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venerdì 18 ottobre 2013

Australasia - "Vertebra"

Immortal Frost Productions, 2013
Di solito, quando recensisco il disco di una band esordiente, chiudo la recensione augurando ai nuovi arrivati una carriera lunga e ricca di soddisfazioni, specialmente se tale disco mi aveva colpito per qualcosa di particolare che non avevo mai sentito prima d'ora. Spesso, di queste band poi si perde ogni traccia, e per alcune mi dispiace davvero; altre volte, invece, sono felice di poter recensire nuovamente la stessa band e di poter dire che essa sta proseguendo su una strada fertile e interessante. Stavolta tocca agli italiani Australasia: non molto tempo fa recensii il loro primo demo "Sin4tr4", di cui parlai bene, e adesso mi trovo a recensire il loro secondo lavoro "Vertebra" che conferma le mie aspettative e rilancia la band come promessa sempre più promettente (scusate il gioco di parole!).

Le coordinate sonore sono rimaste pressochè le stesse, l'unica differenza è che stavolta ci troviamo di fronte ad un full length in piena regola, e non più ad un breve extended play. Gli Australasia si muovono sempre su coordinate post rock, con qualche lievissima spruzzata di black metal, psichedelia pinkfloydiana e abbondanti dosi di melodia, che però non sottendono automaticamente a composizioni banali. Cocktail già sentito, direte voi: certo, ma rispetto al precedente dischetto la band è indubbiamente maturata molto ed è ora in grado di costruire brani più efficaci, incisivi, con melodie solari (ma nel complesso anche piuttosto malinconiche) che catturano al primo ascolto, mentre i raffinati arrangiamenti attendono gli ascolti successivi per emergere in tutta la loro bellezza. Stupisce la cura per i suoni e per le timbriche (alcuni sintetizzatori ricordano quasi il filone dance anni 90), la facilità con cui la band si muove tra generi diversi, il giusto posto che viene riservato ai non troppo frequenti momenti aggressivi, i richiami vagamente epici e tavolta perfino vagamente country, la buona evocatività delle composizioni in generale: il fatto che il disco sia in buona parte strumentale non costituisce una pecca, poiché il fiume strumentale è già di per sè sufficiente a trasmettere il senso della musica, e le polifoniche stratificazioni di voci femminili che compaiono ogni tanto nei brani non fanno altro che aggiungere quel tocco di varietà e classe che una band, per farsi notare sul serio, deve necessariamente avere. In sostanza, assistiamo ad un miglioramento generalizzato di tutte le già buone componenti che gli Australasia avevano dimostrato di possedere già nel loro debutto: non è poco, se ci pensate.

Le composizioni sono tutte piuttosto brevi, e talvolta capita che un pezzo ben avviato improvvisamente finisca, quando ci si sarebbe aspettati uno sviluppo ulteriore. Si tratta dell'unico, ma comunque abbastanza marginale, difetto che ho riscontrato in questo lavoro: per il resto, il disco regge bene anche nel corso di ripetuti ascolti e anzi continua a crescere, rivelando volta per volta un nuovo dettaglio, una nuova suggestione, un'atmosfera mutevole che si plasma a seconda del nostro stato d'animo. Lavorando ancora sulla compattezza e sull'organicità delle composizioni, sono sicuro che gli Australasia con il prossimo disco si affermeranno definitivamente nel panorama post rock italiano: la stoffa per emergere ce l'hanno, e la qualità di questo lavoro è innegabile. Non ci credete? Provateli, scommetto che non vi deluderanno.

01 - Aorta
02 - Vostok
03 - Zero
04 - Aura
05 - Antenna
06 - Volume
07 - Vertebra
08 - Apnea
09 - Deficit
10 - Cinema

venerdì 20 settembre 2013

Frozen Ocean - "A Perfect Solitude"

Wolfsgrimm Records, 2012
Un oceano congelato è un'immagine suggestiva: ricorda ad esempio l'affascinante natura di Europa, satellite gioviano che pare sia composto in gran parte di acqua e ghiaccio, come un gigantesco igloo che è ghiacciato esternamente per migliaia di chilometri, mentre internamente fonde per via della sua stessa pressione e si trasforma di nuovo nel liquido elemento. La band russa Frozen Ocean (che è giunta con questo lavoro al proprio quinto traguardo discografico), mischiando con discreta abilità un'attitudine gothic a delle sonorità che richiamano l'ambient e vagamente il drone, ci propone questo viaggio nell'oceano gelato riuscendo a creare atmosfere indubbiamente calzanti allo scopo che si propongono, peccando forse un po' di scontatezza in alcuni punti ma firmando comunque un lavoro assolutamente godibile e interessante.

La struttura del disco è abbastanza atipica, dato che alterna brani classicamente gothic metal come "Somewhere Clouds Debark" e "Unavailing Steps On Perpetual" a brani strumentali di sola atmosfera: in questo modo si crea una certa varietà che evita di appiattire il disco in un unico modus operandi, anche se gli unici brani cantati sono proprio i due citati prima, dunque si potrebbe considerare il disco come un album strumentale con qualche sporadico inserto di voce, piuttosto che il contrario. La doppia anima della band si manifesta quindi con alcuni brani arrembanti e potenti, in cui una profonda voce pulita maschile fa un po' da poeta maledetto, accompagnando una musica che ha una forte componente ipnotica e "viaggiante", come appunto le correnti interne del mare sepolto sotto il ghiaccio. Un riffing un po' ruffiano, ma efficace, permette subito di entrare nell'atmosfera onirica e glaciale del disco, introducendo perfettamente agli episodi più particolari che occupano rispettivamente la terza e la quarta posizione. La lunghissima "A Sunflower On The Prison Backyard", forse il brano complessivamente più riuscito del lotto, è curiosamente anche il più minimale e per certi versi spaventoso: un'atmosfera estremamente rarefatta e oscura predomina per i primi interminabili minuti, facendoci sentire sul fondo di un oceano dalle profondità inimmaginabili, per poi esplodere con un accordo di chitarra ripetuto fino allo sfinimento, sul quale una tastiera povera e stanca ricama degli sprazzi di melodia che hanno il compito di aumentare ancora di più l'ipnotismo della traccia, mentre solo nel finale una chitarra solista inquietante giunge a dare il suo ossessionante contributo. Un brano monotonale, monotono e sfiancante (la durata di oltre tredici minuti è emblematica), ma di sicuro effetto, se lo si ascolta nella giusta ottica: bisogna proprio immaginarsi l'immobilità di questa massa d'acqua ghiacciata e bloccata nella sua stasi da milioni di anni.

"Mare Imbrium" si muove sulle stesse coordinate, ma risulta molto meno opprimente, quasi sereno e appagante con le sue tastiere liquide e gentili, coadiuvate da rilassanti cori femminili che suggeriscono un'idea di pace e tranquillità. "Camomiles" è la terza strumentale consecutiva, fatta esclusivamente di suoni oltretombali che ci fanno ripiombare subito in un'atmosfera tesa e oscura; la parentesi comunque è breve, prima di ritornare sulla cresta dell'onda con la già citata "Unavailing Steps On Perpetual", che con il suo incedere possente e deciso spazza via tutta l'introspezione e la meditazione suggerita prima, riportandoci su terreni quasi da classifica. Chiude il disco la breve outro isolazionista "Cleavage And Emission", dove si riafferma la vena inquietante e sotterranea del gruppo, come per ricordarci che il disco non deve essere preso alla leggera, nonostante abbia dei momenti di apparente solarità e positività.

Concludendo, che dire di questo strano, frammentario e sicuramente personale album? Il materiale non è moltissimo e il songwriting non è forse così ispirato, ma sta di fatto che le tracce scorrono velocemente e si lasciano ascoltare con piacere, suggerendo scenari e pensieri senza scadere nell'eccessiva banalità. Si potrebbe un po' perdere la bussola durante l'ascolto, chiedendosi come mai la band non abbia voluto unire un po' meglio i due filoni che ha deciso di intraprendere con la sua musica, piuttosto che separarli nettamente, ma pazienza: se il vostro obiettivo è ascoltare della musica un po' diversa e non troppo impegnativa, le fredde propaggini di "A Perfect Solitude" sapranno prendervi e affascinarvi a sufficienza, facendovi per sentire soli e sperduti in mezzo a questa immensità glaciale e insondabile: una solitudine perfetta, appunto.

01 - Broken Window (1:30)
02 - Somewhere Clouds Debark (6:40)
03 - A Sunflower On The Prison Backyard (13:15)
04 - Mare Imbrium (7:31)
05 - Camomiles (3:42)
06 - Unavailing Steps On Perpetual (5:24)
07 - Cleavage And Emission (5:00)

lunedì 26 agosto 2013

rEarth - "For My Dreams I Fall"

Autoprodotto, 2013
Talvolta, la ricerca di nuove scoperte musicali passa attraverso territori improbabili: si scovano incredibili sorprese tra le band più sconosciute dell'universo underground finlandese, o russo, o cileno, o di qualsiasi altra nazione stramba che si possa immaginare. Quanto più la provenienza di tali band è inconsueta e lontana, tanto più il prodotto viene accolto con entusiasmo, anche perchè spesso si scoprono orizzonti musicali dei quali mai si sarebbe sospettata l'esistenza. Fin qui è tutto abbastanza scontato, ma ciò che non è scontato è il fatto che a volte non serve andare tanto lontano per trovare delle vere e proprie band rivelazione: a volte arrivano da casa propria, l'ultimo posto da dove ci si sarebbe aspettati una sorpresa simile. Un ottimo esempio di ciò sono i rEarth, band udinese di cinque elementi che approda con questo "For My Dreams I Fall" al proprio primo traguardo discografico ufficiale, completamente autoprodotto così come fu fabbricato in proprio il loro primo demo, risalente a due anni addietro.

Immaginate i primi Pain Of Salvation, quelli che ancora suonavano con quella drammaticità e quella sensazione di pulsante disagio che traspariva da ogni singola nota; aggiungete loro una consistente venatura thrash metal, influenze derivanti dai migliori cantautori italiani e dalle loro poesie su note di chitarra acustica, e completate il quadro con l'uso pressoché costante di doppia voce (maschile e femminile) e con una composizione intricata e imprevedibile: riuscite a immaginare questo cocktail messo in musica? Perfetto, ma sappiate che ciò serve solo a farvi un'idea generale di come suonino i rEarth, perchè la loro musica è fin troppo complessa e variegata per essere descritta in poche parole. Potrebbe però essere sufficiente per incuriosirvi, così come mi sono incuriosito io quando ascoltai il loro demo "Pure And Simple", che qui compare riprodotto per intero e posizionato in coda al disco, non come mera appendice bensì come parte conclusiva e integrante del contesto. Il disco si sviluppa come un concept album che tratta temi difficili, spinosi: la guerra, la sofferenza, la condizione umana e le sue molteplici sfaccettature: i testi sono intrisi di parole forti, spesso urticanti, talvolta volgari, nessuno spazio viene lasciato alla piacevolezza fine a sé stessa.

