - "NewTek Lie"

To React Records, 2012
Non manca di certo la carica di violenza agli Ignition Code, formazione italiana che mescola death metal melodico, thrash metal, hardcore, grindcore e una piccola parte di technical death (ma molto piccola), confezionando un album piuttosto breve ma molto intenso per quanto riguarda l'impatto sull'ascoltatore. L'ottima tecnica dei musicisti coinvolti, espressa attraverso brani compressi e schiacciasassi, non lascia dubbi su ciò che il gruppo vuole ottenere: un bagno sonoro di distorsioni e furore rabbioso, solo sporadicamente rotto da alcune aperture melodiche, ma quasi sempre incentrato sulla distruzione totale di tutto ciò che si trova sul suo cammino.

In brani che non superano mai i quattro minuti e mezzo di durata, la band imprime tutta la propria selvaggia potenza, scaricandoci addosso tonnellate di metallo incandescente e divertendosi a cambiare i ritmi e a rivoltare i riff di chitarra come gli pare e piace, lasciandoci piacevolmente storditi da questo marasma di costante acrimonia. Assieme agli strument indiavolati, ottima protagonista è la voce growl, la quale concede ben poco spazio alle parti strumentali, ruggendo in maniera pressochè continua e vomitando odio sulle nostre anime. Fino a qui, sembra che vada tutto benissimo, che il disco sia una pacchia per gli amanti del metal estremo, i quali non potrebbero desiderare di meglio; tuttavia, ciò è vero solo in parte. Per un fanatico del genere gli Ignition Code andranno sicuramente bene, ma risulteranno invece difficili da digerire ad un ascoltatore più cosmopolita, poiché alla fine questo album pecca di una certa ripetitività e staticità. I brani sono potentissimi e granitici, dei veri concentrati di tritolo pronti a scoppiare, ma in sostanza si differenziano ben poco gli uni dagli altri; la violenza proposta non ha una vera e propria direzione, così come i brani non possono dirsi pienamente sviluppati, sconfinando a tratti nella confusione. Le aperture melodiche, inoltre, potevano essere giostrate un po' meglio, dando loro più spazio; ciò avrebbe contribuito a bilanciare maggiormente le due componenti del disco. Alla luce di tutto ciò, appaiono evidenti i pregi e i difetti di questo "NewTek Lie". I pregi sono un impatto fortissimo, una tecnica eccellente, una produzione stellare e una violenza con pochi pari. I difetti sono la staticità del sound e l'incapacità dei brani di distinguersi gli uni dagli altri, facendo assomigliare il tutto ad un unico, lungo sfogo di aggressività nichilista. Quindi, a ciascuno il suo: gli ascoltatori avvezzi a questo genere troveranno negli Ignition Code ciò che gli serve per vivere quotidianamente, mentre gli altri tenderanno a considerarli poco interessanti. A questo punto dipende da voi: comunque gli Ignition Code suonano la loro musica con onestà, questo ve lo garantisco.

01 - NewTek Lie (3:58)
02 - Nothing Left (3:24)
03 - Organic Program Failure (3:41)
04 - The Illusion Of The Observable (3:36)
05 - M.S.P. (4:07)
06 - Human B.P.M. (3:41)
07 - Biological Prospect (4:17)
08 - Mikro Kid (3:43)
09 - GameGear (4:22)
10 - The Silent Judge (3:01)

Trails Of Sorrow - "Languish In Oblivion"

Domestic Genocidio, 2012
Depressione. Questo è sicuramente il termine più adatto per descrivere ciò che la musica dei Trails Of Sorrow racchiude, una depressione di quelle potenti, che non lasciano traspirare nemmeno un raggio di luce e chiudono l'esistenza in un vuota attesa del giorno in cui si morirà. Mescolando l'attitudine ultraslow di gruppi come i Worship, ma in chiave decisamente più orientata al gothic che al funeral doom, questo duo italiano ha ben chiare le idee sulla musica che vuole suonare, e nonostante l'ascolto possa risultare piuttosto pesante anche per un die - hard fan del genere, il loro debutto racchiude delle potenzialità che mi auguro di vedere espresse al meglio nel loro prossimo album.

