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lunedì 31 ottobre 2011

Amber Tears - "The Key To December"

BadMoodMan Music, 2010
Eccone un altro. Sfornato dalla sempre sorprendente BadMoodMan Music, che si sta facendo notare sempre di più per la qualità delle sue uscite, il secondo album dei russi Amber Tears è un altro di quei dischi che forse non ti cambiano la vita, ma che riescono a farti sognare sulle loro note, regalandoti tre quarti d'ora di emozione vibrante. E tutto ciò con una semplicità ed una naturalezza che definirei disarmanti, trattandosi di musica indubbiamente semplice, che riesce a catturare fin dai primi ascolti, ma che a differenza di come spesso accade, può tornare ad accompagnare le nostre giornate anche molto tempo dopo la sua scoperta.

Spesso dipinto come un disco che sta a metà tra il doom metal e la musica folk, in realtà "The Key To December" si avvicina molto di più alle sonorità doom - death, nonostante mantenga una certa attitudine folk che si sente soprattutto nei piccoli inserti di chitarra acustica e nella generale attitudine delle melodie, molto "calde" e di presa diretta. Proprio le melodie sono il principale punto forte del disco, essendo straordinariamente belle nella loro semplicità: coadiuvate da un tappeto di chitarre sempre robusto e da una ritmica mai troppo veloce nè troppo lenta, esse avvolgono l'ascoltatore in un'atmosfera vellutata ed intensamente malinconica, che ben si sposa con l'immagine di copertina: pare proprio di camminare in mezzo alla neve, da soli, attorniati da un paesaggio desolato e nebbioso, consapevoli della propria irrimediabile solitudine. Difficile non sentirsi coinvolti ascoltando il marziale incedere di brani come "Beyond The Edge Of Skies" o "Gray Days Eternity", capaci di calibrare alla perfezione la pesantezza delle distorsioni con linee melodiche dolci e intrise di romanticismo, sentimento che si esprime con spontaneità e senza ghirigori. La sensazione che si prova, a mano a mano che le tracce scorrono, è che gli Amber Tears ci stiano prendendo per mano, conducendoci lentamente lungo un percorso fatto di dolore e sofferenza, ma un dolore ed una sofferenza che si possono affrontare con dignità e con forza d'animo, anche se ciò costa molta fatica. Il carattere vagamente rassegnato e contemplativo della musica è perfetto per ricreare un simile scenario.

Può darsi che i brani non spicchino per originalità e nemmeno per ricercatezza compositiva, ma a mio parere il lavoro svolto dagli Amber Tears è perfetto così: i tappeti di tastiere non sono mai troppo invadenti, la produzione è abbastanza personale e curata, le ritmiche vanno quasi sempre alla stessa velocità ma non per questo inficiano lo scorrere della musica, e soprattutto i brani si armano di una semplicità vincente, evitando i fronzoli inutili che ormai sono considerati quasi indispensabili. La bravura degli Amber Tears sta proprio qui: riuscire a creare composizioni dal sapore epico e appassionato, spostando completamente l'ago della bilancia a favore dell'emozionalità e dell'immediatezza, senza per questo risultare nè banali nè scontati. A tutti coloro che criticano gli Amber Tears e in generale i dischi come questo, mi viene da dire: provate voi a scrivere un disco così. Sono sicuro che non è così facile come sembra.

01 - Voice Of Hollow Winter (2:27)
02 - Gray Days Eternity (6:27)
03 - Away From The Sun (5:43)
04 - Beyond The Edges Of Sky (6:09)
05 - When Snow Will Melt Away (6:28)
06 - Like A Silent Stream (4:27)
07 - Gray Hill's Sadness (7:21)
08 - Through The Snows (2:57)

Vinterriket - "Zeit-Los:Laut-Los"

BadMoodMan Records, 2008
Orientarsi nella discografia di Vinterriket, artista tedesco dedito ad una commistione tra black metal e dark ambient, è praticamente impossibile. Nel momento in cui scrivo questa recensione, tra demo, split, album interi, extended play, vinili e quant'altro si contano in totale cinquantotto pubblicazioni a suo nome, a partire dall'anno 2000. Qualcuno potrebbe dire: la qualità è meglio della quantità. Verissimo, certo: è ben difficile che, ad un tale ritmo di lavoro si possano sfornare sempre buoni album, prima o poi è inevitabile che ci siano cali di tono. Vinterriket è stato capace, in passato, di creare musica davvero evocativa e interessante, quando fondeva le gelide e taglienti sonorità del black metal con le tastiere più melliflue e avvolgenti, che ricreavano alla perfezione le atmosfere invernali, fatte di alberi avvizziti, aria limpida e fredda, grandi paesaggi imbiancati e cristalli di ghiaccio che cadono dal cielo con rassegnata lentezza; ma non posso certo dire che questo nuovo maxi - EP sia uno dei suoi migliori lavori.

Anche qui suona le stesse cose che suonava in precedenza, dedicandosi però al solo dark ambient senza contaminazioni di altro genere. Il risultato è che in questa maxi traccia troviamo solamente una tastiera che suona note ovattate e prolungate allo sfinimento, con in sottofondo i suoni della natura, senza nemmeno una parvenza di un qualcosa che si possa assimilare ad una linea melodica. Basta, tutto qui. Se nell'atmosfera giusta una tale musica potrebbe risultare conciliante ed evocativa (per esempio, camminando da soli a fianco di un lago ghiacciato in Alaska), in situazioni normali tutto si traduce in un viaggio mentale piuttosto noioso, o comunque soporifero. Non c'è una variazione che si senta chiaramente, non c'è un momento di novità, non c'è progressione, o se c'è è così lenta da risultare impercettibile. Questo è uno di quegli album paradossali, che si ascoltano con perplessità, per poi dire, una volta finito: "Ma dov'è la musica? Era tutto qui?". Solo dopo si realizza che quello che propone Vinterriket in un lavoro come questo è più che altro uno stato mentale, ben poco assimilabile ad un vero e proprio album. Il disco sarebbe infatti potuto continuare all'infinito, e solo una qualche forma di autolimitazione ha fatto scegliere a Vinterriket di interromperlo subito dopo lo scoccare del quarantesimo minuto. C'è da dire che buona parte dei dischi di Vinterriket potrebbero essere descritti dalla medesima recensione: la differenza sta solamente in quanto bene gli sia riuscito ogni lavoro, perchè la ricetta alla fine è sempre uguale.

Ritengo che questo sia un disco buono come sottofondo, o come strumento per cadere in trance e addormentarsi senza sonniferi, ma non può essere considerato un pezzo interessante di musica. I fan del dark ambient troveranno ciò che cercano nella ripetizione pedissequa e implacabile delle trame di "Zeit-Los:Laut-Los", e chi apprezza Vinterriket potrà gustarsi la sua ennesima fatica, ma chi vuole avvicinarsi al dark ambient lo faccia con qualcosa di più fruibile. Il rischio in quel caso sarebbe di convincersi che il dark ambient è necessariamente noioso e soporifero, dato che questo album non aiuta a pensare il contrario.

01 - Zeit-Los:Laut-Los (40:10)

domenica 30 ottobre 2011

Silent Stream Of Godless Elegy - "Návaz"

Season Of Mist, 2011
Osannati da pubblico e critica, vincitori di tre grammy nel loro paese natale, la Repubblica Ceca, composti da ben sette musicisti, additati come fautori di un Folk/Doom unico nel suo genere: la loro fama ormai li precede. Basta questo per descrivere i Silent Stream Of Godless Elegy? Ad alcuni magari sì, ma io non posso far altro che ammettere mestamente che non sono riusciti ad impressionarmi granché.

Onestamente non conosco granché i dischi passati di questa band e non so con precisione se e come il loro stile si sia evoluto nel tempo; ho sentito solo qualche brano sparso qua e là all’interno della loro discografia. Poi però mi sono concentrato sul loro album più recente, Návaz. L’impressione è quella di una band che cerca di essere al tempo stesso sia pesante e sofferta che tremendamente poetica e delicata. Non è un caso quindi che le melodie in violoncello, che accompagnano costantemente l’incedere musicale e anzi sono quasi sempre sotto i riflettori, risultino trasportanti e dannatamente intriganti - si vedano Přísahám e Pramen, Co Ví su tutte - e non credo sia un caso nemmeno la cura impiegata nelle voci, nel mescolare maschile, femminile e growl in grande scioltezza. Il risultato è davvero valido e ammirevole.

Il problema di questa band sta però nel lato Metal del suo stile: ho ascoltato e riascoltato a lungo questo Návaz, ma non riesco proprio a farmelo piacere. Batteria varia e piacevole se presa nella singola battuta, ma stilisticamente ripetitiva fino alla nausea se guardata nell’insieme; chitarre che si limitano ad inanellare una lunga serie di riff stanchi e banali, privi di ispirazione, che altro non sono che un monotono accompagnamento che tenta in qualche modo di corteggiare il violoncello, e che vorrebbe forse sposarvisi, ma che in tutta franchezza non riesce a fare di più che servirgli da umile tappeto. Se a questo si aggiunge che le strutture dei brani sono molto prevedibili, non è difficile afferrare come il tutto dia un effetto di paralisi alla musica, come se fosse bloccata sempre sullo stesso tipo di incedere, senza mai lanciarsi in qualche cambio di scena degno di nota o in qualche botta di vita compositiva. Quanto al Doom, che secondo la totalità di chi parla di questa band costituirebbe una parte essenziale del suo stile...beh, qualcuno mi spieghi dov’è.

Si prospetta dunque una bocciatura per i Silent Stream Of Godless Elegy? Niente affatto, poiché come detto la loro attitudine melodica è davvero pregevole. Il problema a mio avviso sta solo nel fatto che la banalità e la ripetitività dei poco ispirati elementi Metal che inseriscono nei loro brani - o Doom, come vorrebbero farci credere... - gli impediscono di volare. Se questo disco non avesse chitarre e batteria probabilmente sarebbe un’autentica perla. Davvero complimenti per la parte Folk melodica, completamente da rivedere quella Metal.

01 - Mokoš (06:21)
02 - Zlatohlav (04:50)
03 - Skryj Hlavu Do Dlan (07:32)
04 - Přísahám (05:16)
05 - Slava (04:02)
06 - Sudice (03:40)
07 - Dva Stíny Mám (04:19)
08 - Pramen, Co Ví (06:47)
09 - Samodiva (05:52)

Heresiae - "Heresiae"

Autoprodotto, 2011
Qualche volta, anche tra i metallari più "raffinati" si sente l'esigenza di abbandonare la musica spiccatamente melodica, oppure maestosa e imponente, e si cerca invece un momento di pura adrenalina, senza troppi compromessi. Questo primo EP dei vicentini Heresiae è senza dubbio un buon prodotto per ricreare quest'ultima condizione.