Il disco si sviluppa in un'ora e un quarto di durata, mettendo tantissima carne al fuoco, con una tale ricerca di poliedricità e una quantità di materiale così vasta da lasciare inizialmente disorientati. Il potenziale di questo disco è impossibile da cogliere tutto al primo ascolto: la prima traccia "Pain For Loss (Pain No More)" sembra che l'avrebbe potuta suonare una qualsiasi band thrash metal, con l'unica differenza che per una volta canta anche in italiano e non solo in inglese (i testi sono in doppia lingua, alternati tra una e l'altra), ma questa congettura derivante da un primo ascolto superficiale si dimostra inadeguata. Dietro le ritmiche aggressive, i suoni secchi e la voce graffiante, infatti, si nasconde un intero mondo di ricerca compositiva, melodica e tecnica da far impressione, se si considera la giovane età della band. Sbalorditiva è la capacità tecnica dei musicisti coinvolti, con le chitarre di Fabio Tomasino e Edy Di Lenardo che si danno battaglia senza esclusione di colpi, rotolando furiosamente su sè stesse e una attorno all'altra, mentre la sezione ritmica a cura del bassista Denis Baselli e del batterista Giulio Cervi gioca su controtempi spezzati e continui stop and go che definire esaltanti è dire poco. Ma la vera particolarità è data dalla voce di Simone Paoloni, che pare dotato di quattro o cinque voci diverse, da usare a seconda dei contesti. Con il proseguire del disco, sia gli strumenti sia la voce si lasciano infatti andare a mille sfumature diverse, esplorando lidi progressive e suggestioni jazz - rock, pestando duro con riff assassini e ritmiche violente per poi lanciarsi in lunghe soffusioni acustiche che tavolta paiono accompagnare una recitazione (in questo si sente moltissimo l'influenza di musicisti come De Andrè): come se la musica fosse l'accompagnamento di una vera e propria storia da raccontare, diversamente da ciò che succede di solito, con i testi che vengono considerati come un abbellimento della musica. I brani sono spaventosamente complessi, sempre in cambiamento: quasi mai si assiste a un ritornello o ad una struttura facilmente inquadrabile, la fantasia della composizione è a livelli imbarazzanti (in senso positivo!) e l'ascolto assomiglia più a una complessa esperienza di scoperta, più che alla semplice fruizione di belle melodie e fraseggi appassionati. La voce di Paoloni sa interpretare gli stati d'animo più disparati, come si evince già dalla successiva "Withered Rose", più tranquilla e melodiosa, con una voce che diventa quasi melliflua, prima di esplodere di nuovo in una rabbia cavernosa che poi lascia nuovamente posto ad una tensione espressa sottovoce, ma palpabile. Quasi impossibile stare dietro a tutte le evoluzioni che si contano in questi sette minuti. Il vero capolavoro arriva poi con "Senz'Alba", monumentale composizione di dodici minuti che esplora le emozioni umane nel modo più onnicomprensivo possibile. Assieme alla leggiadra voce di Sara Rainone, capace di sottolineare i momenti più dolci e lacrimevoli con una naturalezza spettacolare, l'interpretazione che Paoloni riesce a dare di questo lungo e drammatico brano è incredibile, un manifesto di quanto possa essere complesso l'animo dell'uomo e sopratutto di come possa essere vasto il dolore che un uomo possa provare (da brividi il verso clou: "Ricordati che nel mio giardino è morto un bambino"). Anche solo a livello tecnico / timbrico, si tratta di una delle voci più particolari e mutevoli che io abbia mai sentito, non a caso paragonabile all'ecletticità di Daniel Gildenlow, leader dei Pain Of Salvation. Ma lungi da me il pensare che i rEarth scimmiottino la band svedese: sarebbe un'eresia sostenere una cosa del genere. Se c'è una cosa che non manca ai rEarth, questa è di sicuro la personalità e l'originalità.

Nel proseguire del disco, centinaia di mood e di passaggi musicali di sapori diversi inondano la scena senza mai essere fuori posto, regalando momenti di emozionalità pura così come di pensosa riflessione, così come di rabbia incontenibile e di amarezza per la vita. "Ivory Onion" giunge a donare un po' di pace con i suoi due minuti e mezzo di chitarra acustica dal fortissimo sapore folk: un intermezzo che pare raccontare le antiche storie dei nostri nonni, raccontate davanti al fuoco durante le gelide serate di dicembre. Inizia allo stesso modo "My Eyes Far From The Sea", dove però si rifanno sentire le influenze thrash, con la voce di Paoloni che si ingrossa e si arrabbia sempre più fino a sfiorare addirittura il growl, e che si perde poi nuovamente in cascate di note acustiche dal piglio apparentemente scherzoso. Altri titoli evocativi come "Madre Del Fato", "Breath, The End..." e "The Ideology Of God" nascondono altre incalcolabili successioni di stati d'animo e di trame strumentali che non riesco nemmeno a definire, tanto sono inclassificabili nelle loro evoluzioni. Virtuosismo, mai fine a sè stesso, virtuosismo nel vero senso della parola: tecnica e ricerca della complessità al servizio della musica e dei sentimenti. Questa è la musica dei rEarth, un eccezionale risultato di genialità e ispirazione, un disco che si potrebbe ascoltare per vent'anni senza riuscire a capirlo, ma non per inadeguatezza del disco, quanto per inadeguatezza dell'ascoltatore. Sono consapevole che questa descrizione potrà apparire un po' forzata e pomposa, ma se non mi credete, potrete sempre tuffarvi nel mondo dei rEarth e scoprire che non ho esagerato per nulla nelle mie affermazioni. Il fatto che sia stato concepito da menti italiane è un ulteriore plauso, perchè per troppo tempo la musica italiana (e in particolare il metal italiano) è stato ingiustamente vituperato e irriso. Mi chiedo se la band stessa sia consapevole del fatto di aver partorito un vero capolavoro.

Il disco si conclude con la riproposizione della lunga suite "Pure And Simple", divisa in cinque parti e dedicata al tema della crescita personale: è il momento che continuo a ritenere come il migliore del disco, e non solo perché è l'unico che conoscevo già. In questi ultimi venti minuti si condensa tutto il meglio dei rEarth, tutta la bellezza che sono in grado di scrivere sul pentagramma come se fosse la cosa più naturale del mondo, tutta la passione che mettono nella musica e negli strumenti. Ma mi trovo davvero in difficoltà con le parole, non so più da che parte iniziare a descrivere la musica, quindi getto le armi: ho parlato abbastanza. Se vorrete acquistare "For My Dreams And Fall", sappiate che vi attende un'esperienza musicale meravigliosa, senza precedenti. C'è un'intera vita, qui dentro: chi vuole viverla, si procuri questo album senza ulteriori indugi!

01 - Pain For Loss (Pain No More) (2:53)
02 - Withered Rose (7:13)
03 - Senz'Alba (12:00)
04 - Ivory Onion I (2:36)
05 - My Eyes Far From The Sea (9:01)
06 - Madre Del Fato (10:34)
07 - Breath, The End... (3:15)
08 - The Ideology Of God (3:39)
09 - Pure And Simple - Theme I - No Longer A Child (4:31)
10 - Pure And Simple - Theme II - To My Faded Innocence (8:12)
11 - Pure And Simple - Theme III - In The Shadow, In The Sand, You Can See The Man (3:04)
12 - Pure And Simple - Theme IV - Become Man, Becoming Death (2:41)
13 - Pure And Simple - Theme V - Here She Comes, Pure And Simple (2:39)

domenica 28 luglio 2013

A.V. - "Whom The Moon A Nightsong Sings"

Prophecy Productions, 2010
Tempo fa recensii una compilation a dir poco meravigliosa, che raccoglieva ben venticinque brani di altrettanti artisti, tutti diversi fra loro, ma tutti accomunati da un'unica caratteristica: il voler trasporre in musica le emozioni suscitate dal dipinto di Caspar David Friedrich, il celebre "Viandante sul mare di nebbia". Lo spirito panteistico, così recitava il retro del CD, che giace in ognuno di noi era stato espresso con della musica che andava dal crudo metal al folk più struggente e soffuso, raggiungendo un risultato di armonia e bellezza che lasciò a bocca aperta più di una persona; ora ho trovato il corrispettivo di quella compilation, un bis forse ancora più bello, uscito più o meno nello stesso periodo. "Whom The Moon A Nightsong Sings" esplora però temi più romantici, più legati alla notte e al romanticismo del suo trascorrere, all'elemento naturale esplorato nella sua intimità, all'introspezione pura. Anche se molte band sono le stesse che avevano contribuito alla precedente uscita, musicalmente questo doppio album è più orientato al neofolk e ai brani acustici, con pochissimo spazio lasciato alla componente metal: non si trova infatti quasi per nulla il growl, nè la chitarra distorta, se non in alcuni sporadici momenti. Mettiamo il primo di questi due dischi nello stereo e schiacciamo play: comincerà un'odissea che non potrà lasciarvi indifferenti, questo ve lo garantisco.

Non vorrei fare un track - by - track di un doppio album che conta ventuno canzoni, rischierei di dare troppo peso ad alcune band e composizioni a scapito di altre, oppure di diventare noioso nelle mie prolisse descrizioni, le quali spesso smorzano le emozioni in quanto rivelano troppe cose rispetto a quelle che è necessario sapere. Posso solo dire che dalle prime, toccanti note acustiche di "Hoestmelankoli", ad opera dei Vàli, fino all'ultima vibrante e oscura odissea di "How Fare The Gods?" dei Syven, la dominante di colore è appunto l'emozione, espressa con brani spesso molto semplici e brevi, piccole ma significative cascate di note di chitarra acustica talvolta accompagnate da archi, talvolta guidate da voci calde e avvolgenti che paiono quasi recitare delle filastrocche, oppure al contrario delle malinconiche odi alla bellezza che se ne va. Una corsa in mezzo al prato con un sole meraviglioso, un ruscelletto di montagna che scorre impetuoso, un insetto che si posa su una foglia e provvede alla sua pulizia per poi ripartire in cerca di qualche altro fiorellino colorato; queste immagini mentali potrebbero facilmente affiorare ascoltando la stupenda progressione dei brani, che riescono a sublimare ciascuno un'atmosfera, un'ambientazione, basando la propria forza unicamente su melodie che entrano dritte nel cuore come delle lame affilatissime e sottili. Per controbilanciare l'amenità degli episodi più solari, ogni tanto fa capolino anche qualche puntatina nell'oscurità e nell'ombra, nella riflessività pensierosa e nella mestizia incurabile; tutta quella che può essere la gamma dei sentimenti umani è qui rappresentata in una tavolozza di colori estremamente ampia e ricca di sfumature.

