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martedì 31 gennaio 2012

Liturgy - "Aesthethica"

Thrill Jockey Records, 2011
Tinte piatte, tre colori. Due croci nere antagoniste inchiodate su di uno sterminato mare di bianco puro. Scritte dorate nel più semplice dei font. Una copertina di tali minimalismo e audacia non può fare a meno di catturare la mia attenzione, specie se la band che vi sta dietro sono i Liturgy, che si erano fatti notare solo due anni prima col loro ottimo Renihilation.

Si scopre a posteriori che quella sgargiante copertina è profetica: Aesthethica è una sorta di catarsi del Black Metal, un album la cui copertina per converso è “white” e racchiude il “black” unicamente nei due crocifissi, una sorta di sua trasposizione verso il trascendente, la sua ascesa verso le sfere dell’Avantgarde e del Post. Non a caso la band definisce la propria musica come Trascendental Black Metal. Per la verità qui di Black nel vero senso della parola non c’è molto al contrario di quanto fu Renihilation, e se non fosse per il cantato in uno scream quasi Depressive tipico di Hunter Hunt-Hendrix probabilmente saremmo qui a parlare di Math/Avantgarde. Aesthethica è infatti un matrimonio tra geometria e irrazionalità, tra regolarità e impeto spontaneo: riff spigolosi e regolari si susseguono con un’attitudine Math degna dei Meshuggah, talvolta ripetuti fino a sfiorare la nausea, ma al tempo stesso con ritmiche selvagge e scomposte e con un cantato animalesco. La geometria impeccabile disegnata dalle chitarre, il logos, viene meno sotto i colpi del pathos che ne distorce le rette, ne ammacca le circonferenze e ne sfonda i piani; e dagli squarci che questo ruvido marasma generale incide nella liscia corazza della razionalità zampillano potenti getti di impetuosa melodia carica di irrefrenabile sentimento che pervade ogni brano. Come detto, Aesthethica è un matrimonio tra geometria e irrazionalità, forse anche in virtù del fatto che le idee sulla trascendenza sono figlie di madre ragione, la quale però non può arrivare a comprenderle, cioè non può arrivare ad abbracciare le sue creazioni, i suoi stessi figli: da qui l’annichilente dualità che permea tutto l’album.

Mi pare di cogliere nella musica dei Liturgy anche una certa tendenza alla scomposizione degli elementi musicali, piuttosto che alla loro fusione come invece sempre più spesso avviene oggi. Infatti in Aesthethica c’è di più dello straripante Avantgarde Black Metal descritto sopra, molto di più: tra i suoi fendenti si ritaglia la propria nicchia un brulicante microcosmo fatto di brevi strumentazioni estemporanee e inclassificabili, quasi fossero un corpo estraneo venuto da chissà dove, eppure così familiari e accoglienti. Ne sono degli ottimi esempi la cibernetica Helix Skull o la superba prestazione vocale che costituisce Glass Earth - anche se fin troppo monotona nelle sue fasi iniziali... -, per non parlare delle intro dei primi tre brani. A fianco di questo microcosmo va aggiunto il macrocosmo dell’impronta Math esplicita di Generation e dello scultoreo Sludge di Veins Of God, due eccellenti ordinati episodi che si distinguono nettamente dal chaos che li circonda. Ma il fatto di rilievo è, come dicevo, che tutto questi “universi nell’universo” di Aesthethica non si mescolano col resto della musica, tendono a rimanerne separati, disgiunti, coesistono l’uno accanto all’altro come tante sub-entità funzionalmente distinte di un unico Uno universale. Se nel mondo odierno del Metal sussiste una tendenza a levigare sempre più le disparate influenze musicali che infarciscono le proprie creazioni, fino a renderle un tutt’uno perfettamente amalgamato, Aesthethica appare invece come un diamante grossolanamente tagliato che alterna facce grosse a facce molto piccole, ognuna delle quali ben distinta per perimetro e inclinazione da tutte le altre. Ho anche provato ad immaginarmi quali vette vertiginose potrebbe raggiungere la band se solo cercasse di fondere tra loro queste sue diverse qualità, ma nonostante tale fantasticheria sia dannatamente intrigante ciò significa fare violenza sul’artista, su ciò che i Liturgy sono e vogliono essere: come tali vanno accolti o respinti, senza cercare di plasmarli a proprio piacimento. Se proprio si deve parlare dei lati negativi di questo disco reputo più costruttivo citare il fatto che gli splendidi riff Old School Black Metal che rendevano così irresistibile il debutto Renihilation sono qui completamente scomparsi, e questo a mio avviso è un vero peccato. Ma forse in fondo anche questo non è altro che un segno della catarsi di cui i Liturgy ci cantano...

E così si afferma un’altra band che farà molto parlare di sé, nel bene e nel male, band che dopo solo due album ha già letteralmente spaccato in due le opinioni degli appassionati: c’è chi li ritiene mostruosi e chi vede in Aesthethica un gigantesco flop. Personalmente non posso non ritenermi soddisfatto di aver acquistato e ascoltato fino allo sfinimento questo singolarissimo disco, e in tutta franchezza esso mi invoglia tremendamente a seguire i risvolti futuri della band: sono proprio curioso di vedere quale direzione imboccheranno Hunter Hunt-Hendrix e soci per dar seguito a quanto di notevole sono riusciti a fare finora.

01 - High Gold (05:16)
02 - True Will (05:27)
03 - Returner (03:35)
04 - Generation (07:07)
05 - Tragic Laurel (04:05)
06 - Sun Of Light (06:55)
07 - Helix Skull (02:32)
08 - Glory Bronze (06:45)
09 - Veins Of God (07:55)
10 - Red Crown (07:23)
11 - Glass Earth (03:28)
12 - Harmonia (05:28)

Titan - "Sweet Dreams"

Relapse Records, 2010
Gli anni ’70 costituiscono un’epoca che non tramonterà mai, che continuerà a rivivere generazione dopo generazione tramandandosi come una potente semenza nella fertile passione della gente più disparata; un’epoca che si è così conquistata la continua rinascita in ogni nuovo decennio - l’immortalità. E se c’è una cosa degli anni ‘70 che più di tutte le altre preme con forza per continuare a rigenerarsi e quindi rivivere continuamente sotto nuove spoglie è la musica: tra revival, tributi e rivisitazioni essa dimostra ancor oggi di essere più viva che mai. Sussiste in particolare uno strano filone di Rock progressivo dalle sonorità ultra-moderne ed elettroniche, ma dal gusto completamente settantiano; in questo filone si inseriscono i Titan, band strumentale che arriva dritta dagli USA e che esordisce con Sweet Dreams grazie alla vulcanica Relapse.

E’ sufficiente il brano di apertura, che dà il nome all’album, per capire di che poderosa pasta siano fatti i Titan: un lungo incalzante crescendo caratterizzato da una grande vitalità in cui le tastiere si danno un gran daffare, crescendo che poi esplode in un irresistibile trascinante pezzo strumentale che si chiude su di un arpeggio struggente fino a commuovere. Ma in questi neanche quaranta minuti che compongono Sweet Dreams trovano posto tante emozioni dal sapore differente che non si limitano alla prode ascesa di cui sopra, tant’è che infatti il successivo intermezzo strumentale Synthasaurs è un sobrio, placido, curioso pezzo tutto suonato col sintetizzatore. Quello che ci offrono i Titan non è semplicemente una musica piena di tutto ciò che furono le grandi band del passato come Deep Purple e Uriah Heep, piena di psichedelia e strumentazioni soliste che si lanciano costantemente nei famosi duelli tra chitarra e tastiera. No, non è solo questo, e nonostante persino le poche parole cantate presenti in A Wooded Altar Beyond The Wanderer siano curate in modo da richiamare anch’esse gli anni ’70, i Titan sono comunque di più. La loro musica non è solo imitazione, è qualcosa che gli viene dal profondo. Danno costantemente l’impressione che gli scorra nelle vene, di averla fatta loro, di averla domata, e questo gli permette di prodursi in brani che hanno una forte dose di personalità e una creatività fuori dal comune. Così se brani come A Wooded Altar Beyond The Wanderer e Highlands Of Orick sono i più marcatamente settanti ani, in generale c’è spazio anche per idee personali e risvolti che non sempre risuonano in tutto e per tutto rubati dal passato, come la succitata Synthasaurs, l’outro della titletrack e certi momenti della conclusiva spettacolare Maximum Soberdrive.

Tuttavia se siete degli appassionati viscerali di quegli anni e delle band storiche che vi lasciarono il segno c’è il rischio che i Titan - come del resto tante altre band moderne appartenenti al medesimo filone - vi faranno storcere un po’ il naso, o addirittura vi deluderanno facendovi scuotere il capo: le sonorità così marcatamente elettroniche e moderne non saranno un boccone di facile digestione per voi. Io, che pure non sono entusiasta di sonorità troppo elettroniche, trovo comunque poderosi questi quaranta minuti di ottima musica strumentale e progressiva: un revival scoppiettante con personalità e creatività da vendere, averne di dischi così!

01 - Sweet Dreams (07:46)
02 - Synthasaurs (03:11)
03 - A Wooded Altar Beyond The Wanderer (08:00)
04 - Highlands Of Orick (08:03)
05 - Maximum Soberdrive (11:13)

lunedì 30 gennaio 2012

Disease - "The Stream Of Disillusion"

Autoprodotto, 2011
I Disease non sono certo dei novellini: attivi fin dal lontano 1994, hanno ormai prodotto una discografia di dimensioni rispettabili, con tre album in studio e diverse produzioni minori alle spalle. Non conoscendo i loro precedenti lavori, mi risulta piuttosto difficile etichettare la loro musica, anche perchè il primo impatto con questo "The Stream Of Disillusion" è stato, lo ammetto, piuttosto frastornante. Abituato da tempo a seguire altri generi di metal, non ero preparato ad una tale esplosione di violenza schizofrenica, che pare uscita direttamente da un ospedale psichiatrico: tale è la sensazione che i quattro musicisti italiani mi hanno trasmesso. Come una specie di versione rallentata degli Psycroptic, o una versione alternativa dei Between The Buried And Me, con forti influenze progressive e alcuni isolati sprazzi di melodia pulita e cristallina, i Disease con il loro terzo full - length ci propongono un'immersione in sonorità costantemente instabili, giocate su ritmi spezzati e distorsioni acide, mentre duettano una voce hard - rock e un growl paranoico, feroce. Molto ritmo, molta aggressività e notevolissima padronanza degli strumenti, unite ad un'attitudine "disorientante" che ci fa sentire come in mezzo a un frullatore: questa è la musica che troviamo su "The Stream Of Disillusion", per la gioia di chi nel metal ricerca sonorità vorticose e complesse.

