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domenica 24 febbraio 2013

21 Gramms - "Water - Membrane"

Greytone, 2011
L'isolamento è la chiave di tutto. Quando si è isolati dal mondo, senza possibilità di comunicare con nessuno, i pensieri cambiano. Le sensazioni cambiano, le percezioni cambiano: in poche parole, cambia tutto, si diventa qualcos'altro, il mondo non appare più quello che credevamo. Si giunge all'alienazione, e con buona probabilità alla pazzia. L'isolamento, quello vero, produce quest'effetto ineluttabile che nessuno si augura di provare mai. Questa straniante condizione psicologica è ciò che i russi 21 Gramms si propongono di studiare e di esprimere con il loro "Water - Membrane": un disco minimalista, asciutto, estremamente ostico e concettuale, riservato a quella stretta fascia di persone che con la loro particolare sensibilità personale possono arrivare a immedesimarsi in una musica così particolare.

Giocando su un impianto sonoro squisitamente tendente al drone - ambient, la band crea scenari sonori da brivido grazie all'uso di tastiere estremamente rarefatte, dal suono a tratti disturbante e a tratti onirico, con qualche parentesi di rilassamento che tuttavia non abbandona mai un senso di tensione e di angoscia. Le percussioni sono rare come l'acqua nel deserto, la vocalità è assente se non fosse per alcune tremebonde sequenze di parlato, ed è difficile ravvisare una linea melodica portante in brani che spesso e volentieri si perdono in interminabili annegamenti sotterranei di psichedelia e marciume esistenziale inespresso (magistrali sono in questo senso le due "God" e "Voice"). Nell'estremo minimalismo dell'opera, tanto spinto da risultare quasi disarmante, sono i dettagli a rimanere maggiormente impressi, come potrebbero suscitare l'attenzione alcuni massi isolati in una sconfinata distesa di sale. Questi dettagli possono essere delle note isolate di pianoforte, spostate nel registro iperacuto e ripetute istericamente come se fossero suonate da un malato compulsivo che si siede davanti allo strumento e lo percuote in preda allo stato catatonico ("Hostel"); oppure possono essere le brevi parentesi di pura malinconia e commozione, che tuttavia rimangono solo degli squarci isolati in un panorama costantemente desolante ("Nostalgia"); o ancora, possono essere le note liquide e sotterranee di "Drown", o l'inaspettata chiusura tendente all'epico di "Don't Go", ponte che conduce ad un'inaspettata quanto interessante ghost track (poteva mancare una traccia nascosta, in un lavoro criptico e misterioso come questo?). Quando il disco finisce, ammesso che il nostro stato d'animo e i nostri gusti ci abbiano permesso di arrivare fino in fondo senza interruzioni e senza perdere la testa, la sensazione di triste isolamento e di lontananza abissale da qualsiasi aspetto "umano" è palpabile.

Qui sta la forza di un disco come "Water - Membrane". Una noia mortale? Potrebbe essere. Un esperimento schizoide di una personalità antisociale e profondamente disturbata? Ancora più probabilmente sì. Ma nessuno mi può togliere dalla testa che "Water - Membrane" sia un disco che sa il fatto suo, che ha una sua precisa direzione e dei precisi intenti, e che può conquistare chi riesce a scavare abbastanza a fondo nelle profondità della propria anima malata, fino a far coincidere la musica con le proprie desolanti sensazioni che affiorano da recessi insondati. Sarà allora, magari dopo mesi di inutili tentativi, che i 21 Gramms e il loro "Water - Membrane" avranno guadagnato un posticino nella vostra mente. Consigliato a chi ha voglia di ascoltare una versione un po' particolare dei Neurosis e di tutte le band che fanno capo alle sonorità inafferrabili ed enigmatiche del drone doom e del dark ambient. In ogni caso, un'esperienza che vale la pena di provare: rischiate che qualcosa, in tutto questo apparentemente insensato vagare nell'etere, vi rimanga dentro e non vi abbandoni più.