Molto breve, ma certamente intenso: in quattro tracce (esclusa un'intro poco significativa) ci troviamo di fronte ad un concentrato di death (lievemente venato di industrial) davvero poderoso, capace di fondere un'aggressione sonora incredibile con una tecnica strumentale di tutto rispetto, la quale ricorda le vorticose evoluzioni di band come Decapitated e Psycroptic. Grazie alla produzione dell'Hate Recording Studio di Rosà, ogni strumento è perfettamente pulito, bilanciato e distinguibile dagli altri, come si richiede a qualsiasi album di technical death metal che si rispetti. Ma non è solo l'eccellente produzione a valorizzare il disco: i ragazzi mostrano comunque una buona fantasia compositiva, macinando riff su riff senza mai scadere nel pastrocchio fine a sè stesso, prodigandosi in virtuosismi chitarristici da paura, mantenendo i ritmi sempre veloci ma altrettanto mutevoli (niente "batteria a mitraglia" dall'inizio alla fine, tipica delle band senza idee). Come una specie di progressive metal mostruosamente accelerato e appesantito, le tracce scorrono con fluidità, impreziosite da un growling davvero efficace e mai sgraziato, che riesce a trasmettere in maniera eccellente la negatività di questa musica nichilista e distruttiva.

C'è poco materiale di cui parlare, ma tutto di qualità sopraffina: come dicevo all'inizio, per staccare un po' e riconciliarsi (a modo proprio) con il mondo, "Heresiae" è la ricetta giusta. Vedrete come vi sentirete rilassati dopo!


01 - Intro (0:22)
02 - It's Only Human Frailty (2:31)
03 - Drone Existence (3:37)
04 - RRR (3:24)
05 - Life Moulders Away (4:15)

venerdì 28 ottobre 2011

Depressed Mode - "..For Death.."

Firedoom Music, 2009
Ah però...un disco strano e controverso da parte di una band che si rivela strana e controversa.

Dopo il primo impatto sembrerebbe di non poter fare altro che complimenti ai Depressed Mode: sound schiacciante potentissimo, abbondanti melodie gotiche al pianoforte e alle tastiere, cantato che varia da delicatissime melodie clean - sia femminile che maschile - ad un growl pieno, poderoso e a tratti persino strascicato; la batteria è secca e potente e si avvale di un gran lavoro di grancassa, e gli imponenti arrangiamenti orchestrali - ottenuti in realtà mediante un sintetizzatore - ben si innestano nei toni oscuri e a tratti rabbiosi del disco. Sembrerebbe dunque tutto ben disposto...

...non fosse altro che, una volta tornati sulla terra, riascoltando l’album ecco che si ha come un vago sentore di non essere soli: lo spauracchio del Gothic commerciale alla Evanescence si staglia all’orizzonte, fiero e maledetto come solo lui sa essere. Le strutture dei brani sono abbastanza superficiali, poco approfondite, mentre la chitarra ritmica scontata e così smodatamente moderna tanto nel sound quanto nello stile lascia intravedere un futuro non propriamente roseo. La band viene dall’ottimo esordio Ghost Of Devotion di due anni prima, nel 2007, disco pubblicato dalla Firedoom che col suo originale Doom/Death sinfonico che strizzava l’occhio al Funeral Doom e la sua copertina desolata teneva realmente fede al monicker Depressed Mode. In ..For Death.. invece il Death compare solo nel titolo e probabilmente la Firedoom ci mette la faccia solo per obbligazioni contrattuali; sembra che tutto inizi a goticizzarsi, come dico io, e quando la musica si goticizza non c’è mai nulla di buono nell’aria. Se brani come The Scent e la titletrack riescono a tenere abbastanza alto il livello, e se un intermezzo strumentale come A Sigh riesce davvero a colpire nel segno, l’impressione generale è che la band abbia in programma di liberarsi definitivamente delle componenti Doom/Funeral Doom alla volta di un Gothic sinfonico divenendo così un affluente del mainstream, preferendo dunque assumere l’essenza di una piccola inutile goccia sperduta all’interno di troppa acqua piuttosto che dedicarsi a qualcosa di realmente personale e profondo, contrariamente a quanto aveva fatto credere Ghost Of Devotion.

Ora non vorrei dare un’impressione sbagliata criticando oltremodo un disco che tutto sommato è di buona qualità e si lascia ascoltare più che volentieri, e sebbene non faccia venire la pelle d’oca non si può negare che contenga delle trovate interessanti. Il punto è che il difetto più grande di quest’opera non consiste tanto in qualcosa di preciso da rintracciare al suo interno, quanto in ciò che lascia presagire per il futuro se confrontata con il suo predecessore. Quella sagoma all’orizzonte è davvero lo spauracchio del Gothic commerciale, bieco mietitore di band in quantità? Oppure è solo un miraggio causato dalla sete di successo? Non voglio sbilanciarmi, ma quel vago sentore di non essere soli a cui accennavo è davvero forte.

01 - Death Multiplies (04:32)
02 - She's Frozen (05:45)
03 - Loving A Shadow (06:58)
04 - The Scent (06:26)
05 - Prologue To The Thousand Skies (02:03)
06 - Tunnel Of Pain (04:40)
07 - A Glimpse Of Tomorrow (04:51)
08 - A Sigh (03:21)
09 - ..For Death (07:16)

giovedì 27 ottobre 2011

Colosseum - "Chapter III: Parasomnia"

Firebox Records, 2011
L'ultimo lamento funebre dei Colosseum, uscito postumo dopo la morte del leader Juhani Palomaki, chiude la trilogia della band finlandese nel migliore dei modi, se non consideriamo la tragica fine del mastermind. Cambiando punto di vista, infatti, potremmo considerarlo come il peggiore dei modi: ma voglio considerarlo un qualcosa di positivo, poichè con "Parasomnia" il compianto leader ci ha regalato un canto del cigno spettacolare. Per quanto la sua morte sia stata un evento tragico, non posso fare a meno di notare come essa abbia permesso ai Colosseum di creare una trilogia che rimarrà per forza di cose immutata, eterna e intoccabile, dato che il gruppo si è definitivamente sciolto. Considero quindi questo "Parasomnia" come il testamento spirituale del musicista, che ha chiuso un cerchio di musica di indubbio valore.

"Parasomnia" è probabilmente il lavoro più raffinato e maturo che i nostri abbiano prodotto, anche se non si distacca minimamente da ciò che abbiamo ascoltato nei due precedenti album. Chi già conosce i Colosseum saprà dunque cosa aspettarsi, vale a dire l'imponente musica catacombale che ha fatto sognare migliaia di doomsters con le sue atmosfere crepuscolari e maledette, venate da una perenne inquietudine malinconica che si esprime tramite brani stupendamente solenni e grandiosi. "Parasomnia" mostra però i segni di un'evoluzione, seppur impercettibile ad un ascolto distratto, e tali segni si notano nell'aumentato spazio dato alla chitarra solista, che diventa la protagonista assoluta di lunghe sezioni strumentali sognanti, fantasiose e riccamente elaborate, ancor più di ciò che avevamo sentito nel primo "Delirium". Il suono è giunto ad un livello di pulizia e profondità ormai inarrivabile, e perfino la mostruosa voce di Juhani si è un pochino raddolcita, diventando meno ringhiosa e accompagnando l'impercettibile ammorbidimento delle atmosfere che caratterizza questo lavoro. Tuttavia, il grosso della musica è sempre lo stesso: le imponenti tastiere sono ancora onnipresenti, avvolgono l'ascoltatore con il loro suono ipnotico e allucinato, ricreando alla perfezione le atmosfere di una terrificante danza funebre di stampo un po' horror. I brani sono sempre dei viaggi interminabili che superano abbondantemente i dieci minuti l'uno (addirittura quindici e ventuno per un paio di pezzi), e l'unica eccezione è costituita dalla quiescente strumentale "Questioning Existence", che fa da cuscinetto ai due brani più salienti del lotto, che sono anche i più lunghi. Essendo il disco piuttosto omogeneo, e come al solito abbastanza monolitico e impegnativo da ascoltare tutto di fila proprio per via della sua scarsa propensione alle evoluzioni fantasiose, mi limiterò a consigliare l'ascolto di "Dilapidation And Death" a chiunque volesse tentare di entrare nel mondo dei Colosseum. Questo enorme brano, il più lungo mai scritto dal gruppo e probabilmente anche il più emotivamente pregno, racchiude in sè tutta la gamma di sentimenti che i Colosseum vogliono comunicare a chi li ascolta: disperazione, oppressione, smarrimento, tristezza inconsolabile, e infine speranza: l'incredibile finale corale ve lo dimostrerà, sollevandovi di peso e portandovi verso l'alto, quasi a raggiungere il paradiso.

Il primo brano, da solo, potrebbe già bastare: tutto il resto del disco è una continuazione delle stesse atmosfere, degli stessi stati d'animo e delle stesse soluzioni stilistiche, melodiche, armoniche e ritmiche. Questo porterà alcuni ad amare ancora una volta la sfibrante coerenza interna dei dischi dei Colosseum, e altri a notare come i brani siano poco differenziabili in senso stretto e tendano ad essere statici e adagiati sugli stessi canoni. Resta il fatto che i punti forti della band a mio parere superano quelli deboli, e che se ci si sforza di passare sopra ad un certo immobilismo sonoro, i brani di "Parasomnia" (così come quelli dei dischi precedenti) racchiudono emozioni grandiose e tonnellate di devastante tragedia. Ritengo quindi superfluo sottolineare ancora l'assoluta qualità e bellezza di questo album: procuratevelo, è un'esperienza da provare, nel bene e nel male.

01 - Dilapidation And Death (21:39)
02 - Questioning Existence (3:52)
03 - Passage To Eternity (15:40)
04 - On The Strand Of Nightmares (11:58)
05 - Parasomnia (10:16)

Turma - "Tearless"

Autoprodotto, 2011
Attenzione: per una questione di promozione, la band ha reso disponibili solamente quattro brani del CD intero, per cui questa sarà una recensione "parziale", nel senso che dovrò basarmi unicamente sul materiale che ho, non potendo ascoltare il rimanente.