I pezzi di questo "Languish In Oblivion" sono tutti piuttosto lunghi (ma non tremendamente chilometrici come i pezzi di un gruppo funeral doom) e dalle atmosfere rarefatte, che giocano su riff di chitarra dilatati e sconsolati, non certo sull'impatto di muraglie sonore o di aggressive effusioni tra strumenti diversi. Semplici accordi di chitarra fanno da accompagnamento a linee melodiche sovente interpretate dal pianoforte o dalle tastiere (i suoni degli archi sono ovviamente sintetizzati), mentre la voce spazia da un profondo lamento growl a recitazioni parlate dal sapore lacrimevole, in un tripudio di depressività che, seppur encomiabile nel suo proposito, a volte si spinge un po' troppo all'eccesso. Dipende un po' dagli episodi: l'opener "Dreams Are Dying" mette quasi paura con il suo incedere plumbeo e pachidermico che pare preso direttamente da dischi epocali come "Last Tape Before Doomsday" o "Dooom" dei già citati Worship. Anche la successiva "Living As To Live Is To Suffer" ricorda vagamente gli Skepticism con i suoi riff rallentati fino all'estremo, uniti a quelle atmosfere "spente" e mortuarie che hanno fatto grande il gruppo finlandese. Ma ci sono anche episodi che potevano essere lavorati meglio, come "See My Blood Flowing", la quale incorpora le influenze gothic imbastendo una cantilena che avrebbe bisogno di un pizzico di incisività e di varietà in più per risultare pienamente convincente. A volte i brani peccano di eccessiva staticità e di una produzione che non rende giustizia, rendendo l'ascolto complessivo del disco piuttosto impegnativo.

C'è da dire, comunque, che gli inserti di pianoforte e violino a volte sono proprio belli, che certe melodie sono azzeccate, che il growl in certi punti mette davvero l'angoscia che vorrebbe mettere, e che non trovo nulla di particolarmente sbagliato nella musica dei Trails Of Sorrow. Dunque non si tratta affatto un brutto disco. Quello che a mio parere deve ancora arrivare è la botta di ispirazione definitiva, quella che fa partorire dischi che si ricordano negli anni a venire, e che viene un po' quando vuole lei, raramente da subito. Per cui direi che i Trails Of Sorrow devono proseguire con il loro percorso musicale, perchè ho come la sensazione che con un po' di maturità artistica in più, potranno partorire qualcosa di davvero interessante. "Languish In Oblivion" è un primo passo in questa direzione, sul quale lavorare a lungo per tirar fuori la malia irresistibile di cui questo genere è portatore. La bella outro "Ora è la fine", contemporaneamente triste e luminosa, potrebbe essere il punto d'inizio di questa evoluzione: mi auguro che sarà veramente così.

01 - Dreams Are Dying (6:53)
02 - Living As To Live Is To Suffer (8:17)
03 - A Grave Of Loneliness (5:29)
04 - Trees Crying Leaves (2:16)
05 - See My Blood Flowing (9:06)
06 - In Luce (2:20)
07 - Suffering Comes (8:01)
08 - Wonderful Memories (6:25)
09 - A Blinking Shadow 1 (1:16)
10 - Ora E' La Fine (4:42)

Summoning - "Minas Morgul"

Napalm Records, 1995
Non è propriamente semplice recensire un disco dei Summoning, un po' perchè il loro stile è molto particolare e difficilmente inquadrabile in un unico genere, un po' perchè i loro dischi sono in ultima analisi tutti uguali, o meglio tutti molto omogenei e simili tra loro. Non che ciò rappresenti per forza un problema, anzi: la loro coerenza, a mio parere, è il loro punto di forza. Il fatto è che costruiscono i loro album sempre sulla stessa falsariga, ovvero le atmosfere epico - cavalleresche debitrici del fantasy e delle colonne sonore, il tutto con spruzzi più o meno consistenti di black metal lento e ragionato. La mosca bianca della discografia è rappresentata da "Lugburz", il loro primo lavoro, che non aveva ancora raggiunto la maturità artistica e la profondità di songwriting necessaria per far decollare il duo austriaco; tale album era fin troppo grezzo e scarno per risultare realmente interessante. Con il successivo "Minas Morgul", invece, ecco che i Summoning sbocciano definitivamente e danno il via ad una carriera strabiliante, fatta di capolavori incisi uno dopo l'altro con naturalezza sopraffina, capolavori che hanno portato alla band un'ottima notorietà e un alone quasi leggendario, nel loro genere.

