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mercoledì 19 ottobre 2011

Opeth - "Morningrise"

Candlelight Records, 1996
Se chiedete a qualsiasi fan quale sia il suo disco preferito degli Opeth, molto difficilmente egli vi darà una risposta chiara e univoca. Il più delle volte, tenderà a rispondere con una frase simile: "è impossibile dirlo, sono tutti bellissimi!". Sarò sincero, anch'io rispondo sempre così: eppure, per molto tempo ho avuto la tentazione di rispondere subito "Morningrise". Il secondo album di questa eccezionale band, infatti, è di una bellezza tale da appianare quasi ogni dubbio, e solo l'eccelsa qualità degli album che lo hanno seguito impedisce di collocarlo inequivocabilmente in cima al podio degli Opeth. Rimane sempre il dubbio, se confrontato con altri mostri del calibro di "Still Life", "My Arms, Your Hearse" o "Blackwater Park".

Reduci da un esordio poliedrico ed ispiratissimo come "Orchid",  che aveva mostrato al mondo metallico una band ancora acerba ma dalle rare capacità compositive, i nostri avevano l'arduo compito di migliorarsi ulteriormente, e senz'ombra di dubbio hanno superato ampiamente l'onere assegnato loro. "Morningrise" è un disco maturo, profondo, estremamente complesso e vario, che definisce una volta per tutte la peculiarità del suono Opeth, tanto che successivamente tale sound verrà considerato come un genere a sè stante. I nostri prendono spunto dal black - death metal melodico del primo album e lo portano ad un livello superiore, intensificando la componente progressive ma lasciando quelle atmosfere gelide e malinconiche che li hanno resi famosi, aiutati da una produzione certamente non perfetta ma adattissima ad avvolgere la profonda tristezza che si cela tra questi solchi. Impareggiabili qui diventano i duetti tra chitarre elettriche e acustiche, chiamate spesso a suonare assieme come sorelle maledette, l'una che cerca costantemente di essere più emozionante dell'altra, in una continua lotta senza vincitori nè vinti. Rispetto all'esordio, la cura per i particolari è indubbiamente maggiore, così come sono maggiormente elaborati i brani, che già prima non erano certamente scontati o semplici da seguire. Gli elevatissimi minutaggi non possono che confermare quanto detto, in quanto nessun brano è al di sotto dei dieci minuti. Ma non sono tanto le lunghezze dei brani a colpire, quanto la stupefacente ricchezza di riff, melodie e variazioni armoniche all'interno degli stessi, con chitarre che paiono animate da vita propria, sempre pronte ad evolversi e a cambiare registro, nonchè a pennellare melodie di assoluta bellezza, destinate ad essere ricordate come alcune tra le più belle mai sentite nell'intero genere Metal. Un esempio di ciò è la crepuscolare "The Night And The Silent Water", che pare evocare reali ruscelli che scorrono mestamente, perfettamente simboleggiati dalle stanche chitarre che paiono trascinarsi nella tristezza. La voce di Mikael Akerfeldt, storico cantante e chitarrista della band, è grezza e fredda, eppure terribilmente verace, espressione di un dolore autentico e lacerante. Ma quando passa dal growl al clean diventa invece carezzevole, estatica, intimista. Alcuni momenti di apparente calma ci trasportano in una palude fredda e desolata, popolata dalle sculture che troviamo in copertina, ricoperte di edera e abbandonate da anni; la spettacolare alternanza tra acustico ed elettrico prosegue a lungo, ammaliandoci irrimediabilmente, prima di sfociare nell'impressionante finale, nel quale la tensione aumenta progressivamente e pericolosamente, sottesa dalla doppia cassa, fino al sopraggiungere del climax:

"You sleep in the light
Yet the night and the silent water
Still so dark
"

"Tu riposi nella luce
Ma la notte e la silenziosa acqua
sono ancora così oscure".

Versi meravigliosi per ricordare la morte del nonno, sopraggiunta poco prima della registrazione del disco. Mikael pronuncia queste parole con una rassegnazione urente, che non potrà mai trovare pace. Stupenda, non c'è altro da dire. Ma tutto il disco è così: ogni brano ha una propria forza vitale, non esiste un pezzo inferiore all'altro, e nella sua omogeneità sonora il disco è comunque così variegato ed elaborato da risultare sempre nuovo ad ogni ulteriore ascolto. Splendide sono le suggestioni puramente progressive di "Nectar", capace però di prodursi in riff spaccacuore quando è necessario, o le interminabili cascate di note liquide di "Advent", mentre il vero colosso è indubbiamente la chilometrica e camaleontica "Black Rose Immortal", venti minuti di pura emozione che tocca il culmine nella parte centrale, con un susseguirsi di linee melodiche sempre più spettacolari, al punto che ci si chiede, durante l'ascolto: "com'è possibile che dopo una melodia così bella riescano a tirarne fuori un'altra ancora migliore?". Mosca bianca è la conclusiva "To Bid Your Farewell", quasi interamente acustica se non nel finale, in cui riappare la chitarra distorta ma non il growl. L'episodio finale è caratterizzato da una malinconia ancora più pronunciata, se ciò è possibile: le chitarre acustiche si intrecciano con un basso dal suono pieno e rotondo, creando una struggente atmosfera di sconforto assoluto. Vorrei riuscire a usare termini più propri e pertinenti per descrivere le sensazioni che tale musica mi provoca, ma non è facile: quando la musica tocca corde così profonde dell'emozione, per forza di cose non si riesce a spiegare il perchè. Quello che so è che gli Opeth uniscono una classe fuori dal comune, una tecnica strumentale eccellente, un'attitudine fantasiosa e personalissima e un gusto melodico eccezionale, e ne fanno una band. Imperdibile, aggiungo.

01 - Advent (13:43)
02 - The Night And The Silent Water (10:57)
03 - Nectar (10:08)
04 - Black Rose Immortal (20:14)
05 - To Bid Your Farewell (10:56)