01 - Drown (5:35)
02 - Hostel (9:41)
03 - God (11:08)
04 - Nostalgia (1:46)
05 - Voice (16:41)
06 - Don't Go (3:17)
07 - Hidden Track (7:52)

venerdì 22 febbraio 2013

Caladan Brood - "Echoes Of Battle"

Northern Silence Productions, 2013
Qualcuno doveva pur esistere, ma finora non l'avevo trovato: ma adesso finalmente ce l'ho fatta. Ho trovato una band che suona esattamente come gli austriaci Summoning. Dunque, prima di avventurarvi nella recensione di questo disco, dovete chiedervi se conoscete i Summoning. Se la risposta è affermativa, chiedetevi se i suddetti vi piacciono. Se la risposta è ancora affermativa, non perdete tempo a leggere quanto segue, e affrettatevi a comprare questo album; se solo la prima risposta è affermativa, ma la seconda no, allora pensateci molto bene prima di spendere i vostri soldi; se invece anche la prima risposta è negativa, allora prendetevi cinque minuti e continuate a leggere la recensione.

I Caladan Brood sono un duo proveniente da Salt Lake City, e che debutta con la sempre lodevole Northern Silence Productions, proponendo questo corposo discone che sfonda il muro dei settanta minuti di durata. Il loro stile è ascrivibile all'epic black, ed è contemporaneamente facile e difficile da inquadrare; facile per via del fatto che una volta ascoltati li si riconosce subito, e difficile perchè le influenze che amalgamano in un unico prodotto sono molteplici, andando dal marciume black metal fino alla lieta melodiosità del folk, e inoltre - elemento che li distingue dai già citati Summoning - passando velocemente attraverso territori melodeath ed epic nel senso più classico del termine. Se i Summoning si ispiravano prevalentemente alle opere di Tolkien e le trasponevano in musica in un modo che solo loro erano capaci di fare, i Caladan Brood fanno la stessa cosa con un'altra opera di fantasia di Steven Erikson, creando un'ambientazione che più fantasy non potrebbe essere. Partiture sinfoniche maestose e possenti, abbondante uso di tastiere e sintetizzatori che riproducono archi e fiati accanto a suoni modernissimi, sonorità black metal calate su ritmi relativamente lenti che suggeriscono un'epica marcia battagliera, alternanza di voce scream molto tirata e di melodiose linee corali pulite; la ricetta è tutta qui, ma funziona alla grande. Poco importa se le partiture sono in fin dei conti piuttosto semplici e ripetitive, o se le armonie utilizzate sono già trite e ritrite; lavori come questi si basano sul potenziale evocativo, sulla capacità di stimolare l'immaginazione e la fantasia, di trasportare mentalmente in mezzo a situazioni fantastiche e poderose. La tecnica passa logicamente in secondo piano, dando assoluta precedenza alle amalgame di suoni, alle epiche melodie e alla potenza di fuoco della sezione ritmica, dal suono rimbombante e marziale, molto simile ad un tamburo da battaglia.

Bisogna dirlo: le somiglianze con i Summoning, in particolare con gli ultimi di "Oath Bound", sono così calcate che pare quasi di ascoltare un nuovo album del celebre duo austriaco. Se non mi avessero detto che era un'altra band, avrei potuto cascarci anch'io. Ma a parte tutto, bisogna dire che i Caladan Brood hanno qualche elemento di personalità propria che non li appiattisce a meri cloni senza nervi e senza qualità. Questi sprazzi di originalità stanno più che altro nei dettagli, piccoli ma non trascurabili, come ad esempio il notevole spazio che viene dato alle sezioni corali, le quali assumono spesso ruoli da protagonista (bellissima la scelta di chiudere il disco con un coro a cappella, dopo i quattordici minuti dell'epopea di "Book Of The Fallen"); oppure al ruolo indubbiamente maggiore sostenuto dalle chitarre, che non si limitano solo ad accompagnare con accordi e riffoni statici, ma si protendono invece con interessanti assoli e riff cesellati che ricordano quasi i migliori brani degli In Flames. Questa influenza deriva anche dal fatto che uno dei membri della band, tale Jake Rogers, è lo stesso che ha messo in piedi il piccolo progetto musicale Gallowbraid, precocemente abbandonato ma molto interessante con il suo black - folk dalle tinte energiche e un po' rockeggianti; si sente molto la loro impronta serena e solare, leggermente malinconica ma al contempo felice di essere al mondo, in contrasto con la vena più ombrosa e drammatica tradizionalmente mantenuta dai maestri Summoning. Bastano queste piccole differenze per rendere un gruppo come i Caladan Brood meritevole di esistere e di essere ascoltato, nonostante la sua derivatività.