I Turma provengono da Napoli, e mentre scrivo questa recensione sono passati dieci mesi  da quando hanno cominciato a stendere e a registrare questo "Tearless", il loro primo lavoro discografico. Uno sforzo di tutto rispetto, considerato che si sono occupati di ogni aspetto in piena autonomia, scelta sempre coraggiosa e da lodare, anche quando i risultati sono perfettibili come in questo caso.

Andando a parlare nello specifico della musica, la band unisce le sonorità crude del thrash metal "vecchio stampo" ad un tocco di modernità, una sorta di misto tra i vecchi Anthrax e i nuovi Lamb Of God, ma ci sarebbe spazio per molti altri nomi di riferimento. Lo fa in una maniera abbastanza particolare, specialmente dal punto di vista vocale: se la parte strumentale è spiccatamente thrash metal, la voce ricorda moltissimo le timbriche del metal classico e del power. In certi momenti sembra di ascoltare Rob Halford, tanto per fare un nome, come quando cantava nel seminale "Painkiller": una voce spinta al limite, urlata, acuta e stridente. Questo può piacere o meno, ma rappresenta il principale elemento distintivo dei Turma, che come ribadisco dal punto di vista strumentale non hanno alcun problema a far sentire la loro bravura, destreggiandosi tra riff stoppati, begli assoli di chitarra, doppia cassa che entra al momento giusto, e non dimenticandosi nemmeno di inserire qualche pezzo melodico e perfino "sentimentale", che spezza la rocciosa metallicità del tutto (come nell'interessante e amara "My Mind Is Jail").

La produzione pulitissima aiuta certamente a considerare "Tearless" un buon prodotto, per quanto si tratti comunque di materiale derivativo, un po' troppo debitore di ciò che gli altri hanno suonato anni e anni prima. Sostanzialmente non manca nulla ai Turma per diventare con il tempo una band di tutto rispetto, a parte forse un po' di esperienza, che comunque non viene mai regalata a nessuno, e che va per forza di cose conquistata poco alla volta; la personalità di un musicista non è sempre immediata a manifestarsi, a volte ci vuole tempo perché si riesca a separare le influenze esterne dalle proprie idee. A questo punto è solo una questione di gusti: se avete amato la voce di James Hetfield, mentre non avete mai avuto la passione per i Judas Priest, probabilmente non riuscirete ad apprezzare la musica di questa band. Se invece non avete problemi con le voci "a sirena", troverete i Turma sicuramente interessanti, seppur non trascendentali. Del resto, ormai nel 2011 è piuttosto difficile rompere le barriere del suono e creare qualcosa di completamente nuovo, per cui...non ci resta che aspettare che la band continui il proprio percorso musicale acquisendo maggiore personalità e stile. Per adesso ci accontentiamo di un buon demotape.
01 - Intro
02 - Shoot' Em All
03 - Tearless
04 - Facing The Mirror
05 - Out Of The Consentient Choir
06 - Living Tomorrow
07 - My Mind Is Jail
08 - Crusades
09 - Dance Of Desperate

sabato 22 ottobre 2011

Thy Catafalque - "Róka Hasa Rádió"

Epidemie Records, 2009
In general I try to observe and understand music in itself. I mean I really don’t care about separating electronic and metal and classical or jazz and judge them by their stylistic methods. I just don’t mind it. What I mind is what effect they can have on me be it any kind of music. If it’s just two primitive accords that have “the sound”, I am bought. And you can bring me the most sophisticated progressive metal wonder band – without pulling the trigger in me I can’t do anything with them. And so yes, I can find many electronic music precious and interesting as well. “What” is more important than “how”.

Questa dichiarazione di Kátai Tamás, responsabile della voce e delle tastiere e co-responsabile delle chitarre, rilasciata in un’intervista riguardo il presente album è la chiave per capire tutto sui Thy Catafalque: presente, passato, e probabilmente anche qualcosa del loro futuro. Per chi conosce già la band questo Róka Hasa Rádió è stilisticamente facile da decifrare: crea infatti un perfetto continuum artistico col precedente rivoluzionario Tűnő Idő Tárlat, dando ancora più spazio alla vena melodica con una notevole novità che verrà svelata tra poco. Ma in fondo chi li conosce già? In pochi, perché purtroppo - o per fortuna - si tratta di una band praticamente sconosciuta. Coloro che non si sono mai approcciati alla musica del duo ungherese non potrebbero immaginarsi nemmeno lontanamente quale immenso universo musicale è racchiuso dietro un monicker improbabile e poche evocative copertine...ebbene, ascoltare la musica dei Thy Catafalque è un po’ come aprire una piccola porticina trovata per caso - avete presente quando Jack Skeletron trova la porticina per il mondo del Natale? - abbandonata in fondo ad un angolo buio di chissà quale sporca ed umida cantina, e ritrovarsi davanti un nuovo mondo inesplorato, gigantesco, del quale non si scorge l’orizzonte. Róka Hasa Rádió, una nuova galassia esplorata nell’universo sconosciuto dei Thy Catafalque, è un eccellente esempio di arte moderna all’avanguardia che però non rinnega mai ciò che è stato, melodie sognanti e a tratti arcaiche dipinte con un sound modernissimo, un possente Post Black che sfuma in una sorta di minimalismo new age, che spesso e volentieri finisce per assumere delle connotazioni impensabili che potrei definire soltanto come folk elettronico...folk elettronico?!? Nemmeno in Tűnő Idő Tárlat, nel capolavoro Tűnő Idő Tárlat, la band si era spinta a tanto, a dimostrazione del fatto che la musica di questo duo ungherese è davvero un immenso mondo a sé stante del quale non si può sospettare l’esistenza finché non ci si imbatte. Non so voi, ma io non avevo mai sentito nulla di simile...e “folk elettronico” mi sembra quanto di più azzeccato ci sia per descrivere i toni al tempo stesso arcaici e futuristici che la band ci propone. Sembra quasi incredibile che dal drumming granitico e quadrato di brani quali Szervetlen e Köd Utánam e dalle tinte oscure di Őszi Varázslok si finisca alla deriva cullati da gentili onde sonore come in Űrhajók Makón o Kabócák, Bodobácsok, che sembrano quasi riportare indietro nel tempo guardando sempre dritti al futuro. Ma la deriva più bella e conciliante ci è offerta da Molekuláris Gépezetek, diciannove minuti di arte travolgente che non dimenticherete facilmente, così belli e sofisticati nonostante la loro semplicità minimale che ai primi approcci hanno lo spiacevole effetto di oscurare i brani che seguono - effetto, questo, che fortunatamente si volatilizza perseverando in ulteriori ascolti. Ma nonostante la longevità del brano non aspettatevi una suite tecnica alla Dream Theater: si tratta piuttosto di un prolungato respiro cosmico che scorre via in modo semplice ma sofisticato, con poche ma oculate variazioni di tema. E proprio questo sembra essere il principale credo della band: soffermarsi su particolari giri di note, su quei “due accordi primitivi”, ripeterli più volte e cercare di farli rendere al meglio in modo sofisticato grazie anche ad una messe di influenze musicali diverse, e udite udite il tutto senza mai risultare ripetitivi o scadere in banalità da grande pubblico. Giù il cappello.

Ascoltare i Thy Catafalque, ed in particolare ascoltare Róka Hasa Rádió, è un’esperienza che apre davvero un nuovo modo di concepire la musica, un’esperienza mentale sbalorditiva e mozzafiato che auguro a voi tutti di sperimentare sulla vostra pelle, sperando che possiate viverla appieno nel vostro profondo.

Un’ultima considerazione. Questo blog ha deciso, a mio avviso saggiamente, di non assegnare alcun voto ai dischi che recensisce. C’è un aspetto molto spiacevole nel dare i voti ad un disco: navigando in rete si scorge come i dischi recenti non si spingano quasi mai oltre il 7 o il 7.5, e se proprio va bene riescono a strappare un 8 - ma devono davvero fare i salti mortali. Poi uno va a vedere i dischi storici degli anni ’70-’80 e vede che sono pieni di 9 e 10, nonostante spesse volte il contenuto musicale non sia nemmeno lontanamente paragonabile a quello di certi dischi moderni. Non so se sia colpa di pregiudizi o del giganteggiante timore reverenziale, quel che so è che questo atteggiamento di sufficienza nei confronti del Metal odierno è triste ed ignorante: la realtà è che oggigiorno il Metal ha un potenziale artistico esorbitante, siamo pieni zeppi di dischi che si meriterebbero dei 9 e dei 10 molto più di quelli storici datati, e Róka Hasa Rádió dei Thy Catafalque è uno di questi.

01 - Szervetlen (11:22)
02 - Molekuláris Gépezetek (19:11)
03 - Köd Utánam (05:31)
04 - Űrhajók Makón (04:25)
05 - Piroshátú (06:38)
06 - Esőlámpás (04:18)
07 - Kabócák, Bodobácsok (06:30)
08 - Őszi Varázslok (04:41)
09 - Fehér Berek (05:34)

Comatose Vigil - "Fuimus, Non Sumus..."

Solitude Productions, 2011
Finalmente ce l'hanno fatta, sono riusciti nel colpo grosso. Anzi, enorme. I russi Comatose Vigil erano partiti con un buonissimo esordio che rispondeva al nome di "Not A Gleam Of Hope", claustrofobico e monolitico nonchè impreziosito da un lavoro tastieristico davvero degno di nota; successivamente i tre avevano proseguito con un breve EP chiamato "Narcosis", anch'esso abbastanza intrigante, nonostante contenesse solo una traccia inedita. Tali uscite avevano procurato al gruppo una certa fama, ma non gli avevano ancora permesso di sedere nel trono dei grandi, forse per via del fatto che nella loro musica mancava qualcosa, nonostante fosse indubbiamente ben costruita e qualitativamente ineccepibile. Con la loro terza release ufficiale, facendo tesoro degli anni passati e dell'esperienza accumulata, finalmente è stato dato alla luce il disco definitivo, il loro capolavoro assoluto nonchè uno dei più impressionanti dischi Funeral Doom mai usciti. Non userei tuttavia l'espressione "dare alla luce": sarebbe più appropriato "dare all'oscurità". Questo album infatti contiene una musica tra le più spaventose, più evocative, più tenebrose e più imponenti che io abbia mai sentito. Parafrasando Trainspotting: prendete la musica più cupa che avete mai ascoltato. Moltiplicatela per mille. Neanche allora ci siete vicini.

