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mercoledì 27 aprile 2011

Ansur - "Axiom"

Candlelight/Nocturnal Art 2006
Scoprii questa band per puro caso. Un giorno in cui per caso ero in anticipo entrai in un negozio di CD che per caso si trovava sulla mia strada. Ispezionando il settore sotto la lettera “A” mi vennero in mano per caso questi Ansur. Nonostante il mio ampio background Metal non li avevo mai nemmeno sentiti nominare, ma il logo, l’artwork e la tracklist mi colpirono fin da subito - solo sei canzoni per un totale di 44 minuti? Ciò significa una media di più di sette minuti a canzone...interessante! Dato che il CD era usato - poco, direi - e costava solo 5.90 decisi di comprarlo, così, del tutto a scatola chiusa. Non compro mai CD a scatola chiusa, ma data l’esiguità dell’investimento decisi di prenderlo. Sentivo che poteva essere carino.

Posso ora affermare di non essere mai stato così soddisfatto di un mio investimento imprevisto. Il disco inizia e ascoltando Earth Erasure sembra che non ci sia nulla di così interessante: poco più di tre minuti costruiti su un paio di riff di quello che può essere considerato un Black Metal moderno simile a In Sorte Diaboli dei Dimmu Borgir. Non male, ma nemmeno esaltante. Post-Apocalyptic Wastelands invece, pur non facendo gridare al miracolo, lascia intendere che di semplice Black Metal moderno non si tratta: è un brano dall’attitudine ritmica Prog, e colpisce molto il suo assolo di chitarra melodico e arioso. Se questa traccia mette in luce un tentativo di catarsi, è solo la successiva Interloper che lo concretizza rompendo definitivamente gli indugi: da qui alla fine solo grande musica, un Progressive Black moderno e oscuro dalle numerosissime uscite melodiche che tuttavia non evita di andare a pescare tra i classici come Dimmu Borgir ed Emperor. Il cantato e i riff di chitarra sono decisamente Blackened, ma per contro il ritmo e le composizioni sono marcatamente Prog, ricche di cambi di tempo e scenario; per di più la melodia degli assoli e l’uso sproporzionato della chitarra acustica rimandano inevitabilmente al Rock progressivo anni ’70. Insomma, un bel mischione di elementi contrastanti...tuttavia unificati alla perfezione: la chitarra acustica non è solitaria, ma accompagna quasi sempre l’aggressiva chitarra ritmica creando un dualismo speciale, e gli assoli, molto melodici, si sfumano alla perfezione nei toni più Black - e viceversa. L’estrema fluidità delle composizioni è il collante definitivo che rende perfettamente naturale un album che ha l’ardire di proporre un accostamento insolito, accostamento che a parole non sembra più probabile di quello tra arancione e rosa. L’immagine dei norvegesi (!) Ansur che emerge da questo Axiom è quella di quattro eccellenti compositori apparentemente già molto esperti, capaci di accostare tratti musicali molto diversi tra loro con straordinarie fluidità e coerenza; quattro ragazzi che pur avendo le doti tecniche necessarie non cercano mai di strafare, lasciando lontani i virtuosismi nudi e crudi al fine di valorizzare il brano per intero.
Dopo aver ascoltato l’intero disco si coglie retrospettivamente anche l’importanza delle prime due tracce: un’apertura diretta che colpisce in pieno col suo riffone mastodontico, seguita da un brano di transizione che spiana la strada ai successivi quattro capolavori. Così anche l’inizio del disco assume valore: si tratta di una sorta di iniziazione per preparare l’adepto ai grandi segreti che gli verranno svelati in seguito, una sorta di piccola anticamera e di scala discendente nascosta che conducono alla vera stanza dell’oro.

Non so come abbia avuto la fortuna di capitare in quel negozio proprio quel giorno, e non so come mai l’ex proprietario di questo CD abbia deciso di disfarsene. Non so nemmeno cosa nel profondo mi ha spinto ad acquistarlo, dato che è una cosa che non faccio mai. So solo che ogni tanto la Norvegia, così, di punto in bianco, tira fuori un coniglio dal cilindro che si distacca nettamente dalla storica tradizione Black del paese: nel 2005 furono i Communic, nel 2006 è toccato agli Ansur.

01 - Earth Erasure (03:19)
02 - Post-Apocalyptic Wastelands (05:07)
03 - Interloper (09:02)
04 - Desert Messiah (08:12)
05 - Sowers Of Discord (07:06)
06 - The Axiom Depicted (11:00)

venerdì 22 aprile 2011

Sacrimony - "...And Abyss He Created"

Le Crèpuscule Du Soir, 2011
La prima cosa che colpisce di questo lavoro è la copertina, che raffigura una catena di maestose montagne, illuminate da una luce che sembra quasi ultraterrena. Cosa dunque si celerà dietro questa prima uscita del polacco Marcin, unico componente dei Sacrimony, progetto musicale scoperto e pubblicato dalla label francese Le Crèpuscule Du Soir? Ho la fortuna di ascoltare questo album in anteprima assoluta, e devo dire che questo album mi sorprende notevolmente, in vari modi: quasi tutti positivi, e qualcuno negativo. Vediamo il perché.

Dal punto di vista stilistico, i Sacrimony uniscono la lentezza e la marzialità dei ritmi Funeral Doom con un uso costante delle orchestrazioni classiche, le quali rivestono un ruolo spiccatamente protagonista e non gregario come solitamente accade. Tutto ciò si traduce in brani chilometrici, con scarsissime variazioni tematiche ma molti piccoli impreziosimenti come gli archi suonati a pizzico, i flauti e il pianoforte, che si inseriscono nel tappeto strumentale quasi con timidezza, ma con grande eleganza. Le chitarre, sintetizzate elettronicamente, sono pesantemente distorte e saturate, ma  suonano sempre in secondo piano, mentre a fare quasi tutto il lavoro sono proprio gli archi, che pennellano melodie celestiali e adatte a descrivere un momento "meditativo" e solenne, magari proprio in cima a quelle montagne che i nostri raffigurano in copertina. A dire la verità, le chitarre si limitano unicamente a produrre qualche accordo di accompagnamento, senza mai spunti melodici nè tantomeno assoli, totalmente assenti per tutta la durata del disco. Dunque è più logico considerare questo album come musica sinfonica spruzzata di metal, e non il contrario.