Non si tratta certamente di musica semplice da capire, nè tantomeno da assimilare: è facile risultare interdetti da un tale pastone di influenze e sonorità diverse, come per esempio troviamo in "Infinity - Enter The Waves", o in "For My Deliverance", capaci di passare da inquietanti rallentamenti "alla Obituary" a contorsioni chitarristiche che ricordano una versione estremizzata dei Tool, mentre nel mezzo si ravvisa qualche parte vocale alla Wasp, o qualche assolo tipicamente rock ("In This Morning")...ma anche il death - grind - progressive di "New Closer Hypocrisy", con le sue improvvise e inaspettate aperture melodiche, non è niente male. Insomma, è ben difficile raccapezzarsi e capire che tipo di musica la band stia realmente suonando. Tuttavia, per chi ama questo tipo di musica che sta sempre in bilico tra due o più mondi, i Disease rappresentano sicuramente un buon acquisto: indubbia è la loro capacità tecnica e la loro fantasia, nonchè la capacità di graffiare con i loro suoni rocciosi e abrasivi, che colpiscono come un treno in faccia. Ma quando serve sono anche capaci di ammaliarci con passaggi melodici d'alta scuola, sempre però molto circoscritti e collocati nei brani come ulteriore elemento "schizofrenico": come la relativa tranquillità di un malato psichiatrico che è stato appena "convinto" a starsene buono, con mezzi più o meno discutibili: e appare così serafico e rilassato, ben disposto nei confronti di tutti...in realtà aspetta solo il momento per far uscire di nuovo le sue pulsioni malate e distruttive. Se non avete timore di immergervi in un tale stato d'animo, "The Stream Of Disillusion" fa per voi. Per chi invece ama il metal lineare, melodico e che va in una direzione precisa, allora è meglio pensarci due volte prima di provare i Disease, i quali difficilmente saranno merce per voi. A ciascuno i suoi gusti!

P.S: Davvero particolare la cover degli Anathema, "Empty", posta in chiusura: per quanto sia completamente stravolta rispetto all'originale, essa dimostra che sicuramente ai Disease non manca la capacità interpretativa.

P.P.S: La band segnala che il disco (come tutti gli altri da loro pubblicati) è disponibile per il download libero all'indirizzo http://diseaseprogstreme.blogspot.com.

01 - Different Suns (2:46)
02 - New Closer Hypocrisy (5:09)
03 - The Stream Of Disillusion (6:16)
04 - Release The Emptiness (5:29)
05 - Infinity - Enter The Wave (9:30)
06 - For My Deliverance (5:50)
07 - In This Morning (6:55)
08 - Empty (Anathema Cover) (2:55)

domenica 29 gennaio 2012

Unholy - "From The Shadows"

Lethal Records, 1993
Questi qui sono fuori di testa.

Sound esile e gracchiante, growl urlato, a tratti quasi vomitato in perfetta tradizione Old School Death Metal, strilli disumani, clean fievole e malaticcio, uso avanguardistico delle tastiere nell’ambito del Metal estremo, tra cui l’organo da funerale, atmosfere macabre, orrorifiche, finanche tribali, toni plumbei e andamento pachidermico. Quello che ci propongono gli Unholy col loro album d’esordio è pazzesco: sembra di ascoltare una musica appestata, lebbrosa, e che con la salute fisica ha perduto anche il senno. E poi partono delle sfuriate senza il minimo preavviso che altrettanto velocemente si arrestano, come accade in Creative Lunacy; oppure così, dal nulla, saltano fuori delle parentesi melodiche che lasciano a bocca aperta, magistrali quelle di Alone e Colossal Vision.

Vi piacciono i desolanti Shape Of Despair? Amate gli oscuri Evoken? Siete fan accaniti degli introspettivi Skepticism? Ebbene, tutto ciò proietta le proprie radici nelle tenebre, è sgusciato fuori “From The Shadows”, dato che, da quanto ho avuto modo di ricostruire, gli Unholy, questi insani macabri finlandesi, questi feticisti del raccapriccio, furono credo i primi in assoluto a gettare le basi di quella bestia grama che diverrà poi negli anni il Funeral Doom Metal. E poco importa se nei successivi sviluppi essi si atterranno maggiormente a quello che oggi chiamiamo Doom/Death Metal, così come poco importa se il genere di From The Shadows è più che altro un Old School Death Metal tremendamente rallentato e infarcito di atmosfera, perché in esso sono rintracciabili tutti gli elementi sufficienti ad additarli come i responsabili dell’apertura del Vaso di Pandora dal quale fuoriuscì quell’avventura squisitamente disgraziata che è il Funeral Doom. Gli Unholy sono Pandora, e From The Shadows è il vaso donatogli da Zeus; il male che esso sprigionò diede probabilmente i natali alle losche figure degli Skepticism, degli Evoken, degli Shape Of Despair e di tutti gli altri - anche i Thergothon, generalmente additati come i padri del Funeral Doom, probabilmente passarono di qui, dato che molti dei brani degli Unholy erano già comparsi su alcune demo datate 1990. L’impresa che ha compiuto questa band pare fortemente ripercorrere, per pazzia e lungimiranza, le gesta di band come Black Sabbath e Candlemass, anche se il risultato è stato credo ancora più tragico.

Ma la follia di questa band non è semplicemente una miscompresa lucida lungimiranza; è follia autentica. Come può un album così importante e fondamentale contenere brani assolutamente geniali e incommensurabili come Alone, Gray Blow, Creative Lunacy e Colossal Vision al pari della clamorosa inerzia degli altri cinque, che oscillano pericolosamente tra un annichilente disfattismo e una piatta mediocrità? Sembra quasi incredibile che sia stata la stessa band a scriverli, e addirittura a metterli nello stesso album; eppure è così. Se negli uni appaiono soluzioni degne del migliore estro creativo, negli altri non succede nulla dal primo all’ultimo minuto, e laddove nei primi si coglie un vivo impulso attivo i secondi non sono altro che uno stanco affascinante trascinarsi verso la fine, un prendere parte ad una tetra marcia funebre verso la definitiva sepoltura - su tutte la tremenda The Trip Was Infra Green. Questa paradossale coesistenza dell’alto e del basso, del pieno e del vuoto, del vivo e del morto è frutto di una vistosa immaturità artistica da parte degli Unholy di allora, immaturità che però in questo caso contribuisce a plasmarne l’immagine ed accrescerne l’alone di mistero, di pazzia, di visionarietà.

In definitiva From The Shadows è un album folle e insano sotto ogni punto di vista, è quel Vaso di Pandora che i tanti detrattori del Funeral Doom Metal vorrebbero non fosse mai stato aperto e dal quale invece le anime più inquiete sembrano inspirare aria vitale a grandi boccate. Un’esperienza da provare a tutti i costi, e quando l’avrete fatto vedrete che sarà lui a tornare da voi.

01 - Alone (07:51)
02 - Gray Blow (07:22)
03 - Creative Lunacy (07:03)
04 - Autumn (03:10)
05 - Stench Of Ishtar (07:29)
06 - Colossal Vision (08:24)
07 - Time Has Gone (05:47)
08 - The Trip Was Infra Green (08:02)
09 - Passe Tiermes (07:05)

sabato 28 gennaio 2012

Unexpect - "Utopia"

Autoprodotto, 1999
E’ dalle lande di una terra incantata sconosciuta forse mai realmente esistita, da un lontano sperduto tempo senza tempo, che paiono provenire i sessantacinque minuti di echi e melodie di cui mi accingo a parlare, come se fossero un prodotto della fantasia, il lieto fine di un sogno felice che per un attimo si afferra e si stringe tra le mani ma che inesorabilmente svanisce quando pochi istanti dopo lentamente riapriamo i nostri occhi. Giusto il tempo di un battito di ciglia, per poi ricadere nel nulla dell’amnesia eterna.

Fu proprio così che sembrò iniziare la carriera musicale degli Unexpect: come un fantasioso fugace prodotto della nostra mente, una delle tante fantasie con cui trastullarsi e poi riporre nel cassetto delle cose che non verranno mai più ricordate. Vennero a noi nel lontano 1999, timonieri di un vascello spaziale autoprodotto con le vele ammainate, un artwork che non può fare a meno di richiamare generi quali il Power e il Symphonic Metal; non fosse altro che fin dall’inizio si capisce che la situazione non è così semplice come potrebbe sembrare. Le influenze musicali che Utopia ospita facendo convivere dentro di sé sono molteplici: non già un semplice Power sinfonico, ma uno strano ibrido in cui si passa dalle scorrazzate tipiche del Power Metal a riff più taglienti che sembrano tendere al Metal estremo in stile Cradle Of Filth, dalla soave ebbrezza della musica sinfonica - si vedano soprattutto Metamorphosis, Shades Of A Forbidden Passion e The Flames Of Knowledge Forever Lost - ad ebbrezze più violente e difficilmente classificabili. Anche gli stili canoro e compositivo suggeriscono questa sorta di lacerazione del Symphonic Power alla volta di lidi più aspri e impervi, dato che un clean femminile e uno scream acido alla Dani Filth si cedono il passo vicendevolmente, e dato che le strutture dei brani sono estremamente cangianti e irregolari. Ampio uso è fatto inoltre del violino - si vedano in particolare gli ultimi due brani -, tanto che nella lineup della band figura un musicista celato dietro il curioso soprannome Le Bateleur, Il Giocoliere, che si occupa unicamente di quello. Ad aggiungere perplessità a questa singolare sublimazione del Symphonic Power, o se preferite a questa sorta di powerizzazione di Cradle Of Filth e affini, fanno capolino una produzione grezza abbastanza casareccia e degli arrangiamenti sinfonici che troppo facilmente tradiscono il loro esser figli del sintetizzatore. Ma nonostante ciò gli Unexpect, l’equipaggio di questo vascello spaziale con le vele ammainate, le marionette che animano gli spettacoli della nostra più fervida fantasia, la creazione suprema dell’enigmatico SyriaK, riescono ad entusiasmare alla grande in molteplici momenti e passaggi musicali - davvero troppi e troppo diversi tra loro per poter essere citati tutti.

La conclusione che traggo ascoltando Utopia è che fu chiaro fin da subito che gli Unexpect avevano talento da vendere, un talento tanto compositivo quanto strumentale; semplicemente dovevano ancora trovare una loro precisa identità che gli permettesse di utilizzare completamente la straordinaria potenza della loro stramberia incanalandola in modo efficace sul pentagramma e poi su disco; dovevano ancora sciogliere le vele del loro vascello. Sta di fatto che Utopia fu un tuffo nel vuoto: nonostante una critica entusiasta e un rapido sold-out, con le sue appena cento copie stampate non lasciò né segni né tracce, tanto che per risentire la band bisognerà aspettare un mini EP datato 2003, e per un successivo full-length si dovrà attendere addirittura fino al 2006 - anche se c’è da dire che qui quel frutto buono ma ancora un po’ acerbo chiamato Unexpect subirà una piena succosa maturazione. In ogni caso Utopia non fu mai ristampato da nessuna casa discografica. Utopia rimase in un certo senso proprio un’utopia...giusto il tempo di un battito di ciglia, per poi ricadere nel nulla dell’amnesia eterna.