Quasi ottanta minuti di musica spalmati su appena tre brani, il più breve dei quali conta ventitrè minuti, mentre il più lungo supera i ventisette. Già da questo primo dettaglio si può capire che i Comatose Vigil fanno della monoliticità il loro principale obiettivo, nonchè punto forte. Accordi di chitarra immensi, atmosfere stratificate e ricchissime, suoni di basso cupi e sepolcrali, rintocchi di batteria che paiono ciclopiche frane di massi enormi, una voce incredibilmente gutturale e profonda e che tuttavia mantiene una buona musicalità; l'estremizzazione dell'estremo, un qualcosa che non avevo mai sentito prima d'ora. Ma la cosa più stupefacente è che i tre brani hanno uno sviluppo talmente lento e pachidermico da risultare emotivamente asfissianti, eppure non annoiano MAI. Talmente spettacolari sono infatti le melodie, gli arrangiamenti di tastiera e le plumbee atmosfere, da rendere l'ascolto un'esperienza che si vorrebbe non finisse mai. Vi aspettate che i 28 minuti della gigantesca "Fuimus, Non Sumus..." siano un agonia impossibile da terminare? Errore. Quella mezz'ora scorre come l'acqua in un ruscello di montagna, nonostante la sua immane pesantezza. Non so spiegare precisamente il motivo per cui dei brani così giganteschi non stancano e non conoscono mai una caduta di tono: probabilmente è un effetto generale dovuto all'estrema cura che i Comatose Vigil hanno riposto in ogni nota, lavorando sugli arrangiamenti in maniera quasi maniacale e riuscendo a metterli contemporaneamente in primo e in secondo piano, cioè perfettamente udibili eppure mai troppo in risalto. Rispetto ai precedenti album, infatti, il balzo sia compositivo sia qualitativo è abissale, e se si conta che i primi erano già dischi ottimi, capite subito il livello di qualità di "Fuimus, Non Sumus...". La ciliegina sulla torta è la produzione, praticamente perfetta: non credo che sarebbe possibile migliorarla nemmeno di un millesimo rispetto a quello che è.

I brani sono basati su melodie ultraterrene, sognanti, armonicamente elementari ma di rara bellezza. Prendiamo ad esempio la title track: dopo qualche secondo di lugubre lamento tastieristico, ecco comparire degli accordi giganteschi, veri e propri mastodonti di pietra inscalfibile, che lentamente prendono forma e si tramutano in una melodia che pare un lungo sogno, una trance infinita e irresistibile. La maestosa linea portante si ripete apparentemente uguale per minuti e minuti consecutivi, ma è solo una trappola tesa alle orecchie poco attente: sotto sotto, la musica continua a cambiare, lentamente ma costantemente, plasmandosi e arricchendosi minuto dopo minuto con voci angeliche, tastiere spettrali e melodie secondarie da pelle d'oca. Quando infine gli strumenti e le voci decidono di unire le forze in un unico, meraviglioso lamento funebre, la musica si fa perfino commovente. Verso i tredici minuti il tema portante cambia, diventando meno solenne e più granitico, ma tocca di nuovo al tema iniziale la chiusura del primo mastodonte. Il resto dell'album viaggia sulle stesse coordinate, lasciando anche spazio a sezioni atmosferiche raggelanti ("Autophobia") o a momenti epici e drammatici ("The Day Heaven Wept"): distinguere i brani è tuttavia difficile, trattandosi di un disco che è un unico immenso lastrone di basalto nero impossibile da scalfire ad opera di mani umane

L'ascolto di questo album è un'esperienza incredibile, un concentrato di emozioni nerissime da togliere il fiato, un qualcosa che mette a dura prova la resistenza emotiva di ciascuno di noi. Non ho alcuna remora nel dire che il gruppo ha partorito una vera e propria opera massima: e ancora una volta devo fare i complimenti anche all'etichetta Solitude Productions, che ha dato e continua a dare i natali a dischi e band spettacolari. Ora torno a immergermi negli oscuri meandri di "Fuimus, Non Sumus..." e lascio a voi la sfida: riuscirete ad ascoltarlo tutto di fila senza farvi venire gli incubi? Se ce l'avrete fatta, è segno che siete entrati nel club, e ormai per quanto possiate sforzarvi non ne uscirete mai più.

01 - Fuimus, Non Sumus... (27:52)
02 - Autophobia (23:14)
03 - The Day Heaven Wept (24:28)

mercoledì 19 ottobre 2011

Opeth - "Morningrise"

Candlelight Records, 1996
Se chiedete a qualsiasi fan quale sia il suo disco preferito degli Opeth, molto difficilmente egli vi darà una risposta chiara e univoca. Il più delle volte, tenderà a rispondere con una frase simile: "è impossibile dirlo, sono tutti bellissimi!". Sarò sincero, anch'io rispondo sempre così: eppure, per molto tempo ho avuto la tentazione di rispondere subito "Morningrise". Il secondo album di questa eccezionale band, infatti, è di una bellezza tale da appianare quasi ogni dubbio, e solo l'eccelsa qualità degli album che lo hanno seguito impedisce di collocarlo inequivocabilmente in cima al podio degli Opeth. Rimane sempre il dubbio, se confrontato con altri mostri del calibro di "Still Life", "My Arms, Your Hearse" o "Blackwater Park".

Reduci da un esordio poliedrico ed ispiratissimo come "Orchid",  che aveva mostrato al mondo metallico una band ancora acerba ma dalle rare capacità compositive, i nostri avevano l'arduo compito di migliorarsi ulteriormente, e senz'ombra di dubbio hanno superato ampiamente l'onere assegnato loro. "Morningrise" è un disco maturo, profondo, estremamente complesso e vario, che definisce una volta per tutte la peculiarità del suono Opeth, tanto che successivamente tale sound verrà considerato come un genere a sè stante. I nostri prendono spunto dal black - death metal melodico del primo album e lo portano ad un livello superiore, intensificando la componente progressive ma lasciando quelle atmosfere gelide e malinconiche che li hanno resi famosi, aiutati da una produzione certamente non perfetta ma adattissima ad avvolgere la profonda tristezza che si cela tra questi solchi. Impareggiabili qui diventano i duetti tra chitarre elettriche e acustiche, chiamate spesso a suonare assieme come sorelle maledette, l'una che cerca costantemente di essere più emozionante dell'altra, in una continua lotta senza vincitori nè vinti. Rispetto all'esordio, la cura per i particolari è indubbiamente maggiore, così come sono maggiormente elaborati i brani, che già prima non erano certamente scontati o semplici da seguire. Gli elevatissimi minutaggi non possono che confermare quanto detto, in quanto nessun brano è al di sotto dei dieci minuti. Ma non sono tanto le lunghezze dei brani a colpire, quanto la stupefacente ricchezza di riff, melodie e variazioni armoniche all'interno degli stessi, con chitarre che paiono animate da vita propria, sempre pronte ad evolversi e a cambiare registro, nonchè a pennellare melodie di assoluta bellezza, destinate ad essere ricordate come alcune tra le più belle mai sentite nell'intero genere Metal. Un esempio di ciò è la crepuscolare "The Night And The Silent Water", che pare evocare reali ruscelli che scorrono mestamente, perfettamente simboleggiati dalle stanche chitarre che paiono trascinarsi nella tristezza. La voce di Mikael Akerfeldt, storico cantante e chitarrista della band, è grezza e fredda, eppure terribilmente verace, espressione di un dolore autentico e lacerante. Ma quando passa dal growl al clean diventa invece carezzevole, estatica, intimista. Alcuni momenti di apparente calma ci trasportano in una palude fredda e desolata, popolata dalle sculture che troviamo in copertina, ricoperte di edera e abbandonate da anni; la spettacolare alternanza tra acustico ed elettrico prosegue a lungo, ammaliandoci irrimediabilmente, prima di sfociare nell'impressionante finale, nel quale la tensione aumenta progressivamente e pericolosamente, sottesa dalla doppia cassa, fino al sopraggiungere del climax:

"You sleep in the light
Yet the night and the silent water
Still so dark
"

"Tu riposi nella luce
Ma la notte e la silenziosa acqua
sono ancora così oscure".

Versi meravigliosi per ricordare la morte del nonno, sopraggiunta poco prima della registrazione del disco. Mikael pronuncia queste parole con una rassegnazione urente, che non potrà mai trovare pace. Stupenda, non c'è altro da dire. Ma tutto il disco è così: ogni brano ha una propria forza vitale, non esiste un pezzo inferiore all'altro, e nella sua omogeneità sonora il disco è comunque così variegato ed elaborato da risultare sempre nuovo ad ogni ulteriore ascolto. Splendide sono le suggestioni puramente progressive di "Nectar", capace però di prodursi in riff spaccacuore quando è necessario, o le interminabili cascate di note liquide di "Advent", mentre il vero colosso è indubbiamente la chilometrica e camaleontica "Black Rose Immortal", venti minuti di pura emozione che tocca il culmine nella parte centrale, con un susseguirsi di linee melodiche sempre più spettacolari, al punto che ci si chiede, durante l'ascolto: "com'è possibile che dopo una melodia così bella riescano a tirarne fuori un'altra ancora migliore?". Mosca bianca è la conclusiva "To Bid Your Farewell", quasi interamente acustica se non nel finale, in cui riappare la chitarra distorta ma non il growl. L'episodio finale è caratterizzato da una malinconia ancora più pronunciata, se ciò è possibile: le chitarre acustiche si intrecciano con un basso dal suono pieno e rotondo, creando una struggente atmosfera di sconforto assoluto. Vorrei riuscire a usare termini più propri e pertinenti per descrivere le sensazioni che tale musica mi provoca, ma non è facile: quando la musica tocca corde così profonde dell'emozione, per forza di cose non si riesce a spiegare il perchè. Quello che so è che gli Opeth uniscono una classe fuori dal comune, una tecnica strumentale eccellente, un'attitudine fantasiosa e personalissima e un gusto melodico eccezionale, e ne fanno una band. Imperdibile, aggiungo.