Dal punto di vista del carattere musicale, invece, i Sacrimony sono piuttosto lontani dai classici canoni del Funeral Doom: nella loro musica non c'è la pesantezza e l'attitudine oscura ed orrorifica di gruppi come Colosseum ed Esoteric; non c'è la tristezza devastante e l'attitudine "maledetta" degli Shape Of Despair,  e nemmeno le venature sperimentali dei Fungoid Stream, o la liturgica ritualità dei Pantheist. La musica qui è pacata e rilassante, ariosa e luminosa, dalle tinte epiche e mai angosciose. Inoltre, c'è un elemento che rende l'album abbastanza unico nel suo genere: esso è interamente strumentale. Proprio così: nessun growl, nessuna voce pulita femminile, niente cori sintetizzati, insomma niente di niente, se non qualche verso recitato stancamente nella traccia conclusiva. Una scelta che ricorda la musica degli Ea (il cui album "Au Ellai" è sicuramente tra i massimi ispiratori dei Sacrimony). Ma mentre gli Ea ogni tanto qualche parte vocale la inseriscono, qui non se ne parla proprio. Questo costituisce, a mio parere, l'elemento più interessante del disco, una scelta coraggiosa che rende l'album adatto veramente a pochi appassionati del genere, in quanto non è facile arrivare in fondo all'album se non si riesce ad entrare perfettamente in sintonia con questa musicalità ipnotica e monolitica. Forse fin troppo: quello che si può rimproverare ai Sacrimony è proprio l'eccessiva prolissità dei brani. Un colosso come "Shades In Grey", della durata di quindici minuti, sarebbe benissimo potuto durare anche solo dieci minuti, eliminando alcuni passaggi ridondanti che rischiano di far perdere la bussola all'ascoltatore, a meno che per l'appunto egli non stia ricercando una sorta di condizione estatica nella quale immergersi durante l'ascolto. Non è questo un album che può essere ascoltato con attenzione dall'inizio alla fine, in quanto l'estrema ripetitività dei brani renderebbe l'esperienza piuttosto frustrante.

I brani migliori del lotto sono sicuramente la sopracitata "Shades In Grey", che nel suo quarto d'ora abbondante si regge unicamente su due temi portanti, discretamente elaborati con l'aggiunta di strumenti diversi e di piccoli abbellimenti, ma totalmente privi di progressione melodica o armonica. Musica statica, sostanzialmente immobile, come un eterno preludio che non si risolve mai. Ma nonostante la ripetitività, è un brano maestoso e vibrante, carico di pathos e di emozione. Un'altra colonna portante è "Her Freezing Beauty", sempre monolitica e solenne ma più varia, e impreziosita da note di pianoforte davvero emozionanti nella loro semplicità. Purtroppo, il suono delle chitarre è a volte eccessivamente ronzante, e può risultare addirittura fastidioso: e questo riduce un po' il potenziale di un brano che con una migliore produzione sarebbe stato un vero capolavoro. "Angels Autumnal Shimmer" è un altro brano evocativo e magico, che non aggiunge nulla a quanto detto in precedenza, ma che brilla anch'esso di luce propria, e regala un momento di vera emozione con il vibrato finale; la conclusiva "...And Abyss He Created" è invece al limite della noia pura, consistendo di un unico tema ripetuto all'infinito, sul quale si staglia una cantilena allucinata, che poco ha a che fare con l'eleganza dimostrata fino a poco prima dai Sacrimony. Una conclusione davvero debole, che poteva sicuramente essere sfruttata meglio e non raffazzonata in questa maniera. La mosca bianca dell'album è la brevissima "Stay Under The Snow", posta in seconda posizione: un fiume pianistico impetuoso e violento, coadiuvato da sezioni di archi di notevole bellezza, che è forse il momento più intenso dell'intero album. Metaforicamente, esso potrebbe simboleggiare il raggiungimento della vetta più alta del mondo, sulla quale si arriva in un impeto di volontà per poi arrestarsi di colpo, una volta scoperto che non ci sono più altri ostacoli da superare.

In definitiva, "...And Abyss He Created" è un disco che non brilla per originalità, in quanto le soluzioni adottate sono già state ampiamente sviscerate da altri gruppi. Non c'è veramente nulla di nuovo, a parte l'idea di eliminare la voce. Molti si annoieranno e non riusciranno ad arrivare in fondo al disco, e forse nemmeno alla prima traccia. Si poteva certamente fare di più per rendere questo album un pochino meno monolitico, più vario e fruibile: ma tutto sommato, ai più strenui appassionati del genere questo album saprà regalare dei momenti speciali, per via della sua capacità di pennellare scenari fantastici, enormi valli erose dai millenni e cime vergini illuminate da un sole al tramonto. La colonna sonora ideale di una lunga camminata in montagna, alla fine della quale ci si ferma un po' ad osservare il panorama sottostante, con quel tipico senso di potenza e di mistero che emana dal trovarsi su uno di quei bellissimi e tremendi mostri di roccia.