01 - Vespers Gold (07:32)
02 - Constellation And Mysticism (05:38)
03 - Metamorphosis (02:45)
04 - Shades Of A Forbidden Passion (06:46)
05 - Palace Of Dancing Souls (02:55)
06 - The Fall Of Arthrone (07:29)
07 - Ethereal Dimensions (07:47)
08 - The Flames Of Knowledge Forever Lost (07:16)
09 - In Velvet Coffins We Sleep (08:55)
10 - The Revival (08:31)

The Angriest Dog In The World - "Writhe"

Autoprodotto, 2011
Provengono da Vicenza questi giovani musicisti, che hanno all'attivo due Ep e una cover, e che hanno scelto un nome molto interessante per descrivere la musica della propria band: "il cane più arrabbiato del mondo". Posso dire che l'accostamento tra concetto e musica è azzeccato, in quanto la proposta musicale di questa band consiste in un alternative - punk metal molto "sporco", che ricorda i primi seminali lavori dei Celtic Frost, oltre a produzioni più recenti e qualitativamente migliori come Faith No More, Tool, Soundgarden e così via. Nel breve spazio di quattro canzoni, i The Angriest Dog... confezionano un concentrato di rabbia e malessere esistenziale, tramite pezzi dall'atmosfera tesa e vagamente malata, in cui il lavoro viene svolto interamente da un riffing ruvido e acido (ma sempre sufficientemente melodico) coadiuvato da una voce a metà tra il growl e il clean, che declama la propria paranoia esistenziale in maniera convincente.

Da segnalare l'ottima padronanza degli strumenti, che si esprime tramite riff contorti e parti ritmiche sempre mutevoli, come a simboleggiare uno stato d'animo che non si discosta mai dalla perenne inquietudine. Momenti relativamente "tranquilli" (in realtà sempre pregni di tensione) si alternano a cavalcate metal stoppate e ad accelerazioni improvvise che donano una buona spinta ai brani, facendo sì che l'esperienza di "Writhe" sia breve ma significativa, quando si ha bisogno di staccare un po' dal mondo e di rifugiarsi in un sano bagno di suoni distorti. A tratti la musica ricorda alla lontana quella dei maestri Neurosis, specialmente in pezzi come "Away" o "Eclipsed", i meno immediati del lotto. Musica schizoide, distruttiva e nichilista, in ogni caso mai positiva o rasserenante. Proprio come potrebbe essere un cane arrabbiato, il quale notoriamente non sta a guardare in faccia nessuno, ma morde senza tanti complimenti. Devo dire che è stato un piacere farmi "mordere" da questo cane arrabbiato: il gruppo ha potenzialità e sono sicuro che con il tempo saprà produrre della musica molto interessante. Per ora, l'Ep si può considerare come un promettente biglietto da visita, nonchè un ottimo modo per sfogare la propria frustrazione esistenziale nel breve arco di un quarto d'ora.


01 - Red (3:40)
02 - Choke (3:49)
03 - Away (2:55)
04 - Eclipsed (5:04)

mercoledì 25 gennaio 2012

Fen - "Epoch"

Code666 Records, 2011
Con l'ombroso debutto "Ancient Sorrow" si sono mostrati come band promettente, anche se ancora da sgrezzare. Con il primo album in studio "The Malediction Fields" hanno poi superato sè stessi, creando una vera e propria opera d'arte che univa un passionale romanticismo "naturalistico" ad atmosfere umide e piovose, derivate dalla sapiente rielaborazione del black metal più all'avanguardia. Il terzo lavoro discografico "Epoch" è qui per mostrarci un'ulteriore lato dei Fen, gruppo britannico che sta riscuotendo sempre più consensi nell'ambito post rock - black metal - shoegaze. Unire questi tre generi musicali, che a loro volta sono il frutto delle unioni di altri generi, è diventato ormai un ottimo sistema per proporre musica originale e potenzialmente ricca di espressività, a patto ovviamente di avere la classe sufficiente per farlo. Classe che non manca e non è mai mancata ai Fen, che fin dal primo vagito musicale sono riusciti a convincere critica e pubblico delle loro capacità artistiche.

Come già possiamo aspettarci conoscendo i Fen, "Epoch" non è un album aggressivo nè feroce, nonostante le sue sonorità relativamente spinte e distorte, che potrebbero suggerire sentimenti negativi ad un ascoltatore poco attento. Lo scopo dei Fen è invece quello di avvolgere l'ascoltatore in un'atmosfera grigia e depressiva, talvolta concedendogli qualche sprazzo di luminosità, talvolta ammaliandolo con momenti strumentali suadenti e dilatati, e solo raramente investendolo con la potenza di uno tra i più intensi screaming che io conosca. I fiumi strumentali di "The Malediction Fields", che suonavano come impetuosi torrenti in piena, hanno infatti lasciato il posto a composizioni più rarefatte, maggiormente improntate alla melodia e ricche di break atmosferici, nei quali vagare senza meta aspettando che la musica ci riporti sui binari principali. Rispetto alla componente black metal, acquistano maggiore forza ed espressività le suggestioni post - rock, particolarmente evidenti in brani ipnotici e nebulosi come la title track "Epoch", posta in apertura di album. Chitarre "sporche" ma aggraziate, timbriche evanescenti e una sezione ritmica pregevole (in particolare per le linee di basso) vorrebbero suggerirci, e ci riescono, di aprire la mente alle fantastiche sensazioni procurate dal vento che soffia impetuoso tra gli alberi ormai privi di foglie, o da mille scaglie di ghiaccio che si muovono ritmicamente ai bordi di un lago gelato, sbattendo l'una contro l'altra e producendo suoni surreali. Ma anche dallo stato d'animo di chi le osserva, a metà tra il malinconico e il meditativo, sicuramente non felice o spensierato. Sensazioni che traspaiono perfettamente da ciascuno degli otto brani, che scorrono con gentilezza e accarezzandoci con mutevole intensità, a seconda del momento. A volte la carezza è un semplice e leggero tocco di chitarra acustica, quasi impercettibile; a volte è uno strofinio deciso di strumenti distorti e tuonanti, che mescolano passione e tristezza con l'abilità che solo dei musicisti talentuosi possono immettere nelle loro composizioni. Ecco dunque che nascono, come fiori dall'accecante bellezza, brani come la magistrale "Carrier Of Echoes", dal piglio deciso e irruento ma sempre splendidamente melodico; la rilassata "Half - Light Eternal", molto Alcest - style specialmente nelle parti arpeggiate e nell'emozionante finale a base di assolo spaccacuore e vocals pulite sognanti (migliorate notevolmente rispetto ai precedenti album); l'enigmatica girandola di "The Gibbet Elms", popolata da stupendi cori di sottofondo e da linee tastieristiche fini e ben amalgamate con le ruvide chitarre; oppure la malinconica "Of Wilderness And Ruin", che sfoggia melodie così affilate da tagliare in due il cuore; e la disperata corsa finale dei tremolo picking in "Ashbringer", brano che accelera e rallenta in modo repentino, come a simboleggiare il continuo cadere per poi rialzarsi e proseguire, fino all'ultima caduta, troppo dolorosa per rimettersi nuovamente in piedi.

"Epoch" ci colpisce con la sua musica intrigante, intima e crepuscolare, come se volesse trascinarci in un vivido sogno ad occhi aperti. Non c'è da aspettarsi perfezione stilistica nè pulizia sonora, così come non c'è da aspettarsi un lavoro facilmente fruibile: per assimilare tale musica serve tempo, pazienza e la giusta disposizione d'animo. Su questo disco, così come sui precedenti, si trova libera espressione dei sentimenti, che non va sempre di pari passo con la ricercatezza tecnica o la raffinatezza a tutti i costi: chiede semplicemente di potersi esprimere, e di poter arrivare direttamente al cuore dei destinatari. Quel che è certo è che i Fen proseguono magistralmente la loro evoluzione, senza curarsi delle critiche a cui talvolta vengono sottoposti: critiche che in realtà non fanno che trasformare in difetti quelli che sono i punti di forza della band. Con grande onestà e impegno, i Fen ci propongono una musica "a modo loro": sta a noi prendere o lasciare. 

01 - Epoch (6:18)
02 - Ghosts Of The Flood (6:25)
03 - Of Wilderness And Ruin (8:18)
04 - The Gibbet Elms (6:29)
05 - Carrier Of Echoes (10:38)
06 - Half - Light Eternal (8:22)
07 - A Warning Solace (9:51)
08 - Ashbringer (8:34)

lunedì 23 gennaio 2012

Avelion - "Cold Embrace"

Autoprodotto, 2008
Rimango sempre stupito da quante giovani metal band ci siano in circolazione: ogni volta che mi scrive un gruppo esordiente per avere una recensione, e leggo la biografia allegata all'email, scopro sempre un fattore comune: il tentativo di affermare sè stessi in un mercato discografico  tutt'altro che in crisi, specialmente se parliamo del genere metal (a detta di tutti moribondo, in realtà sempre più vivo e vegeto). Gli italiani Avelion sono una delle tante band che tentano faticosamente di farsi strada in questo sterminato panorama discografico, e ad un primo ascolto credo che abbiano le carte in regola per proseguire la loro evoluzione in modo proficuo, a patto di riuscire ad esprimere il potenziale che in questo EP viene mostrato ma non approfondito ai massimi livelli.

Il gruppo suona un power metal contaminato da ritmiche thrash ed elementi progressive, cocktail che ultimamente sta prendendo piede, quando ci si accorse che il power da solo è spesso prigioniero dei suoi schemi, il thrash è stato ampiamente sfruttato e il progressive da solo rischia di non essere compreso dalla maggioranza del pubblico. Mischiando assieme questi tre generi, invece, si riesce ad ottenere un buon equilibrio e a produrre una musica più varia e completa. I quattro brani in questo EP sono tutti ben costruiti, infarciti di tastiere dai timbri spiccatamente prog, e giocano su una componente melodica accentuata in modo da non risultare mai particolarmente aggressivi. Il gruppo preferisce una musicalità orecchiabile e diretta, non immune tuttavia da qualche elemento di virtuosismo strumentale che non guasta mai (la classicheggiante "Immortal's Light", per esempio). C'è l'episodio più strettamente power - oriented ("Cold Embrace"), la classica ballad ("Bright Angel") e infine un brano leggermente più aggressivo e potente, ottimo per l'headbanging ("Follow Me"), così che in quattro brani il gruppo riesce facilmente a condensare quale sarà la sua proposta musicale in generale.

Che somme tirare su questo dischetto? Un lavoro onesto e piacevole, senza dubbio, ma a mio parere il gruppo deve lavorare ancora un po' sulla personalità, altrimenti il rischio è quello di rimanere solo un gruppo piacevole da ascoltare, ma nulla di memorabile. Sono tuttavia sicuro che l'esperienza e l'impegno dei musicisti faranno il loro corso: non ci rimane che aspettare e vedere come si evolve la situazione. Buon lavoro!