01 - Advent (13:43)
02 - The Night And The Silent Water (10:57)
03 - Nectar (10:08)
04 - Black Rose Immortal (20:14)
05 - To Bid Your Farewell (10:56)

Rush - "Counterparts"

Anthem Records, 1993
La copertina è emblematica: una vite che penetra in un bullone, con chiari riferimenti sessuali. Dopo una carriera lunghissima, ricca di soddisfazioni e che ha regalato una fama mondiale, ci si aspetterebbe che una band "normale" si adagi sugli allori e tenda a ripetere sempre sè stessa, contando sulla fedeltà dei propri fan: non è così per i Rush, band canadese storica per l'impronta rivoluzionaria che ha dato al rock progressivo. La parola d'ordine nella discografia dei Rush è evoluzione, la quale si esplica attraverso periodici mutamenti di stile, scanditi dalla pubblicazione di album dal vivo che chiudono una fase e aprono quella successiva. "Counterparts", inserito nella "quarta fase" della band, è un disco che approda su un territorio definitivamente rock e che contiene molti punti di forza, ma che non riesce a sfondare e a entrare nell'Olimpo dei capolavori dei Rush, nonostante mantenga un livello molto buono e in alcuni casi superiore alla media della band. Andiamo ora ad analizzare un po' cosa troviamo dentro questo quindicesimo album in studio dei Rush.

Dal punto di vista stilistico, "Counterparts" ci offre un sound abbastanza corposo, a tratti perfino aggressivo, che esplora tematiche difficili come la rabbia repressa, l'amore travagliato, l'alienazione moderna: ciò si esprime alla perfezione nei meravigliosi testi scritti da Peart (leggete "Cold Fire" e "Everyday Glory" per rendervene conto), nonchè in un'attitudine strumentale che rende omaggio all'emotività più istintiva, andando a sfruttare l'eccellente tecnica degli strumentisti per creare un sound di impatto notevole. Anche se il cambio di stile rispetto ai primi album è totale, l'impronta dei tre musicisti è sempre inconfondibile e basterebbe già per elevare l'album sopra qualsiasi dischetto di rock moderno, con il basso fantasioso e sempre sopra le righe di Geddy Lee, la chitarra irruenta di Alex Lifeson, la funambolica batteria di Neil Peart; tre marchi di fabbrica che conosciamo bene. Basta ascoltare l'opener "Animate", da molti considerata uno dei migliori pezzi mai scritti dalla band, per rendersi conto di cosa significa tutto ciò: un basso prepotente duetta con la chitarra creando melodie contorte e danzanti, che acquistano tensione a mano a mano che proseguono verso l'irresistibile refrain, dominato dall'inconfondibile voce di Geddy Lee, acuta e ficcante. Il break centrale è solo apparentemente rilassato: in realtà cela una tensione latente che solo nel finale riuscirà a sfogarsi pienamente. Le cose acquistano ancora più spessore con la successiva "Stick It Out", brano rabbioso e carico di risentimento, che invita a "sputar fuori" le proprie emozioni negative, senza paura, e lo fa insistendo su strofe picchiate e un ritornello acidissimo, destinato ad essere ricordato a lungo dai fan.

Ma i Rush hanno bisogno anche di esternare le loro prodezze strumentali, come omaggio al loro glorioso passato di pionieri del prog - rock più fantasioso e tecnico, e lo fanno con brani funambolici come la strumentale "Leave That Thing Alone", capace di creare spettacolari intrecci strumentali senza scadere nel puro esercizio per le dita, cosa che non tutte le band progressive sono capaci di fare. Non mancano anche brani più tranquilli, vale a dire le ballad, che rappresentano a mio parere il punto debole dell'album, poichè se in questo album ciò che colpisce maggiormente è proprio l'impatto emotivo delle canzoni, "At The Speed Of Love" e "Nobody's Hero" (che nonostante tutto ha un ritornello molto carino) non riescono a ricreare quella sottile inquietudine di fondo che anima il resto del disco. Inquietudine che si esprime perfettamente in pezzi magistrali come la sopracitata "Cold Fire", che cela una drammatica disperazione di fondo, così come per l'apparentemente allegra e spensierata "Everyday Glory", in realtà un'amara riflessione sulla vita moderna. I rimanenti brani sono dei buoni esempi di hard rock che però non riescono a sfondare come capolavori, ma che si assestano unicamente sullo status di brani piacevoli e ben suonati. Il risultato è un disco che alterna veri e propri brani - bomba con degli episodi più ordinari, e questo è il motivo per cui "Counterparts" non può essere elevato a capolavoro. Tuttavia, si merita comunque lo status di "signor disco", perchè in fin dei conti a suonare sono sempre i Rush, e se fosse una qualsiasi band emergente a suonare queste note, si griderebbe probabilmente al miracolo. Rimane comunque un pezzo di storia che è degno di essere ascoltato da qualsiasi appassionato di hard rock, e che a distanza di quasi vent'anni continua a fare la sua bella figura.

01 - Animate (6:05)
02 - Stick It Out (4:30)
03 - Cut To The Chase (4:49)
04 - Nobody's Hero (4:54)
05 - Between Sun And Moon (4:37)
06 - Alien Shore (5:45)
07 - The Speed Of Love (5:03)
08 - Double Agent (4:51)
09 - Leave That Thing Alone (4:06)
10 - Cold Fire (4:27)
11 - Everyday Glory (5:10)

martedì 18 ottobre 2011

Ulver - "Nattens Madrigal - Aatte Hymne Til Ulven I Manden"

Century Media, 1996
Mettete sulla piastra "Nattens Madrigal" e fatelo girare per venti secondi precisi. Avete spento? Allora questa recensione non potrà mai interessarvi, e il disco diventerà per voi un buon soprammobile. Ma se non avete spento lo stereo e state continuando ad ascoltare, vuol dire che siete stati catturati dal fascino del Black Metal più crudo e fiero, e ben difficilmente riuscirete più a liberarvene.

"Nattens Madrigal" è il terzo capitolo di una band che non ha paragoni, essendo stata capace di mutare radicalmente stile ad ogni nuovo disco pubblicato, toccando praticamente tutti i generi musicali concepibili. Questo capitolo rappresenta la conclusione della cosiddetta "trilogia black" degli Ulver, iniziata con quell'immenso capolavoro che risponde al nome di "Bergtatt" e proseguita con l'altrettanto spettacolare album acustico "Kveldssanger", in grado di scandagliare le profondità dell'animo con un suono mistico e toccante. Il gruppo ha scisso gli aspetti del black metal in tre dischi distinti, scegliendo di mischiarli assieme nel primo album, di dare la precedenza unicamente all'aspetto melodico nel secondo, e concentrando tutta la furia degli elementi nel terzo. Questo "madrigale notturno" è infatti un concentrato di furia inarrestabile, un vero massacro sonoro che è destinato a farsi ricordare come uno dei dischi di black metal più tremendi e più riusciti di sempre. Registrato in maniera assolutamente pietosa, ronzante e grezza da far invidia al più scalcinato bootleg del più sconosciuto e misantropico complesso black metal norvegese, il disco ci porta a scoprire il mondo della licantropia, tramite otto tracce che hanno tutte in comune il lupo (tralaltro, "Ulver" in norvegese significa proprio "lupi"). Otto tracce veloci, assassine e inarrestabili, che tuttavia non perdono mai il senso della melodia, e che anzi contengono alcune delle linee melodiche più belle ed evocative di tutto il black metal. Ogni disco black che si rispetti dovrebbe far sentire l'ascoltatore in balia della natura selvaggia, delle tempeste di neve, dei possenti fiumi glaciali e del vento sferzante: questo album ci riesce in maniera assoluta, combinando fraseggi chitarristici superbi con un'attitudine talmente sporca da far impallidire perfino un album come "Battles In The North" dei sempreverdi Immortal. Contrasto nettissimo, eppure tremendamente efficace: basta ascoltare le melodie portanti di "Wolf And The Devil" o "Wolf And Man" per sentirsi sulla cima di una collina nevosa, mentre osserviamo la desolazione del paesaggio circostante, spazzato da tremende tempeste che scoccano fulmini e saette senza tregua. La produzione è forse l'aspetto più peculiare e caratterizzante questo "Nattens Madrigal": non poche persone hanno giudicato questo disco inascoltabile, nonostante fossero fan degli Ulver, a causa della pessima qualità di registrazione. Per quanto sia d'accordo sul fatto che la qualità sia infima, a mio parere è proprio questo il punto di forza dell'album: nonostante il gorgoglio delle chitarre sia pressochè continuo e la batteria non smetta un attimo di martellare, le melodie non vengono mai inghiottite dal pastone di strumenti ed emergono sempre quel tanto che basta per essere riconoscibili. Il resto è pura atmosfera black metal all'ennesima potenza. Come si può pensare di ricreare sensazioni tanto raggelanti e primordiali, utilizzando una qualità di registrazione "normale"?

"Nattens Madrigal" batte qualsiasi cosa, in quanto a intrinseca forza espressiva ed evocativa. Si può dire quel che si vuole, ma rimane un capolavoro del suo genere, uno degli ultimi grandi dischi di black metal pervenuti dalla Norvegia, genuino e puro al cento per cento. Dopo questo album gli Ulver cambieranno totalmente genere, abbandonando il metal e iniziando a sperimentare musica per soundtrack, musica elettronica, trip hop e molto altro: sembra incredibile che dopo un album simile un musicista possa aver pensato di suonare qualcosa di diverso. "Nattens Madrigal" è infatti un album che tradisce un viscerale attaccamento alle radici più profonde del black metal, un manifesto di estremismo che ben difficilmente può lasciare spazio ad impurezze. Disco per veri intenditori, da custodire gelosamente come un piccolo gioiello scheggiato ma dall'enorme valore.

01 - Wolf And Fear (6:16)
02 - Wolf And The Devil (6:22)
03 - Wolf And Hatred (4:47)
04 - Wolf And Man (5:21)
05 - Wolf And The Moon (5:14)
06 - Wolf And Passion (5:48)
07 - Wolf And Destiny (5:32)
08 - Wolf And The Night (4:38)

Empyrium - "When At Night The Wood Grouse Plays"

Prophecy Productions, 1999
Qualsiasi persona appassionata di musica (e a maggior ragione di Metal) dovrebbe conoscere quel prezioso capolavoro che risponde al nome di "Kveldssanger", ad opera dei sempreverdi e camaleontici Ulver. Chi non si è emozionato, e non poco, ascoltando le sue dolci eppure possenti note acustiche, e lasciandosi cullare dai cori nasali e raddoppiati di Garm? Ecco, con questo "When At Night The Wood Grouse Plays" gli Empyrium ci offrono un'esperienza musicale molto simile, andando a rivisitare l'ossatura di quell'album e riproponendocela in maniera personalizzata.