01 - Shades In Grey (15:12)
02 - Stay Under The Snow (2:16)
03 - Her Freezing Beauty (9:40)
04 - Angels Autumnal Shimmer (12:09)
05 - ...And Abyss He Created (9:52)

martedì 19 aprile 2011

Nyktalgia - "Nyktalgia"

No Colours, 2004
Tout l'hiver va rentrer dans mon être: colère,
Haine, frissons, horreur, labeur dur et forcé,
Et, comme le soleil dans son enfer polaire,
Mon coeur ne sera plus qu'un bloc rouge et glacé.

Si presentano così i Nyktalgia all’interno del booklet del loro disco d’esordio, con una strofa del “Canto d’autunno” di Baudelaire, non lasciando dubbi sulla loro attitudine musicale maledetta, disperata. Il nome della band trae origine dalla nictalgìa, che pare essere un dolore notturno che colpisce le ossa in particolare di chi è afflitto dalla sifilide. In effetti non potrebbe esserci nulla di migliore per descrivere il loro approccio musicale: glaciale e terrificante, un urlo di dolore nel freddo della notte, l’incarnazione dell’impotenza senza rassegnazione: non a caso sulla copertina compare un uomo nell’atto di suicidarsi. Abbiamo qui un album che non va fuori tema ricercando chissà quale atmosfera, un album che non si perde in composizioni poco oculate, quaranta minuti di Depressive Black Metal ben fatto e concreto che si concentra tutto sull’impatto emotivo diretto. I brani sono interamente costruiti sui riff di chitarra, cavalcanti e strazianti riff impregnati di tristezza esistenziale che oscillano tra momenti blandi e momenti violenti. Il sound è gracchiante e a tratti sgangherato, e il tessuto sonoro già sbrindellato di suo viene definitivamente lacerato da un ottimo scream acutissimo lancinante, uno dei migliori che io conosca. E tra un brandello e l’altro emerge una forza che tiene tutto insieme: la melodia. Ogni singolo riff è pervaso dalla melodia, ma non una sbrodolata pret-a-porter in stile Melodeath da quattro soldi: la forza dei Nyktalgia è saper produrre un riffing melodico splendido e dannato, raffinato e al tempo stesso 100% puro Black.
Cerco di rendere meglio l’idea. Ricordo che un giorno, parecchio tempo fa, decisi di andare alla scoperta del Depressive Black (e dintorni): passai tutta la giornata a spulciare su Youtube sentendo non meno di trenta band diverse che non conoscevo, tra cui Striborg, Vinterriket, Paysage D’Hiver, Trist, Sterbend, Wedard, Deep-pression, Thy Light, Make A Change...Kill Yourself, e altri. Ricordo di aver trovato solo due nomi che mi colpirono davvero: gli Hypothermia e i Nyktalgia. La forza di questi due gruppi, e specialmente dei Nyktalgia, sta tutta nel riffing: un Depressive così concreto, così ricco di riff diretti senza risultare antimelodici, così intriso di splendida melodia senza bisogno di fare uso di improbabili uscite in Ambient, così disperato senza bisogno di risultare macabro, quel giorno risultò unico fra tanti. Con ogni probabilità ciò va additato alla mia scarsa conoscenza del genere, e affermare che questo album porta qualcosa di nuovo al Depressive Black potrebbe far urlare indignati alla menzogna i fan esperti e accaniti del genere...così preferisco limitarmi a dire che io, personalmente, un disco Depressive come questo non l’avevo mai sentito; perlomeno in nessun disco precedente a questo dei Nyktalgia.

Nyktalgia è un disco che dipinge il silenzio con un colore disperato, un disco che col suo stile musicale va dritto nel profondo rivangando le nostre pulsioni rimosse più recondite dalle quali si sprigiona una nera angoscia distruttiva. Non ha senso puntare i riflettori su una canzone particolare: si tratta di quattro capolavori, quattro tele di un cupo blu notte in ognuna delle quali potrete fruire tutta l’impotenza esistenziale. Un disco davvero bello, la No Colours ci ha preso ancora.

01 - Misere Nobis (11:06)
02 - Lamento Larmoyant (09:56)
03 - Cold Void (07:33)
04 - Exitus Letalis (11:51)

domenica 17 aprile 2011

Disarmonia Mundi - "The Isolation Game"

Coroner, 2009
I Disarmonia Mundi sono stati un'eccellente sorpresa quando li scoprii con il loro debutto "Nebularium", un album totalmente autoprodotto, che per qualità compositiva e songwriting non aveva nulla da invidiare a gruppi come Opeth e Novembre. Quel debutto, dalla freschezza genuina e ricchissimo di idee interessanti, che rielaborava i classici canoni del death metal melodico e li mischiava con numerose influenze diverse, andando a costituire un lavoro di tutto rispetto, è rimasto purtroppo un episodio unico nella discografia della band italiana, che è poi scivolata progressivamente verso l'appiattimento stilistico e compositivo.