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01 - Cold Embrace (5:44)
02 - Immortal's Light (4:19)
03 - Bright Angel (3:53)
04 - Follow Me (5:15)

Vital Remains - "Dawn Of The Apocalypse"

Osmose Productions, 2000
Una basilica in fiamme, figure demoniache che discendono dai cieli e un famelico capro che svetta vittorioso sulle spoglie delle superstiziose credenze che furono e che ancora si ostinano a fingere di essere, simboleggiate dalla disperazione di un parroco in vana supplica: non poteva esserci modo migliore per i titanici Vital Remains di tornare nel 2000 col loro quarto full-length, Dawn Of The Apocalypse, e inaugurare così il nuovo millennio.

I Vital Remains sono una Death Metal band atipica, nel senso che pur suonando un Death classico al 100% si producono in brani lunghi ed epici, che spesso e volentieri si spingono ben oltre i sette/otto minuti di durata. Se nei loro primi dischi questa tendenza non era ancora del tutto esplicita ed inquadrata, fu solo Forever Underground (1997) che la ripropose con piena convinzione, e toccò a Dawn Of The Apocalypse consolidarla definitivamente. Per questo motivo se mai avrete la fortuna di ritrovarvi tra le mani questo discone, e se deciderete di farlo danzare nello stereo di casa vostra, verrete investiti da un Death Metal classico, quadrato e molto spinto, ma al tempo stesso longevo con un che di biblico, arcaico, distruttivo, grazie anche agli evocativi intermezzi strumentali e all’uso occasionale di toccanti chitarre acustiche. Brani lunghi e pazzescamente epici che consistono delle imperiture cavalcate del leader Tony Lazaro sui blastbeats del martellante Dave Suzuki, riff su riff, colpo su colpo tra growl e scream di un ottimo Joe Lewis, con tanta varietà ma al tempo stesso abbastanza lineari da trasportare la mente fino a ritrovarsi dinnanzi ad un blasfemo tribunale dell’Inquisizione sul quale svetta un capro con due lunghe corna che coi suoi occhi di fuoco punta inesorabilmente il dito contro la Chiesa Cattolica, macchiatasi le mani reiteratamente di un imperdonabile arretramento culturale, di aver facilitato il diffondersi delle nevrosi, con le sue promesse disattese e le sue illusioni deliranti, ma soprattutto rea di empietà nei confronti del raziocinio. Vi sembrerà di trovarvi lì, dinnanzi a questo tribunale, il giorno in cui finalmente la devastazione della razionalità e dell’individualismo perorati dalla Chiesa Cattolica avranno fine con la dissoluzione della stessa - l’alba dell’apocalisse. Che tale alba coincida davvero con l’alba del ventesimo secolo? Che fosse questo il reale messaggio che i Vital Remains vollero comunicarci attraverso il loro quarto sigillo, Dawn Of The Apocalypse? Questa intuizione non fa altro che aggiungere gusto al già godereccio Death Metal blasfemo che i Vital Remains ci somministrano fieramente.

Dawn Of The Apocalpyse rappresenta un ulteriore miglioramento da parte di una band che non subì per nulla la crisi creativa che travolse molte delle maggiori band Death Metal verso metà degli anni ’90, e che anzi per tutto tale periodo si migliorò costantemente fino ad arrivare ad inaugurare il nuovo millennio con questo grande disco, uno dei più belli in assoluto che io conosca in ambito Death Metal nudo e crudo. Un nuovo millennio che poi portò alla band ulteriore linfa vitale e devastante distruttività, anche se questa è un’altra (fantastica) storia...

01 - Intro (00:48)
02 - Black Magick Curse (08:46)
03 - Dawn Of The Apocalypse (08:48)
04 - Sanctity In Blasphemous Ruin (08:39)
05 - Came No Ray Of Light (00:53)
06 - Flag Of Victory (09:10)
07 - Behold The Throne Of Chaos (08:47)
08 - The Night Has A Thousand Eyes (03:43)
09 - Société Des Luciferiens (09:05)

domenica 22 gennaio 2012

Drudkh - "Autumn Aurora"

Supernaul Music, 2004
Uccellini che cantano, una mesta chitarra acustica che suona un arpeggio sconsolato per poi tacitarsi quasi subito e lasciare spazio solo ai delicati suoni della natura: è così che esordisce "Autumn Aurora", secondo album degli ucraini Drudkh. Se c'è ancora qualcuno che pensa che il metal sia solo rumore, costui dovrebbe ascoltare questo album: si renderebbe conto che il metal non solo è musica a tutti gli effetti, ma può essere talvolta la più poetica delle musiche, la più delicata e soffusa nonostante i ronzanti suoni delle chitarre distorte e i lamenti disperati delle voci in screaming, che squarciano le carni come il vento autunnale ferisce la pelle e la fa avvizzire.

Giunti alla seconda prova discografica dopo lo sfolgorante esordio "Forgotten Legends", il quale offriva una musica ruvida ma autenticamente genuina, i Drudkh proseguono la loro evoluzione spostando leggermente le coordinate sonore. Il black metal crudo, possente e compatto dell'esordio viene mitigato da un'attitudine più soffice, riflessiva e intimista, che evoca una sensazione di tranquillità contemplativa, lasciando quasi completamente in disparte la componente aggressiva. "Autumn Aurora" traspone, nel corso di quaranta intensi minuti, la magia delle atmosfere autunnali, dei loro colori cangianti e violenti, dei profumi di cui è impregnato il bosco nell'atto di spegnersi lentamente nel gelo invernale, dei suoni che popolano la terra attorno agli alberi, calpestata da animali furtivi e carezzata da un vento beffardo e insistente che sposta le foglie facendole crepitare. Un corollario di natura incontaminata e selvaggia, contemporaneamente dolce e rude come solo lei sa essere. La copertina, proposta in due varianti a seconda dell'edizione discografica, è la perfetta rappresentazione della musica, così come il fiammeggiante tramonto di "Forgotten Legends" suggeriva un disco incendiario e sanguigno.

A fronte di uno schema strumentale e stilistico già collaudato, vale a dire la solita produzione volutamente imperfetta e il solito mixaggio volutamente approssimativo, ciò che rende speciale "Autumn Aurora" è la sua irresistibile vena poetica, che lo porta a sconfinare spesso in sezioni acustiche e pulite, a perdersi in melodie spiccatamente tristi e melanconiche ("Glare Of Autumn"), perfettamente controbilanciate da episodi più ariosi e meno sofferti ("Sunwheel"), che poco hanno della tradizionale ferocia del black metal. Non si vuole qui pennellare uno scenario di una natura vendicativa e crudele, bensì del semplice passare del tempo e dello scorrere delle stagioni, che procedono serafiche e indisturbate nei loro millenari rituali. Relativamente lento rispetto alla media del black metal atmosferico, il disco non punta sulla tecnica, nè sulle muraglie di suono, nè sulla potenza sprigionata dagli strumenti o dalla voce: preferisce invece concentrarsi su pochissimi elementi, mettendo l'emozionalità al primo posto e valorizzandosi nel tentativo di creare atmosfere posate e gentili, che possano accompagnare meravigliosamente una passeggiata negli umidi boschi dell'autunno, lasciando che i sensi vengano saturati dalle meraviglie che vi si trovano. Una riuscita novità è l'introduzione di linee tastieristiche, usate tuttavia in maniera così tenue che quasi non si riescono a riconoscere: eppure in qualche modo l'orecchio le percepisce, ed esse vanno ad arricchire la musica in maniera sorprendente, nonostante la posizione marginale che ricoprono. Ecco dunque che prendono vita episodi solenni come "Summoning The Rain", o delicatamente ipnotici come la conclusiva "The First Snow", che ammalia con il suo incedere ripetitivo e frusciante e simboleggia perfettamente il lento e continuo depositarsi dei fiocchi di neve; ma anche il sapore antico e leggendario di "Wind Of The Night Forests" è un qualcosa che lascia incantati e non può non suscitare un qualche genere di emozione anche nel più insensibile degli ascoltatori. Il disco va ascoltato tutto intero: gli album come questo, che si basano unicamente sulle atmosfere, non possono essere spezzettati, altrimenti perdono completamente la loro magia.

Il secondo disco dei Drudkh è dunque il loro secondo capolavoro, che sa sfruttare i punti di forza del debutto e li sposta su coordinate pastorali, confermando ancora una volta come il black metal si possa considerare "natura in musica" a tutti gli effetti. Un disco da ascoltare in perfetto silenzio, in mezzo alla natura, in uno stato d'animo devoto e raccolto, senza pensieri negativi per la testa: allora sprigionerà tutto il suo potenziale. Viceversa, non saprà di niente: la bellezza, quella vera, è sempre fragilissima.

01 - Fading (1:31)
02 - Summoning The Rain (5:41)
03 - Glare Of Autumn (5:10)
04 - Sunwheel (8:48)
05 - Wind Of The Night Forests (10:00)
06 - The First Snow (9:11)

sabato 21 gennaio 2012

Fen - "The Malediction Fields"

Code666 Records, 2009
L’altro giorno sono passato davanti al bosco dietro casa mia, e gettando una fugace occhiata oltre le spoglie fronde dei primi alberi ho provato, nel giro di pochi passi, un’irresistibile attrazione per quel letto di foglie secche che ricopre il terreno in questa stagione, per i sentieri e le loro sponde, per quella sterminata distesa affascinante di tronchi ritti come i soldati di una imperitura legione che risplendeva sotto un timido sole invernale. Mi sono allora immaginato camminare solitario in questa distesa di forme e colori, e istintivamente nelle mie orecchie risuonavano gli echi dei brani di The Malediction Fields.

L’artwork e la musica di The Malediction Fields sembrano infatti raccontare di un simile paesaggio, capaci di trasportare tra le cortecce di boschi incontaminati, e tra i profumi selvatici, e tra i rumori della natura: tale è l’esordio su full-length che i Fen hanno saputo costruire, questo loro Black/Neofolk innervato da numerose linee melodiche in clean che alterna imponenti squarci luminosi ad oscure penombre boschive, Black/Neofolk che da un lato vorrebbe tendere al Post-Black, ma dall’altro lato viene tirato indietro nella sfera del Black più grezzo da una produzione povera azzeccatissima. Merito della loro dedizione alle tiepide melodie Agallochiane e al gelido sound del Black Metal, merito della loro genuina ispirata creatività, ma merito anche di un songwriting brillante che dà vita a brani articolati i quali si snodano come le radici di un grosso salice che si specchia placido nel lago che bagna i suoi piedi. E così si susseguono scene incantate, una serie magica di diapositive come i sublimi chiaroscuri di As Buried Spirits Stir, che con la sua molteplicità di risvolti passa in rassegna un’ampia gamma di emozioni; oppure le copiose fioriture di The Warren, che da un timido bocciolo iniziale si aprono a ventaglio in un emozionante crescendo; o ancora le tinte da pelle d’oca di Colossal Voids - superlativa l’outro! -, così evocative che sembrano quasi conferire la sensazione del terreno coperto di foglie secche che scricchiolano e frusciano sotto i propri passi.