La maggior parte delle band erano a me sconosciute fino a quando non ho preso in mano questo doppio CD, ma c'è da dire che compaiono molti nomi altisonanti: Tenhi, Ulver, Nest, Empyrium, October Falls, Les Discrets ... marchi di qualità affiancati ad artisti praticamente sconosciuti ma non certo meno validi. Chi ha scelto le band e i brani ha avuto un gusto sopraffino e non ha lasciato nulla al caso, riuscendo a mantenere comunque una buona omogeneità all'interno del disco, evitando la noia così come l'effetto collage, da sempre fastidiosissima bestia nera delle compilation. Non posso resistere, devo citare qualcuno in particolare ... quel minuto e mezzo di cavalcata dei Les Discrets con "5, Montée Des Épies", gli spettacolari saliscendi dinamici di chitarra e violino dei Dornenreich in "Dem Wind Geboren", la drammaticità di "Synen" ad opera dei sempreverdi Ulver, e la già citata conclusione di quattordici minuti affidata alla rivelazione Syven, unico brano dove compare un sussurrato growl e una voce pulita solenne che per certi versi ricorda addirittura gli Ahab ... una chiusura maestosa e imponente, da annali della musica. Ma basta, non voglio più aggiungere dettagli, rimando a voi la scoperta di questo autentico gioiello musicale che cela una sorpresa ad ogni nuovo brano, che sembra assolutamente privo di punti deboli, che mi strappo i capelli al pensiero che probabilmente rimarrà sconosciuto e quasi dimenticato, in mezzo a un mare di produzioni mediocri che invece hanno molto più risalto. Io ho fatto la mia piccola parte per convincervi a fare vostra questa mirabile compilation, adesso sta a voi ...

CD 1 

01 - Vàli - Hoestmelankoli (1:29)
02 - Empyrium - The Days Before The Fall (5:38)
03 - Nest - Summer Storm (Acoustic Version) (5:22)
04 - Nebelung - Ich Würd es Hören (4:39)
05 - October Falls - Viima (3:51)
06 - Ainulindalë - A Year Of Silence (4:49)
07 - Les Discrets - 5, Montée Des Épies (1:48)
08 - Les Discrets - Après L'Ombre (4:30)
09 - Musk Ox - Solstice (4:47)
10 - Havnatt - Dagen Og Natta (6:59)
11 - Dornenreich - Dem Wind Geboren (4:31)
12 - Vàli - Haredans I Fjellheimen (1:10)

CD 2 

01 - Nhor - Upon The Wind Its Wings Beat Sorrow Into The Stars (3:50)
02 - Ulver - Synen (5:05)
03 - Neun Welten - Pan (8:33)
04 - Tenhi - Kausienranta (5:56)
05 - Bauda - Ocaso (Acoustic Version) (3:48)
06 - Orplid - Stille (Demo) (4:34)
07 - Nucleus Torn - Torn - Krähenkönigin III" (5:24)
08 - Lonndom - Språnget Ur Ursprunget (3:30)
09 - Syven - How Fare The Gods? (14:10)

domenica 16 giugno 2013

Blood Of The Black Owl - "A Banishing Ritual"

Bindrune Recordings, 2010
Siamo in Nord America, in territorio pellerossa. Una fitta nebbia di fumo e trucioli ardenti sale dal falò che illumina la notte, scoppiettando come un calderone demoniaco. Un'anima nera si è impossessata di un uomo, è giunta l'ora di iniziare il rituale per bandirlo dal suo corpo, per purificarlo dal Male. Lentamente il fumo invade l'aria, le forme da esso create turbinano intersecandosi l'una nell'altra, i demoni si nascondono tra esse sbeffeggiando gli esseri umani. Un ossessivo pizzicare di corde che piano piano cresce d'intensità, un mormorio di fondo che rappresenta l'inespressa voce del demonio; per minuti e minuti ha inizio la fase preparatoria, l'Intento, che trova il suo compimento con l'entrata della batteria e delle percussioni, quasi foriere di un'allucinata danza shuffle. Maracas e piatti scandiscono il ritmo, ancora nessun vero strumento è giunto a produrre una singola melodia, ma ecco che compare un flauto tribale, seguito da un primo canto sciamanico recitato a bassa voce, come un lamento. L'Intento è completato, è giunto il momento dell'Asserzione di Volontà.

Un pastoso riff di chitarra distorta di stampo Black si accompagna ad un lento ritmo Doom, sconfinando nell'opprimente lentezza del Funeral Doom, fino ad un fluttuante stacco atmosferico dove predominano suoni prolungati di corni, mentre in fondo al calderone una voce gracchia incantesimi ormai dimenticati e conosciuti solo ai vecchi saggi. Una melodia di chitarra dal sapore quasi sereno ci fa percorrere un temporaneo sentiero di beatitudine, affiancandosi alla rugosità della chitarra ritmica che in questo caso non graffia più; la Volontà di liberare l'uomo posseduto si mostra nella sua positività, e inizia ora la parte più difficile: la lotta tra bene e male, per convincere lo spirito maligno ad albergare nel corpo di un cinghiale, per poi gettarsi a precipizio in acqua. Il Canto dello Spirito Catturato mostra la sofferenza che lega l'esorcista al demonio, uno teso a cacciare l'altro in una danza strumentale che mantiene sempre lo stesso ritmo e gioca su una melodia stridula e fischiante, quasi insopportabile nella sua ossessività. Un sottofondo di suoni strappati, laceri, di cori profusi dagli uomini seduti in cerchio attorno al fuoco nel tentativo di aiutare l'esorcista a compiere il suo difficile lavoro; e infine armonie dissonanti e malvage, che guardano direttamente in faccia il mostro, che si è nascosto nelle profondità dell'animo del posseduto. Con l'Espulsione Finale la scena si acquieta: il posseduto ha smesso di contorcersi, è caduto in uno stato di trance mistica, ha gli occhi completamente sbarrati. La sua anima è persa in un limbo, espresso alla perfezione da accordi di chitarra acustica radi e opachi, isolati in un mondo che non appartiene nè a quello dei vivi nè a quello dei morti. Per lunghissimi minuti si prosegue così, immobili nel tempo e nello spazio, tra voci eteree e quasi ragionevoli che duellano con i deboli ruggiti sotterranei del demone, il quale tenta di seppellirsi sempre più a fondo nella mente del dannato. Ma ecco che con un improvviso sforzo di volontà, l'esorcista spalanca le porte degli abissi e scova il mostro, rannicchiato e pronto a colpire: la lotta è feroce, all'ultimo sangue. Una pesantissima chitarra ritorna a dettare il tempo, una melodia spaventosamente ferale squarcia l'etere, un'arpa elettronica compone un substrato di terrore, e la batteria scandisce questo duello finale con incredibile partecipazione, crescendo sempre più in volume ed intensità. Il sordo ruggito del demonio si fa sempre più forte, le grida si fanno sempre più lamentose, un assolo di chitarra quasi malinconico si inserisce di soppiatto nella trama strumentale per aumentare la tensione; mentre le percussioni raggiungono lentamente il parossismo, la voce del posseduto si libra sempre più forte, sovrastando gli strumenti e le grida infernali, rimanendo infine a duellare solo con queste ultime. Un ultimo grido, questa volta solitario, si spegne nel nero della notte; il demone è cacciato, il rituale è compiuto.

Un disco da avere.

01 - Intent (Movement I) (13:12)
02 - The Statement Of Will (Movement II) (3:52)
03 - Chant Of The Captured Spirit (Movement III) (11:10)
04 - The Final Banishing (Movement IV) (13:10)

sabato 15 giugno 2013

Summoning - "Old Mornings Dawn"

Napalm Records, 2013
Sono passati ben sette anni da quando i Summoning pubblicarono il loro ultimo album, l'acclamato ed epico "Oath Bound" che venne presto considerato come uno dei massimi picchi artistici della band. Poi, più nulla: sembrava quasi che per il duo austriaco fosse arrivata l'ora di sparire dalle scene, forti di un sound ormai talmente consolidato da risultare quasi immodificabile, e di una discografia prolifica e di livello qualitativo sempre alto. Avrebbero potuto chiudere la loro parabola artistica senza rimorsi nè rimpianti, e il lungo periodo di silenzio lasciava sempre più dubbi sul fatto che prima o poi sarebbero effettivamente tornati: e invece eccoli qui, con un nuovo lavoro intitolato "Old Mornings Dawn", prodotto anche in edizione limitata a mille copie e contenente due tracce inedite in più. Il disco è nato già pronto per essere eviscerato e analizzato con particolare attenzione dai fan e dalla critica: la domanda non può essere che "sarà la stessa minestra riscaldata, oppure un inaspettato punto di svolta?"

Dopo averlo ascoltato bene, direi che propendo di più verso la prima ipotesi, ma con qualche riserva. "Old Mornings Dawn" si presenta infatti come il classico, classicissimo disco dei Summoning, un black metal epico e melodico, dai ritmi cadenzati e maestosi, ricolmo di tastiere ed effetti, capace di evocare alla perfezione le atmosfere descritte dai capolavori di Tolkien (scrittore al quale il gruppo si è sempre ispirato per la creazione della propria musica, e dal quale provengono anche buona parte dei testi). Rispetto agli ultimi lavori della band, anche se risalgono a molto tempo addietro, non è cambiato praticamente nulla: i più critici diranno, e a ragione, "sette anni di attesa per avere un disco uguale a tutti gli altri!". Certo, è vero che i Summoning non hanno mai fatto dell'evoluzione e della sperimentazione le loro principali bandiere: il loro manifesto ideologico è invece la coerenza, e i fan sanno bene che questo è ciò che possono aspettarsi da loro, nulla più e nulla meno. Con la parziale eccezione del primo album "Lugburz", ancora improntato al black metal diretto e scarno, e del breve extended play "Lost Tales" che aboliva le chitarre e le sostituiva unicamente con le tastiere, si può tranquillamente dire che i dischi dei Summoning sono tutti equivalenti, con variazioni non particolarmente significative tra uno e l'altro.