"The Isolation Game" è la naturale prosecuzione di quest'evoluzione discendente: dopo un secondo album molto più violento, e tutto sommato ancora abbastanza feroce da essere considerato di buon livello, e successivamente dopo un terzo album come "Mind Tricks", che sembrava un disco fotocopia degli ultimi Soilwork (con i quali il gruppo effettivamente condivide uno dei cantanti), ecco arrivare questo quarto lavoro, che non aggiunge veramente nulla a tutto quello che è stato già detto in passato da band che suonano questo genere musicale. Potenza, velocità, chitarre schiacciasassi, melodia, voce alternata tra uno scream (talmente artefatto, esasperato ed "elettronico" da essere ormai privo di senso, ampiamente fastidioso) ed un cantato pulito discreto, ma non sufficientemente incisivo (in alcuni tratti irritante, come nella title track). Nulla più. Un disco che, pur non essendo assolutamente scadente, non ha veramente nulla che lo elevi dalla normalità generale che si riscontra comunemente in un genere inflazionato come il death metal svedese. Un genere del quale ormai sono state abbondantemente tracciate le linee, e che è diventato un po' una catena di montaggio. Episodi buoni non mancano in questo album, come "Structural Wound" dal refrain accattivante, "Blacklight Rush" con le sue violentissime accelerazioni, "Ties That Bind" con le sue melodie di facile presa, "Digging The Grave Of Silence" con il suo finale epicheggiante. Il problema è che i brani, oltre ad essere più o meno tutti uguali tra loro (se escludiamo i due tranquilli intermezzi acustici "Glimmer" e "Beneath A Colder Sun"), esaltano solo nel breve periodo, e mano a mano che si prosegue con gli ascolti, ci si accorge che dopo l'impatto iniziale c'è ben poco materiale che valga la pena conservare. Tutto sa di già sentito, e sostanzialmente è privo di quella personalità che aveva reso "Nebularium" un debutto eccezionale, tra i migliori dischi di death metal melodico / progressive di mia conoscenza. Niente da fare: di quelli che erano i Disarmonia Mundi ormai è rimasta solo una pallida copia, con poche idee e molti clichès. Un vero peccato.

01 - Cypher Drone (4:29)
02 - Structural Wound (3:18)
03 - Perdition Haze (4:20)
04 - Buiding An Empire Of Dust (4:23)
05 - Stepchild Of Laceration (5:01)
06 - The Isolation Game (4:05)
07 - Blacklight Rush (3:47)
08 - Glimmer (2:01)
09 - Ties That Bind (4:05)
10 - Losing Ground (4:14)
11 - Same Old Nails For A New Messiah (3:58)
12 - Digging The Grave Of Silence (4:18)
13 - Beneath A Colder Sun (1:25)
14 - The Shape Of Things To Come (4:10)

martedì 12 aprile 2011

Ne Obliviscaris - "The Aurora Veil"

Autoprodotto, 2007
Avete presente quando Frodo arriva nel mondo incantato degli elfi? Splendide foreste verdi e rigogliose con cascate che si gettano nel vuoto dagli alti costoni rocciosi, i quali accarezzati dal sole vengono scolpiti da un chiaroscuro magico; case simili a templi di qualche antica civiltà che si insediano nel rispetto totale della natura; elementi architettonici arzigogolati che donano splendore al tutto. Ecco, imbattermi nella musica di questa demo per me è stato come arrivare in questo mondo per Frodo.

Il mondo del Metal è così: si pensa sempre di aver sentito già tutto quello che si poteva sentire, che non possano esserci nuove trovate originali, ma puntualmente si rimane piacevolmente sorpresi nel constatare di aver torto. E questa volta a darci torto sono i Ne Obliviscaris, una band di ben sei componenti venuta fuori dall’Australia - peraltro patria di un colosso di innovazione e solidità come gli Psycroptic - che ci delizia con questa sua prima demo. Cosa? Una demo?!? Eh sì, so che a sentire i brani sembrerebbero tratti da un full-length, tanta è la qualità e tanto eccellente è la produzione. Quando scoprii per caso la band su Youtube pensai subito alla loro discografia, immaginandomela composta da almeno tre full-length; e invece si tratta di una semplice demo, per giunta la prima ed unica (ad oggi). Il genere propostoci è una sorta di Progressive Black Metal che però non può essere liquidato così facilmente: si passa per mezzo di ponti tutti all’insegna del Prog dall’enfasi di fasi estreme con tanto di blastbeats e scream all’ariosità di certi momenti in cui la musica pare dispiegarsi come un panno di seta, scandita ora da un toccante violino, ora da soavi note acustiche - spesso e volentieri da entrambi all’unisono. Nelle fasi più estreme invece il batterista Daniel Presland ci mostra perché è stato nominato “piede più veloce in Australia 2006”: un estenuante lavoro con la gran cassa per ottenere un ritmo velocissimo, davvero sfiancante. In questi frangenti i riff di chitarra, una chitarra molto blackened, si stagliano al meglio su tali micidiali mitragliate. Se la poesia dei momenti melodici è puramente strumentale, è tra le violente pieghe stropicciate dei momenti più cruenti che si spiega una prestazione canora a cinque stelle: Xenoyr è capace di passare da un buono scream nella media ad un clean eccellente dalle mille sfaccettature, che nella splendida As Icicles Fall - brano in cui trova spazio anche uno splendido prolungato assolo di chitarra - arriva persino a delle punte moderne in stile quasi emo (!) che però in questo contesto di alta musica suonano davvero bene.

I Ne Obliviscaris sembrano quindi essere una band dalla doppia faccia, a tratti melodici ed emotivi per merito soprattutto di un violino che va oltre qualsiasi possibile elogio, a tratti violenti e velocissimi grazie ad un opportuno uso della grancassa. Una band che consta di musicisti sconosciuti, tutti spuntati fuori dall’underground, che nonostante questo sembrano già avere un’esperienza clamorosa: composizioni perfette, tecnica sopraffina, pathos intenso e coerente. In definitiva The Aurora Veil è una demo che induce a sfregarsi trionfalmente le mani nell’attesa del debutto discografico vero e proprio.

01 - Tapestry Of The Starless Abstract (11:55)
02 - Forget Not (11:51)
03 - As Icicles Fall (09:25)

Sadist - "Crust"

Displeased, 1997
La parola “ibrido” viene usata in ambito metal sostanzialmente in due circostanze: la prima, quella più familiare, è per descrivere un genere musicale che incorpora i più disparati elementi: fusioni di musica classica ed elettronica su fondamenta Heavy, oppure sonorità Black costruite su strutture Prog con spunti tecnici, o ancora Death fortemente influenzato dal Jazz e dalla Fusion. La seconda circostanza invece è più rara e desta meno scalpore: mi riferisco a quegli album il cui genere musicale è l’opposto di quello appena esposto, cioè è un genere inclassificabile che però, invece che essere la fusione di più influenze ben distinte, è un coagulo di elementi di natura imprecisata.