Il gruppo tedesco arriva a questo album interamente acustico dopo aver pubblicato due dischi di gothic - folk - doom metal abbastanza acclamati e riconosciuti come validi (in particolar modo il secondo disco, "Songs Of Moors & Misty Fields". Dopo questo inizio metallico, la band si è discostata dalle distorsioni ed è approdata ad una musica molto più intimista, che utilizza solo chitarra acustica, rari strumenti a fiato e voce. E' piuttosto facile scadere nel banale quando ci si mette a partorire dischi simili, ma questo non è il caso degli Empyrium: più volte, durante l'ascolto di questa mezz'ora di musica, ho sentito lo stesso carattere "intimo" eppur deciso che rendeva speciale l'album degli Ulver, quella delicatezza che nasconde una tristezza sconfinata, che non può essere espressa dalle parole e viene dunque esplicitata tramite gli strumenti più delicati che esistano. I brani sono quasi tutti brevi e tecnicamente semplici, anche se abbastanza elaborati a livello di accompagnamento, si mantengono su ritmi stranamente veloci, e sono popolati da voci particolarmente teatrali e drammatiche, che all'occorrenza sanno trasformarsi in dolcissimi sussurri da pelle d'oca, nonchè in cori che ricordano quasi una liturgia religiosa, visto il dirompente sentimento che li anima. Tuttavia, la voce compare piuttosto di rado, e solo in alcuni brani: il resto è un fiume di chitarra classica, fautrice di melodie cariche di rimpianto e mestizia. Quando non si avverte la tristezza, è una strana urgenza a fare da padrona: certe composizioni richiamano sentimenti burrascosi e inquieti, nonostante l'assenza di qualsiasi suono distorto così come di growl / scream. Le tracce scorrono in maniera omogenea, susseguendosi le une alle altre senza quasi lasciare spazio, come a simboleggiare che il contrito stato d'animo da esse evocato non può facilmente essere spazzato via. Per chi volesse farsi un'idea di come suona il disco, e dell'intimo calore che lo anima, consiglio di ascoltare la stupenda "Dying Brokenhearted".

Con questo album, gli Empyrium dimostrano di saper fare sul serio, non solo quando si tratta di suonare metal (genere che da qui in poi abbandoneranno totalmente) ma anche quando bisogna emozionare con suoni lievi e atmosfere soffuse. Qualcuno potrebbe storcere il naso per la decisione di abbandonare il metal, ma se il gruppo è capace di suonare anche diversamente, perchè non riconoscergli che ha creato un ottimo album? Chi ha amato "Kveldssanger" (e non saranno pochi) troverà in questo album il pane per i suoi denti: lasciamoci cullare ora da queste tristi nenie, aspettando il momento in cui le ombre cominceranno ad allungarsi ("When shadows grow longer...").

01 - Where At Night The Wood Grouse Plays (5:34)
02 - Dying Brokenhearted (5:39)
03 - The Shepherd And The Maiden Ghost (3:26)
04 - The Sad Song Of The Wind (2:56)
05 - Wehmut (3:04)
06 - A Pastoral Theme (2:00)
07 - Abendrot (2:10)
08 - Many Moons Ago (4:25)
09 - When Shadows Grow Longer (3:14)

venerdì 14 ottobre 2011

Opeth - "Heritage"

Roadrunner Records, 2011
Non è mai facile recensire un disco degli Opeth, non lo è mai stato: troppo complessa e troppo varia è la loro musica, troppe volte hanno cambiato influenze (seppur di poco alla volta) nel corso della loro fortunata storia, e troppe volte hanno cambiato line - up, risultando alla fine in un collage di diversi musicisti, il cui unico punto fisso è ed è sempre rimasto Mikael Akerfeldt. Con la dipartita degli ultimi due membri "storici" della band, vale a dire Martin Lopez e Peter Lindgren, il gruppo ha ormai cambiato faccia quasi completamente. Non solo dal punto di vista umano (ormai Steven Wilson, mastermind dei Porcupine Tree, esercita una tale influenza sulla band da poter essere considerato quasi come un membro di essa), ma anche musicale: questo "Heritage" infatti è il risultato di una lunga serie di trasformazioni, partite molto indietro, da quando gli Opeth cominciarono a sperimentare con "Blackwater Park", arrivando a pubblicare poi il capitolo prog - acustico "Damnation, passando per dischi via via più raffinati e ricchi di tastiere come "Ghost Reveries" e soprattutto "Watershed", per poi arrivare al compimento dell'evoluzione, ovvero l'approdo ad un puro progressive rock, che ormai di metal mantiene ben poco.

In "Heritage" sparisce il caldo, animalesco cantato growl che tanto ha reso famosi gli Opeth per la passione che riusciva a sprigionare; spariscono le distorsioni più pesanti, sparisce l'aggressività di un "Deliverance", per non parlare di quella più antica risalente ad un capolavoro come "My Arms, Your Hearse". Quella vena di freschezza ormai non c'è più, la musica degli Opeth è diventata qualcosa di molto elaborato ma dal sapore più "costruito", forse meno genuino di quello che era un tempo. Musica d'eccezione, sempre: ma profondamente diversa da quel che era. Se prima infatti il progressive rock era una semplice influenza (per quanto forte) nel sound della band, con "Heritage" esso diventa l'ingrediente principale, e lo si nota in una volontà di spingere i confini della band molto più in là di quanto sia stato fatto in precedenza, con risultati piuttosto difficili da interpretare.

L'Opeth sound, così conosciuto e inconfondibile, è indubbiamente rimasto: troppo familiari sono le note curve, oblique, oscure ed enigmatiche, che hanno sempre caratterizzato le produzioni della band. Quelle atmosfere a tratti sornione, a tratti tese, a tratti rilassate e concilianti, che poi sfociavano in improvvise variazioni da lasciare a bocca aperta: ciò è rimasto, almeno in parte. Qualcosa però se n'è andato, oserei dire irrimediabilmente. Sono sparite le cavalcate di chitarra che facevano sognare, i funambolici e tortuosi assoli, i riff a cascata che non si riusciva quasi a seguire tanto erano turbinosi, e in definitiva tutto ciò che rendeva il suono degli Opeth una vera esperienza purificatrice, in ogni senso. In "Heritage" troviamo brani formalmente ineccepibili, che spaziano tra le influenze più varie ed impensabili, andando a pescare un po' dal progressive rock alla King Crimson, un po' dal minimalismo moderno (non esaltante, a dire il vero), un po' dalla psichedelia, mettendo in gioco tastiere eclettiche e timbricamente tuttofare, episodi vagamente veloci e in cui fa ancora capolino qualche distorsione degna di nota (vedi il contorto singolo "The Devil's Orchard", o la veloce e rockeggiante "Slither", che in alcuni punti ricorda non poco "Cygnus X-I" dei Rush...), e molto altro ancora. Tutto mischiato assieme con sicura perizia tecnica, che ormai anche i sassi sanno essere propria degli Opeth, ma con quale scopo?

Non sono un nostalgico e non ritengo che una band debba suonare sempre allo stesso modo: se c'è un evoluzione, ben venga. Tuttavia, l'evoluzione deve avere un senso, non può essere semplicemente il passare di palo in frasca, come hanno fatto per esempio i Pain of Salvation con il tristissimo "Road Salt One": con quell'uscita poco felice, hanno rovinato una carriera che per quanto eterogenea fosse, è stata sempre brillantissima. L'impressione è che gli Opeth abbiano fatto la stessa cosa: volendo osare troppo, e forzare un po' troppo la mano, hanno perso di vista la visione d'insieme, pubblicando un lavoro sicuramente ben costruito, ma non pienamente all'altezza. Ai brani interessanti, come quelli già citati sopra, si alternano episodi piatti e abbastanza noiosi, nei quali a malapena si percepisce la presenza di un qualcosa di musicale (vedi, ad esempio, le insipide "Nepenthe" e "Haxprocess", carine sì, ma prive di respiro e di direzione, per non parlare di "Famine"). Nel finale il disco si risolleva un po', con episodi buoni come l'irruenta "The Lines In My Hand" e soprattutto l'epica "Folklore", ma si sente che manca qualcosa, che il gruppo avrebbe potuto fare di più. L'assenza del growl contribuisce ad acuire la sensazione di incompletezza, perchè la voce in clean di Mikael è sì splendida, ma rendeva al meglio quando era accoppiata con il growl, così da creare quei magistrali chiaroscuri che ben conosciamo. Qualcuno potrebbe dire: "e Damnation allora?" Ma in quel caso il contesto era ben diverso: "Damnation", che esplorava unicamente l'universo melodico della band lasciando da parte la potenza animalesca e ferale, aveva una propria idea di fondo, un proprio percorso da seguire e una propria personalità. Era concepito come una sperimentazione dai confini ben definiti, e così infatti è rimasto, risultando convincente. "Heritage", invece, è un album a tutti gli effetti che vorrebbe essere Opeth al 100%, ma che appare più come un collage slegato di idee che a volte vanno a buon fine e a volte no. Inserire le chitarre acustiche (ben lontane da quelle che erano in una "Godhead's Lament", molto lontane...), o qualche mellotron, e mettere la batteria in sordina non significa per forza essere delicati e introspettivi, ma può voler dire semplicemente noia. Ci sono diversi episodi che risollevano la media del disco, e sono quelli in cui appunto la classica vena Opeth è ancora presente: pezzi in cui appaiono i complessi sentimenti che hanno sempre animato questa band. Sentimenti che però vengono comunque offuscati da una certa attitudine che io definirei macchinosa, priva di mordente. Merita però un plauso l'opener pianistica "Heritage", semplice e malinconica cascata di note dal sapore quasi psichedelico, che personalmente ritengo il brano più riuscito dell'album. Ma è pur sempre solo un'introduzione: questo dovrebbe far riflettere.

In sostanza, forse è presto per dirlo, ma mi sento di dire che gli Opeth sono incappati nel loro primo album malriuscito. Non sento più quella genuina spontaneità che li ha sempre contraddistinti, nè quella sana aggressività che faceva di loro un gruppo eccezionale. Ho come la brutta impressione che si stiano adagiando sugli allori, contando forse sul fatto che "ormai qualsiasi cosa col nome Opeth venderà per forza centinaia di migliaia di copie". Spero di sbagliarmi, ma temo proprio che Akerfeldt abbia intrapreso la strada del declino. Qualcuno mi dica che non è così, che mi sono sbagliato.