Clone senza idee, quindi, da bocciare senza appello? No, questo no. "Old Mornings Dawn", infatti, oltre ad essere un disco che ancora una volta fa sognare con la potenza delle sue atmosfere e delle sue evocative melodie, e che quindi sarebbe già un bel disco di per sè, mostra anche qualche minimo segno di cambiamento, qualche timida apertura verso sonorità diverse, qualche elemento di novità che lo distingue, seppur in minima parte, dai suoi predecessori. Si possono segnalare per esempio i respiri celtici di "Caradhras", nella quale compare un violino introduttivo che rappresenta una novità per la band; si fanno notare i cori di voci pulite, che acquistano uno spazio leggermente maggiore e che non vengono usati solamente per sottolineare la drammaticità del brano di chiusura, come accadeva nei precedenti lavori; inoltre, la vera star del disco è a mio parere la produzione. Più grezza, più sporca, più ruvida e approssimativa, con suoni di batteria più secchi e chitarre più abrasive (ascoltate per esempio il riffing di "The White Tower") rappresenta un'inversione di tendenza rispetto alla raffinatezza di "Oath Bound" e anche di "Let Mortal Heroes Sing Your Fame", preferendo invece un sound crudo e rugoso che esalta il sapore antico e leggendario delle composizioni dei Summoning. Con questi piccoli elementi in più, sommati alla consueta classe e maestria del duo austriaco, ecco che un nuovo disco è ampiamente giustificato ed è più difficile da considerare come un semplice disco fotocopia. Con questo non voglio dire che in "Old Mornings Dawn" si trovi materiale imperdibile, nè tantomeno innovativo: semplicemente, è un disco che potrà piacere sia ai fan storici (che sono sempre contenti di avere del nuovo materiale da parte della loro band preferita), sia a chi si avvicina per la prima volta a loro, essendo che comunque la coerenza stilistica è mantenuta e non ci sono stravolgimenti che possano ingannare un neofita.

Chi ama farsi avvolgere dall'epos e dalla pomposità, lasciando che la musica pennelli liberamente paesaggi fantastici e viaggi interminabili attraverso terre mitiche, troverà un buon motivo per acquistare "Old Mornings Dawn", passando sopra al fatto che i Summoning avrebbero potuto anche impegnarsi un po' di più, considerato tutto il tempo che hanno avuto a disposizione. Ma ormai ci siamo affezionati a loro per quello che sono, perché chiedergli di cambiare? Squadra che vince non si cambia, anche se la vittoria a volte può essere un pelo ripetitiva. Questo i Summoning l'hanno capito bene, non c'è dubbio.

01 - Evernight (2:49)
02 - Flammifer (7:08)
03 - Old Mornings Dawn (9:30)
04 - The White Tower (9:36)
05 - Caradhras (9:32)
06 - Of Pale White Morns And Darkened Eyes (8:22)
07 - The Wandering Fire (8:02)
08 - Earthshine (9:33)

mercoledì 12 giugno 2013

Abstract Spirit - "Theomorphic Defectiveness"

Solitude Productions, 2013
Continua la carriera dei russi Abstract Spirit, uno dei gruppi più catacombali ed asfissianti che siano mai stati partoriti da mente umana, se non probabilmente il più estremo in questa categoria. "Theomorphic Defectiveness" è il loro quarto album in studio, ed è l'album della conferma, la dimostrazione di tutti quelli che sono i pregi e i difetti della band: dopo averlo ascoltato, infatti, sono sicuro di poter dire che la band ha raggiunto un proprio plateau artistico dal quale ormai difficilmente potrà staccarsi in modo significativo. Chi li apprezza così come sono, ne rimarrà soddisfatto come in passato, ma chi sperava in una qualche evoluzione della band così da poterla approfondire meglio in futuro, rimarrà un po' deluso.

Questo nuovo album del terzetto russo è un altro opprimente e macabro viaggio nelle profondità viscerali dell'inferno, un viaggio espresso da un funeral doom dalle forti tinte horror e dalle soluzioni stilistiche estremizzate. Tutto è rimasto più o meno come sempre, proseguendo la linea comune che ha caratterizzato i tre album precedenti: voce growl profonda e rauca che proviene direttamente da una fossa di dannati, batteria quadrata e possente, orchestrazioni decadenti e malate ad opera di pianoforte, archi e tromboni, accordi di chitarra giganteschi e pesantissimi che schiacciano l'anima e i sensi sotto un peso di tonnellate ... insomma, tutto ciò che si chiederebbe ad un disco che vuole trasporre in musica l'orrore e il marciume più puro, quella feralità estrema che mette i brividi. Il difetto più grosso degli Abstract Spirit, però, è rimasto tale e quale: l'incapacità di costruire brani realmente interessanti, brani che abbiano alle spalle un songwriting ispirato e uno sviluppo interno che si possa perlomeno definire minimo. Per quanto la compattezza e la produzione sonora siano assolutamente eccellenti, anzi addirittura superiori a quelli della maggior parte delle band funeral doom in circolazione, è nella pura sostanza che gli Abstract Spirit sono sempre stati, e sono tuttora, debolucci. Dietro la confezione di grande impatto, infatti, la musica assume un carattere piuttosto prevedibile e scontato, si mostra estremamente statica e poco coinvolgente sulla lunga distanza, e questo è un difetto non da poco considerato che tutti i dischi degli Abstract Spirit superano abbondantemente l'ora di durata. "Theomorphic Defectiveness" cerca in qualche modo di introdurre innovazioni nello stile della band, come una dinamicità leggermente più accentuata nello sviluppo interno di alcuni brani, o una varietà leggermente maggiore nel riffing, o un minimo alleggerimento delle atmosfere, o l'inserimento di saltuarie linee vocali corali (unico elemento veramente inedito), che riescono a creare un'atmosfera a tratti intrigante; tuttavia, nonostante questi piccoli e apprezzabili impreziosimenti, trovare differenze sostanziali rispetto a un "Tragedy And Weeds" o a un "Horror Vacui" è difficile, se consideriamo il contesto generale: mancano sempre le idee vere, quelle geniali intuizioni che fanno la differenza, quelle progressioni mozzafiato che gruppi come Esoteric e Ahab masticano con scioltezza. Manca una direzione alla musica, sostanzialmente.

Sulla base di questo, sostengo quindi che "Theomorphic Defectiveness" sia un disco che mostra tutti i limiti artistici della band, limiti che molto difficilmente potranno essere valicati in futuro. Se al quarto disco una band suona ancora quasi uguale a ciò che suonava non solo nel primo, ma anche nel secondo e nel terzo, può significare due cose: o la band ha deciso di fare della coerenza il suo manifesto ideologico, oppure la band è effettivamente incapace di andare oltre. Per quanto io rispetti gli Abstract Spirit, in quanto la potenza delle loro atmosfere e della loro maniacale dedizione all'oscurità è indubbiamente notevole, devo però includerli nella seconda categoria. La loro musica è buona, di sicuro impatto ed effetto, e questo emerge anche dalla loro odierna fatica discografica; ma per quanto si possano sforzare, tale musica non raggiungerà mai i livelli di eccellenza e di longevità di cui gode la musica di altre band, come per esempio gli Skepticism. La cover di "March October" posta in chiusura è infatti una perfetta dimostrazione di come dovrebbero suonare gli Abstract Spirit, facendo leva sulla loro attitudine e sui devastanti mezzi tecnici messi a loro disposizione, per essere definiti davvero ispirati. Confrontate lo storico brano degli Skepticism con tutti gli altri brani di "Theomorphic Defectiveness": la differenza vi apparirà lampante, e non stupitevi se considererete questa cover come l'episodio migliore di tutto l'album.

A mio parere, gli Abstract Spirit stanno rapidamente raggiungendo il limite oltre il quale ad una band non viene più perdonata la carenza di idee nuove: adesso sta a loro dimostrare che sono capaci di osare anche oltre, in caso contrario si perderanno progressivamente nel nulla, rimanendo uno tra i tanti gruppi funeral doom che negli ultimi anni hanno affollato la scena musicale. "Theomorphic Defectiveness", comunque, non è affatto un disco da buttare: semplicemente, non aggiunge pressoché nulla di nuovo a quanto è già stato detto dalla band, la quale a sua volta non aggiungeva pressoché nulla di nuovo a quanto era già stato detto da altri. Rimane quindi un prodotto per soli doomsters sfegatati, di quelli che apprezzano qualsiasi cosa che viaggi su ritmi da carenza d'ossigeno e che suoni accordi il più ribassati e funerei possibile. Perchè in questo, bisogna dirlo, gli Abstract Spirit non hanno davvero rivali: la loro terrificante musica saprà certamente ghermirvi e trascinarvi in un antro talmente buio che nessuna luce potrebbe mai raggiungerlo, nemmeno dopo milioni di anni di viaggio nelle profondità buie del cosmo ...

01 - Theomorphic Defectiveness (12:45)
02 - For The Hosts Of Colored Dreams (12:30)
03 - Leaden Dysthymia (5:52)
04 - Prism Of Muteness (10:29)
05 - Under Narcoleptic Delusions (11:17)
06 - March October (Skepticism cover) (11:42)

lunedì 10 giugno 2013

October Falls - "A Collapse Of Faith"

Debemur Morti Productions, 2010
Non sono un fan appassionato degli October Falls: la loro proposta musicale mi affascina e mi ascolto sempre volentieri i loro album, ma la loro musica soffre di alcuni difetti di fondo che mi impediscono di considerarla eccellente. Sappiamo che la band ha una doppia anima, che si è manifestata negli anni con due tendenze musicali precise: da una parte gli album totalmente acustici, dall'altra quelli elettrici e propriamente metal. I capitoli acustici, pur essendo indubbiamente piacevoli e ben costruiti, hanno il difetto di essere eccessivamente prolissi e statici, due difetti che ne riducono la longevità; i dischi elettrici, invece, hanno la stessa piacevolezza melodica e le stesse atmosfere boschive e naturalistiche, pregne di malinconia e di introspezione, ma a volte non sanno bene che direzione prendere, sembrano perdersi in inconcludenze. Tuttavia, a parte il deludente "The Womb Of Primordial Nature", i dischi venuti dopo sono abbastanza belli da meritarsi una recensione: oggi è il turno di "A Collapse Of Faith".

Terzo album in studio della band se escludiamo i numerosi extended play, il disco si presenta come un brano unico, suddiviso in tre parti per pura formalità, in quanto la separazione è del tutto ininfluente sul risultato musicale. Facile da inquadrare fin dal primo ascolto, si presenta con una musica che intreccia chitarre elettriche e acustiche in un black metal melodico debitore delle atmosfere naturalistiche degli Agalloch così come delle ruvide sonorità dei primi Ulver, senza dimenticare consistenti dosi di melodia che invece potrebbero essere fatte risalire agli Empyrium, come stile. Un collage di influenze che la band, stavolta, riesce ad amalgamare in un disco passionale, intensamente introspettivo e a tratti anche rabbioso, un disco che sbatte in faccia all'ascoltatore melodie appassionate e ritmi violentemente travolgenti, nei quali la batteria pesta con una rabbia carica di malinconia, più che di pulsioni distruttive fini a sè stesse. Basta ascoltare i primissimi minuti del disco per avere una chiara idea di cosa si troverà in questi quaranta minuti: un delicato arpeggio acustico introduttivo che lascia quasi subito il posto ad un assalto di batteria, condito da un'espressiva voce a metà tra il growl e lo scream, mentre le chitarre tessono trame molto semplici e dirette e pennellano temi trasudanti pura emozionalità, cosa che spesso va di pari passo con l'assoluta elementarietà delle armonie e dei giri melodici. Mentre il protagonista ci avvolge con il suo canto aspro ma ricolmo di nostalgia, che talvolta è controbilanciato da evocativi accompagnamenti corali, le melodie piano piano si evolvono, si aggiungono nuove trame alle precedenti, per poi tornare di nuovo a pause acustiche, a riprese dei temi precedenti, e così via, in un continuo andirivieni di linee melodiche che ha comunque un andamento tendenzialmente ciclico. Ripetitivo, forse, e anche un po' ridondante: i brani avrebbero potuto essere snelliti di qualche minuto, evitando di ritornare sui propri passi più volte, ma sta di fatto che ogni secondo di questa composizione è intriso di quel mood che ti lascia subito sulla pelle una sensazione forte, di quelle che non vanno via facilmente, una sensazione di dolorosa mancanza di qualcosa, di atroce sofferenza per la perdita di qualcosa di amato, di comunione con una natura che rappresenta l'ultimo baluardo in cui rifugiarsi per trovare un po' di pace esistenziale.