Crust, terzo album dei Sadist, ne è uno degli esempi migliori. Che musica contiene Crust? Cosa sarà mai questo, Melodic Death? Non mi pare proprio. Allora si è forse spostato sul Nu Metal? Ma anche no. Forse molti degli spunti musicali sono riconducibili al Prog, ma questo tentativo naufraga completamente dato che le strutture dei brani sono tutto meno che progressive. Qui è tutto strano e inclassificabile: atmosfere allucinogene inqualificabili, un cantato che alberga in una sconosciuta Terra di Mezzo tra il growl e un clean decadente, un sound che non è né carne né pesce, lontano dal Death quanto dal Metalcore e dal Nu, delle ritmiche dinamiche che costituiscono un mondo a sé. Nemmeno le tastiere sono familiari: se nelle due uscite precedenti della band esse venivano usate negli assoli o comunque in modo abbastanza standard, stavolta assumono un ruolo difficile da descrivere e catalogare; si sa solo che contribuiscono in modo notevole all’atmosfera del disco. L’unica cosa certa è che quest’album, nonostante tutto, è comunque catalogabile come metal estremo - forse...o forse no? Boh, a voi la scelta. In conclusione non c’è un solo elemento in Crust che possa essere ricondotto a una corrente precisa, nemmeno uno.

Il risultato di questo incredibile inaspettato parto dei Sadist, che essi hanno chiamato Crust, è stato decisamente scarso: un album considerato dai più come un mezzo fallimento, un disco che manca di impatto e che non è all’altezza dei loro precedenti Above The Light ma soprattutto Tribe, dato che con quest’ultimo la band sembrava aver trovato un assetto stabile. Ma al di là di questi giudizi affrettati da parte delle menti più ristrette che pretendono che ogni band debba sempre riclonare sé stessa di album in album, qual è il risultato reale del nuovo Crust? Il risultato è grande. Questo come detto è un parto, non un aborto, ed è un parto andato a buon fine: il feto non è malformato. Al contrario, è in salute ed è un corpo tutto particolare che ha il suo inimitabile fascino. Semplicemente è diverso dagli altri.

Crust è uno di quegli album che dopo il primo ascolto lascia tutto com’era prima - un po’ come i proclami di certi filosofi. Non lascia stupore né delusione, semplicemente quando finisce ci si chiede: embè? Io stesso all’inizio ero scettico su quest’album. Tuttavia esce alla distanza: non perché sia troppo complesso e difficile da assimilare - sebbene del resto non sia nemmeno uno zuccherino - ma perché il suo fascino è nascosto, è occulto, è da scoprire poco alla volta. Dategli tempo, e lui vi darà in cambio tante soddisfazioni. Proprio come un figlio che non intraprende la strada voluta dallo stupido padre autoritario, riuscendo alla fine ad eccellere in ciò che egli ama davvero.

01 - Perversion Lust Orgasm (03:19)
02 - The Path (03:49)
03 - 'Fools' And Dolts (03:14)
04 - Holy... (03:04)
05 - Ovariotomy (03:43)
06 - Instinct (04:31)
07 - Obsession-Compulsion (03:56)
08 - Crust (02:42)
09 - I Rape You (04:19)
10 - Christmas Beat (05:17)

Sculptured - "Embodiment"

The End Records, 2008
Scommetto che nessuno, dopo aver ascoltato un brano qualsiasi degli Sculptured, si immaginerebbe mai chi essi siano in verità. La loro musica può piacere o non piacere, molto più probabilmente non piace visto che si tratta di una band che fa Prog sperimentale...probabilmente qualcuno li prenderebbe per dei pazzi maniaci della tecnica, qualcuno sospetterebbe che siano un side-project dei Cynic, qualcun altro forse si spingerebbe a ipotizzare che siano degli alieni travestiti da umani infiltrati sul nostro pianeta. Ma nessuno mai arriverebbe a dire che dietro gli Sculptured si cela nientepopodimenoché...*rullo di tamburi*...Don Anderson, il celebre chitarrista degli Agalloch.

Cosa?!? Don Anderson?!? Gli Agalloch?!? Ebbene sì, e lo asserisco nel pieno possesso delle mie facoltà mentali. Ma mi spingo oltre: non solo è Don Anderson la mente che manovra gli Sculptured, ma sul MySpace della band si legge addirittura: “Known most recently for his work with the band Agalloch, guitarist and songwriter Don Anderson's most personal musical expression remains Sculptured”. Aha! Quindi paradossalmente è un po’ come se fossero gli Agalloch il side-project...ma le novità non finiscono qui, perché a questo album prende parte anche il bassista degli Agalloch, alias Jason Walton. I due si producono, insieme agli altri musicisti, in un Prog sfrenato di fattura molto personale che raccoglie il testimone da band come gli Spiral Architect portando avanti la tradizione Cynic, una musica travolgente e variopinta che incorpora anche elementi di metal estremo come il growl e qualche vaga sonorità della chitarra ritmica. Ci dev’essere qualcosa nel Progressive Metal che spaventa buona parte del pubblico, dato che è un genere da cui molti girano al largo con la vecchia patetica scusa che troppa tecnica rende fredda l’esecuzione. Io invece lo apprezzo molto, specialmente quando la band è così abile da riuscire a fondere i virtuosismi strumentali con una melodia mai pacchiana ma facilmente riconoscibile - e quello degli Sculptured è proprio il caso. La dose di tecnica qui è considerevolmente elevata, specialmente nel ritmo: chitarra e tastiera tessono trame complesse dai sapori variegati e la batteria è tanto labirintica e cervellotica da sembrare a tratti casuale. Ma nonostante ciò ogni brano è immediatamente riconoscibile per via delle sue melodie particolari e degli abbozzi di ritornello - e presenta momenti musicali che sono perfino fischiettabili! Provare per credere, dopo pochi ascolti le melodie principali vi saranno già rimaste in testa.