Il disco è lungo ma non stanca mai e non annoia, sempre che possediate l'attitudine giusta per calarvi nel contesto evocato dalla musica; lasciate che l'immaginazione sia libera di fluire, e le magnifiche note di "Echoes Of Battle" accompagneranno il vostro viaggio fantastico nel migliore dei modi, conducendovi sotto cascate dai riflessi dorati e materializzandovi all'improvviso in uno sterminato campo di battaglia dove due eserciti stanno per fronteggiarsi. Non c'è un brano più bello o più interessante degli altri, l'insieme è omogeneo e richiede dedizione e impegno per poterlo assimilare; ma vedrete che sarà più facile di quanto pensiate. Che l'epopea abbia inizio, tra frecce sibilanti e pire ardenti all'orizzonte...

Strap on your shields and raise your banners
Hear the call of raging battle
Beneath a hail of burning arrows
Push ever forward, never surrender
Siege weapons tolling out like thunder
Ripping the city walls asunder
Columns of flame reach ever skyward
Horizons filled with burning pyres...

01 - City Of Azure Fire (10:09)
02 - Echoes Of Battle (9:21)
03 - Wild Autumn Wind (13:46)
04 - To Walk The Ashes Of Dead Empires (13:12)
05 - A Voice Born Of Stone And Dust (9:50)
06 - Book Of The Fallen (14:55)

martedì 19 febbraio 2013

Fen - "Dustwalker"

Code666 Records, 2013
Una volta lessi una frase da parte di una persona che commentava una recensione di un disco. Essa recitava "Ma è mai possibile che tutti i dischi metal siano capolavori?". Si riferiva, in maniera ironica, al fatto che spesso i recensori tendono ad esagerare un po' con le lodi, dipingendo quasi ogni disco come un capolavoro, anche e soprattutto dischi che capolavori non sono affatto. Si va dalle ciofeche totali agli ottimi dischi, ma non bisogna confondere gli "ottimi dischi" con i capolavori: questa parola così impegnativa è riservata a quei rari affreschi musicali che sono destinati a influenzare intere schiere di band emergenti, e che con tutta probabilità rimarranno infissi negli annali della musica, perlomeno quella di genere. Tutta questa premessa per dire che "Dustwalker" fa sicuramente parte di questa schiera di dischi: passionali, intensi, pregni di contenuti ma senza potersi forgiare del titolo di massime opere musicali. Sarebbe assurdo, infatti, dire che "Dustwalker" è un disco destinato a riscrivere la storia della musica; ma sarebbe altrettanto impietoso non riconoscere il suo eccellente livello qualitativo e la sua fenomenale capacità di coinvolgere l'ascoltatore e di trasportarlo in paesaggi desolati e solitari. E dopo questa lunga e forse inutile premessa, che però sentivo di dover fare in quanto da troppo tempo avrei voluto toccare l'argomento e scriverci due righe, passiamo ad analizzare il disco medesimo.

