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martedì 30 agosto 2011

Eyeconoclast - "Unassigned Death Chapter"

Stagefright, 2008
Suonano un Melodic Death spinto ed esplosivo alla Man Must Die, tanto per rendere vagamente l’idea; ma non sono i Man Must Die. Nel loro sound e nello stile canoro si distinguono nettamente anche delle venature di Thrash moderno alla Dew-Scented, sempre per lanciarsi in paragoni che lasciano il tempo che trovano; ma non sono i Dew-Scented. Ma allora di chi stiamo parlando? Degli Eyeconoclast, che non provengono dalla Scozia né tantomeno dalla Germania, ma arrivano dritti dritti da Roma presentandosi col loro primo full-length Unassigned Death Chapter.

Una batteria bombardante, un growl alto esplosivo, numerosi cambi di ritmo e un’attitudine marcatamente melodica nel riffing: al di là dei paragoni iniziali sembrano essere questi i principali credo della band, credo che si mettono incessantemente in luce da primo all’ultimo secondo generando un vortice sonoro che risucchia le coclee dell’ascoltatore. Tante sfuriate melodiche rampanti che imbizzarriscono l’ugola del cantante nelle quali nondimeno si sentono i più pacati In Flames, numerose divertenti variazioni di tema nel riffing e nelle ritmiche le quali sanno un po’ di Strapping Young Lad, ma soprattutto tanto tanto entusiasmo: così sembra essere stata modellata la materia prima utilizzata per creare questo disco che, a prescindere dalle svariate influenze che ognuno a seconda della propria esperienza può cogliervi, suona come un sincero atto di passione musicale senza mai scadere in scopiazzate maldestre prive di verbo. Quanto alla resa finale, personalmente la trovo molto positiva sul singolo brano - non c’è una sola canzone che, se estrapolata dal contesto, non faccia un’ottima figura; si potrebbero addirittura utilizzare tutte come singoli per farci un video! - ma non posso dire che il disco mi colpisca particolarmente nella sua totalità. Nessun problema particolare da segnalare: niente difetti vistosi, niente banalità nel songwriting, niente ridicolaggini alla “mid-tempo for life”; semplicemente ci sono davvero poche soluzioni stilistiche, che finiscono inevitabilmente per essere abusate data la numerosità di note e riff che il disco presenta, cosicché ancor prima di giungere a metà ci si è già fatti un’ide precisa di quello che seguirà e che la band ha da offrire. In altre parole: la quantità di carne al fuoco è eccessiva rispetto alla ridotta varietà della stessa - o viceversa, se preferite.

Con questo sia chiaro che non intendo neanche lontanamente etichettare quest’album come inutile, noioso o scadente: si tratta pur sempre di un disco che si lascia ascoltare volentieri, uno dei tanti dischi appartenenti a quella frangia del Metal estremo melodico caratterizzata da uno stile molto tirato che supera abbondantemente gli standard del mieloso Melodeath da quattro soldi, e come molti di tali dischi non porta certo all’orgasmo ma non sfigura nemmeno.

Pagina Facebook della band
Pagina Myspace della band


01 - Clustered Dead Ending Corridors (05:50)
02 - Hexadecimate (04:31)
03 - Overload 95653 (02:58)
04 - Souls Of The Void (Re-coded) (04:44)
05 - Speedlight Trauma For Reconstruction (03:59)
06 - Certain Oblivion Formula (04:07)
07 - Axiom Of The Diode Gods (03:40)
08 - Overture In Red Slaughter (03:21)
09 - Cursors (04:20)
10 - Binary Encoded Sunset (05:31)

giovedì 18 agosto 2011

Esoteric - "Metamorphogenesis"

Eibon, 1999
Metamorphogenesis è il loro salto di qualità compositivo: non ci sono più quegli sporadici momenti morti dei pur ottimi dischi precedenti, l’evolvere dei brani è fluido e spontaneo, più scorrevole che in passato, e lo si afferra con piacevole facilità nonostante l’estrema ricercatezza strumentale e atmosferica. Per chi non l’avesse capito stiamo parlando dei padri del Funeral Doom britannico, gli Esoteric, e più nello specifico del loro terzo-full-length Metamorphogenesis che lungi dall’essere un punto di rottura col passato segna l’inizio di quello che è il loro stile moderno, una tappa che dà continuità alla ricerca musicale della band pur rinnovandola nell’approccio al songwriting. Quasi tutte le caratteristiche musicali del disco precedente sono state portate avanti ed approfondite, come i riff lunghi e complessi, le melodie intricate, i sinistri arpeggi e i noise che sfaccettano la musica in mille modi diversi. E a proposito dei noise non si potrà mai descrivere quanto sono importanti per dare spessore alla musica degli Esoteric - essi la prendono, la plasmano, rendono vividi i suoi chiaroscuri facendone un complesso oggetto tridimensionale. Stavolta ce li ritroviamo anche sottoforma di opportuni stacchi inseriti tra un brano e l’altro, come una sorta di cuscinetti che fanno emergere meglio ogni singolo pezzo e permettono di prendere quella piccola necessaria boccata d’ossigeno che permette di apprezzare con più lucidità quanto seguirà.