Questi sono gli Sculptured, una band che nessuno conosce a causa della sua lunga inattività dopo gli ottimi esordi sul finire degli anni ’90. Oggi, dopo ben otto anni, Don Anderson torna improvvisamente a colpire con la sua vecchia fiamma mostrando di averle sempre dedicato attenzione e amore, nonostante il lungo silenzio discografico: Embodiment è la prova di un’evoluzione musicale pensata e sentita, nonché di un impegno sincero che va ben oltre quello che si potrebbe dedicare ad un semplice side-project. Se possiamo dire che ormai Don Anderson è da lungo tempo sposato con gli Agalloch, gli Sculptured rimangono indubbiamente la sua focosa amante segreta.

01 - Taking My Body Apart (08:31)
02 - The Shape Of Rage (06:04)
03 - A Moment Of Uncertainty (06:31)
04 - Bodies Without Organs (07:37)
05 - Embodiment Is The Purest Form Of Horror (10:36)

Moonsorrow - "Tulimyrsky"


Spinefarm, 2008
Per la prima volta nella loro carriera, dopo quattro demo iniziali e cinque full-length consecutivi, anche i Moonsorrow si danno all’extended play, meglio noto come EP. Non so voi ma io sono sempre molto curioso quando c’è di mezzo un EP: non di rado si tratta di interessante materiale sperimentale con cui la band “sonda il terreno” per capire la risposta del pubblico alle sue nuove idee. Niente di tutto ciò per i Moonsorrow, che invece colgono l’occasione fondamentalmente per lanciare un nuovo brano capace fare disco a sé - della serie “da solo vale il prezzo del biglietto!” - e che sarebbe stato difficile contestualizzare all’interno di un full-length.

Quanto a me, ci tenevo a recensire questo EP perché ha il merito di mettere in luce tre aspetti concettuali che mi stanno molto a cuore.
Primo aspetto: il brano inedito, cioè la suite Tulimyrsky. Si tratta di trenta minuti di Viking/Pagan Black Metal sensazionale, brano che consta di colori differenti che nascono dalla mescolanza tra le tinte progressivo-melodiche di Kivenkantaja e la violenza epica di Verisakeet. Un gran pezzo di musica che nonostante la sterminata lunghezza suona spaventosamente spontaneo, dimostrando che quel delizioso capolavoro chiamato Havitetty è riuscito a trasmettere i propri geni. Molte band se ne escono con EP i cui brani inediti sono insignificanti...pochi minuti di gloria, oppure semplici abbozzi scritti coi piedi per sperimentare non si sa di preciso cosa. I Moonsorrow invece ci regalano trenta minuti di grande musica - Tulimyrsky è diventato il mio brano preferito della band.
Secondo aspetto: le cover. Io amo molto le cover perché sono sempre curioso di sentire come una band è capace di far suoi i brani d’altri. Sfortunatamente però non sempre le cover sono granché...accade infatti talvolta che la cover rimanga pressoché uguale all’originale, cioè la band che la suona non riesce a - o non vuole - contestualizzarla appieno nel proprio stile. I Moonsorrow invece ci mostrano alla perfezione cosa significhi suonare una cover: basta ascoltare la celeberrima For Whom The Bell Tolls dei Metallica per apprezzare come i vichinghi finlandesi siano in grado di travestire un brano altrui. Del resto Back To North non è da meno, brano che dal Thrash vecchio stampo dei Merciless cambia pelle e diventa una cavalcata epica, pur mantenendo intatte le melodie principali.
Terzo aspetto: il rifacimento dei loro vecchi brani. Al di là del fatto che sono stati rifatti molto bene, non è questo che voglio mettere in evidenza: il lato da apprezzare di questo rifacimento è che, invece che buttar dentro improbabili remix o inutili versioni live di brani noti, i Moonsorrow hanno preferito ricostruire per bene due brani provenienti dalle loro prime demo che rischiavano altrimenti di rimanere completamente sconosciuti. Possiamo così godere dell’ottimo materiale di quando la band era ancora parecchio orientata verso il Black Metal, ed è sempre bello conoscere le radici di una grande band.

Tirando le somme, Tulimyrsky è un EP che sarebbe stato degno di essere comprato in ogni caso, tanta è la bellezza dei trenta minuti della titletrack; sarebbe stato degno di essere comprato sia che avesse contenuto tracce inutili, sia che fosse stato semplicemente un singolo. Ma la band non si è accontentata, e il suo ottimo lavoro nelle cover e nella ricostruzione dei vecchi brani non fa che ingigantire il valore dell’EP. Ben fatto, Moonsorrow.

01 - Tulimyrsky (29:45)
02 - For Whom The Bell Tolls (Metallica cover) (07:42)
03 - Taistelu Pohjolasta (2008 version) (08:11)
04 - Hvergelmir (2008 version) (09:30)
05 - Back To North (Merciless cover) (13:08)

venerdì 8 aprile 2011

Mar De Grises - "The Tatterdemalion Express"

Firebox Records, 2004
La provenienza geografica di una band a volte risulta davvero sorprendente, in quanto ogni nazione si è guadagnata nel tempo la propria "specializzazione" musicale. Nell'ambito metal, per esempio, gli Stati Uniti e la Germania sono conosciuti per aver prodotto numerosissimi gruppi thrash; la Norvegia per aver dato alla luce le più capaci e seminali band di black metal; la Finlandia per il filone doom e soprattutto funeral doom. Se si ascoltasse "The Tatterdemalion Express" senza sapere da dove proviene il gruppo, si potrebbe tranquillamente dire che si tratta di una band finlandese, dato il doom roccioso e atmosferico celato tra i solchi. E invece no: i Mar De Grises provengono dal Cile, terra tradizionalmente non associata ad alcun genere di metal, come del resto un po' tutto il Sud America. Di finlandese, i Mar De Grises hanno solo l'etichetta, la sempreverde Firebox Records. Cosa mai ci sarà in un disco così apparentemente insolito? Tantissima musica di qualità, mi verrebbe da rispondere per prima cosa. Musica che non afferra subito alla gola, ma seduce ascolto dopo ascolto, lentamente ed irresistibilmente.