A mano a mano che i minuti proseguono, la triste storia di questo "crollo di una fede" prosegue sugli stessi toni, aggiungendo un po' di varietà melodica ma senza cambiare di una virgola la natura emotiva della propria proposta. Le chitarre seguitano a pennellare soffici arabeschi di melodie tristi e sconsolate, basso e batteria (specialmente la seconda) si impegnano a trasmettere con i loro colpi frenetici l'ineluttabilità di questa condizione dolorosa, che si dibatte per tentare di liberarsi ma senza successo; la voce del protagonista non conosce pace, e dall'inizio alla fine ci dilania l'anima con la sua inguaribile tristezza. "A Collapse Of Faith" è tutto qui, dal primo all'ultimo secondo non c'è altro. Tuttavia ha un'anima, quell'indefinibile entità che fa sì che il cuore batta più forte mentre ascolta certe note, mentre rimanga indifferente per altre note simili ma prive di tale elemento magico. Ecco perchè "A Collapse Of Faith" riceve il mio apprezzamento, al di là di tutti i suoi limiti tecnici e compositivi: lo apprezzo perchè ha saputo sublimare un'emozione, un insieme di sentimenti e stati d'animo reali, trasponendoli in musica con passione e onestà. Non c'è nulla di più che possano offrirvi gli October Falls: ma tanto vi basti.

01 - A Collapse Of Faith Part I (18:49)
02 - A Collapse Of Faith Part II (17:42)
03 - A Collapse Of Faith Part III (5:28)

venerdì 7 giugno 2013

Bluerose - "Darkness And Light"

AreaSonica Records, 2013
Avevo già avuto modo di conoscere la musica dei triestini Bluerose e di recensire il loro primo album, che nella sua semplice fattura rock mi aveva in qualche modo preso, nonostante la musica non aggiungesse nulla a tutto ciò che avevo già ascoltato nei miei acerbi anni di peregrinazioni all'interno del rock e dell'hard rock. Accolgo quindi con piacere l'invio di questo secondo album, "Darkness And Light", che mi trovo gentilmente recapitato a casa in un pacco postale, e che questa volta mi sorprende un po' di più grazie ad un suono che tende ad avvicinarsi maggiormente al metal, pur mantenendo inalterato l'impianto rock di fondo, l'orecchiabilità di ogni canzone e la facilità di ascolto che lo rende un piacevole diversivo quando la musica troppo complessa e articolata non riesce a fare breccia.

Otto brani, ben bilanciati tra irruenza e melodia, sono pronti per accompagnare un viaggio in automobile assieme ad amici, o per animare una festa dove non è escluso che qualcuno si metta anche ad improvvisare un ballo su queste note; la maggiore pesantezza chitarristica e ritmica rispetto all'esordio è un elemento che si fa sentire con discrezione, quasi come se non volesse tradire la natura comunque "leggera" dei Bluerose, cercando contemporaneamente di differenziare un po' il sound. Un ruolo fondamentale è svolto dalla voce di Riccardo Scaramelli, dotato di un timbro limpido ma anche leggermente graffiante, e di una tecnica comunque di tutto rispetto, evidenziata da poderosi acuti in crescendo e da interessanti sfumature espressive che compaiono qua e là tra i brani. Il resto è puro, semplice e sano rock / metal di presa immediata, a tratti leggermente oscuro quasi a richiamare certe produzioni dei Metallica, meno spiccatamente romantico rispetto al precedente "Fallen From Heaven" ma per la maggior parte del tempo abbastanza scanzonato e richiamante passioni elementari e genuine, così come dovrebbe fare ogni buon disco rock che si rispetti. Mi risulta difficile indicare un brano particolarmente significativo, vista l'omogeneità della proposta, così mi risulta difficile trovare un tratto che distingua i Bluerose da tutte le altre band che suonano questo genere: ciò non significa però che questo prodotto non contenga materiale valido, a cominciare dai turbinosi assoli di chitarra di Giuliano Soranno, difficili da seguire nella loro intricata matrice ma assolutamente godibili. Tutto è comunque ben costruito ed efficace, con quel pizzico di aggressività in più che mancava nel debutto e che qui pone una buona base per un'evoluzione futura del sound del gruppo. 

Se ancora qualcosa manca ai Bluerose è la capacità di farsi riconoscere subito per il fatto che sono loro, e non solo per il seppur apprezzabile fatto di essere una rock band interessante e capace; una volta che anche questo aspetto sarà stato affrontato e superato, potremo dire ancora una volta che l'Italia non smette di sfornare band interessanti, le quali non per forza devono essersi inventate un genere musicale per meritarsi gli ascolti da parte della gente. Una buona conferma, ora aspettiamo l'album della maturazione definitiva: per adesso godiamoci questa carrellata di elettricità carica di groove.

01 - Darkness And Light (4:40)
02 - Reloaded (4:04)
03 - Run (4:22)
04 - On My Way (3:54)
05 - I Know (3:51)
06 - Leaving You (4:00)
07 - Rock Your Soul! (4:46)
08 - The Land Of The Light (5:27)

giovedì 6 giugno 2013

The Ocean - "Pelagial"

Metal Blade Records, 2013
Da certe band puoi aspettarti solo il meglio. Sai che non ti deluderanno, che qualsiasi cosa suoneranno sarà sempre una botta al cuore e ai sensi: i The Ocean sono una di queste band, da sempre infallibili e sempre pronti a sfornare dischi di altissimo livello. Dopo una sequenza impressionante di dischi enormi come "Precambrian", "Heliocentric" e "Anthropocentric", ritornano questa volta con un disco che per la prima volta è coerente col nome che la superband tedesca si è affibbiata: "Pelagial", infatti, si propone di esplorare finalmente le insondabili profondità oceaniche, partendo dal pelo dell'acqua fino ad arrivare alle paurose fosse che toccano gli undicimila metri di profondità, dove giacciono segreti imperscrutabili e dove vivono creature al confine tra la realtà e l'immaginazione.

"Pelagial" si presenta con un artwork curatissimo e con un formato doppio CD, per un totale di quasi due ore di musica che può essere descritta in poche parole come la somma perfetta di tutte le migliori caratteristiche dei The Ocean, i quali ormai hanno raggiunto una maturità artistica e compositiva da capogiro. Il disco è molto progressivo e si sviluppa proprio come se fosse una lenta discesa verso i fondali oceanici, resa alla perfezione da un impianto evolutivo che privilegia inizialmente i brani più diretti e semplici, per poi intensificare e complicare la musica fino a renderla pesante, greve, lenta e opprimente come l'immenso peso della massa oceanica. L'impianto sonoro non si è modificato particolarmente rispetto ai precedenti album: siamo quindi di fronte ad una nuova tempesta di post - sludge metal, dalle chitarre abrasive ma calde, e scandita da una sezione ritmica semplicemente distruttiva, che mai come in questo caso svolge un lavoro assolutamente chirurgico e sopraffino, nonchè estremamente fantasioso e tecnico. Riffing in continuo mutamento come se fosse un intersecarsi di correnti sottomarine, voce che spazia dal growl al pulito simboleggiando le correnti fredde piuttosto che quelle calde, intuizioni melodiche geniali che si associano a groove presi direttamente dal rock più diretto, mentre d'altro canto compaiono influenze doom metal e incupimenti atmosferici; "Pelagial" si mostra quindi come un prodotto eterogeneo, ottimamente sviluppato e concepito per non annoiare mai, in quanto il progresso è conosciuto per essere il più acerrimo nemico della noia. 

Ci rendiamo conto alla perfezione del concetto di progressività in "Pelagial" se lo ascoltiamo tutto di fila, unico modo per poterlo comprendere appieno. Le liquide note di pianoforte di "Epipelagic", accompagnate dal quieto sciabordio dell'acqua e dai riflessi del sole sulle creste d'onda, conduce presto alle esplosioni melodiche e trascinanti di "Mesopelagic" e delle due "Bathyapelagic", nelle quali oltre a ritornelli irrestibili e a fraseggi di chitarra esaltanti compaiono anche delle emozionanti fughe di pianoforte così come arpeggi di chitarra pulita dall'aria serena e distensiva, esattamente come potrebbe essere una nuotata in immersione a pochi metri di profondità, dove la luce penetra senza alcuna difficoltà e i pesci sono ancora di dimensioni piccole e familiari. Il consueto ottimo lavoro svolto dagli arrangiamenti di archi si sposa alla perfezione con questi primi brani solari, tutto sommato semplici da assimilare ma tutt'altro che banali. Perfetto è il bilanciamento tra la voce pulita e quella ruvida, mentre il basso pulsa rabbioso e la batteria si conferma come una protagonista assoluta delle trame strumentali e si merita le dovute attenzioni grazie a evoluzioni pregevoli e mai troppo esibizioniste (niente tecnicismi esasperati alla Portnoy, ma solo tanto buon gusto e tanta musicalità).

Fin qui, tutto bene: siamo ancora piuttosto vicini alla superficie, dove tutto sommato è facile tornare a prendere una boccata d'aria. Ma arriva il terzo capitolo di "Bathyapelagic" e la musica inizia a cambiare: i riff diventano più lenti e pesanti, la luminosità inizia a diminuire, vaghi dubbi di inquietudine vengono alla mente, sobillati da accelerazioni che stavolta hanno un sapore teso, invece che liberatorio come prima. "Abyssopelagic" riprende i temi delle precedenti canzoni illudendoci per un attimo che stiamo tornando verso l'alto, ma è un inganno: si continua ad andare in giù con "Hadopelagic", austera e nauseabonda, nella quale inizia a sentirsi l'immensa pressione della massa d'acqua che tenta di stritolarci; tuttavia, il nostro organismo si adatta alle condizioni estreme e qualche momento di tranquillità è concesso, come per esempio nel secondo capitolo della medesima "Hadopelagic". Ma con il raggiungimento dei novemila e rotti metri di profondità, non si ha più scampo: "Demersal" e soprattutto la conclusiva "Benthic" fanno emergere la nuova vena doom dei The Ocean, proponendoci quindici minuti di netti rallentamenti e di atmosfere plumbee, in un luogo dove la luce è completamente abolita e le forme di vita sono quasi totalmente sconosciute, e quel poco che ne sappiamo ci fa paura. Tocchiamo il fondo dell'oceano con un finale dai vaghi toni noise, e siamo arrivati alla fine del nostro viaggio oceanico, raggiungendo "l'origine dei nostri desideri" sugli impenetrabili fondali che costituiscono le fondamenta del mondo.