A mio avviso merita elogi speciali The Secret Of The Secret, uno dei brani Funeral Doom più incredibili che io abbia mai sentito - per quanto mi riguarda il migliore che gli Esoteric abbiano mai scritto fino a prima di The Maniacal Vale (2008) - con i suoi strati musicali che scorrono l’uno sull’altro e si rimescolano continuamente. La prima metà del brano è un misto melodico variegato, un millefoglie delizioso dai differenti sapori su un tappeto ritmico che dà la continua illusione di esplodere, riuscendoci solo in corrispondenza di quello che con un po’ di fantasia potremmo chiamare “ritornello”. Segue un respiro evocativo ben contestualizzato che scosta il sipario in vista della seconda metà del brano: qui si distende un lungo assolo di chitarra che compenetra in modo inscindibile la musica cantata; o forse più che un assolo di tratta di una chitarra melodica che fluisce pacata ma implacabile, quasi fosse una figurazione dell’etere luminifero che secondo i fisici pre-einsteiniani permeava la materia tutta. E così, scivolando via lentamente insieme alle fantasie che furono, si arriva alla fine con quel tipico appagamento postprandiale che però non impedisce di alzarsi in piedi e chiedere il bis a gran voce. Signore e signori, questi sono gli Esoteric. E il tutto fila via ordinato, composto, scorrevole.

C’è un aspetto che secondo me è particolarmente degno di nota: guardando la discografia degli Esoteric potrebbe a priori sembrare che questo corto dischetto di appena tre brani sia quasi una sorta di EP, che sia solo un dischetto di transizione pubblicato giusto per far numero...la cosa che invece colpisce è che da solo è infinitamente migliore di tutti i - numerosi - lavori Funeral Doom moderni. Io non sono un nostalgico che si aggrappa alla musica datata, ma ascoltate questo Metamorphogenesis...ascoltate con quanta minuzia gli strati sonori si sovrappongono l’un l’altro, con quanta minuzia le singole melodie si scompongono in mille frammenti quasi fossero un quadro prismatico dell’ultimo Cezanne, ascoltate le sapienti striature che gli Esoteric sanno dare alla loro musica quasi fosse un vaso di creta duttile e malleabile in fase di modellazione, e respirate avidamente l’atmosfera che essa crea tutt’intorno a sé rivestendo la sfera emotiva dell’ascoltatore. E’ brutto dirlo, ma dischi di una tale raffinatezza e ricercatezza in ambito Funeral Doom non se ne vedono più.

L’unica cosa che non comprendo è la scelta da parte della band di accorciare così brutalmente la durata dell’album: dall’ora e mezza dell’esordio Epistemological Despondency, e dalle quasi due ore dell’ultimo The Pernicious Enigma, siamo passati a tre quarti d’ora scarsi. Ma in fondo la qualità musicale è alta, e il disco ha un senso compiuto così com’è; ed è questo tutto ciò che conta. Quando l’alta marea degli Esoteric si ritira, quello che ci lascia stavolta sono tre nicchie scavate nel nostro inconscio che avranno arricchito qualitativamente il nostro personale patrimonio musicale.

01 - Dissident (17:17)
02 - The Secret Of The Secret (15:11)
03 - Psychotropic Transgression (11:47)

martedì 16 agosto 2011

Empyrium - "A Wintersunset..."

Prophecy Productions, 1996
Le band si dividono in due grandi categorie: quelle che sono partite da album ottimi e piano piano sono andate sempre declinando, e quelle che sono partite in maniera un po' incerta e hanno poi migliorato progressivamente il loro sound. Posso senza dubbio includere gli Empyrium in quest'ultima categoria: evidente è infatti l'impegno che hanno messo nella creazione di questo dischetto, ma il risultato non è ancora pienamente soddisfacente. Dovremo attendere ancora qualche anno prima che gli Empyrium pubblichino i dischi più riusciti della loro carriera, che però si allontaneranno sempre di più dal metal, diventando praticamente solo acustici.