I Mar De Grises si definiscono un ibrido tra doom e progressive metal, ma ad un ascolto attento si possono classificare più efficacemente come doom atmosferico, con qualche venatura elettronica e sperimentale. Di certo, possiamo dire che la varietà di questo esordio è davvero notevole: in sette episodi, completamente diversi l'uno dall'altro e immediatamente riconoscibili già dopo pochi ascolti, troviamo musica altalenante, capace di passare dalla pesantezza più solenne e monolitica agli intermezzi più rarefatti e liquidi, e non manca nemmeno di collocarsi a metà tra le due, seppur non frequentemente. "The Tatterdemalion Express" dà infatti l'impressione di essere un disco che unisce due componenti ben distinte in un unico collage, ma che non conosce una vera e propria mediazione tra le due. Vi è una netta distinzione tra atmosfera e aggressività, e il gruppo non fa molto per sanare il divario. Con altre band, a volte, ciò risulta disorientante e lascia una sensazione di fastidio, di incompiutezza e incoerenza: la stessa sensazione che si può provare ascoltando superficialmente questo album. Con il progredire degli ascolti, tuttavia, ci si rende conto che i Mar De Grises hanno semplicemente lasciato libera di correre la loro vena artistica, partorendo composizioni che non seguono alcuno schema e sono libere di arrampicarsi come preferiscono lungo le pareti del disco, variando soluzioni e sonorità con sorprendente padronanza dei propri mezzi. Probabilmente hanno fatto apposta a non cercare una mediazione tra due componenti così distinte: e sono convinto che questo elemento dona all'album un'ottima longevità.

Un urlo mostruoso e un riffing desolatamente malinconico sono l'iniziale biglietto da visita di "El Otro",  chilometrica traccia d'apertura. Un muro sonoro impressionante coadiuvato da una voce tombale si sposa con singole e toccanti note di pianoforte, facendoci sentire nel pieno di una lenta Apocalisse: ma dopo pochi minuti tutto si azzittisce e comincia una lunga sezione strumentale, che potrei definire come "quiete inquietante". Suoni quasi impercettibili, distanti, freddi, che paiono sospesi nel vuoto, in cerca di un impossibile luogo dove trovare riposo. Questa sezione si prolunga per tutta la parte centrale del lungo brano, per poi esplodere nuovamente in un finale contorto e dissonante, dove l'aggressività riprende terreno e i riff si fanno urgenti e tesi. Non abbiamo quasi il tempo di raccapezzarci dopo tanto eclettismo sonoro, che subito "To See Saturn Fall" ci investe con una piacevole cascata di riff, stavolta più ariosi e positivi, ma celanti sempre una sottile malinconia di fondo che non ci abbandona mai, nemmeno per un minuto. Ritmi in continua evoluzione e ulteriori alternanze tra momenti pieni e vuoti ci portano ad un apparente, parossistico e terrifico finale che descrive molto bene il suono che potrebbe fare un pianeta che cade, per l'appunto quel Saturno descritto nel titolo: ma subito dopo la tempesta di riff torna a colpirci, con le chitarre che si aggrovigliano e tentano di liberarsi da una stretta attanagliante, mentre le linee tastieristiche in sottofondo conferiscono maggiore drammaticità al momento. Si fanno notare anche i suoni dei piatti, praticamente continui e scroscianti, come se i musicisti volessero esporci alla forza sgretolante dell'acqua. Di colpo la musica tace e arriviamo a "Storm", brano che si sviluppa su temi carichi di pathos ed emotività, ricalcati da una voce a metà tra il growl e il pulito, molto particolare. Un altro momento di apparente calma, sotteso da un pianoforte, ci porta ad un finale dove l'emozione raggiunge il climax, grazie ad una melodia che ci riempie di devastante malinconia, e che pare accompagnarci per mano verso l'ultimo saluto a questo mondo. La seguente "Recklessness" varia nuovamente le coordinate sonore, proponendosi come brano più veloce e aspro, dalla cadenza schiacciasassi che non disdegna melodie che fanno subito presa, e recitato in maniera magistrale da una voce malata e confabulante, un lamento di dolore che non trova sfogo e si lamenta della vacuità della propria vita. Dopo un episodio così roccioso e potente, cambiamo nuovamente coordinate e ci troviamo di fronte ad una strumentale di solo pianoforte, ricca di dissonanze ma capace di far breccia nel cuore di chiunque grazie ad uno sviluppo melodico quasi poetico, che ricorda non poco le atmosfere eteree dei compositori minimalisti moderni.