I dischi dei Fen, a partire dal primo EP "Ancient Sorrow" per arrivare ad oggi, hanno sempre mantenuto livelli sopraffini, capaci di fondere elegantemente la suggestività del post rock e del neofolk con la cruda aggressività del black metal, addolcita qua e là da elementi melodici e atmosferici di grande classe. Un cocktail che ultimamente va per la maggiore, ma che solo poche band sono in grado di padroneggiare con sicurezza, senza scadere nel già sentito e nel banale, cosa che con il passare degli anni è sempre più facile. I Fen, tuttavia, non sono dei novellini e sono sicuramente una delle band che riesce meglio in questo non facile compito: con "Dustwalker", il loro terzo album in studio ad oggi, non fanno altro che riconfermare la propria indiscutibile classe compositiva ed esecutiva, non dimenticando nemmeno di aggiungere qualche tenue elemento di novità che contribuisce a non fossilizzare il sound. Mescolando la crepuscolare rugosità di "Ancient Sorrow", la malinconia autunnale di "The Malediction Fields" e la finissima dolcezza melodica di "Epoch", il gruppo assembla un disco che non mancherà di spiazzare i fan storici, poiché se da una parte è indiscutibilmente un album al 100% "made in Fen", dall'altra è un qualcosa di nuovo, di meno immediato, di più inafferrabile e variegato nei suoi accentuati chiaroscuri.  In diversi casi, la componente black si separa in maniera quasi netta dall'atmosfera shoegaze - folk che aveva fatto la fortuna dei precedenti album, creando scenari pressoché inediti: la violenza smisurata che ci investe fin dalle primissime battute di "Consequence" (mai abbiamo sentito i Fen suonare così cattivi, con un basso così stupendamente prepotente e una voce velenosissima!) si accosta alle tenui soffusioni melodiche di "Spectre" con assoluta naturalezza, una naturalezza che inizialmente non viene colta per via dell'intrinseca nebulosità dell'album, ma che piano piano emerge come una perfetta riprova dell'abilità della band. Ciò appare in modo particolare nei brani che amalgamano le due anime dei Fen, e che sono anche i brani più facili da assimilare, come per esempio "Hands Of Dust" e la monumentale chiusura "Walking The Crowpath": brani che faranno la gioia dei vecchi fan, i quali ritroveranno tutto ciò che hanno amato nei dischi passati. La novità sta invece nella libertà con cui la band si permette di sperimentare, di sbilanciarsi ora verso l'atmosfera ora verso la durezza, riuscendo ottimamente in entrambi gli stili e forgiandosi con dei miglioramenti evidenti sotto l'aspetto tecnico, in particolare per quanto riguarda la voce di The Watcher, mai come in questo caso capace di essere graffiante ed ispirato nello scream, e altresì dolce e ammaliante nel clean. In ogni caso, anche se l'attitudine generale si è leggermente spostata verso l'aggressività e i suoni e le atmosfere sono diventati un po' più pesanti che in passato (mantenendo sempre la produzione volutamente impastata e low - fi che ha fatto a mio avviso la fortuna della band), non ci sono particolari idee rivoluzionarie all'orizzonte. I Fen si muovono bene o male sugli stessi terreni battuti in precedenza: il seme del cambiamento è solo un modo diverso di intenderli, di rimescolarli tra loro così come di separarli. Cambia il modo di usarli come strumento che avvolge l'ascoltatore e lo trasporta nelle umide contrade dell'Inghilterra del nord, con le sue paludi sterminate: il risultato, ancora una volta, è degno degli obiettivi che si era preposto, ammesso che in musica si possa parlare di obiettivi da raggiungere.

Dunque, "Dustwalker" può finalmente essere descritto come il capolavoro dei Fen? A mio parere no, non è un capolavoro, o meglio, non ancora. Il gruppo ha saputo imporsi con personalità nella scena metal attuale, comparendo anche in tour con grandi band come gli Agalloch e creandosi la propria schiera di fan appassionati, grazie alla loro indubbia abilità e personalità: tuttavia sono convinto che il loro capolavoro definitivo debba ancora arrivare. Magari non riusciranno mai a produrre un disco che venga ricordato come vera e propria pietra miliare irrinunciabile, ma in fondo chi se ne importa? "The Malediction Fields", "Epoch", e adesso "Dustwalker" ... di musica per intenditori, alla ricerca di sensazioni speciali, ce n'è da vendere. "Dustwalker" è un nuovo tassello nella personale maturazione artistica dei Fen, un lavoro ancora una volta squisitamente meditativo e atmosferico, sul quale passare lunghi pomeriggi di riflessione. Per cui, non abbiate timore: compratelo pure a scatola chiusa, e lasciatevi rapire dalle sue polverose e suggestive cascate di note distorte. Ne vale la pena.