01 - Heritage (2:05)
02 - The Devil's Orchard (6:40)
03 - I Feel The Dark (6:40)
04 - Slither (4:03)
05 - Nepenthe (5:40)
06 - Haxprocess (6:57)
07 - Famine (8:32)
08 - The Lines In My Hand (3:49)
09 - Folklore (8:19)
10 - Marrow Of The Earth (4:19)

Haye's Grave - "Shadow Moses"

Autoprodotto, 2011
Provengono da Lucca questi cinque musicisti dediti ad un genere che si colloca a metà tra l'hardcore punk e il metal, e che con questo EP intitolato "Shadow Moses" riesce a regalare venti minuti di devastante aggressività sonora che invita al pogo e all'headbanging, e che sicuramente in concerto avrà una resa ottima. Mischiando con classe un po' di swedish death metal di antico stile (più vicino ai Ceremonial Oath che non ai mostri sacri del genere, specialmente per quanto riguarda le sonorità), un po' di death metal classico, un po' di thrash e qualche spruzzo di crossover, i nostri uniscono al grezzume del punk la pesantezza del metal, resa alla perfezione con chitarre pesanti e sporchissime, che ricordano molto il sound dei primi Celtic Frost. Ci aggiungono un'attitudine minimale ma efficace, che utilizza una quantità di riff sufficiente a non scadere nel piattume, e ritmiche non sempre uguali a sè stesse ma capaci di rinnovarsi spesso attraverso continui stop and go, entrate in doppia cassa, accelerazioni e apparenti rallentamenti, sempre molto brevi prima della successiva esplosione. Poi, in questi sei brani costituiti perlopiù da distorsioni sporche e dissonanze feroci, aggiungono a sorpresa alcune sezioni melodiche e assoli di chitarra dal gusto sopraffino, sempre molto brevi ma tutt'altro che insignificanti. Un punto su cui mi sento di fare davvero i complimenti è la voce, quasi sempre in growl:  nonostante a livello tonale non sia molto articolata, è convincente nella sua timbrica vagamente malata e costantemente rabbiosa, e ciò fa sì che la presenza molto frequente delle linee vocali aggressive non costituisca un fastidio, ma un punto di forza. Assolutamente azzeccata, e la migliore che si poteva trovare per questo genere di musica, una specie di ruggito rauco "alla Meshuggah", ma meno monocorde e ancora più sporco, in definitiva molto più coinvolgente. 

I brani passano veloci ma non inosservati, in quanto ognuno è dotato di una forte carica "metallica" e irruenta, che lo rende sempre incisivo e mai banale, nonostante la strumentazione ridotta al minimo indispensabile (solo chitarre, basso, batteria e voce, come nella vecchia tradizione metal!). Non ci si annoia mai, ascoltando l'album. Dimostrazione ulteriore che non serve grande complessità per creare un dischetto metal di tutto rispetto, che sia fedele al genere e che contemporaneamente non scada nel banale, in quanto dotato di quel "non si sa bene cosa" che lo rende convincente. Questo elemento in più, che qualcuno chiama talento e qualcun altro chiama ispirazione, ma che io non so bene come chiamare in questo caso, fa sì che un EP come "Shadow Moses" sia un buon biglietto da visita per il futuro della band. Il loro mestiere lo sanno fare, e si nota che la personalità non manca: non ci rimane che aspettare e stare a vedere quanto potranno ancora migliorare.


01 - Titan Throne (1:16)
02 - Philosophers (3:42)
03 - Lions & Hopeless (4:24)
04 - Raptorize (4:24)
05 - Hypocrisy (3:32)
06 - Shadow Moses (4:08)

martedì 11 ottobre 2011

Empyrium - "Songs Of Moors And Misty Fields"

Prophecy Productions, 1997
L'acerbo esordio "A Wintersunset..." era un disco riuscito a metà, che mescolava melodie romantiche e appassionate con pecche importanti che lo penalizzavano non poco. Inevitabile, dunque, che il secondo album sarebbe stato la prova del nove per gli Empyrium: e fortunatamente la band tedesca ha compiuto il salto di qualità, un vero e proprio zompo che li ha catapultati direttamente tra i grandi nomi del folk - gothic - doom metal. Più metallico, più arioso e meglio assemblato del suo predecessore, "Songs Of Moors And Misty Fields" è un album che prende per mano e conduce lungo sentieri di una bellezza insuperabile, attraversando verdi vallate e campi di fiori variopinti, carezzati da un vento gentile e da un sole vivificante. Ancora una volta, la cattiveria è assente, dimostrando che non sempre la chitarra distorta richiama questo sentimento; il collante principale è la passione, che assume qui la sua forma più spiccatamente ottocentesca, quella del Romanticismo che tanto ha ispirato poeti e musicisti nello scrivere e cantare di amori finiti, perdita delle persone amate, rimpianti, rimorsi e perenne inquietudine nei confronti della vita, così cangiante e instabile. Ogni composizione di questo album, infatti, richiama ai temi più cari del Romanticismo tedesco, rivisitandoli in chiave ovviamente più moderna, ma sempre fedele al nucleo di tradizione classica.

Finalmente il gruppo abbandona quei mostruosi tappeti di tastieroni che tanto avevano appesantito l'ascolto di "A Wintersunset...", preferendo una musica sicuramente più diretta, che parla direttamente al cuore e si forgia di chitarre maggiormente presenti e protagoniste. L'attitudine sinfonica non è dimenticata, tuttavia: le tastiere sono sempre presenti, solo che ora stanno al loro posto, in sottofondo, accompagnando la musica con il necessario gusto e la necessaria eleganza, senza più voler strafare. Anche le linee vocali sono migliorate notevolmente, sia per quanto riguarda la voce pulita, sia per lo screaming, che ha guadagnato punti in quanto ad espressività: Markus Stock è ora capace di destreggiarsi tra sussurri impercettibili, drammatiche recite e disperate abiure in screaming, senza risultare forzato. Desta un piacevole stupore anche l'inserimento di strumenti classici come il pianoforte, i flauti e i violoncelli (veri, non più tristemente sintetizzati!) che donano quel tocco "folk" ad un lavoro già di per sè molto vario, donandogli una marcia in più e rendendolo ancora più conforme agli scenari che esso vorrebbe evocare. Mescolate il tutto con melodie piangenti e teatrali, accompagnate da mille piccoli impreziosimenti ("Mourners", "Lover's Grief"), tensione emotiva che cresce progressivamente e raggiunge picchi inaspettati ("Ode To Melancholy", "The Blue Mists Of Night") gentili e appassionate odi alla natura che si esprimono sia con pizzichi delicati sia con intense accelerazioni ("The Ensemble Of Silence"), e otterrete un capolavoro. Non posso descrivere dettagliatamente ogni brano, ciò non renderebbe giustizia al disco. Posso solo dire che "Songs Of Moors..." è un album finalmente maturo, superbamente costruito e animato da una forza vitale palpabile, la forza tanto cara agli autori romantici, innamorati della vita e di tutte le emozioni che questa regala, sia positive sia negative. In definitiva, un classico nel suo genere e uno dei meglio riusciti esempi di metal "sentimentale". E, aggiungo io, estremamente sottovalutato. Riportiamo alla luce questa piccola gemma!

01 - When Shadows Grow Longer (1:33)
02 - The Blue Mists Of Night (6:27)
03 - Mourners (9:19)
04 - Ode To Melancholy (8:48)
05 - Lover's Grief (9:12)
06 - The Ensemble Of Silence (9:53)

lunedì 10 ottobre 2011

Skogyr - "Rainchants"

BadMoodMan Music, 2007
Dietro gli Skogyr si nasconde la persona di Farakh, polistrumentista russo che ha deciso di mettere in piedi questo progetto per ricreare in musica i suggestivi "canti della pioggia", suggeriti sia dalla copertina sia da alcune campionature di temporali sparse lungo il disco. La musica racchiusa in questo "Rainchants", per quanto sia di indubbia qualità, suscita impressioni contrastanti e spesso inconciliabili, data la sua particolarità stilistica di essere totalmente strumentale e piuttosto ripetitivo.

L'idea di suonare un pagan black metal senza l'ausilio dell'indispensabile voce in screaming è indubbiamente coraggiosa e interessante, dato che non sono molte le band che adottano questa soluzione: in effetti, con l'assenza della voce è necessario che gli strumenti sappiano parlare da soli, ed è forse questo l'aspetto su cui Farakh deve ancora lavorare un po'. Il nostro musicista tuttofare propone infatti quattro brani (più una trascurabile cover posta in chiusura), due di media lunghezza e due di minutaggio elevato, che risultano sicuramente suggestivi ma al contempo molto ripetitivi, per cui possono creare qualche problema agli ascoltatori non avvezzi a questo tipo di musica, i quali troveranno "Rainchants" molto ostico, almeno ai primi ascolti. La ridondanza dei passaggi non implica tuttavia che la musica sia povera: siamo infatti di fronte ad una riuscita commistione tra un evocativo black metal melodico e un ipnotico incedere post - metal, con brani "fiume" che possono suggerire diverse immagini alle menti più fervide. L'incessante infrangersi a terra delle gocce di pioggia inferocite, l'avanzare delle fiere e inarrestabili colate laviche, le improvvise valanghe che travolgono tutto ciò che incontrano sulla loro strada. Il risultato è un'impetuosa corrente strumentale che, con l'ausilio di sonorità roboanti e di percussioni potenti (affidate a una drum machine), riesce a catturare l'immaginazione e a risultare convincente. Le melodie sono sempre azzeccate e ispirate, l'atmosfera è assicurata da parti di tastiera appena accennate ma comunque in grado di donare quel tocco di classe in più alla musica: dal punto di vista delle sonorità non si può obiettare nulla al fatto che "Rainchants" sia un prodotto affascinante.