Purtroppo però ci tocca scendere per un istante dal piedistallo poetico che The Malediction Fields ha saputo finora creare, perché su questo disco ho sentito dire di tutto: che la produzione è troppo scadente, che i brani sono fin troppo lunghi rispetto al loro contenuto musicale, che la band non riesce ad esprimere tutto il suo potenziale, che il cantato in clean è stonato e poco incisivo. L’unica critica fondata tra queste riguarda le stonature del clean che in effetti ci sono, anche se a onor del vero bisogna dire che sono ben mascherate dall’atmosfera circostante e quindi non danno granché fastidio. Per il resto si tratta di critiche arbitrarie e fantasiose che non trovano minimamente riscontro nei fatti: ogni brano ha una sua evoluzione precisa che ne giustifica pienamente la durata; non vedo poi come un cantato clean così docile e sognante possa non essere incisivo, e soprattutto non capisco come sia possibile sostenere che una band che si presenta con un disco che scorre via in modo così elaborato eppure naturale e suadente al tempo stesso possa avere un grande potenziale inespresso. Per non parlare poi della produzione scadente, che proprio in quanto tale è uno dei maggiori punti di forza del disco: quand’è che la si finirà con questa ossessionante fobia per le produzioni povere e ruvide? Quand’è che finalmente si sarà capaci di coglierne l’immenso fascino artistico?

Ma come al solito è forse meglio lasciare da parte queste sterili polemiche, giacché la musica dei Fen parla da sola e non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. Non è infatti la rabbia, non è la cattiveria che scorre nelle vene dei Fen, ma torrenti di melodia, piccoli puri rigagnoli che prendono corpo fino a divenir ruscelli per poi convergere in un fiume in piena straripante, incontenibile, irresistibile, creando nell’aria poetiche volute coi suoi spruzzi e il suo vapore acqueo. Non opponetegli resistenza, non cercate di salvarvi, lasciatevi investire ad occhi chiusi e con un sereno sorriso dipinto in volto: e quello che sentirete allora non sarà dolore, ma una liberatoria sensazione di equilibrio con la natura.

01 - Exile's Journey (08:08)
02 - A Witness To The Passing Of Aeons (07:07)
03 - Colossal Voids (08:32)
04 - As Buried Spirits Stir (06:58)
05 - The Warren (07:10)
06 - Lashed By Storm (08:54)
07 - Bereft (11:49)

giovedì 19 gennaio 2012

If These Trees Could Talk - "Above The Earth, Below The Sky"

The Mylene Sheath, 2009
Sono settimane che cerco di reperire questo CD, navigando sulla rete e cercando un sito dove ordinarlo, ma la mia ricerca purtroppo deve dirsi conclusa senza successo. Come spesso accade quando si scopre una band talentuosa e interessante, ma ancora appartenente all'ambito underground, il destino è crudele e ha decretato che tutte le poche copie disponibili sono già state vendute ad altri fortunati che se le sono accaparrate in tempo. Lo so, sono arrivato tardi, ma che ci posso fare se questi cinque ragazzi americani hanno pubblicato il loro secondo album con un'etichetta underground come la Mylene Sheath? Probabilmente sono già stati fortunati a trovare una label che li pubblicasse, provenendo dal completo anonimato. Tuttavia, il fatto che non li conosca praticamente nessuno non deve trarre in inganno: questo "Above The Earth, Below The Sky" è uno dei prodotti più interessanti e suggestivi che mi sia capitato di avere tra le mani. In senso figurato, ovviamente, dato che sto ancora aspettando una caritatevole operazione di ristampa che mi permetterà finalmente di possederne copia fisica.

Etichettarli come post rock (o post metal, data la non trascurabile pesantezza delle chitarre in diversi frangenti) è semplicemente riduttivo e non renderebbe giustizia ad una musica poliedrica e variegata come questa. I liquidi e ipnotici insiemi di suoni racchiusi in questo CD sono un qualcosa che a mio parere trascende la classificazione per generi, anche se il post rock in sè può essere considerato l'emblema della contaminazione musicale. Il poetico nome della band rimanda inevitabilmente a qualcosa che ha a che fare con la natura e la poesia che essa racchiude: se gli alberi potessero parlare, chissà se suonerebbero così. Di certo la musica del quintetto è molto adatta a pennellare scenari ameni e a trasportare con la fantasia verso luoghi dimenticati e meravigliosi, esplorati con gli occhi di chi ancora sa emozionarsi per le piccole cose. Totalmente strumentale e basata solo su chitarra, basso e batteria, la musica è un lungo e psichedelico fiume di melodie impetuose e torrenziali, mutevoli e corpose, che si compenetrano l'un l'altra in un continuo collage di linee melodiche sovrapposte e differenti. Contrappunto, per chi mastica i termini della teoria musicale. Suggestioni agallochiane ed echi dei migliori Pink Floyd, per citarne solo un paio, sono rimandi piuttosto evidenti: essi, tuttavia, non inficiano minimamente la personalità e l'abilità del gruppo. Sfido chiunque a partorire un album strumentale che riesca a tenere incollato l'orecchio alle casse dello stereo. Con sorprendente maturità e naturalezza, i cinque strumentisti (tutti dotati di una tecnica e di una padronanza di tutto rispetto) ci ammaliano dal primo all'ultimo secondo di questa affascinante release, senza che la mancanza della voce si faccia notare come difetto: la musica è già perfetta così, pienamente espressiva e ricchissima di timbri, abbellimenti, effetti e soprattutto note, quelle vere. Guai a pensare che siano solo di un po' di delay sulla chitarra e qualche rullata controtempata a fare di questo disco un gioiello: questi sono solo elementi che impreziosiscono ulteriormente una composizione già di per sè elaboratissima. Fin dai primi brani si viene catturati da sonorità avvolgenti, con chitarre sempre in bilico tra il pulito e il distorto, tremolo picking parossistico frammisto ad arpeggi delicati e introspettivi, potenti stoppatone e momenti di furia elementale, sotto i quali un tappeto ritmico sempre indaffarato compie un lavoro eccellente. L'album va ascoltato tutto di fila, non ci sono santi: spezzettarlo rovina irrimediabilmente la magia che scaturisce dall'ascolto globale, nel quale ogni composizione sta al suo posto e contribuisce a rendere il disco un'esperienza completa sotto tutti i punti di vista.

Ascoltarlo in mezzo agli alberi, immaginando che siano gli alberi stessi a produrre i suoni, è un'esperienza da provare: ma anche se non avete a disposizione un bosco, vi basterà mettervi le cuffie e come per incanto vi sembrerà di trovarvici in mezzo. Fatelo dunque vostro senza alcuna remora, ma prima aspettate che lo trovi io! Non potrei farmelo sfuggire una seconda volta. E perdonate l'egoismo, ma devo campare pure io...

P.S: dopo aver atteso con pazienza, ho scoperto che la band ha infine ristampato tutta la propria discografia, e sono quindi riuscito ad entrare in possesso delle copie fisiche...ma non posso rinnegare ciò che provavo quando ho scritto la recensione...per cui, anche se ormai è anacronistica, non la modificherò!

01 - From Roots To Needles (6:42)
02 - What's In The Ground Belongs To You (4:14)
03 - Terra Incognita (0:57)
04 - Above The Earth (2:19)
05 - Below The Sky (7:21)
06 - The Sun Is In The North (5:45)
07 - Thirty Six Silos (4:40)
08 - The Flames Of Herostratus (5:34)
09 - Rebuilding The Temple Of Artemis (5:06)
10 - Deus Ex Machina (2:24)

sabato 14 gennaio 2012

Drudkh - "Forgotten Legends"

Supernaul Music, 2003
Una copertina fiammeggiante e poetica, di rara bellezza, è il biglietto da visita con cui si presenta "Forgotten Legends", album di esordio degli ucraini Drudkh. Già dallo stile dell'immagine di copertina si può intuire qualcosa su ciò che troveremo all'interno dei quaranta minuti del disco: colori violenti e sempre riconducibili al rosso, un tratto grezzo e confuso spalmato sulla tela come grandine che si infrange al suolo, sfumature che non permettono di distinguere bene l'immagine reale dal suo riflesso nell'acqua. La musica dei Drudkh si sposa bene con un'immagine di questo tipo: rustica, incolta, rude e diretta, dannatamente genuina nella sua disarmante semplicità.

Fautori di un black metal piuttosto canonico e debitore dei fasti di Burzum, con il loro debutto i Drudkh assemblano tre tracce di notevole lunghezza, tra cui spicca in particolare l'opener "False Dawn", episodio cardine del disco. Strumentazione ridotta all'osso, partiture elementari e ripetitive, assenza di chitarra solista che si traduce nel costante uso di muri di chitarra taglienti e gelidi, ritmiche possenti e martellanti, screaming che rimane sempre in secondo piano a favore della parte strumentale, qualità sonora approssimativa e impastata: fin qui poco o nulla di nuovo rispetto a ciò che furono i possenti lavori del Conte. A distanza di dieci anni dalle prime, seminali produzioni di Varg (in particolare del capolavoro "Hvis Lyset Tar Oss", del quale si sentono spesso gli echi) i Drudkh ci dimostrano tuttavia che si può continuare a suonare questo genere musicale senza preoccuparsi di scadere nel "già sentito", e senza per forza volerlo contaminare con elementi diversi. Le composizioni di questo "Forgotten Legends" sono infatti coinvolgenti, intense, riccamente atmosferiche nonostante l'assenza di linee di tastiera e la povertà delle soluzioni armoniche. Mentre il roccioso incedere dei riff di "False Dawn" ci avvolge in una morsa glaciale e le sue cadenzate ritmiche ci suggeriscono un'atroce marcia in mezzo alla neve turbinante, non è possibile rimanere indifferenti e non sentire un brivido di freddo che sale lungo la schiena. Pare proprio di trovarsi lì, in mezzo a quella foresta dimenticata nella quale si è smarrito ogni orientamento e che ora ci sta riversando addosso tutta la sua rabbia, accumulata nei millenni contro gli esseri umani. Poco importa se le strutture ritmico - armoniche rimangono invariate per minuti e minuti, se le variazioni melodiche non sono poi così abbondanti, e se non c'è spazio per uno strumento che non sia distorto; "Forgotten Legends" è fatto così e funziona così com'è concepito, catturando l'ascoltatore proprio grazie alla sua magica essenza "grezza", che suggerisce immagini vivide e inequivocabili. Ciò dimostra che a volte non c'è bisogno di tante tastiere, o di strumenti presi dalla tradizione classica / folk, per riuscire ad evocare certe sensazioni. Un indubbio merito per i Drudkh, che con pochissimi elementi assemblano un disco autentico e vissuto. Non sono da meno le successive due composizioni, vale a dire le veloci "Forests In Fire And Cold" e "Eternal Turn Of The Wheel": a differenza della relativamente posata opener track, esse sublimano l'essenza più "feroce" della natura, dipingendo quadri di tempeste e frane glaciali, mentre noi non possiamo fare altro che rimanere in silenzio ad osservare. Per rendersene conto, basta ascoltare le ruvidissime e abrasive chitarre di "Forests...", o il teso e concentrato finale di "Eternal...", momenti dove la grigia essenza di questa musica si fa palpabile. Fa eccezione la quarta traccia, che non è un brano musicale in senso stretto, bensì la registrazione di un paio di minuti di pioggia e tuoni: una conclusione interessante per un disco che si può considerare come un lungo temporale trasposto in suoni distorti e penetranti. Un temporale nel quale si mischiano acqua e fuoco, i due elementi più potenti e inarrestabili della natura.