I tedeschi Empyrium, con questo loro primo lavoro "A Wintersunset...", ci propongono un folk - dark - gothic metal dalle tinte fortemente sinfoniche, estremamente poetico e romantico, carico fino al midollo di melodia, per nulla aggressivo e anzi tendenzialmente rilassante e pacato. I lunghi brani, apparentemente complessi e ricercati ma in realtà piuttosto semplici a livello di soluzioni melodiche, vorrebbero cullarci attraverso atmosfere decadenti e autunnali, riuscendoci però solo in parte. Seppure l'idea sia molto interessante e l'album sia buono nel suo complesso, riuscendo ad essere struggente nella sua costante malinconia, soffre di alcuni difetti che gli impediscono di diventare un classico. Inizialmente, un pezzo come "Under Dreamskies" può risultare davvero emozionante e far gridare al miracolo, ma con il progredire dell'ascolto è impossibile non notare l'eccessiva presenza del tappeto di violini, pressochè costante marchio di fabbrica dei primissimi Empyrium. Tutti questi tastieroni sono certamente suggestivi, ma francamente soffocanti: non si azzittiscono mai, con il risultato che le chitarre quasi non hanno spazio e rimangono inghiottite. Inoltre, spesso le tastiere non hanno un ruolo proprio, ma si limitano a ricalcare la melodia principale suonata dalla chitarra, che così diventa davvero pesante, specie quando tale soluzione si prolunga per minuti e minuti. Ciò toglie respiro alla musica, anche perchè le varie parti dei brani sono attaccate le une alle altre senza mai una pausa, senza un momento riflessivo: è un continuo susseguirsi di roboanti orchestrazioni e melodie in pompa magna. E non è una cosa che troviamo solo nell'opener, bensì in tutti i brani, per cui se si possono reggere due o tre pezzi fatti così, l'album intero risulta un po' un mattone. Altro difetto è l'eccessiva ingenuità delle linee vocali, molto profonde e recitative: vorrebbero essere sentimentali e commoventi, ma risultano spesso un po' forzate (per capire di cosa parlo, ascoltate "Autumn Grey Views). Per non parlare dello screaming, che onestamente sfiora il ridicolo: grugniti senza nerbo come questi non hanno assolutamente ragione di esistere in un platter così spiccatamente sinfonico e straricco di melodie pompose e romantiche. Può essere che gli Empyrium volessero aggiungere una punta di rabbia e disperazione nelle proprie composizioni, ma più che espressivo, questo scream sembra il verso di un gatto a cui hanno pestato la coda. Davvero brutto, mi spiace dirlo, specialmente quando rovina composizioni altrimenti meravigliose come "The Yearning" (poche volte ho sentito una linea melodica così spettacolare come in questo brano!).

A volte, inoltre, si ha l'impressione che i brani non sappiano di preciso dove andare, come se si perdessero nel nulla. Ne è un esempio "The Franconian Woods Inwinter's Silence", bel pezzo, niente da dire, in cui le chitarre distorte appaiono pochissimo se non in un appassionato break centrale: dove ci vuole portare questa gran pomposità musicale, ripetuta per minuti e minuti? Piacevole, senza dubbio, ma nulla più. E dire che alcune melodie e alcune soluzioni sono davvero splendide: è un peccato che il tutto sia amalgamato male, in maniera sbilanciata e, in definitiva, approssimativa. Un po' più di equilibrio e un po' meno voglia di strafare avrebbero sicuramente giovato a questo lavoro, che non è malvagio, ma semplicemente pecca di ingenuità e di probabile mancanza di esperienza.

Tuttavia, dopo aver elencato le numerose piccole pecche di questo disco, trovo doveroso sottolineare i suoi punti di forza. L'emotività, la bellezza delle linee melodiche, la gentilezza dei suoni e delle atmosfere, la delicata poesia che permea la musica. Questi elementi ci sono, anche se non riescono a esprimersi nella maniera migliore. Il margine di miglioramento è quindi enorme, e infatti gli Empyrium hanno dimostrato di sapersi evolvere e di saper creare dischi notevolissimi, a cominciare dal successivo e acclamato album "Songs Of Moors And Misty Fields". Esattamente il contrario di come fanno molte band, che dopo uno o due album ispiratissimi perdono la vena compositiva e si mettono a partorire banalità immani, forse per vendere più dischi. Facendo un bilancio generale, voglio quindi promuovere questo album, che seppur pieno di difetti è tuttavia un disco godibile, che sa regalare delle emozioni, anche se bisogna prenderlo per quello che è e non aspettarsi un capolavoro. Per chi volesse conoscere gli Empyrium consiglio vivamente di partire dal secondo album e andare avanti, si troveranno sicuramente delle belle sorprese: ma quando avrete conosciuto il lato più maturo del gruppo, il tuffo nelle avvolgenti sonorità di "A Wintersunset..." sarà un viaggio molto interessante.