01 - Consequence (7:56)
02 - Hands Of Dust (11:39)
03 - Spectre (10:21)
04 - Reflections (1:44)
05 - Wolf Sun (7:10)
06 - The Black Sound (10:08)
07 - Walking The Crowpath (13:16)

mercoledì 6 febbraio 2013

Elderwind - "The Magic Of Nature"

Deleting Souls Records, 2012
La semplicità può essere l'arma vincente, nella musica così come nella vita: un concetto che bisognerebbe tenere sempre a mente. La musica dei russi Elderwind, composti unicamente dal tuttofare ventitreenne Persy, è espressione di semplicità pura, ma riesce a catturare lo spirito molto più di tanti mastodonti dalla complessità mostruosa ma dal poco sentimento.

Per dimostrare che non sono solo frasi ad hoc con l'unico scopo di intortare gli ignari lettori e di ricoprirli di melensaggini gratuite, vi invito ad ascoltare un pezzo come "The Magic Of Nature", la seconda traccia del CD. Già dopo i primissimi secondi, a meno che non siate persone completamente insensibili oppure del tutto disabituate a qualsiasi sonorità più aggressiva del pop rock, sentirete inevitabilmente un brivido di emozione sulla pelle, misto ad un brivido di autentico freddo. Le vivide e spettacolari immagini di copertina sono un quadretto da ammirare mentre si ascolta la musica, immaginandosi di trovarsi davvero di fronte a quella gigantesca montagna innevata, con i boschi di conifere intirizzite e lambite da un fiumiciattolo gelido, nella solitudine e nella libertà più totale. Paesaggi sonori che ricordano le maestose distese del Canada o dell'Alaska, luoghi nei quali l'uomo ancora non ha avuto il coraggio di insediarsi a distruggere tutto, poiché troppo belli e troppo inospitali. Gli Elderwind trasportano la mente e il corpo in quei luoghi paradisiaci, e lo fanno con una semplicità disarmante, componendo brani che non sono nulla più che tranquille sequenze di accordi ripetuti, sui quali viaggiano lentamente le note di pianoforte e di tastiera come brandelli di fiori trasportati da un vento impetuoso. Unendo sapientemente le dilatate sonorità ambient con le ruvide muraglie di chitarroni black metal, la musica viaggia quasi sempre lenta, compassionevole, calma come l'acqua di un laghetto montano; ogni tanto una valanga improvvisa risveglia la natura dal torpore, sommergendo tutto con tonnellate di neve bramosa di velocità, per poi ripiombare nell'immobilità e nella tranquillità contemplativa, di cui questo disco è letteralmente saturo. Le linee melodiche esprimono questo sentimento alla perfezione, sviluppandosi solenni ed elegiache verso l'infinità di un mondo incantato, e giocando su motivi elementari ma dalla bellezza sconcertante, in grado di ammaliare perdutamente chiunque non si doti di una corazza di insensibilità spessa trenta centimetri. Un applauso interminabile deve essere dedicato alla produzione: non credo di aver mai ascoltato un disco nel quale la tipologia di suoni e di registrazione sia così perfettamente adatta alle atmosfere che si vogliono creare. Strati di chitarre ovattate e raggelanti, una voce in screaming sempre in secondo piano, tastiere liquefatte e fluttuanti che colmano l'etere senza mai essere invadenti ... un connubio stupefacente di grezzume e approssimazione sonora, che può essere considerato inadeguato solo da chi non ha la minima esperienza di questo tipo di musica. Non è una critica, è un dato di fatto: chiunque voglia approcciarsi al black metal atmosferico deve mettere in conto che la produzione deve essere necessariamente povera e stentata, altrimenti la musica perde i tre quarti del suo fascino. Mi sento inoltre di aggiungere un applauso ancora più sentito alla sezione ritmica, in particolare alla batteria, che costituisce l'elemento discriminante, in grado di compensare la relativa semplicità delle chitarre: dietro le pelli, infatti, Persy dà il meglio di sè con tempi sempre variabili e una tecnica non da poco, la quale arricchisce notevolmente il fluire dei brani, i quali avrebbero forse sofferto di una certa staticità se non ci fosse stato questo elemento.