Non è raffinato, non è vario, non è innovativo, non è orecchiabile e nemmeno gentile: "Forgotten Legends" è semplicemente se stesso, uno stupendo album di black metal crudo e sanguigno, perfettamente conscio dei propri mezzi e capace di esprimere ciò che vuole con grande naturalezza. Per chi ama immergere la propria anima nell'evocazione della natura più crudele e spietata, ascoltando la musica in un compìto raccoglimento, i Drudkh sono un acquisto che non lascerà certamente delusi.

01 - False Dawn (15:58)
02 - Forests In Fire And Cold (8:56)
03 - Eternal Turn Of The Wheel (11:44)
04 - Smell Of Rain (2:47)

Raventale - "Mortal Aspirations"

BadMoodMan Music, 2009
Audace, poetico, intimo.

Audace: che è pieno di coraggio e sa osare; coraggioso: a. combattente, esploratore. O anche di ardita originalità, innovatore, nuovo: idea audace. In effetti non si può negare che Astaroth, la mente che sta dietro la one-man band ucraina Raventale, sia stato davvero audace: a un solo anno di distanza dall’ultimo full-length, che era interamente scritto nella sua lingua natale, e dal più profondo dell’underground, ecco che subito ritorna con un album nuovo, più lungo, scritto in inglese e ricchissimo di idee. Non dev’essere facile per un progetto musicale così sconosciuto trovare delle simili ispirazione e continuità discografica, eppure Astaroth, forte anche di un’ottima label quale è la BadMoodMan, ci è riuscito ed è solo grazie a questa sua tenacia che ora possiamo apprezzare Mortal Aspirations, tale è il titolo della sua nuova fatica.

Poesia: l'arte e la tecnica di esprimere sentimenti, emozioni o idee, con un linguaggio diverso da quello comune; sfrutta il ritmo e il suono delle parole, e li combina con le figure retoriche. Il linguaggio di Astaroth non è il linguaggio verbale proprio della poesia, ma il linguaggio musicale altrettanto poetico: con Mortal Aspirations, un album così simile e così profondamente diverso dal suo predecessore Long Passed Days, assistiamo ad una fusione alchemica di Black, Doom e Gothic, tutti compenetrati vicendevolmente fino a far perdere ciascuno le tracce di sé, tutti presenti eppure nessuno di essi dominante. Il risultato è una musica unica suonata direttamente col cuore, come se le nostre emozioni pizzicassero le vene a guisa di plettro.
Ma in fondo non si può negare che anche il linguaggio verbale Astaroth lo sappia usare. Un fugace sguardo ai titoli, dannatamente evocativi, è sufficiente a suscitare una visione arditamente poetica del mondo: The Silhouette Of Despair, che descrive una cosa distruttiva come la disperazione per mezzo di un concetto che richiama forme artistiche e soavi come quello di “silhouette”; A Fading Scent Of Cinnamon And The Naked, che accosta la celestiale visione di un corpo nudo femminile all’inebriante aroma della cannella; Watching A Luna Becomes Thy Face, che in sole sei parole descrive in modo incredibile le sensazioni di una persona che, guardando la luna, rivede il volto di quella che un tempo fu la sua dolce metà; Escape To The Stars, un modo poetico fino al crepacuore per descrivere la morte di una persona cara.

Intimo: che si trova, che è nella parte più interna e profonda: le intime viscere della terra; gli intimi recessi di un bosco. Astaroth ha plasmato i frammenti del suo vissuto quotidiano e gli eventi che ha vissuto sulla propria pelle - come spiega nel booklet - e da ciò è scaturito Mortal Aspirations, un album che sia musicalmente che verbalmente fa leva sulle squisite funzioni associative del nostro cervello, e che anche solo dal titolo lascia intuire tutto un universo psicologico in cui si intrecciano forti desideri e cocenti delusioni, un letto di tenue innocenza solcato indelebilmente da amari ricordi, un universo psicologico che sta dietro alle nostre mortali ambizioni e ai nostri caduchi obiettivi, che una volta raggiunti non ci basteranno mai o che comunque, nella migliore delle ipotesi, perderemo col tempo. Astaroth dà forma poetica ai propri pensieri, ai propri ricordi, che in fondo appartengono un po’ a tutti noi, e questa collezione di forme, questa istantanea scattata nelle profondità più intime del nostro essere, si chiama Mortal Aspirations: un universo in due parole.

01 - The Fall Of The Mortal Aspirations (09:23)
02 - Cosmos Inside (01:10)
03 - My Birds Of Misfortune (08:11)
04 - A Fading Scent Of Cinnamon And The Naked (09:32)
05 - Watching A Luna Becomes Thy Face (01:11)
06 - The Silhouette Of Despair (06:33)
07 - Escape To The Stars (03:27)
08 - Suicide As The Destined End (10:54)
09 - A Ravens Fade (02:11)

venerdì 13 gennaio 2012

Haggard - "Eppur Si Muove"

Drakkar Enteirtainment, 2004
Normalmente, i gruppi musicali contano dai due ai cinque elementi, raramente sei, talvolta uno solo che fa le parti di tutti. I bavaresi Haggard sembrano voler infrangere questo classico assioma, dato che al momento della pubblicazione di "Eppur Si Muove" (terzo album in studio) contano ben diciassette elementi che suonano quasi altrettanti strumenti diversi. Una piccola orchestra, si potrebbe dire, e in effetti si tratta di una descrizione appropriata. Mettendo assieme flauti, oboe, arpe, violini, violoncelli e contrabbassi, pianoforti, nonché ovviamente batteria e chitarre elettriche più le voci di tenori e soprani che duettano con il growl, questo voluminoso gruppone crea quello che potrebbe essere definito il perfetto connubio tra metal e musica classica. Dimostrando che i due generi, per quanto apparentemente antitetici, possiedono qualche interessante punto in comune.

Di sapore spiccatamente barocco, che ricorda non poco l'immenso precursore Johann Sebastian Bach, i tedeschi creano questo concept album sulla figura di Galileo Galilei, attribuendovi il titolo "Eppur Si Muove", che però è notoriamente un falso storico, in quanto la frase viene attribuita al grande scienziato senza però che egli l'abbia mai realmente pronunciata. Mirabili intrecci strumentali, immediatamente riconducibili allo stile classico, accompagnano la recitazione delle numerose voci, impegnate a declamare le gesta di Galileo, tra satelliti gioviani e volte celesti, passando per pergamene ammuffite e argute dimostrazioni filosofico - scientifiche. I numerosissimi strumenti si incastrano gli uni sugli altri con geometrie che oserei definire perfette, ritagliandosi ognuno il proprio spazio e riuscendo a creare melodie eccezionalmente ricche, come risalta subito nella celebrativa opener "All'Inizio è la Morte". Essa è popolata dai leggiadri e bucolici suoni dei flauti che duettano insieme a chitarre classiche e ad archi, facendosi aiutare da delicati vocalizzi femminili, fino a quando una dirompente serie di accordi distorti sostenuti da un corale maschile scuote le anime e ci ricorda che gli Haggard sono pur sempre un gruppo metal. La cosa stupefacente è che il gusto classico e melodico della parte strumentale "pulita" non stride assolutamente con la rocciosità della componente metal, valorizzata anche da una produzione lievemente ovattata che rende perfettamente l'idea di una musica antica, un po' impolverata. I diciassette tedeschi (anzi, ventisette: questo disco conta anche dieci collaboratori esterni) passano con disarmante naturalezza dalle melodie più pastorali al più rugginoso ritmo thrash - power metal, sviluppano i brani con progressioni spettacolari e riescono a risultare emozionanti ad ogni minuto che passa, grazie a soluzioni sempre nuove che si accalcano le une sulle altre in un meraviglioso collage in costante evoluzione. Anche un brano come "Per Aspera Ad Astra", che inizialmente può essere scambiato per una fuga a due voci di Bach, presto si trasforma in un'entusiasmante cavalcata metal che sfocia in un chorus cantato in clean, dalla bellezza ancora una volta disarmante. Si respira qualità e ispirazione in ogni brano, tra allegri intermezzi strumentali e minuetti di un minuto scarso, suite elaborate che oltrepassano gli otto minuti e perfino un brano interamente lirico, "Herr Mannelig", che su una scarna ritmica chitarristica vede protagonista una voce femminile che canta in italiano (un po' stentato, ma il tentativo è apprezzabile). Accanto al tedesco e all'inglese, il nostro idioma appare in numerosi brani, ma più spesso viene recitato dalla voce maschile. I grossolani difetti di pronuncia, ovviamente, li sentiamo solo noi italiani, tuttavia vanno comunque a configurarsi tra gli aspetti negativi del disco.

Aspetti negativi, ho detto? Purtroppo sì. Mi dispiace dirlo, ma la voce growl spesso non è all'altezza e offusca un album che potrebbe veramente essere un capolavoro immane, senza paragone alcuno. Il tuttofare chitarrista e cantante "orco", infatti, ha una voce troppo "da osteria" per risultare convincente in un album estremamente raffinato come questo, per non parlare di quando canta in italiano (dove spesso sfiora il ridicolo) o di quando sfodera il parlato (a dir poco grottesco ed esagerato). In certi punti, come nella sopracitata opener "All'Inizio è La Morte", il cantato riesce ad essere quasi convincente, incisivo e aggressivo quanto basta: ma si tratta di episodi isolati, e per la maggior parte del tempo si tratta più che altro di un grugnito rauco e sgraziato. Il problema non è solo la pronuncia, ma piuttosto l'eccessiva pomposità della voce, che risulta forzata e fuori luogo. A tratti pare quasi di sentire un ubriacone che declama fesserie in mezzo alla piazza, mentre tutti gli ridono dietro. Eliminando il growl e concentrandosi solo sul cantato pulito (che è eccezionale, quando c'è), il disco sarebbe veramente una perla ineguagliabile: così invece diventa semplicemente un ottimo album messo in ombra da un difetto grossolano.

Sostanzialmente, si tratta di un disco originale e personalissimo, carico di melodie splendide (la breve "The Observer" è un qualcosa che ancora non riesco a spiegarmi) e di intrecci sonori da far invidia al migliore repertorio classico, quegli intrecci che esaltano i sensi ed elevano lo spirito. Purtroppo, certi difetti sono talmente evidenti da non poter essere ignorati, e abbassano di molto il valore complessivo dell'album. Procuratevelo, comunque: un orchestra per metà classica e per metà metal è un qualcosa che vale sempre la pena di approfondire, e sicuramente gli Haggard non sono dei novellini. Se riuscite a passare sopra al growl e a considerarlo solo come rumore di fondo, troverete in questo album una bellezza ubriacante e cristallina, come non se ne trovano facilmente in giro.