01 - Moonromanticism (2:00)
02 - Under Dreamskies (10:09)
03 - The Franconian Woods Inwinter's Silence (10:55)
04 - The Yearning (8:41)
05 - Autumn Grey Views (3:54)
06 - Ordain'd To Thee (11:14)
07 - A Gentle Grieving Farewell Kiss (2:00)

lunedì 15 agosto 2011

Skepticism - "Towards My End"

Autoprodotto, 1992
Retrospettivamente è quello che non ti aspetti, ma contestualizzato dal punto di vista storico rappresenta le radici di una grande quercia secolare. Stiamo parlando di Towards My End, la demo di poco più di nove minuti che con due brevi brani ha dato origine alla lunga e gloriosa storia degli Skepticism e quindi, di riflesso, ha contribuito allo sviluppo di un intero genere: il Funeral Doom Metal.

Retrospettivamente è quello che non ti aspetti, perché questa coppia di sbiadite effigi ha ben poco a che vedere col Funeral Doom, e ha pochi punti in comune con la moderna incarnazione degli Skepticism. Del resto è anche distante dai canoni del Metal estremo di quei tempi: sicuramente non è Black, e solo con una buona dose di fantasia si può farlo rientrare in ambito Death. E sebbene le sonorità rimandino inevitabilmente a quell’antica frangia del Death sporco tipico dell’underground più profondo, ascoltando i riff trasudava già la futura attitudine funerea della band: plumbei, decadenti, un po’ molli e molto Doom-oriented - quel Doom alla Black Sabbath - privi di quella cattiveria tipica del Death e in compenso carichi di malinconia e rassegnazione. E’ inutile dire che questo paio di canzoni non sono nemmeno lontanamente paragonabili agli Skepticism che ne seguirono, ma forse è utile rimarcare che questo tipo di paragoni non ha senso: prendete questa demo per quello che è, ovvero un paio di brani cult che in ogni caso piaceranno a tutti i fan del Metal estremo Old School (e piacciono pure a me).

Contestualizzato dal punto di vista storico rappresenta le radici di una grande quercia secolare, perché questo è ciò che sono oggi gli Skepticism: una grande quercia secolare l’ombra delle cui ampie frasche è in grado di regalare mille sensazioni e non teme il confronto con nessun altro piccolo arbusto nelle sue vicinanze - in sostanza: gli Skepticism oggi, dall’alto della loro veneranda età e lunga esperienza, non temono alcun confronto in ambito Funeral Doom. Quindi, ancora una volta, prendete questa demo per quello che è: un cimelio di inestimabile valore che molto probabilmente ha ispirato tante altre band al di fuori degli Skepticism stessi - per esempio, tanto per citare un nome eccellente, lo stile musicale del capolavoro From The Shadows degli Unholy (1993) è tutt’altro che privo di connessioni con questo Towards My End.

01 - Towards My End (04:28)
02 - The Castles Far Away (04:42)

Porky Vagina - "Bukkageddon"

Autoprodotto, 2011
Generalmente sono molto attratto dalla musica ricercata e difficile da assimilare, dalle melodie infinitamente sfaccettate e dalle partiture tortuose. Ma ciò non significa che il resto non mi piaccia, e anzi ogni tanto un po’ di “svago” fa bene: è per questo che ho deciso di provare ad ascoltare questo Bukkageddon dei polacchi Porky Vagina, band che non avevo mai nemmeno sentito nominare e che arriva or ora all’esordio su full-length dopo ben quattro EP.

Sono tutt’altro che un esperto del Gore, ma posso dire che questo disco mi ha piacevolmente stupito: forse perché l’ho sottovalutato inizialmente, forse perché l’ho preso solo come qualcosa da ascoltare “per sbaglio”, forse per la copertina che lasciava intendere qualcosa di poco serio. E invece si scopre che oltre che essere effettivamente divertente è pure ben congeniato: non si tratta di quattro cazzoni che suonano tanto per sfogarsi o per mancanza di alternative, dato che sorprendentemente l’album presenta una buona variabilità. Il ritmo non è mai ripetitivo ed è molto più vario di quello di parecchi album Brutal, e i riff sono tutti molto belli e riconoscibili, pur non essendo questo album pensato per colpire grazie ad essi. Persino la voce è tutt’altro che monotona: il growl è vario fino ad arrivare a grugniti che rendono ragione al nome della band, e gli inserti in clean o gridati non mancano. A tutto ciò si aggiunge l’inserzione di episodi simpatici come Cock’n’Roll, un divertente remake del rock’n’roll sessantiano con un sound pesantissimo e un cantato grugnito, oppure come Świniogwałt, canzone dal ritornello che sa tanto di presa in giro alla “musica” in stile pop da MTV. Notevole anche lo stacco che dà l’arpeggio di Heavy Metal Farmer, cover di tali Daveyboyz - vi prego, cercate il video dell’originale su Youtube, ne vale la pena! E al di là del divertimento non mancano i pezzi di bravura: a parte i riff e il ritmo, che come già detto sono ben curati, si può citare l’assolo di chitarra della titletrack che chiude l’album nel migliore dei modi. Anzi no, per la verità il “gran finale” è una hidden track inclusa nei sei minuti della titletrack, nella quale...non ve lo dico, vi lascio la sorpresa.
Ma la cosa che personalmente mi colpisce di più è il divertimento che i componenti della band avranno provato nell’ideare registrare questo disco, divertimento che si intuisce senza grossa difficoltà. Insomma, immaginateveli: quattro ragazzi che si ritagliano una nicchia dalle responsabilità e dagli impegni quotidiani e si trovano tutti insieme per sballarsi in modo sano e genuino scrivendo brani con ironia, dicendosi: “Dai, questo spacca troppo, lo scriviamo davvero?!?” e suonando con spensieratezza. I ventitre minuti di questo disco e la copertina sembrano essere la più valida testimonianza di tutto ciò: niente serie ambizioni e niente cura maniacale, soltanto puro divertimento di facile portata.