Si respirano diversi sentimenti nel corso del disco, e nessuno di questi è un sentimento negativo: la natura si mostra qui nella sua bellezza più abbagliante, servendosi di melodie che spesso tendono alla luce del sole e al blu intenso del cielo, nonostante la loro intensa carica malinconica. Il dolce romanticismo di "Shining Star", le suggestioni epiche di "The Nature Stuck In A Dream", le avvolgenti e celestiali tastiere di "Last Winter's Night", il triste pianoforte accompagnato dalla pioggia e dai tuoni in " When The Rain Starts Again", la travolgente epopea di "The Coming Of Spring", capace di far sgorgare calde lacrime ... tutti i brani posseggono qualcosa di speciale, nonostante il disco sia estremamente omogeneo nel suo stile compositivo, e tutti sono in grado di dipingere paesaggi così vividi da sembrare reali. Cinquanta minuti che passano veloci, così veloci da lasciare ampiamente il tempo di rimpiangere ciò che si è appena vissuto, nel momento in cui il disco termina la sua ultima rotazione nello stereo. "The Magic Of Nature" è un disco che saprà toccare corde profondissime e saprà pennellare scenari che rimarranno indelebili nella vostra mente: non aspettatevi niente di complesso nè tantomeno di elaborato, aspettatevi solo un'ambientazione magica che vi farà sognare ad occhi aperti. 

La semplicità, in questo caso, ha vinto.

01 - V Snegakh (In The Snow) (5:42)
02 - Volshebstvo Prirody (The Magic Of Nature) (7:27)
03 - Siyanie Zvyozd (Shining Star) (6:04)
04 - Priroda Zastyla Vo Sne (The Nature Stuck In A Dream) (4:54)
05 - Poslednyaya Zimnyaya Noch' (Last Winter's Night) (7:18)
06 - Priblizhenie Vesny (The Coming Of Spring) (9:25)
07 - Kogda Vnov' Nachnyotsya Dozhd' (When The Rain Starts Again) (5:33)
08 - Holod V Dushe (Cold In The Soul) (6:06)

lunedì 4 febbraio 2013

The Ocean - "Heliocentric"

Metal Blade Records, 2010
Come tutte le cose che sovvertono un ordine precostituito e dogmatico, l'eliocentrismo non ebbe vita facile nel momento in cui venne teorizzato per la prima volta da Aristarco di Samo, nel II secolo dopo Cristo. L'ormai vetusto sistema tolemaico, cioè geocentrico, ai tempi era creduto così infallibile che ci vollero quasi tre secoli prima che l'errata convinzione fosse soppiantata dalla dimostrazione operata da Niccolò Copernico. Come tutte le teorie rivoluzionarie, essa ebbe un impatto certamente sconvolgente, ma incredibilmente affascinante per quei pochi che non si lasciavano irretire da una mentalità ottusa e incapace di aprirsi alle infinite possibilità offerte dal metodo scientifico; potrei dire che, in misura molto minore, anche questo "Heliocentric" del supergruppo tedesco The Ocean sia un disco candidato ad essere incompreso, ma solo da chi non ha il fegato di osare un po' più oltre della punta del suo naso. Non fatevi ingannare dal fatto che questo disco esce per la conosciutissima Metal Blade; stiamo parlando di tanta roba, veramente tanta roba, una vera e propria abbuffata di musica di qualità impressionante.