I primi due minuti di "Be Welcome Oh Hideous Hell" regalano le emozioni più intense di "The Tatterdemalion Express": un devastante assalto sonoro, che dopo un caleidoscopio di riff di chitarra vede la ritmica accelerare repentinamente ed esibirsi in un furioso blast - beat, mentre una voce sognante ed un delicato pianoforte toccano le corde più recondite dell'anima, con una naturalezza che ha dell'incredibile. Seguono altri minuti di pacate dissonanze e suoni sepolti, come se una bestia nascosta stesse per risvegliarsi: ed è ciò che succede nel finale, con una ripresa del tema iniziale ma reso ancora più ossessivo e senza via d'uscita. Brano sicuramente difficile da incasellare in una struttura o in un genere preciso. Concludiamo il nostro istrionico viaggio con la quasi strumentale "Onirica", che inizialmente può passare quasi inosservata per la sua assenza di distorsioni e per l'apparente mancanza di direzione musicale, ma che in realtà è un brano intenso e capace di farci passare da una trasognata estasi ad un brusco risveglio in una realtà fredda e ostile, abbandonata infine con lentezza e rassegnazione, al suono di un pianoforte e di una voce che parla in spagnolo (lingua utilizzata per buona parte dei testi, con buon risultato).

"The Tatterdemalion Express" è un disco che lascia inizialmente interdetti, e che ha bisogno di molto tempo per svelare il suo vero potenziale. Di sicuro non è un disco semplice, nè banale, nè facilmente incasellabile: ma dategli tempo, e scoprirete che i Mar De Grises hanno esordito con un disco speciale, originale e coinvolgente. Scopritelo pezzo per pezzo, senza fretta: presto vi ritroverete catturati dalle sue atmosfere e totalmente incapaci di districarvi dal blob emotivo che i cileni hanno preparato per voi.

Notevole.

01 - El Otro (11:42)
02 - To See Saturn Fall (8:08)
03 - Storm (10:47)
04 - Recklessness (5:43)
05 - Self Portrait no. 1 (4:28)
06 - Be Welcome Oh Hideous Hell (8:04)
07 - Onirica (7:13)

martedì 5 aprile 2011

Skepticism - "Stormcrowfleet"

Red Stream, 1995
Fu con questo disco che gli Skepticism si consacrarono definitivamente come una delle prime cinque band in assoluto a suonare quello che poi verrà rinominato Funeral Doom Metal, dopo un singolare inizio più o meno Death con una demo datata 1992 e un EP decisamente più lento nel 1994. Essendo questo disco intriso di storia, in quanto ricordato da tutti come una delle colonne portanti del genere, desidero iniziare con una nota storica: in realtà il Funeral Doom prese forma grazie a ben cinque fondamentali band quali Funeral, Esoteric, Unholy, Thergothon e Skepticism, e non dalle sole ultime due come spesso viene erroneamente pensato. E inoltre, se le prime quattro partorirono il loro primo full-length nel 1994, gli Skepticism dovettero aspettare il 1995. Quindi gli Skepticism sono sì storicamente molto importanti, ma non hanno alcuna esclusiva; anzi, semmai sono arrivati leggermente dopo i loro succitati colleghi.

Nondimeno essi apportano notevoli novità: Stormcrowfleet non ha niente a che vedere con la granitica pesantezza di Thergothon e Funeral, non ha nulla da spartire con il rozzo grezzume degli Unholy, né tantomeno con la claustrofobia Made In Esoteric. Esso ci spiazza piuttosto con un Funeral Doom Metal posato e rilassante, a tratti gentile, che per la prima volta nella storia dona al genere un’ariosità fino ad ora impensabile - e che resterà sempre nel tempo il marchio di fabbrica della band. La musica degli Skepticism non ha davvero nulla che possa essere definito pesante, nemmeno dal punto di vista emotivo: essa fluisce con il loro growl distensivo e le loro atmosfere epico-cavalleresche mai drammatiche, una musica conciliante ma intensa la cui collocazione naturale è seduti in contemplazione in riva ad un ruscello in un bosco autunnale, coi raggi di luce che filtrano dalle rosse alte frasche e un manto di foglie dai colori caldi che riveste il suolo. Basta ascoltare Sign Of The Storm e The Galliant Crow per calarsi psicologicamente in una tale situazione di quiete interiore, di armonia con la natura, di contemplazione. Composizioni lunghe dall’incedere lento e solenne, caratterizzate da un sound basso e profondo, in cui la batteria non si limita mai ad accompagnare ma preferisce - saggiamente - arricchire la musica con leggere toccate sui piatti e roboanti tamburi di battaglia. La chitarra è soffusa come la luce in un sottobosco coperto da ampie frasche di alti alberi, e i sintetizzatori paiono il riecheggiare degli epici duelli medievali ivi svoltisi. Perfettamente riuscito è il trittico Pouring/By Silent Wings/The Rising Of The Flames, gonfio di epicità e di intensità crescente di brano in brano. Il growl basso e pacato è perfetto per creare un tutt’uno sonoro dai sapori unici e irripetibili. E nonostante i pesanti passi delle armature; nonostante il sangue versato e le frecce scoccate; nonostante i violenti zoccoli dei cavalli; nonostante tutto ciò il bosco è ancora lì fertile e pullulante di vita animale, gli alti alberi si ergono ancora fieri facendo ombra a chi li rimira alzando il capo stupito, e i ruscelletti continuano a scorrere con la loro tipica calma. Questo recondito legame con la natura che in fondo tutti possediamo si chiude in bellezza con la maestosa The Everdarkgreen, forse il momento migliore dell’intero disco.

Ma al di là di tutte queste parole credo che il modo migliore per descrivere l’immaginifica musica degli Skepticism sia quello di figurarsi il titolo dell’album: Stormcrowfleet, uno stormo, anzi una flotta di neri corvi che all’imbrunire si leva nel cielo, dipingendo morbide pennellate nere su una poetica tela bruno-rossiccia.

Tra le rossastre nubi
Stormi d’uccelli neri
Com’esuli pensieri
Nel vespero migrar.

01 - Sign Of The Storm (10:10)
02 - Pouring (08:45)
03 - By Silent Wings (07:03)
04 - The Rising Of The Flames (11:28)
05 - The Galliant Crow (07:36)
06 - The Everdarkgreen (12:15)