E’ iniziato tutto con un album ascoltato per caso, un’esigua fatica di appena ventitre minuti che si è poi rivelata essere un piacevole esperimento. Sono felice di averlo scoperto e, se siete avvezzi alle sonorità Death, vi consiglio spassionatamente di fare lo stesso.

01 - Analne Torsje (02:09)
02 - Kupiłem Psa W Dywanie (01:40)
03 - Międzygalaktyczne Biszkopciki (02:13)
04 - Cock'n'Roll (01:27)
05 - Jagodowy Żwirek (01:51)
06 - Świńska Grypa (01:40)
07 - Zaropiałe Zające (01:57)
08 - Świniogwałt (02:11)
09 - Heavy Metal Farmer (Daveyboyz cover) (01:37)
10 - Bukkageddon (06:00)

giovedì 11 agosto 2011

Ablaze In Hatred - "The Quietude Plains"

Firedoom Music, 2009
Il genere di Metal che ha avuto la maggior diffusione negli ultimi anni è sicuramente il Doom, che grazie alle sue varianti Funeral Doom, Doom/Death e Black/Doom ha visto nascere numerose band una dopo l’altra. Non ultimi tra i prodotti di questa escalation ci sono i finlandesi Ablaze In Hatred, band non nuova che aveva esordito tre anni prima, nel 2006.

Lo stile di questa band mi ricorda tanto una fusione tra Shape Of Despair e Swallow The Sun: le melodie e il sound assomigliano maledettamente a quelli dei primi, l’attitudine compositiva vagamente ai secondi. Nonostante tra le influenze compaiano siffatti nomi altisonanti, non mi sembra che si tratti di un lavoro granché ispirato: i riff sono piuttosto monotoni, le melodie abbastanza scontate, e sussiste costantemente l’impressione che i brani siano allungati a dismisura quasi come se la band volesse temporeggiare perché non sa con esattezza quale direzione far prendere alla musica. Gli esempi lampanti di questa mancanza di idee sono gli episodi conclusivi dell’album, cioè My Dearest End e Therefore I Suffer - cosa questa che sicuramente non giova, dato che dopo svariati minuti di musica non particolarmente esaltante non è bello ritrovarsi due polpettoni che si trascinano stancamente verso la fine. Ma forse ciò è solo dovuto al fatto che, bene o male, i brani si equivalgono tutti, e quindi a risentirne maggiormente sono gli ultimi in quanto iniziano un po’ a stancare. D’altro canto non si può certo negare che vi siano alcune melodie davvero belle che coinvolgono emotivamente, prime su tutte quelle della opener A Walk Through The Silence e di The Wandering Path; ma anche in questi episodi non c’è nulla di granché interessante da segnalare: il primo, ad esempio, non cambia mai dal primo all’ultimo secondo: dieci minuti incentrati sulla stessa monotona cadenza ripetuta ad aeternum, conditi dallo stesso unico arpeggio inserito ogni tanto qua e là. Persino l’inserto atmosferico nella seconda metà è illusorio: non appena ha termine il brano riprende tale e quale a come era prima. Dieci minuti costruiti su due soli accorgimenti stilistici sono indubbiamente un po’ pochino. Considerando che A Walk Through The Silence permette di farsi un’idea esauriente di tutto ciò che verrà dopo, il punto è proprio che al di là del coinvolgimento emotivo del momento non c’è molto altro: queste melodie sono fin troppo ripetitive e alla lunga questo loro difetto emerge inevitabilmente. Di conseguenza, quello che alla lunga questo disco ti lascia dentro non è molto.

Tirando le somme, quello che si può dire di questo The Quietude Plains è che sicuramente non è un album da buttare, si lascia ascoltare con facilità e senza particolare infamia. Al tempo stesso però non si può dire che sia un gran disco: propone melodie trite e ritrite, e lo fa con un songwriting mediocre sotto ogni possibile punto di vista. Riservato a chi fa del Doom/Death melodico una ragione di vita e si accontenta di qualsiasi nuovo gruppo che costruisce interamente la propria musica su melodie easy-listening, senza concentrarsi sugli altri aspetti; per tutti gli altri, carino e niente più.