Tocca al secondo disco, ora, il compito di ruotare nel nostro stereo. Sorpresa! Tale disco non è altro che una versione interamente strumentale dell'album che abbiamo appena ascoltato. Registrato inizialmente solo in questa versione, a causa di problemi di salute del vocalist Rossetti, è stato poi integrato dalla versione cantata solo grazie al fatto che il cantante è riuscito a guarire in tempo per le registrazioni, e ha quindi potuto prestare la sua voce all'opera. Il risultato di questa disavventura è un disco che va ben oltre la versione bonus di un originale: la versione strumentale di "Pelagial" è infatti un disco che pur essendo formalmente identico al precedente, solo privato della voce, appare molto diverso, quasi più autentico e concettualmente più interessante. Lasciando concentrare maggiormente l'ascoltatore sugli intrecci strumentali e sulla raffinatezza di trame e arrangiamenti, la sensazione di vorticare nelle correnti oceaniche di profondità è ancora più forte, e non stupitevi se arrivati alla fine del primo disco vi ascolterete anche il secondo con la stessa meraviglia se non di più.

"Pelagial" è in definitiva un disco che ha dalla sua parte un'ottima capacità evocativa e una concettualità sviluppata nel migliore dei modi. Non tragga in inganno il fatto che i testi non parlano di acqua e balene, bensì dell'essere umano e della sua natura; sarebbe stato semplice narrare di argomenti inerenti l'oceano in sè, ma come sempre i The Ocean sono una band originale e preferiscono non essere banali, andando in questo caso a sublimare un elemento naturale trasformandolo in una discesa verso le profondità dell'animo umano, e non solo del mare. A livello musicale, non trovo assolutamente difetti: la produzione dà risalto ad ogni strumento ed è pulita e possente, il songwriting è eccellente e farebbe vergognare il 90% delle band attualmente in circolazione, se solo sentissero con quale naturalezza questi tedeschi sfornano trame musicali così affascinanti. Ancora una volta mi trovo a doverlo dire, la classe non è acqua e i The Ocean sono un gruppo che spero non smetterà mai di suonare musica di qualità così eccellente. Per chi già li conosceva, una stupenda conferma della loro arte; per chi ancora non è entrato in contatto con l'abissale realtà di questa band, consiglio vivamente un tuffo nei vorticosi meandri di "Pelagial", senza paura di annegare nè di rimanere schiacciati da quei miliardi di tonnellate di acqua fredda e inquieta.

01 - Epipelagic (1:12)
02 - Mesopelagic: The Uncanny (5:56)
03 - Bathyapelagic I: Impasses (4:24)
04 - Bathyapelagic II: The Wish In Dreams (3:18)
05 - Bathyapelagic III: Disequilibrated (4:27)
06 - Abyssopelagic I: Boundless Vasts (3:27)
07 - Abyssopelagic II: Signals Of Anxiety (5:05)
08 - Hadopelagic I: Omen Of The Deep (1:07)
09 - Hadopelagic II: Let Them Believe (9:17)
10 - Demersal: Cognitive Dissonance (9:05)
11 - Benthic: The Origin Of Our Wishes (5:55)

martedì 21 maggio 2013

My Dying Bride - "Evinta"

Peaceville Records, 2011
I My Dying Bride, paradossalmente, sono una band che riesce a produrre dischi tanto più interessanti quanto più tali dischi si distaccano dal loro stile abituale. Per quanto il loro mood sia sempre stato abbastanza ispirato, e il loro doom - death di stampo decadente e romantico abbia fatto breccia nei cuori degli appassionati fino a costituire un marchio di fabbrica inossidabile, è nei dischi "diversi" dal solito che, a mio parere, la band ha sempre dato il meglio di sè. Il primo esempio che citerei è il contestatissimo e sottovalutato "34.788% ... Complete", disco che sperimentava liberamente nuove soluzioni andandole a pescare addirittura dall'elettronica, e che celava tante cose interessanti "tra le note"; ma potrei citare anche un capitolo come "Songs Of Darkness, Worlds Of Light", inaspettatamente cupo e malvagio e per questo motivo tremendamente affascinante, se confrontato con il classico sapore melodico e malinconico che conosciamo da dischi seppur di alto valore come "The Angel And The Dark River" o "Like Gods Of The Sun". Ci pensa però "Evinta" a guadagnarsi la palma di disco più particolare finora prodotto dalla Sposa Morente: per celebrare il proprio ventennio di attività, infatti, i musicisti britannici hanno deciso di comporre un doppio album completamente privo di growl, batteria e chitarre distorte, e popolato solo da archi, tastiere, cori, pianoforte, organo e dalla lamentevole voce di Aaron Stainthorpe, affiancata per l'occasione al talentuoso soprano francese Lucie Roche. Ma non finisce qui: il materiale contenuto in questo doppio album, infatti, è in parte una riedizione di materiale già presente nei vecchi dischi, omaggiato tramite le melodie che hanno reso immortale la band, le quali fanno saltuariamente capolino all'interno di brani che comunque possono definirsi inediti. Un tributo a sè stessi, una celebrazione delle proprie capacità di arrangiatori e un regalo ai fan: "Evinta" può essere visto sotto tutti questi tre aspetti.

Due dischi per un totale di un'ora e mezza di musica (se avete acquistato la versione limitata, c'è perfino un terzo disco bonus, sul quale però non mi dilungo, non avendolo ascoltato a sufficienza). Potrebbe sembrare un'impresa titanica ascoltarli tutti di fila, anche perché di metal qui non c'è assolutamente l'ombra e un fan storico potrebbe rimanere interdetto da un tale cambiamento di rotta, anche se si tratta di un capitolo isolato. "Evinta" si destreggia infatti tra atmosfere ariose ed estremamente dilatate, tra melodie a sviluppo lento pennellate da strumenti che mantengono un certo distacco gli uni dagli altri, andando a creare un'atmosfera molto rarefatta e sognante. La definizione di musica orchestrale o sinfonica, qui, è fuori luogo: gli strumenti spesso suonano uno per volta, e predomina il minimalismo, spesso portato all'estremo con note singole di pianoforte o di violino che galleggiano su uno sfondo vuoto, ma non per questo privo di vibrazioni di energia. La voce maschile è poco più che un accompagnamento, spesso parlato, che interviene con piccole pennellate qua e là; la voce femminile è molto più preponderante, forte di una grande drammaticità ed espressività, le doti che si richiedono ad un soprano. Echi di brani storici come "A Kiss To Remember" e "For My Fallen Angel" giungono come inaspettati e piacevolissime sorprese, non di rado emozionanti, all'interno di brani sempre ben costruiti, accomodanti e rilassanti nel loro fluire etereo, ma che sanno risvegliarsi anche per sezioni maestose e solenni, oppure epiche, un ottimo esempio delle quali è l'introduttiva "In Your Dark Pavillon", o la bellissima "The Distance, Busy With Shadows" (mirabile l'intreccio tra pianoforte e archi arrembanti) così come la spettacolare "And Then You Go", dove il soprano regala momenti di altissima emozione, nonchè una dimostrazione delle proprie capacità.

Il disco è abbastanza prolisso e forse un pochettino dispersivo, ma mostra comunque un filo conduttore interno che lo diversifica e caratterizza: ad esempio, il primo disco è più improntato alla melodia e alla raffinatezza compositiva, così come mostra un lato più cupo ("You Are Not The One Who Loves Me" e il suo pianoforte tenebroso), mentre il secondo disco incorpora più influenze ambient, calcando molto di più la mano sulla pura atmosfera (ascoltate per esempio la conclusiva e celestiale opera magna intitolata "A Hand Of Awful Rewards"). Una volta assimilato tutto il materiale presente, che non è poco, risulteranno più evidenti i cambi di rotta interni e il disco stesso diventerà meno ostico e più fruibile, fermo restando che è un disco estremamente concettuale e che va ascoltato solamente quando le condizioni ambientali, per così dire, lo consentono. Bisogna ascoltarlo molte volte, e con la giusta dedizione, passando sopra all'iniziale smarrimento, per apprezzare finalmente la bellezza di questo monumento musicale, che rifacendosi ai grandi classici dei My Dying Bride ma rivestendoli di una pelle completamente nuova e incastrandoli in nuove e vibranti composizioni rappresenta forse il disco più coraggioso e interessante mai partorito dal gruppo. I Dark Sanctuary incontrano i My Dying Bride, fondendosi assieme: mai un matrimonio fu più azzeccato.

CD 1

01 - In Your Dark Pavillon (10:03)
02 - You Are Not The One Who Loves Me (6:47)
03 - Of Lilies Bent With Tears (7:10)
04 - The Distance, Busy With Shadows (10:46)
05 - Of Sorry Eyes In March (10:34)

CD 2

01 - Vanitè Triomphante (12:21)
02 - That Dress And Summer Skin (9:38)
03 - And Then You Go (9:22)
04 - A Hand Of Handful Rewards (10:21)

martedì 23 aprile 2013

Progenie Terrestre Pura - U.M.A.

Avantgarde Music, 2013
Erano stati una delle più interessanti realtà di underground metal italiano che mi fosse capitato di scoprire; inutile dire che, nel momento in cui mi hanno ricontattato per informarmi che il loro primo full length era in fase di pubblicazione, non ho potuto trattenere la curiosità e sono andato immediatamente ad ascoltarmelo, sapendo che avrei trovato la continuazione ideale di quell'eccellente Promo che il duo veneto propose nel 2011. Questa volta, i due "collisori mentali" Eon [0] e Nex [1] ritornano con un album fatto e finito, dalla copertina affascinante e futuristica, e dai contenuti musicali che a scanso di equivoci definirò subito con una parola unica: eccellenti. Anzi, eccellenti oltre ogni limite, talmente eccellenti da risultare quasi inconcepibili. Non sto esagerando, fidatevi.