01 - All'Inizio è la Morte (6:50)
02 - Menuetto in Fa Minore (1:16)
03 - Per Aspera Ad Astra (6:40)
04 - Of A Might Divine (8:20)
05 - Gavotta In Si Minore (0:58)
06 - Herr Mannelig (4:50)
07 - The Observer (4:40)
08 - Eppur Si Muove (8:19)
09 - Larghetto - Epilogo Adagio (2:13)
10 - Herr Mannelig (Short Version) (6:10)

venerdì 6 gennaio 2012

The Morningside - "Treelogia (The Album As It Is Not)"

BadMoodMan Music, 2011
Un'ottima conferma di un'ottima band: così definirei a primo impatto questo "Treelogia", terza uscita discografica dei russi The Morningside. Ci avevano già stupito e conquistato con le loro melodie dal sapore post - rock, le loro atmosfere rilassate e la mirabile intensità che sfoderavano con le loro intricate partiture, che riuscivano a distaccarsi dalla spiccata depressività del doom e del black e si configuravano come un interessante ibrido tra sonorità decadenti e melodie radiose. "Treelogia" è classificato come un EP, nonostante la durata si aggiri intorno ai tre quarti d'ora: il motivo di ciò è che la band considera questo album come una reinterpretazione di ciò che avevano già suonato, e non come la proposta di materiale completamente nuovo. Dei tre brani proposti, tuttavia, solamente il primo è una ripresa di un brano già conosciuto ("The Trees", presente sul loro album di debutto), mentre gli altri due prendono solo alcuni spunti e li rielaborano, andando così a configurarsi come brani praticamente inediti. 

Sostanzialmente, non molto è cambiato rispetto a ciò che normalmente sono i The Morningside: i punti forti sono sempre in evidenza e sono costituiti dalle lunghe, sognanti e rilassanti melodie di chitarra, che brillano per la loro pulizia cristallina e per i loro sviluppi fantasiosi e sempre interessanti. Su una base doom metal molto leggera, debitrice dei lavori meno pesanti dei Katatonia, il gruppo ricama trame di eccezionale bellezza, come possiamo ascoltare nel secondo capitolo di questo EP: minuti e minuti di ispirate divagazioni chitarristiche, sovente in doppia linea e poste in primissimo piano, in modo da risaltare sul tappeto strumentale sottostante, il quale si mantiene sempre discreto e tenue. La voce, a metà tra un growl e uno scream, compie un ruolo abbastanza gregario ma comunque non trascurabile: essa aggiunge quel tocco di grinta in più ad un sound che, altrimenti, rischierebbe di distaccarsi troppo dall'ambito metal, sconfinando decisamente in territori post - rock. Tuttavia, dietro l'apparente aggressività le linee vocali celano più che altro una sottile malinconia di fondo, che ben si sposa con il carattere generale del disco. Non è infatti l'assalto sonoro che cercano i The Morningside, bensì una sapiente fusione di suoni duri e melodie "parlanti", che vanno diritte al cuore. Verso la metà del secondo brano questo modus operandi raggiunge l'apice, con un assolo splendidamente intricato e destinato a lasciare il segno in chiunque l'ascolti. Nel finale viene ripreso il tema portante del primo brano, riproposto però in una versione maggiormente dilatata e, in definitiva, molto più triste.

Il terzo brano, maggiormente pacato e dedito all'atmosfera psichedelica tipicamente post - rock, completa ottimamente l'album dall'alto dei suoi ventuno minuti abbondanti di durata. Anch'esso non manca di stupire con lunghe parti strumentali che paiono uscire dalla penna di un ispirato e furoreggiante poeta, come se il fluire delle parole venisse sublimato immediatamente in suoni non appena scaturito dalla penna d'oca. Alcune interessanti suggestioni acustiche e inserti tastieristici si fanno sentire nella seconda metà del brano, a scapito di una voce stavolta poco presente. Le melodie ipnotiche e visionarie ci accompagnano fino alla fine tenendoci per mano, fino a quando il magico suono di un temporale ci riporta nel mondo reale. 

In definitiva, trovo che "Treelogia" sia una riuscitissima appendice della discografia dei The Morningside, e come tale sia meritevole di acquisto e di numerosi ascolti, se già avete apprezzato la loro musica in passato. Tuttavia, può essere il disco con cui avvicinarsi a questa promettente e giovane band, sufficientemente abile e personale nonché molto capace tecnicamente: non è da tutti creare simili fiumi strumentali, ricchissimi di note, e non risultare nè noiosi nè raffazzonati. Per chi ama il metal melodico e ricco di sfumature, i The Morningside sono la band giusta. Lo dicevo io, e continuo a dirlo, che la BadMoodMan è un'etichetta con gli attributi...

01 - The Trees (pt. 1) (12:37)
02 - The Trees (pt. 2) (3:02)
03 - The Trees (pt.3: Treelogia) (21:36)

Sieghetnar - "Bewußtseinserweiterung"

Azermedoth Records, 2008
Dietro questo titolo interminabile, che tradotto significa "espansione della coscienza", si cela il terzo album di Thorkraft, unico componente dei tedeschi Sieghetnar. Quattro tracce senza titolo, tutte molto lunghe eccetto la breve introduzione, per un totale di 55 minuti di black metal atmosferico, sempre a metà tra l'ortodossia del genere e le contaminazioni ambient, e completamente privo di parti vocali. Qualche isolato artista ha tentato la strada del black metal strumentale, con risultati apprezzabili (ad esempio gli Skogyr, o alcune produzioni di Vinterriket): posso dire che anche Thorkraft risulta convincente nelle sue scelte stilistiche, confezionando un dischetto che fa della contemplazione e delle atmosfere gelide il proprio principale punto di forza. L'assenza delle parti vocali non costituisce un difetto, poiché dischi simili hanno come unico scopo quello di creare un'atmosfera, e Thorkraft ci riesce perfettamente anche con la sola forza degli strumenti e dei sintetizzatori.

I brani, nonostante le sonorità grezze e scarne, risultano sufficientemente vari e dinamici, ma mantengono comunque quella necessaria ripetitività di fondo e quell'alone "mistico" necessario per pennellare al meglio gli amati scenari nevosi e freddi che il black metal rappresenta. Complice l'assenza di voce, le composizioni risultano raramente aggressive e preferiscono trascinarsi mestamente in un oceano di depressione e di uggiosità, a tratti accelerando (brano II) ma mantenendo un profilo generale sempre piuttosto lento. Come si conviene al genere, la produzione non è eccelsa, tuttavia i suoni degli strumenti sono ben distinguibili e ciò rende l'ascolto un'esperienza sicuramente fruibile, mai frustrante. Molto riuscite sono le incursioni ambient, che non è difficile accostare a quelle del "maestro" Burzum, ma che riescono comunque ad essere pregevoli e ad arricchire il sound, che altrimenti rischierebbe di risultare troppo piatto. Esse sanno mischiarsi al tappeto strumentale così come presentarsi da sole, e mostrano quindi una buona duttilità. Un esempio di ciò è la terza traccia, probabilmente l'apice compositivo del disco: su un iniziale tappeto di sintetizzatori e pianoforte, si sviluppa successivamente una melodia gracchiante e zanzarosa, ma molto intensa nella sua inguaribile malinconia. Essa ci accompagna per una lunga decina di minuti, variando talvolta le ritmiche e gli arrangiamenti in modo da dare una maggiore "progressività" al sound.

Il disco non è certamente un pioniere dell'originalità, nè un qualcosa di trascendentale: si tratta semplicemente di musica crepuscolare e grigia, da ascoltare a lume di candela e guardando fuori dalla finestra di una baita di montagna, con vista su distese innevate e foreste immacolate. Nessuna pecca rilevante, nè pretesa di essere un capolavoro: un disco onesto e ben costruito, che sollazzerà gli amanti del genere e regalerà loro minuti e minuti di preziosa malinconia.

01 - I (2:02)
02 - II (12:29)
03 - III (11:09)
04 - IV (30:04)

mercoledì 4 gennaio 2012

Falloch - "Where Distant Spirits Remain"

Candlelight Records, 2011
Sto cominciando seriamente a pensare che la ricerca "geografica" delle band sia un metodo molto fruttuoso per scovare novità interessanti. Piccoli nuclei di aggregazione, se così possiamo chiamarli, sono sparsi lungo il globo: potremmo parlare dell'area Cascadiana per quel che riguarda il black metal atmosferico, o della scena depressive black australiana, o del filone funeral doom russo. Ce n'è per tutti i gusti, davvero. Nello specifico, un filone che non mi delude mai è quello post - rock / black metal britannico, che in questo caso si colloca in Scozia, assieme ad altri gruppi rivelazione come Askival, Fen e Wodensthrone. Anche stavolta, infatti, scopro un gruppo emergente che proviene da queste terre e mi rapisce subito con una musica passionale e coinvolgente, che non ha bisogno di molto tempo per entrare nei cuori degli ascoltatori. Comincia a diventare un vizio.

Cosa suonano i neonati Falloch, il cui nome ricorda non a torto quello degli Agalloch? La loro musica è un misto di post rock, black metal (ma sempre molto centellinato, quasi presente come "ospite"), buone dosi di neofolk e passaggi acustici, suggestioni shoegaze, sprazzi di musica popolare; il tutto condito con tantissima melodia e da una voce che, sorprendentemente, sceglie di dedicarsi quasi esclusivamente al cantato pulito, lasciando perdere le vocalità in screaming che vengono relegate solo a pochissimi e sporadici interventi. Le influenze principali arrivano da Agalloch, Empyrium, Alcest e altri simili grandi nomi: oso dire che la musica è quasi al livello di quella dei "maestri". Calda emozionalità e passaggi seducenti sono la regola nel sound dei Falloch, così come sono la regola i meravigliosi incastri strumentali tra chitarre, basso e tastiere, amalgamati in una maniera che definirei quasi perfetta, e che crea un sound assolutamente fascinoso ed evocativo: esso si perde in arpeggi delicati e introspettivi, si risveglia con sapienti inserti di doppia cassa e di chitarre distorte (il parossistico finale di "We Are Gathering Dust", inizialmente così tranquilla...), si fa aiutare dal pianoforte e dagli archi per i passaggi più importanti: se c'è una cosa di questo disco che mi ha stupito, è la lapalissiana bellezza delle parti strumentali. Per rendersene conto è sufficiente ascoltare la stupenda "Beyond The Embers And The Earth", e perdersi voluttuosamente in quel fantastico tappeto strumentale che lascia i brividi: oppure la suadente introduzione chitarristica di "Where We Believe", brano leggermente più aggressivo che tuttavia finisce su vocalizzi femminili elegiaci e solenni, davvero notevoli. Ma ogni brano è un episodio a sè, ognuno ha qualcosa da comunicare, non esistono cadute di tono. Non mancano ovviamente i riferimenti alla natura, al romanticismo e alla poesia (ascoltate per esempio le intense strumentali "Horizons" e "Solace", direttamente debitrici della musica popolare scozzese, o il mirabile finale di "To Walk Amongst The Dead"), tanto che tutto l'album sembra una lunga poesia musicata, e recitata da una voce pulita un pochettino tremolante, ma non per questo poco convincente: anzi, ritengo che il suo essere lievemente incerta sia il pregio maggiore di quest'album. Essa comunica, infatti, una passionalità vagabonda e turbolenta, in perfetto accordo a quello che fu il Romanticismo ottocentesco: sentimenti senza controllo, sputati con forza e senza curarsi di essere poco raffinati. Ma non temete, il patetismo gratuito è lontano anni luce da questa proposta musicale.