Quasi tutti sanno che i due austriaci Protector e Silenius amano suonare musica che si ispira chiaramente e costantemente ai grandi classici tolkieniani (in particolare l'immenso "Signore degli Anelli"). Non sono certamente i primi ad ispirarsi al fantasy: ciononostante, nessuno come loro è riuscito a trasporre tali opere in musica con una tale efficacia. Almeno, questa è la mia opinione, che però viene condivisa praticamente da tutti, in quanto è evidente che tra i gruppi epic - black i Summoning hanno una marcia in più. Atmosfere blackeggianti, nevose, oscure e fumose imperano per tutto "Minas Morgul" in perfetto accordo con la natura di tale luogo (nel Signore degli Anelli è la città dei morti, nel tetro regno di Mordor); gli onnipresenti e importantissimi sintetizzatori aggiungono invece quel tocco epico e vagamente folkloristico che trasfigura il sound grezzo e primordiale di "Lugburz" rendendolo ora splendidamente evocativo, arricchendolo con atmosfere magiche e melodie luminose che controbilanciano la severità dell'impianto sonoro di base. I brani sono un continuo evolversi di melodie che cambiano volto e si incastrano le une sulle altre, in sviluppi sempre piuttosto lenti e cadenzati, sovente retti da numerosi strumenti e costantemente accompagnati da una voce in screaming che trasmette freddezza animalesca, disumana e aspra come gli Orchetti di Mordor. Come in ogni altro disco dei Summoning, è inutile descrivere i pezzi uno per uno, poiché il disco va visto come un viaggio da intraprendere necessariamente dall'inizio alla fine, senza tappe intermedie. Ciò non significa che il disco sia monotono: ci sono brani più veloci, altri più lenti, semplici intermezzi d'atmosfera che precedono suite celebrative, momenti puramente emozionali e oasi di quiete riflessiva; un po' di tutto, in questo calderone epico e dal respiro leggendario. Non mancheranno certamente i momenti in cui verranno alla mente le poderose immagini dei capolavori tolkieniani, nè i momenti in cui l'emozione prevarrà e farà accelerare i battiti del cuore: può darsi che le sonorità dei Summoning non siano gradite a tutti, così come non sia gradita a tutti la loro attitudine recitativa e pomposa, ma nessuno potrà mai dire che la loro è una musica che manca di qualità e ispirazione.

"Minas Morgul" è il primo di una lunga serie di dischi favolosi e dall'indiscutibile personalità. Forse, escludendo "Lugburz", è il loro disco più oscuro e difficile da assimilare; ma allo stesso tempo è così affascinante da risultare irresistibile. Non vi rimane che dargli una possibilità: finirà che odierete il gruppo fin da subito, oppure che ve ne innamorerete perdutamente. Come con il genere fantasy, non ci sono vie di mezzo: o lo si ama, o lo si odia. Ancora una volta è superfluo ricordare da quale parte stia il recensore.

01 - Soul Wandering (2:32)
02 - Lugburz (7:14)
03 - The Passing Of The Grey Company (9:16)
04 - Morthond (6:44)
05 - Marching Homewards (8:11)
06 - Orthanc (1:39)
07 - Ungolianth (6:36)
08 - Dagor Bragollach (5:05)
09 - Through The Forest Of Dol Guldur (4:46)
10 - The Legend Of The Master Ring (5:27)
11 - Dor Daedaloth (10:15)