Strutturalmente, il disco si compone di cinque tracce, tutte molto lunghe e delle quali solo tre sono inedite, mentre due sono semplicemente una nuova registrazione delle tracce già presenti sulla demo. I pochi fortunati che avevano ascoltato tale demo sono rimasti impressionati da un modo alquanto originale e personale di concepire il black metal, che non si limitava semplicemente a contaminarsi con sottogeneri come l'ambient, l'industrial e l'elettronica, ma che vedeva questi diversi aspetti musicali compenetrarsi perfettamente in una cosa sola, quasi come se fosse stato creato un nuovo genere musicale. La volontà della band di esplorare i confini della musica e di creare qualcosa di nuovo, come traspare dal loro comunicato ufficiale di presentazione, è assolutamente genuina, ma soprattutto ha trovato uno sbocco concreto, cosa che non capita spesso in un mondo musicale sempre più inflazionato e difficile da sondare nei suoi aspetti ancora celati. I cinque brani infatti assomiglianoa viaggi nel tempo, a divagazioni cosmiche e a riflessioni iperuraniche, più che a meri e semplici brani musicali; la potenza inarrestabile dei fiumi di chitarre distorte richiama un infinito viaggio nelle profondità spaziali, mentre l'eccellente gusto sonoro degli arrangiamenti di tastiera e di campionature elettroniche fa il resto, conferendo alla musica un carattere talvolta sognante, talvolta graffiante, talvolta ancora misterioso. Creatività allo stato puro, ottima tecnica, ottime idee, suoni meravigliosi, mille sfumature diverse a stimolare i sensi e l'anima in maniera ogni volta differente: come biglietto da visita, per essere degli esordienti, è a dir poco impressionante.

Un track by track, in questo caso, semplificherà le idee a chi si ritrovi disorientato da una proposta tanto eclettica. Si inizia con "Progenie Terrestre Pura", uno dei due brani già presenti nella demo, allora come adesso scelto per aprire le danze; ed è subito stupore, tra tremolo picking nervosi che viaggiano assieme a tastiere liquide e fluttuanti, tra ritmiche che improvvisamente accelerano diventando spaccaossa, tra voci filtrate e allucinogene che mimano un perfetto viaggio nei meandri di qualche droga sintetica. Produzione e qualità sonora eccellenti, ricorrenti sapori post rock, psichedelia a tonnellate, maniacale cura dei dettagli e delle sfumature più minime, e il primo capolavoro è già servito. Ma è con la successiva "Sovrarobotizzazione", il primo dei brani inediti, che le danze si fanno veramente distruttive: un'atmosfera da terrore metropolitano pervade questo brano indiavolato, ruggente, ritmicamente imprevedibile e contorto, sempre in bilico tra furia cieca e sapienti pennellate melodiche, mentre le tastiere per l'appunto "robotiche" arricchiscono la musica in una maniera che mi riesce perfino difficile descrivere, tanto sono perfette e geometricamente ineccepibili. Talmente trascinante è questo brano, che pare di trovarsi sulle montagne russe, in mezzo ad avvitamenti vorticosi e a discese violentissime, di quelle che fanno salire il cuore in gola. Notevole è la scelta, iniziata nel 2011 e mantenuta anche adesso, di non cantare nè in growl nè in scream, ma semplicemente con una voce tombale e sussurrata, sempre in secondo piano rispetto agli strumenti, e che si affianca tavolta ad un pulito etereo; uno stile vocale che non fa che sottolineare l'atmosfera "aliena" e siderale, dando un perfetto senso al titolo dell'album: "U.M.A.", vale a dire "Uomini, Macchine, Anime". Un triplice ossimoro di termini che si sposano alla perfezione con la musica nella loro improbabile unione.

Dopo i tredici parossistici minuti di "Sovrarobotizzazione", le carte in tavola si rimescolano con la suggestiva strumentale "La Terra Rossa Di Marte", nella quale diventano protagoniste le atmosfere industrial / ambient; chitarre questa volta assenti lasciano piena libertà di espressione alle tastiere, abili contorsioniste e cangianti conduttrici della scena, come sempre di stampo alieno - futuristico e, perchè no, un po' distopico. Senza dimenticare la batteria, estremamente fantasiosa, in grado di fare la differenza tra un buon brano e un brano eccellente. Episodio relativamente breve, ma tutt'altro che insignificante nell'economia del disco, dato che funge da ponte di passaggio verso le tracce che più mostreranno la vena creativa dei Progenie Terrestre Pura. Arriva quindi "Droni", che parte malinconica, seguendo la strada tracciata dal precedente brano, mentre le chitarre piano piano riprendono vita e tornano ad avvolgere i sensi, ributtandoci indietro nel vortice diabolico. Bellissimi gli accostamenti tra voce lisergica, campionature noise e tra una melodia semplice ma toccante; quando poi riparte la paranoia, non ce n'è più per nessuno. Confusione e marasma di una lucidità spaventosa, tutto concentrato assieme in un battito schizofrenico di tamburi, in un'orgia di crash e ride nonchè in un riffing isterico, ma che non dimentica mai di mantenere il senso melodico, facilmente percepibile tra le note, in particolare nei rari momenti di relativa quiete, dove si recupera un barlume di umanità in mezzo a tanta alienazione. Mette quasi i brividi la capacità degli strumenti di unirsi assieme quasi come se fossero uno solo, senza la minima sbavatura e con una coesione perfetta tra i suoni e gli intenti, cosa che solo i professionisti veri riescono a fare, magari dopo cinque o sei album come rodaggio. Questi invece ci riescono, e con scioltezza, già dal debutto: traete voi le conclusioni. E per finire, "Sinapsi Divelte" (l'altro brano già presente sulla demo) chiude il disco ancora una volta in maniera magistrale, lasciando un po' più di spazio alle sonorità post rock, all'atmosfera cupa e per certi versi epica (l'introduzione è semplicemente da brividi), alla voce pulita, ai riff catchy ... ma non dimenticando di picchiare duro quando serve, nè più nè meno. 

Nel momento in cui chiudevo la recensione del "Promo 2011", avevo detto che se le premesse erano quelle, c'era da aspettarsi un grande disco. Così è stato, e posso dire con orgoglio che non avevo dubbi, questa band ha classe da vendere ed è riuscita a creare qualcosa di estremamente interessante, originale e personale. Nell'obbligare moralmente tutti voi ad iniziare a conoscere i Progenie Terrestre Pura, mi auguro solo che questo inizio di carriera non si spenga in breve tempo, ma che invece il duo continui a lungo il proprio percorso artistico, perché niente è più triste di un talento che non viene coltivato come dovrebbe, specie se si tratta di un talento sfolgorante come questo. Ma lasciando perdere questa considerazione di carattere filosofico ... diamine, hanno partorito un capolavoro di proporzioni colossali, c'è bisogno di aggiungere altro? Procuratevelo e basta, si tratta senza ombra di dubbio di uno dei dischi più incredibili partoriti nell'ultimo ventennio metal.

01 - Progenie Terrestre Pura (10:17)
02 - Sovrarobotizzazione (13:00)
03 - La Terra Rossa Di Marte (7:13)
04 - Droni (9:48)
05 - Sinapsi Divelte (11:03)

martedì 9 aprile 2013

Australasia - "Sin4atr4"

Golden Morning Sounds, 2012
Fa sempre piacere ascoltare un buon disco di una band esordiente, specialmente quando la band in questione è tutta italiana. Ne ho sentiti diversi, di dischi come questo, e gli Australasia si inseriscono in un filone molto fortunato, che ultimamente ha spopolato: quello del post rock strumentale, tutto basato su atmosfere fluide e mutevoli, tese a creare un substrato rilassante nel quale immergersi per una mezz'oretta senza pensieri nè preoccupazioni. 

Pescando un po' dallo shoegaze, un po' dalla scuola melodeath e mettendoci un pizzico di fantasia propria, questo duo nascente assembla un extended play molto piacevole, scorrevole e abbastanza coinvolgente, nel quale la voce (femminile) compare solo come sporadico intervento ed è usata come uno strumento musicale, omettendo parole e testi che in questo contesto non sono necessari. Tra chiaroscuri interessanti, melodie accattivanti e sprazzi aggressivi, nonché un pizzico di elettronica, le sette tracce costituiscono ciascuna parte di un insieme organico, che ha senso solo se viene ascoltato tutto di fila, con l'intento di gustarsi ogni singola nota e ogni singolo passaggio senza dedicare troppa attenzione a nessuno di essi. Come potrebbe essere un viaggio in treno o in automobile, nel quale si osserva dal finestrino un paesaggio che cambia in continuazione, stupendosi di ogni cambiamento e godendo di ogni dettaglio interessante che appare alla vista, ma senza poterlo fissare nei ricordi in modo permanente, data la velocità con cui si attraversa lo scenario. Nei suoi ventidue minuti, "Sin4tr4" dà proprio l'impressione di essere un breve viaggio in una terra multicolore, nella quale passare senza quasi lasciare traccia, ma conservandone un buon ricordo. Non si può infatti dire che i brani contenuti in questo esordio siano memorabili o particolarmente creativi, ma si tratta di musica assolutamente godibile e che, come biglietto da visita iniziale, lascia intravedere ottime possibilità, soprattutto se la band deciderà di investire il proprio potenziale dal lato immaginifico della musica, lavorando su arrangiamenti e su intarsi strumentali che qui sono solo accennati, ma che potrebbero essere sviluppati in maniera decisamente pregevole.

Per emergere in un genere che ormai sta diventando abbastanza inflazionato, servono idee interessanti e grande bravura: continuate quindi a lavorarci sopra, e i risultati arriveranno.

01 - Antenna (2:56)
02 - Spine (4:23)
03 - Apnea (2:38)
04 - Scenario (2:26)
05 - Satellite (2:53)
06 - Retina (3:06)
07 - Fragile (3:55)

venerdì 5 aprile 2013

Alley - "Amphibious"

BadMoodMan Records, 2013
Ammettiamolo: la copertina del secondo disco degli Alley è talmente brutta che si fa fatica a guardarla, ed è solo per coerenza che includo l'immagine in questa recensione, altrimenti avrei tranquillamente evitato. Quel faccione verdastro immusonito, dai capelli in stile alghe sott'olio e con quell'improbabile sfondo di stelline luminose da cartone animato giapponese, gli Alley se lo potevano proprio risparmiare, anche perchè è risaputo che la copertina incide molto su quello che sarà il giudizio finale dell'ascoltatore, il quale oltre alle orecchie per ascoltare è dotato anche di occhi per vedere e di un cervello per associare inconsciamente musica e immagini. Quello che non si può dire, invece, è che la musica contenuta dietro una tale bruttura sia brutta anch'essa: la band russa è infatti tornata alla carica con altri settanta minuti di musica che non mancheranno di sfamare l'insaziabile appetito di chi costantemente esplora l'underground in cerca di band interessanti da scoprire.