La custodia del disco è a forma di astrolabio, sulla parte superiore è fissato un disco rotante trasparente con incise le sagome dei pianeti, il booklet interno è una raffigurazione di tutte le costellazioni con i relativi nomi, i testi sono stampati in nove piccole immaginette cartonate che sembrano dei santini; basterebbe questo per capire che "Heliocentric" è un lavoro speciale, curato in ogni suo dettaglio con una precisione assoluta, e molto ambizioso e originale nei suoi intenti. Ambizioso, perchè la sua musica e soprattutto i suoi testi vogliono essere un viaggio alla scoperta di un intero mondo di evoluzione scientifica e di domande irrisolte; originale, perchè a livello musicale incorpora così tante influenze diverse da trascendere qualsiasi classificazione per generi. Sono lontanissimi i The Ocean che conoscevamo, sia quelli epici e rocciosi di "FluXion", sia quelli aggressivi e distruttori di "Aeolian", sia quelli raffinatamente progressivi (ma sempre e comunque estremi) del precedente capolavoro "Precambrian". Al contrario, "Heliocentric" sembra essere stato concepito come disco più leggero, più semplice, addirittura più orecchiabile: la voce pulita è molto più consistente che in passato e acquista un ruolo primario, il growl puntella i momenti più roboanti con saggezza ma senza esagerare nè in presenza nè in asprezza, la fragorosa cornice chitarristica si attenua in favore di brani spesso rilassati e delicati. Eppure, non potremmo trovarci di fronte ad un disco più intenso e verace di questo, nonostante il suo apparente ammorbidimento: "Heliocentric" è forse l'esempio più perfetto in assoluto per dimostrare come una musica dai canoni semplici possa essere trasformata in un qualcosa di eccezionale spessore, senza per contro scadere nel cervellotico.

La base è un progressive metal variegato e intelligente, che come dicevo prima, è assolutamente impossibile da racchiudere in un solo binario. In realtà, non basterebbero decine di binari per contare tutte le influenze che i The Ocean mettono in soli cinquanta minuti: basta ascoltare le pesanti chitarre post - sludge di "Firmament" accoppiarsi con la lenta ballad (!) "Ptolemy Was Wrong", talmente vicina agli ultimi Anathema da risultare letteralmente stucchevole per qualsiasi persona che abbia tremato sulle vulcaniche note di "FluXion" o "Aeolian". Oppure basta ascoltare "Metaphysics Of The Hangman", dal retrogusto di rock americano anni 60, e subito dopo "Catharsis Of A Heretic", quasi un pezzo da downtown vissuta in una serata di perdizione e gioco d'azzardo; se messe a confronto con l'intensa inquietudine dell'accoppiata finale "The Origin Of Species / The Origin Of God", il disorientamento è inevitabile. Ma i The Ocean, grazie alla loro ormai affermata esperienza e alla loro natura di gruppo "aperto", dove decine di musicisti contribuiscono liberamente al risultato finale, non hanno paura di muoversi sulle lunghe distanze, suonando una musica che ha come unico scopo quello dell'espressione, e che utilizza lo stile solo come mezzo, non come fine. Ecco la genialità di "Heliocentric": in esso convivono melodie irresistibili, ruggenti esplosioni di livore, fantastiche progressioni che lasciano con il fiato mozzo, orchestrazioni raffinatissime e sezioni di pura improvvisazione (basta ascoltare il traballante pianoforte poco oltre la metà di "The First Commandment Of The Luminaries", brano che se giudicato dopo i primi riff potrebbe sembrare niente più che thrash metal). Creatività assoluta che si sposa con un songwriting ispiratissimo, dinamico, dove i riff di chitarra sono i veri padroni e non dei meri accompagnamenti alla linea vocale; dove gli strumenti classici come tromboni, pianoforte e archi si incastrano con la ruvidezza delle chitarre come solo i The Ocean sanno fare.