01 - A Walk Through The Silence (10:22)
02 - Perfection Of Waves (07:28)
03 - The Wandering Path (08:13)
04 - Beyond The Trails Of Torment (07:13)
05 - The Quietude Plains (08:52)
06 - My Dearest End (09:36)
07 - Therefore I Suffer (11:18)

martedì 9 agosto 2011

In The Woods... - "A Return To The Isle Of Men"

Hammerheart, 1996
Gli In The Woods..., ormai sciolti da quasi un decennio ma riformati ufficiosamente sotto il nome di Green Carnation, sono stati dei musicisti piuttosto sfortunati, ignorati dalla critica e dal pubblico, rimasti sempre nell'ombra anche a causa di una distribuzione poco capillare da parte della piccola etichetta discografica che li aveva scritturati. Se già è piuttosto arduo trovare i loro album ufficiali, con i demo la cosa diventa ancora più problematica: eppure, grazie ad un colpo di fortuna, ecco che mi vedo recapitare a casa questo loro demo, pubblicato poco dopo l'uscita del primo album ufficiale "Heart Of The Ages". Un piccolo pezzo di storia e di collezionismo che raccoglie le prime versioni dei brani che troviamo sul loro debutto, più alcuni inediti che non erano mai stati pubblicati. Non si tratta affatto di una release inutile: "A Return To The Isle Of Men" (che è stato rilasciato a grande richiesta dopo che il precedente demo "Isle Of Men" era andato presto esaurito) dura ben cinquanta minuti ed è un manifesto di un certo tipo di sound, che fonde il grezzume del black metal norvegese con un'attitudine avantgarde e progressive, che poi acquisterà sempre più le caratteristiche della psichedelia e della sperimentazione. Ma prima di arrivare ai raffinati lidi di "Omnio" e "Strange In Stereo", la band mostrava una cattiveria notevole e una grande capacità di evocare atmosfere raggelanti e severe, come si richiede ad un qualsiasi album black metal che si rispetti. 

Dei sette brani presenti, solo quattro sono degli inediti che non troviamo da nessun'altra parte. Tuttavia, è oltremodo affascinante ascoltare le versioni primordiali di "Heart Of The Ages", "In The Woods" e "Wotan's Return", brani carichi di furore nordico e toccati da un pizzico di latente malinconia, e che in questa demo sono mostrati nella loro versione più cruda e priva di compromessi. Le versioni che si trovano sul debutto ufficiale sono indubbiamente migliori, a livello qualitativo, e sono anche più lunghe e arricchite da molti elementi (qui per esempio manca tutta la parte ambient di "Wotan's Return", con quel distante scacciapensieri che faceva sognare, mentre le parti di tastiera sono molto meno raffinate e curate). Un ottimo esempio per mostrare l'evoluzione di una band dal livello embrionale alle vette qualitative più alte, ed un ottimo motivo per possedere questo demo, così da non farsi scappare nemmeno una parte dell'evoluzione della band.

Veniamo ora a parlare di ciò che ancora non conosciamo. Il brano introduttivo "The Wings Of My Dreamland", quasi impercettibile, fa da ponte a "Tell De Dode", caratterizzata da un riff nauseabondo, dissonante e marcio, sviluppato in mille modi diversi tra accelerazioni e cambi di tempo e di atmosfera, mentre si alternano una teatrale voce pulita e uno screaming lancinante come l'urlo di un Nazgul. Una marzialità imponente e l'uso delle tastiere rendono questo lungo brano un vero highlight, che purtroppo non è stato incluso in alcun album ufficiale, ma che indubbiamente è uno dei pezzi più intensi mai scritti dagli In The Woods. Difficile da ascoltare e da digerire, ovviamente: non a tutti può piacere una tale scarica di violenza, espressa senza bisogno di pestare come dei matti sulle pelli e sulle corde delle chitarre. Ancora più pesante e funerea è "Creations Of An Ancient Shape", che nella sua oscura solennità riesce perfino a toccare lidi grindcore, tanto distorte e granitiche sono le chitarre, per non parlare del rabbioso e animalesco grido che sembra uscire direttamente dalle fauci di qualche demone nordico. Diversa è invece "...And All This From Which Was And Will Never Come Again... (Child Of Universal Tongue)", che mostra un uso maggiore della vibrante voce pulita, di alcune parti addirittura orecchiabili, nonché di riff meno cavernosi, anche se ugualmente ossessivi e taglienti. Interessante notare come, nella raccolta postuma uscita nel 2000, questo brano sia stato riproposto in una nuova versione, totalmente priva di screaming.