A fronte di questi numerosi aspetti positivi, è tuttavia necessario ribadire il principale difetto di quest'album, ossia l'eccessiva ripetitività dei due brani principali. Qualche variazione in più avrebbe giovato e avrebbe permesso al disco di avere un po' più di respiro: invece ci troviamo di fronte a brani sì lunghi ed evocativi, ma che raggiungono minutaggi così elevati proprio perchè le singole parti sono ripetute talmente tante volte da rendere l'ascolto faticoso, specialmente se si opta per un ascolto attento. L'assenza della voce contribuisce ad incrementare la sensazione di staticità, poichè se la musica fosse sufficientemente varia ed elaborata a livello melodico si potrebbe tranquillamente soprassedere, ma a volte si sente proprio il bisogno di qualche passaggio diverso, che riesca a ridare un po' di direzione alla musica. A dire il vero le variazioni non mancano, ma sono quasi tutte di carattere ritmico (accelerazioni e decelerazioni anche abbastanza marcate), mentre quelle di carattere melodico / armonico non sono così numerose. Paradossalmente, i due brani più interessanti sono quelli che dovrebbero essere di importanza minore, vale a dire il primo e il quarto: più vari e più dinamici rispetto ai due mastodonti centrali, risultano i veri protagonisti del disco. Impossibile, infatti, non rimanere incantati dalla bellezza dell'opener "Chant I" (il cui video è incluso nel CD): canti di gufi e corvi in lontananza, pioggia che cade, chitarra pulita che ci prende per mano e ci porta a poco a poco in uno spettacolare e possente crescendo strumentale che infine sfuma e ritorna alla bucolica calma iniziale. Se un temporale potesse diventare musica, sicuramente suonerebbe così. Ugualmente difficile non stupirsi di fronte alla maestosa chiusura di "Chant IV", spiccatamente malinconica e ispirata con i suoi riff terrosi e umidi, che nel finale diventano lancinanti e grondanti sangue.

In ogni caso, a Farakh non mancano le capacità di ricreare una musica suggestiva e celebrativa, che colpisce la fantasia dell'ascoltatore e lo faccia sognare un po', catapultandolo in maestosi scenari naturali. Se non ci si lascia infastidire dalla sua programmatica monotonia, "Rainchants" diventa un ascolto più che piacevole, che può accompagnare degnamente un momento di meditazione in mezzo al bosco o su una cima panoramica. Io me lo riascolto sempre volentieri, quando ho voglia di staccare un po' e di rilassarmi pienamente. Consigliato dunque agli amanti del genere, poiché chi non è un patito del pagan black metal potrebbe rimanere deluso: costoro dovranno valutare bene prima dell'acquisto.

01 - Chant I (5:57)
02 - Chant II (12:08)
03 - Chant III (13:24)
04 - Chant IV (5:56)
05 - Silent Hill (Akira Yamaoka cover) (2:36)

The Morningside - "The Wind, The Trees And The Shadows Of The Past"

BadMoodMan Music, 2007
La semisconosciuta etichetta BadMoodMan Music ha messo sotto contratto solo poche band, in buona parte del filone post metal atmosferico, ma tutte quelle che conosco si sono finora dimostrate di ottimo valore, o comunque mostrano buone potenzialità per il futuro. Si vede che è un'etichetta che lavora sulla qualità e non sulla quantità, poichè anche i russi The Morningside non fanno eccezione e si confermano come una delle band più interessanti che troviamo nello sparuto catalogo di questa label. Autori di un metal intensamente melodico, malinconico e dal sapore vagamente post - rock, ma più orientato verso le melodie agallochiane e sulle atmosfere "pagane" tanto care al black metal meno oltranzista, i ragazzi hanno ricevuto un buon responso dalla critica e dal pubblico underground, arrivando a pubblicare finora due full - length ed un EP. Questo album dal lunghissimo titolo è il primo della loro carriera, dura quaranta minuti esatti eppure per intensità non ha nulla da invidiare ai suoi più blasonati colleghi, pur prendendo spunto da loro in maniera piuttosto evidente. C'è da dire che non si tratta di novellini, ma di musicisti che hanno già una buona esperienza nel mondo metal e sanno già come muoversi in questo terreno.

Dalla copertina è facile capire cosa contiene questo album: una bucolica ode alla natura, che vuole essere un appassionato contorno per una gita in montagna, camminando da soli in mezzo agli alberi e alle rocce millenarie, sfiorati dal vento e talvolta bagnati da una pioggerella improvvisa. Ogni composizione è costruita con garbo, toccando lidi introspettivi e dal sapore meditativo, ma senza disdegnare anche l'uso di un buon growl nelle parti più dure (che a dire il vero non sono poi molte). I punti forti dei The Morningside sono i suoni puliti e cristallini, sia nelle parti elettriche che nelle folkeggianti parti acustiche; le melodie chitarristiche molto elaborate e riccamente sviluppate, che si rincorrono e si danno battaglia senza sosta; la sottile uggiosità che percorre ogni loro composizione, senza che tuttavia la musica risulti pesante o depressiva. Il carattere "leggero", ma non per questo scontato, di questo album lo rende adatto anche a chi non ama le sonorità estreme, e potrebbe piacere perfino a persone completamente estranee al mondo del metal, proprio per via della sua estrema nitidezza e gentilezza sonora.

Il disco conta solo tre brani, escludendo l'introduzione e la coda, piuttosto simili tra loro eppure molto vari, costruiti su melodie cangianti e in continua evoluzione, andando talvolta a ricordare le strutture del progressive. La gentile e sbarazzina irruenza di "The Wind", capace di insospettabili sfumature malinconiche; le intense partiture melodiche di "The Trees", che lacerano in due i cuori; la lenta e inesorabile evoluzione della mesta "The Shadows Of The Past", cantata interamente in pulito e teatro di un meraviglioso crescendo finale: si può davvero dire che i brani sono uno più bello dell'altro, ed è difficile decidere quale sia il migliore, anche se la mia personale scelta cade sull'ultimo dei tre. Ogni brano ha il suo punto forte e mantiene un carattere netto, donando all'album una buona longevità nonostante la breve durata: si sente che dietro la musica c'è un buon lavoro di arrangiamenti, raffinazione e cura dei dettagli, ma anche una buona sostanza, che rende appunto il disco appetibile anche nel lungo termine.

Questo album farà felici gli amanti del metal più intimista e contemplativo, quel tipo di metal che usa le chitarre distorte come mezzo inconsueto per esprimere i sentimenti più morbidi. Non posso fare altro che consigliarlo a tutti, poichè questi russi sono davvero una delle migliori sorprese che mi sia capitato di trovare ultimamente.

01 - Intro (1:33)
02 - The Wind (11:09)
03 - The Trees (9:54)
04 - The Shadows Of The Past (12:39)
05 - Outro (4:45)

venerdì 7 ottobre 2011

Blut Aus Nord - "Ultima Thulee"

Impure Creations, 1995
Voi e la vostra piccola nave, le vele alte nel cielo a sfruttare le forti raffiche di vento, le provviste e i viveri che ormai scarseggiano...e dopo aver percorso ogni distanza percorribile la nebbia si dirada ed ecco apparire lei, l’Ultima Thule, la terra di fuoco e ghiaccio sulla quale il sole non tramonta mai, l’ultima terra raggiungibile oltre la quale non si può andare, la terra di confine tra il mondo conosciuto e l’oblio dell’ignoto.

Mi rendo conto che molto di ciò che sto per dire non avrà granché senso, ma a volte capita che la musica dia certe sensazioni deliziose che a parole è molto difficile descrivere. Quindi prendetele per quello che sono...

Poc’anzi si parlava del mito dell’Ultima Thule, un racconto che è sopravvissuto e si è modificato nel corso dei secoli. Nel mito come nella musica: Ultima Thulee è un discone cult Black Metal frutto del genio creativo dei francesi Blut Aus Nord, l’ultima terra raggiungibile percorrendo a ritroso la loro discografia, il confine invalicabile tra i modi standard di interpretare il Black Metal e l’intima essenza eterna dello stesso. Tra le umane genti sussistono vari stili che vanno dall’Old School al Raw, dal Symphonic al Depressive, dal Post-Black all’Ambient; ma poi, ben distinto da tutti e danzante sulla sottile linea di demarcazione tra scibile ed arcano, c’è Ultima Thulee, che sta all’estremità della concezione mortale del Black Metal. Questo disco sembra poggiare le proprie fondamenta fuori dal tempo giacché coinvolge elementi musicali che sembrano avere un che di anacronistico, sembra un oggetto antico che qualche sciamano che viveva sui monti utilizzava per contemplare un futuro lontano, sembra non essere soggetto all’erosione delle onde degli anni, col suo tipico sound marcescente pigmentato però da un’eterea vena melodica, fluttuante nel suo andamento. Se da un lato abbiamo il fuoco, una produzione sublimemente pessima e uno scream raschiante, dall’altro abbiamo il ghiaccio, numerosi respiri, rallentamenti ipnotici, tastiere e arpeggi cristallini, il tintinnio di mille cristalli proveniente dalle grotte degli alti ghiacciai e amplificato dall’effetto eco della montagna. Otto episodi, otto panorami diversi: si va dagli effluvi melodici di The Plain Of Ida e Till’ I Perceive Bifrost ai gorgheggi ieratici di My Prayer Beyond Ginnungagap, dalla flebile nenia di Rigsthula alla conclusiva The Last Journey Of Ringhorn con i suoi toni singolarmente ottantiani. Ascoltare Ultima Thulee pare come avanzare pesantemente in una palude infuocata, per poi ritrovarsi improvvisamente avvolti dall’algido bianco intenso guardando il mondo attraverso una sottile lastra di ghiaccio, udendo echi sfocati che hanno un po’ dell’atavico e un po’ dell’alieno.

Ultima Thulee rimescola il tempo e annulla lo spazio, manifestandosi con sonorità tratte ora dal Black Metal classico, ora da una terra senza età. Il risultato alchemico di questa fusione va colto ascoltando il disco, non i miei sproloqui privi di senso coi quali ho inondato questa recensione nel disperato tentativo di trasmettervi l’irresistibile flusso di emozioni che esso suscita in me...ho parlato con il cuore in mano, ma anche così le parole non rendono giustizia: posso solo dirvi che ci sono momenti in questo disco che non trovano spazio da nessun’altra parte. Il sottoscritto non saprebbe indicarvi un album Black Metal migliore di questo gigantesco capolavoro intitolato Ultima Thulee, l’ultima terra che raggiungerete esplorando a ritroso la discografia dei Blut Aus Nord, una spettacolare terra di fuoco e ghiaccio su cui il sole non tramonterà mai.

01 - The Son Of Hoarfrost (06:02)
02 - The Plain Of Ida (08:54)
03 - From Hlidskjalf (07:44)
04 - My Prayer Beyond Ginnungagap (05:12)
05 - Till’ I Perceive Bifrost (07:07)
06 - On The Way To Vigrid (05:57)
07 - Rigsthula (03:59)
08 - The Last Journey Of Ringhorn (07:36)