Un songwriting insospettabilmente vario e maturo non stride con un'immediatezza fantastica, che permette di fruire immediatamente del disco senza bisogno di doverlo ascoltare decine di volte prima di assimilarlo: ciononostante, la struttura elaborata dei brani e la loro ricchezza melodico - compositiva permette al disco di guadagnarsi una buona longevità. Tuttavia, essendo un gruppo di esordienti, nel disco si può notare qualche imperfezione di fondo che però a mio parere è il sale del disco: quanti dischi acerbi e passionali si contano nel mondo del metal, che tuttavia conservano un fascino ineguagliato? Pensiamo a dischi come "A Wintersunset..." degli Empyrium, o "Blood Fire Death" dei Bathory, "Skydancer" dei Dark Tranquillity...la lista potrebbe continuare a lungo. Tutti album che non si potevano certo definire perfetti, ma che trasmettevano e continuano a trasmettere qualcosa, un qualcosa che si percepisce senza però riuscire a capire cos'è. Io, banalmente, chiamo questo qualcosa "ispirazione": un concetto difficile e sfuggente, ma che ancora una volta si adatta perfettamente alla musica dei Falloch. Genuina, calda, armoniosa e intensa: così è la musica racchiusa in "Where Distant Spirits Remain", un disco che non manco di consigliare a tutti, e che ha tutte le carte in regola per crearsi un pubblico vasto, nonostante la giovane età. Ce ne fossero di band esordienti come questa...

01 - We Are Gathering Dust (8:49)
02 - Beyond The Embers And The Earth (8:13)
03 - Horizons (3:48)
04 - Where We Believe (10:23)
05 - The Carrying Light (6:08)
06 - To Walk Amongst The Dead (10:32)
07 - Solace (3:23)

martedì 3 gennaio 2012

Liturgy - "Renihilation"

20 Buck Spin, 2009
Il 2008 aveva visto l’esordio di una nuova grande band, i Krallice, che col loro album omonimo avevano contribuito ad aggiungere nuova linfa vitale e nuove idee alla scena Black Metal americana, anche se per la verità non si può parlare di vero e proprio Black Metal. A un solo anno di distanza ecco comparire su full-length anche i Liturgy, loro conterranei e addirittura concittadini newyorkesi, band capitanata dal cantante e chitarrista HHH (no, non il wrestler) alias Hunter Hunt-Hendrix che si presenta al grande pubblico con questo Renihilation dopo aver pubblicato un piccolo EP intitolato Immortal Life nell’anno precedente.

Non sono uno che ama molto i paragoni, ma ci sono alcuni casi in cui essi si impongono in modo del tutto naturale e inevitabile, e questo è uno di quelli: la proposta musicale dei Liturgy si presenta tremendamente simile a quella dei succitati Krallice. La tecnica chitarristica alle mie orecchie profane appare in certi punti estremamente simile, per non dire quasi identica; lo stile ritmico è praticamente lo stesso, e altrettanto si può dire dello spettacolare scream esasperato di Hunter, che è quantomeno analogo a quello di Mick Barr dei Krallice nonostante in certi punti tenda quasi al Depressive Black. Alla luce di tutto ciò non credo proprio che sia un caso che le registrazioni di Renihilation siano state curate proprio da Colin Marston, cofondatore dei Krallice insieme a Barr. In definitiva non so dirvi se i Krallice abbiano influenzato i Liturgy o se i Liturgy abbiano influenzato i Krallice, dato che questi sono arrivati prima a pubblicare un full-length ma quelli si sono formati con due anni di anticipo; so però che lo stile delle due band presenta parecchi punti di contatto e si configura come un Avantgarde Black Metal futuristico e un po’ alieno.

Dopo un ascolto più attento ci si accorge però che i Liturgy suonano al tempo stesso tremendamente diversi dai Krallice. Niente pezzi ben strutturati, duraturi e snodati, a tratti progressivi e con un’evoluzione ben precisa, ma solo brani compressi, istintivi e selvaggi, in cui l’estremo chaos strumentale impedisce di respirare; più che brani ben pianificati sembrano sfoghi violenti improvvisati, effimeri e carichi di pathos che zampilla dalle melodie caotiche e struggenti caratteristiche dell’intero album. E in un simile garbuglio sonoro sono davvero azzeccati i quattro intermezzi strumentali senza titolo, quattro episodi sperimentali più pacati perfettamente contestualizzati con l’atmosfera aliena del resto dell’album. Inoltre nei riff e nella produzione dei Liturgy si scorgono pesanti tracce di Black vecchio stampo, tipo quello dei primi Immortal per capirci; basta ascoltare ad esempio Arctica, Mysterium o Ecstatic Rite per convincersene, mentre la musica dei Krallice ha in realtà poco o niente a che vedere col Black Metal old school. I Liturgy sono quindi riusciti ad ispirarsi fortemente senza però copiare, creando una sorta di fusione alchemica tra avanguardia e old school, quasi una reinvenzione del Black Metal più classico e rozzo proiettato in una nuova dimensione - un Trascendental Black Metal, come lo chiama Hunter Hunt-Hendrix.

Caotico, grezzo, futuristico e istintivo: questa è l’istantanea migliore che mi viene in mente per descrivere Renihilation. Ma soprattutto estremo fino all’inverosimile, fino ad asfissiare, così veloce da travolgere persino sé stesso. Ed è così che fiorisce un’altra band molto interessante, da tenere d’occhio seriamente per quanto riguarda i prossimi anni.

01 - [Untitled] (01:54)
02 - Pagan Dawn (05:47)
03 - Mysterium (04:43)
04 - [Untitled] (00:57)
05 - Ecstatic Rite (04:43)
06 - Arctica (04:40)
07 - [Untitled] (01:51)
08 - Beyond the Magic Forest (03:24)
09 - [Untitled] (02:19)
10 - Behind the Void (04:18)
11 - Renihilation (04:04)

Krallice - "Krallice"

Profound Lore Records, 2008
Quando due chitarristi di due band separate si incontrano e decidono di dedicarsi ad un progetto comune c’è sempre inevitabilmente un po’ di curiosità. Se poi le due band in questione sono band pazzoidi come i Behold...The Arctopus e gli Orthrelm la curiosità si fa più intensa: la collaborazione tra le fulmicotoniche abilità tecniche di Colin Marston e Mick Barr ha dato alla luce i Krallice.

C’è un piccolo sassolino che vorrei levarmi subito dalla scarpa: quando la gente parla dei Krallice è solita formulare due nomi con insistenza: Weakling e Wolves In The Throne Room. Onestamente non capisco con quale criterio la gente compia questi paragoni, dato che non riesco a scorgere nessun punto di contatto, nemmeno minimo, tra le due band suddette e i Krallice, eccezion fatta per la nazionalità e la durata dei brani. Non credo che sia molto costruttivo proporre simili paragoni che non stanno in piedi né dal punto di vista delle sonorità, né dal punto di vista compositivo, né tantomeno dal punto di vista dello stile musicale.

Sbolognati dunque questi curiosi luoghi comuni mi accingo ad asserire che lo stile musicale dei Krallice è qualcosa di completamente nuovo, unico nel suo genere, o che quantomeno il sottoscritto non ha mai sentito in nessuna band a loro precedente. Lo stile musicale di quest’album è...pazzesco. Quasi non ci sono chitarre soliste, ma d’altro canto le chitarre ritmiche sono poco più di un’ombra. Ma allora cosa rimane? I riff sono quasi interamente costruiti da chitarre nodose e ossessivamente dinamiche, chitarre tarantolate che non si fermano mai su una singola nota ma che continuano a danzare freneticamente tra due, le quali a loro volta cambiano frequentemente; una tecnica questa che il sottoscritto dal basso della sua profanità non saprebbe descrivervi - somiglia però ad una sorta di tremolo picking portato all'esasperazione. Sembra che Marston e Barr abbiano preso Lev Weinstein, batterista della band che va a completare il trio, e gli abbiano detto: “Tu inventati dei ritmi alla velocità della luce e cerca di variare spesso, al resto ci pensiamo noi”. Detto fatto, eccoli lì come due contorsionisti in preda a un raptus di frenesia ad inventarsi riff che si aggrovigliano l’uno sull’altro in continuazione, quasi come se avessero del peperoncino laddove lo prevede un noto modo di dire, un autentico tour de force per le loro falangi e falangette che probabilmente gridano vendetta ad ogni nota. Niente intermezzi d’atmosfera. Niente pause. Soltanto un tornado di riff su riff che si snodano velocemente uno nell’altro come le radici di un vecchio albero secolare. E tra i garbugli di una simile prestazione chitarristica, che ne è del basso? Il basso, signore e signori, è quanto di più spettacolare io abbia mai sentito alle quattro corde: è un tritacarne perpetuo, metallico, macinante, e continua ad aggiungere increspature alle chitarre. Ma chi lo suona il basso? Ovviamente sempre loro, Marston e Barr. Data la mia insufficienza tecnica, il modo figurativo migliore per descrivere lo stile musicale dei Krallice è di immaginarlo come un nido di serpenti avvinghiati l’uno sull’altro, tutti che si muovono e si dimenano in continuazione senza mai potersi fermare. Tra parentesi - una parentesi che non può essere omessa - Mick Barr per l’occasione si improvvisa anche cantante, e lo fa con risultati clamorosi: un growl urlato senza lode e senza infamia, ma uno scream unico al mondo, devastante, annichilente, semplicemente divino. Ascoltare per credere.

Krallice è un album che non smette di entusiasmare nemmeno dopo parecchi ascolti: ci si rende infatti conto, volta per volta, che, nonostante la band venga comunemente indicata come una delle nuove realtà del Black Metal americano, in realtà ascoltandoli bene c’è ben poco del loro stile che sia realmente assimilabile al Black Metal. I suoni molto metallici, il riffing del tutto particolare, un mood così alieno...eppure proprio mentre si riesce a cogliere questa incompatibilità nascosta, figlia di uno stile orientato all’Avantgarde, ecco che le melodie incredibilmente epiche che ne risultano ci riportano indietro sul sentiero del Black Metal, quasi si trattasse di una musica che descrive temi ancestrali e battaglie medievali. E’ un effetto davvero difficile da descrivere a parole...quindi, se quanto ho scritto è riuscito nel tanto arduo quanto nobile compito di accendere in voi la sacra fiaccola della curiosità, non vi resta che procurarvi l’album e ascoltarlo!

01 - Wretched Wisdom (10:14)
02 - Cnestorial (10:42)
03 - Molec Codices (09:35)
04 - Timehusk (06:05)
05 - Energy Chasms (09:45)
06 - Forgiveness In Rot (15:21)