Per chi conosce già gli In The Woods..., questo disco è un'interessante curiosità da aggiungere alla propria collezione. Per chi ancora non li conosce, non è tuttavia un inizio consigliabile: qui giace l'anima più selvaggia e nascosta di questi norvegesi, ancora barbara e incolta, che risulta affascinante solo nel momento in cui si sia interiorizzato appieno il carattere musicale della band. Cosa che non si può fare se non dopo aver ascoltato tutti i loro album, più e più volte.

01 - The Wings Of My Dreamland (4:16)
02 - Tell De Dode (10:49)
03 - In The Woods... (3:23)
04 - Creations Of An Ancient Shape (7:49)
05 - Wotan's Return (11:18)
06 - Heart Of The Ages (6:40)
07 - ...And All This From Which Was And Will Never Come Again... (Child Of Universal Tongue) (10:17)

venerdì 5 agosto 2011

Vomitory - "Opus Mortis VIII"

Metal Blade Records, 2011
Tra i palati più raffinati appassionati di Metal è talvolta manifesta l’opinione secondo la quale le band davvero grandi cambiano stile di album in album, compiendo sempre un nuovo passo avanti e aggiungendo qualcosa di nuovo al proprio stile, cercando di non ripetersi mai. Per certi versi mi trovo d’accordo con questa idea, ma nondimeno riconosco che esistono band fenomenali che sono riuscite a costruire la propria grandezza senza mai modificare nemmeno le virgole del loro approccio musicale. Tra queste band, una delle migliori in assoluto sono i Vomitory.

I Vomitory sono una di quelle band che, pur suonando la stessa roba da più di quindici anni, riescono ogni volta a trovare nuovi riff interessanti che vanno a comporre brani ispirati e trasportanti. “I Vomitory cambiano giusto nome alle canzoni da album ad album, son sempre le stesse”, dice saggiamente un mio amico, “però so fighi oh, che ci vuoi fare?”. Tutto ciò è ben udibile nelle maciullanti staffilate di turno quali le iniziali Regorge In The Morgue e Bloodstained, un grandioso biglietto da visita, o ancora Torturous Ingenious e Forever Damned, forse due dei brani migliori del platter. Pezzi che tolgono il fiato, motoseghe perpetue che non si danno mai pace. Ma in mezzo a tutte queste mazzate sonore, queste subitanee rasoiate senza schiuma da barba, fanno la loro comparsa anche episodi più lenti ricchi di riff schiaccianti come ad esempio la spettacolare Shrouded In Darkness e The Dead Awaken, pesanti come macigni, fino ad arrivare a Hate In A Time Of War, brano dal titolo suggestivamente agghiacciante che si apre e si chiude addirittura con un arpeggio. Già nelle ultime uscite i Vomitory avevano lasciato spazio a momenti di maggior lentezza, così che ora forse qualcuno si chiederà: meglio i Vomitory alla velocità della luce, oppure meglio i Vomitory più lenti e macchinosi? Ma, dico io, visto che le due parti si integrano bene esaltandosi a vicenda, è davvero necessario scegliere? Forse sul singolo episodio preferisco i brani più veloci, ma un album non è semplicemente una successione di singoli episodi, giacché conta anche l’ordine in cui sono messi e l’interazione reciproca - e in questo l’alternanza veloce-lento di Opus Mortis VIII è vincitrice assoluta. Se poi si aggiunge che col passare del tempo la tecnica strumentale dei quattro è inevitabilmente migliorata si colgono anche quei dettagli minimi che arricchiscono la loro proposta, come i precisi passaggi di batteria su piatti e piattini, oppure riff alla massima velocità suonati con estrema precisione, o ancora assoli di chitarra più strutturati rispetto ad un tempo, come già si era potuto ammirare nel precedente Carnage Euphoria - ciò che è tutto figlio di un’aumentata padronanza dei propri mezzi.

I Vomitory perseverano a ripercorrere le loro stesse pesanti orme che li hanno da tempo consacrati come una delle maggiori e più personali realtà in ambito Death, e - cosa incredibile - continuano a viaggiare a livelli stratosferici. Opus Mortis VIII è l’ultima avventura narrata da questa leggenda vivente che sembra davvero non volersi fermare più.