Ma ancora qualcosa potrebbe non quadrare. Ci sono sì dei momenti meravigliosi, come il commovente break acustico di "Firmament" che viene poi seguito da un'esplosione vocale in pulito da brividi; ci sono brani irripetibili come "The Origin Of God", che con somma disperazione lancia nel vuoto la domanda che tiene in piedi tutto il disco:

"Who made your architect?
Who made your architect?
Where does he come from?
What is he made of?" 

Ma ancora qualcosa sfugge, non si capisce quale sia il senso di questo disco, non si capisce il perchè di tutte queste influenze diverse, così apparentemente slegate tra di loro. Cosa ci fanno i riff nervosi e sobillatori di "Swallowed By The Earth" e "The Origin Of Species" accanto a brani così spiccatamente sentimentali come la già citata "Ptolemy Was Wrong" o "Epiphany"? Cosa ci fanno le atmosfere da tavolo verde assieme agli atroci dubbi esistenziali dell'accoppiata finale delle due "The Origin Of ..." ? La risposta è nelle quattro righe che ho riportato sopra: bisogna leggere i testi. Bisogna mettersi lì, con calma, ascoltando la musica ad alto volume e leggendo contemporaneamente i nove santini, a mano a mano che i minuti scorrono: solo così si prenderà piena consapevolezza del perchè questo disco non segue apparentemente alcuna regola. Così come l'evoluzione, dalle prime ribollenti protostelle alle forme di vita più complesse e perfette, sembra essersi sviluppata senza un architetto che la progettasse, anche "Heliocentric" non si basa su nessuno schema preesistente. La sua perfezione strumentale, la sua carica emotiva devastante, la sua produzione perfetta e le sue geometrie raffinate creano un mondo meraviglioso, ma del quale non si conosce praticamente nulla, perchè non si può sapere da dove è venuto, nè la strana logica che pare averlo animato. Il pianeta Terra, per quanto meraviglioso e incredibile sia, rimane pur sempre un mistero: lo stesso mistero che si cela nei testi di "Heliocentric" e nella sua musica, il mistero di un mondo creato da un fantomatico Dio che per forza di cose doveva essere più complesso del mondo stesso, per riuscire a concepirlo. Ma allora chi ha creato quel Dio, se ogni struttura complessa necessita di un progettista? Una tale domanda a cosa potrà portare, se non al processo per eresia? Avremo fatto la cosa giusta a lasciare che il dubbio di un Dio cieco e casuale si insinuasse in noi?

"Heliocentric" rappresenta la vita nelle sue sfaccettature più minime, il meraviglioso ingranaggio dell'universo visto sotto tutti i punti di vista possibili. L'eccezionale profondità delle sue tematiche e la bellezza indiscutibile dei testi ne fanno un disco che non ha nessun senso se non viene ascoltato leggendo i medesimi. Sono consapevole di non riuscire ad esprimere al meglio ciò che vorrei dire su questo album, ma in questo caso non si può veramente far altro che ascoltare, capire e immedesimarsi, per poi uscirne con un nuovo sentimento nato dentro di noi, la devozione verso un album così completo e totalizzante. E mentre il tremendo finale orchestrale di "The Origin Of God" ci lascia completamente muti e attoniti, impotenti di fronte ad una tale dimostrazione di intensità, la lacerante domanda che risuona nei nostri cervelli è sempre la stessa...

"Who made your architect?
Who made your architect?
Where does he come from?
What is he made of?"


... accanto ad un atroce rivelazione che cresce come un cancro nella nostra mente:

"There is no alternative to the theory of evolution".

Semplicemente, un capolavoro.

01 - Shamayim (1:53)
02 - Firmament (7:29)
03 - The First Commandment Of The Luminaries (6:47)
04 - Ptolemy Was Wrong (6:28)
05 - Metaphysics Of The Hangman (5:41)
06 - Catharsis Of A Heretic (2:08)
07 - Swallowed By The Earth (4:59)
08 - Epiphany (3:21)
09 - The Origin Of Species (7:23)
10 - The Origin Of God (4:34)