Ricordate il debutto "The Weed", uscito nel 2008? Chi ha ascoltato quell'album non può non avere presente come gli Alley si rifacessero ai maestri Opeth, praticamente copiandoli in tutto e per tutto: la voce growl era uguale, le sporadiche clean vocals erano praticamente identiche sia nello stile sia nel timbro, il suono roccioso e aggressivo delle chitarre era anch'esso molto simile, il riffing era della stessa identica natura, così come lo erano le strutture spiccatamente progressive death, che lasciavano spazio anche a momenti riflessivi dominati dalla chitarra acustica, dopo aver spinto sui distorsori per minuti e minuti. Elementi distintivi propri, nel sound degli Alley, erano praticamente inesistenti, e quel disco spaccò in due gli scandagliatori dell'underground che lo acquistarono. C'era chi apprezzava la loro dedizione alla storica band svedese, perdonandogli una grande derivatività in nome di una resa sonora impeccabile e di un'indubbia abilità che è necessaria anche solo per suonare come la pallida copia di Akerfeldt e soci; e c'era invece chi invece bocciava senza mezzi termini la loro proposta, bollandoli come cloni senza il minimo guizzo di originalità, perlopiù aridi come pietre. Probabilmente avevano ragione entrambi: la band suonava un progressive death corposo ed elaborato, forte di una tecnica sicuramente ottima e di un lodevole intento compositivo, ma non creava praticamente nulla di personale, limitandosi a ricalcare uno stile altrui, e peraltro lo stile non di una band poco conosciuta, ma di un gruppo fenomenale e conosciutissimo come gli Opeth, cosa che li espose a non poche critiche. Inoltre, anche se "The Weed" era sicuramente un buon disco, piacevole da ascoltare e riascoltare, mancava quasi totalmente della devastante carica emotiva e animalesca degli Opeth, come a sottolineare che i maestri sono unici e inimitabili, e che una minestra riscaldata non potrà mai in alcun modo eguagliare l'originale.

Dunque, con questo "Amphibious", cosa è cambiato? A caldo direi: non moltissimo, ma sicuramente qualcosa. Tutti gli elementi che componevano "The Weed" sono rimasti invariati, non si sono aggiunti nuovi strumenti nè nuove sonorità, ma stavolta non ci troviamo di fronte ad una raccolta di B-side degli Opeth; è innegabile che gli Alley in quest'occasione abbiano cercato di differenziare la loro proposta e di ampliare i propri orizzonti. Il trucco è in questo caso è lavorare sui dettagli: a fronte di un impianto sonoro ancora molto Opethiano, sono numerosi i punti in cui la band si distacca dai canoni degli svedesi e tenta di prendere strade ancora non battute. I chilometrici brani, dalle strutture sempre complesse e articolate, si snodano tra sezioni che rallentano oltre i limiti di guardia così come accelerano oltre misura, sconfinando nello sporadico blast beat; la voce pulita, sempre sognante e carica di mistero come nei migliori dischi degli Opeth, acquista talvolta un carattere più etereo, meno legato all'idea di linea melodica e più simile ad un elemento che accompagna il fluire strumentale; le sezioni melodiche prive di distorsioni vedono come protagoniste delle chitarre che esplorano terreni di improvvisazione, con raffinati arzigogoli che paiono pescare un pochettino dal jazz. Il riffing di chitarra, sempre molto vario, perde un po' della freddezza meccanica che affliggeva in parte "The Weed" e diventa più intenso, coinvolgente, multistratificato: "Amphibious" ha dalla sua alcuni passaggi davvero da capogiro, che nel precedente album si stentava a trovare. Si intensifica la durezza e la severità delle atmosfere, i consueti giri di accordi obliqui tengono costantemente i brani sospesi in una condizione di dubbio, le dissonanze diventano crude e stridenti, le ritmiche si mostrano più eclettiche, i rari momenti di pura emozionalità e di positività risaltano notevolmente in rapporto alla continua ricerca di sonorità ruvide e atmosfere plumbee (emblematiche sono alcune brevi parti melodiche nella conclusiva "Washed Away", insolitamente solari). Talvolta si vivono momenti di impazzimento e panico: ascoltate l'introduzione di "Skull & Bones" (che tuttavia nel finale sfoggia un assolo insospettabilmente sereno!), o il riff iniziale di "Amphibious", seriamente da capogiro: ciò dovrebbe bastare per affermare con certezza che gli Alley sono migliorati in modo tangibile. In sostanza, quello che rende questo disco più maturo e interessante è quel minimo di sperimentazione aggiunta e qualche guizzo di dinamismo compositivo in più, il quale fa la differenza. Si tratta sempre di sfumature, perchè comunque l'album non si discosta in maniera netta da "The Weed" in quanto a stile generale, ma i cambiamenti introdotti sono comunque sufficienti per togliere dagli Alley l'etichetta di gemelli brutti degli Opeth, ponendo le basi per quella che potrebbe essere un'evoluzione futura ricca di sorprese. I sei brani di "Amphibious", tutti molto simili tra loro e quindi considerabili come un unico lungo brano, non sono dei ricettacoli di emozione nè dei brani sbalorditivi (qualche lungaggine di troppo appare anche stavolta), ma gli Alley sono comunque musicisti di qualità che stanno pian piano riuscendo ad emergere dall'anonimato e a scrollarsi di dosso un'etichetta sgradevole, che rappresenta un po' la loro croce  e delizia (in fondo, chi non avrebbe piacere ad essere nominato a fianco degli Opeth, nel bene e nel male?). C'è da dire che si sono evoluti piuttosto lentamente, considerando che tra "The Weed" e questo "Amphibious" sono passati ben cinque anni; se la band vuole definitivamente emergere, il prossimo disco dovrà essere quello decisivo, e soprattutto non dovrà metterci un altro lustro a uscire.

Nonostante la lunghezza pachidermica, il disco si ascolta volentieri e tiene sufficientemente lontano lo spettro della noia, per cui il mio giudizio è sostanzialmente positivo, se non altro per il tentativo che ha mostrato di distaccarsi dalla derivatività del debutto. Nessuno riterrà gli Alley dei musicisti irrinunciabili, e nessuno si strapperà i capelli se non riuscirà a procurarsi "Amphibious", ma più o meno tutti saranno d'accordo nell'affermare che si tratta di un buon disco, riservato comunque a palati fini, a chi gode nell'avventurarsi in trame musicali ostiche, tutte da scoprire. Attendiamo comunque la definitiva maturazione della band e l'affermazione della loro vera personalità: "Amphibious" è un iniziale ed importante passo avanti in quella direzione, ma il cammino deve proseguire. E speriamo che per il prossimo disco scelgano una copertina più decente...

01 - Lighthouse (15:21)
02 - Weather Report (12:00)
03 - Amphibious (13:08)
04 - Skulls & Bones (7:42)
05 - Time Signal (13:07)
06 - Washed Away (8:03)

lunedì 11 marzo 2013

The Howling Void - "Runa"

Autoprodotto, 2013
Lo scopo degli extended play, normalmente, è quello di introdurre novità nel proprio sound e di sottoporle al pubblico per vedere com'è la reazione del medesimo. Se il pubblico apprezza, generalmente si continua su quella via: se invece si mostra per la maggior parte perplesso, si potrà sempre dire che "era solo un esperimento", tornando poi ai propri canoni oppure tentando altre strade. L'americano Ryan e i suoi The Howling Void, con quest'ultima piccola release, esprimono alla perfezione questo concetto proponendo una musica che non mancherà di stupire sommamente tutti coloro che finora hanno apprezzato il funeral doom arioso, sinfonico e maestoso della band. Dirò di più: personalmente trovo difficile che qualcuno, perfino tra i fan storici della band, rimarrà deluso da un dischetto di indubbia qualità come "Runa".

La storia di questo piccolo album, per ora disponibile solamente in streaming ma in dirittura d'arrivo per la Solitude Productions, è abbastanza travagliata: più volte Ryan ha distrutto e ricostruito i propri intenti e le proprie partiture, in manifesta crisi d'ispirazione, fino a quando la musa si è rifatta viva e si è concretizzata nei due brani che compongono "Runa". La svolta preannunciata sarebbe stata quella di contaminare il funeral doom con la musica folk (avete capito bene!), e per quanto possa sembrare strano, pare che il nostro artista ce l'abbia fatta, anche se il suo concetto di musica folk è indubbiamente molto personale, certamente lontano da quello che è il folk tradizionale. "Runa" si discosta significativamente da tutte le produzioni targate The Howling Void, accentuando la vena epica che per certi versi li accosta addirittura ai Moonsorrow (ecco dove sta la svolta "folk"!), e inanellando una serie impressionante di differenze con i precedenti dischi: sparisce completamente il growl catacombale in favore di brani cantati in pulito da una voce sognante, sovente seminascosta tra l'impetuoso fiume strumentale; i ritmi accelerano e i brani diventano delle possenti e inarrestabili cavalcate, che trascinano volenti o nolenti in un vortice di energia pura; le atmosfere diventano ancora più sontuose e avvolgenti, le melodie e le tastiere di accompagnamento richiamano scenari leggendari e antichi, basandosi su storie tratte dalla mitologia norrena (entrambi i brani fanno riferimento al mitico Yggdrasil, il millenario Albero della Vita). Dimenticatevi quindi l'oscura compagine del debutto "Megaliths Of The Abyss", così come della cosmica epopea di "Shadows Over The Cosmos", e dimenticatevi soprattutto della svolta vagamente horror dell'ultimo "The Womb Beyond The World": se Ryan aveva in mente di cambiare le coordinate e di stupire i propri fan, mantenendo comunque il proprio marchio di fabbrica, ci è riuscito pienamente. Per quanto "Runa" si discosti dai lavori precedenti, infatti, mantiene sempre quel timbro "Made In The Howling Void" che non tradisce mai: le strutture ridondanti e ipnotiche, la semplice efficacia delle linee melodiche, l'ottimo utilizzo della gamma di suoni ed effetti (tremoli, sovraincisioni, in questo caso addirittura la doppia cassa...) che, opportunamente sfruttati, costituiscono da sempre uno dei principali punti di forza del gruppo. L'ossatura è rimasta la stessa, ma si è rivestita di una pelle completamente nuova.

Chi ha sempre criticato i The Howling Void per la loro staticità compositiva, qui dovrà ricredersi: nonostante anche stavolta non si tratti di musica trascendentale, è talmente ben fatta che non riconoscerlo sarebbe un delitto. Ma oltre ad essere ben fatta, è anche coraggiosa, esaltante nella sua freschezza e nella sua ventata di novità. Certamente, si tratta di soli diciassette minuti di musica, quindi non posso formulare giudizi di particolare importanza su un dischetto così breve: per giudicare in modo maturo la nuova direzione della band dovremo aspettare il prossimo album in studio, che sarà una prova del nove. Ma  la curiosità a questo punto non può che essere elevata, viste le ottime premesse. Per ora godiamoci questo succulento bocconcino, un goloso antipasto per un futuro che sono sicuro ci riserverà ancora abbondanti e genuine emozioni.

01 - Irminsûl (10:15)
02 - Nine Nights (7:24)