01 - Regorge In The Morgue (02:32)
02 - Bloodstained (03:03)
03 - They Will Burn (04:03)
04 - The Dead Awaken (05:03)
05 - Hate In A Time Of War (04:06)
06 - Torturous Ingenious (03:31)
07 - Forever Damned (03:32)
08 - Shrouded In Darkness (03:36)
09 - Combat Psychosis (03:41)
10 - Requiem For The Fallen (03:17)

martedì 2 agosto 2011

Lacrimas Profundere - "Memorandum"

Napalm Records, 1999
I tedeschi Lacrimas Profundere sono uno dei tanti gruppi che ha iniziato la propria carriera pubblicando album meravigliosi, e successivamente, stanchi di non ricevere il meritato successo discografico, hanno scelto di approdare a sonorità più easy - listening, che sono via via diventate sempre più stucchevoli, fino ai tristi lidi gothic rock ai quali sono approdati oggi. Ascoltare le loro prime produzioni è fuorviante per chi li ha conosciuti con dischi come "Fall, I Will Follow" oppure "Filthy Notes For Frozen Hearts": non sembra assolutamente che sia la stessa band a suonare in due modi così differenti, anche se c'è da dire che il gruppo ha cambiato line - up molto spesso nel corso della sua carriera.

Questo "Memorandum" è l'ultimo baluardo dei Lacrimas Profundere che furono, quando ancora suonavano musica genuina e ispirata, nello specifico un interessante mistura di gothic e doom metal sulla scia di grandi gruppi come gli Anathema che furono e i My Dying Bride. Sono evidenti anche le similitudini con i Theatre Of Tragedy e i Tristania, tanto per citare due grandi nomi del genere: ciononostante, le prime produzioni della band teutonica si distinguevano dalla massa di gruppi gothic - doom che hanno provato a fare fortuna sulle orme dei grandi. In che modo questa band riesce ad essere diversa, pur ispirandosi palesemente a chi è venuto prima di essa? Ci sarebbero tante risposte possibili, ma la prima che mi viene in mente è l'assenza di quell'eccessiva mielosità che affligge la maggior parte dei gruppi gothic, così come l'assenza di quella trascinata e stanca pesantezza della maggior parte dei gruppi doom odierni. I Lacrimas Profundere brillano, o meglio brillavano, per la loro capacità di accostare melodie stupefacenti e rabbia contorta, espressa con un growling animalesco e che spesso e volentieri tocca anche lo screaming (come nella grandissima "The Crown Of Leaving"). Ma non è un accostamento stonato: la bravura del gruppo è proprio quella di far coesistere questi due elementi, dolcezza e ruvidezza, in maniera magistrale. Linee melodiche sempre facili da seguire, eppure non banali, unite ad un uso interessante di strumenti classici quali il pianoforte e soprattutto l'arpa, si sposano alla perfezione con accelerazioni furibonde e chitarre distorte, mitigate dalla massiccia presenza della voce di un mezzosoprano che si affianca di continuo alla voce maschile, senza cadere in eccessi di forzata banalità (come accade per esempio nelle ultime produzioni dei Draconian, nelle quali sembra che i due cantanti si spartiscano le parti vocali secondo regole costruite a tavolino). Non è questo il caso dei Lacrimas Profundere, per fortuna: ogni parte vocale e strumentale è ben dosata, il disco stesso trasuda una grande raffinatezza, nonostante la produzione ancora non perfetta e l'indubbio grezzume delle chitarre e della voce in screaming.

Episodi che si fanno ricordare, nel corso di questo breve ma intenso album, sono la già citata "The Crown Of Leaving", teatro di melodie decadenti e intrise di profonda tristezza, equamente rappresentate dai violini e dall'arpa, che qui compie un lavoro davvero magistrale, specialmente nel dolce finale. "Black Swans" brilla per l'assenza di parti di chitarra, in quanto è affidata solo ad un malinconico e irrequieto pianoforte sotteso dalle due voci, in particolare dal growl maschile che calza a pennello con l'atmosfera sconsolata e depressa qui evocata. "...And How To Drown In Your Arms" spicca per la sua innata aggressività, ma un'aggressività che non diventa mai furia cieca: rimane piuttosto una rabbia trattenuta, che vorrebbe esplodere ma per qualche ragione non può. I Lacrimas Profundere sono maestri nell'esprimere questi sentimenti contrastanti, e lo fanno durante tutto l'album, con equilibrio e grande classe. Ogni brano ha qualcosa da esprimere, e non starò qui ora a descriverli tutti: tuttavia posso chiudere la recensione citando la breve outro "The Fate Of Equilibrium", che riprende il tema finale di "The Crown Of Leaving", riassumendo in due minuti tutto ciò che questo album può offrire: sofferta malinconia, rabbia triste, romanticismo "antico", eleganza e armonia fuse assieme ai sentimenti più estremi, in un disco che rimarrà negli annali del gothic - doom e che, purtroppo, segna la fine dei Lacrimas Profundere per quello che li conoscevamo.

01 - Infinity (3:45)
02 - Helplessness (6:24)
03 - ...And How To Drown In Your Arms (3:19)
04 - Black Swans (4:24)
05 - Reminescence (5:51)
06 - The Crown Of Leaving (6:39)
07 - All Your Radiance... (5:21)
08 - The Embrace And The Eclipse (5:55)
09 - The Fate Of Equilibrium (1:57)