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lunedì 25 luglio 2011

The Howling Void - "Shadows Over The Cosmos"

Solitude Productions, 2010
Per l'immensa gioia di ogni appassionato di funeral doom metal, il polistrumentista statunitense Ryan giunge a pubblicare il suo secondo lavoro, con un'importante novità rispetto al passato: ora è l'importante etichetta russa Solitude Productions a dare voce alla sua musica, e non più la misconosciuta Black Plague, che aveva pubblicato il precedente album con successivi grossi problemi di distribuzione, considerando appunto la scarsa copertura che essa può offrire. Il passaggio all'etichetta più rinomata e conosciuta di doom metal russo è un punto importante nella storia di questa giovane one man band, poichè la Solitude generalmente non sbaglia mai un colpo, e si è accaparrata questa band sapendo di andare a colpire nuovamente nel segno. Chi già conosceva il precedente "Megaliths Of The Abyss" l'avrà apprezzato per le atmosfere plumbee e dilatate, per l'eccezionale capacità di evocare immagini oscure e mortifere e per la produzione curata; "Shadows Over The Cosmos" porta tutte queste qualità ad un livello ancora superiore, rivelandosi un lavoro pregno di ispirazione e di significati, dalla capacità evocativa notevole e curato nei dettagli oltre ogni aspettativa.
"Shadows Over The Cosmos" prosegue il discorso musicale della band, dimostrando di aver ormai assimilato i più classici canoni del funeral doom (in particolare pescando da gruppi colossali come Ea e Shape Of Despair), ma al contempo esibendosi in una maturità stilistica che gli permette di risultare interessante e non un semplice complemento a quello che i maestri hanno già scritto precedentemente. L'album ha una personalità propria, che si evince nella scelta esasperata di risultare soffocante, plumbeo, roboante, poderoso e melodico allo stesso tempo. Rispetto al debutto non sono stati fatti dei passi avanti significativi in fatto di songwriting, nè è stata limata la ridondanza dei passaggi: ogni brano è sempre chilometrico, ripetitivo e asfissiante, tanto che bisogna fin dall'inizio mettersi l'animo in pace e scegliere di ascoltare la musica "sognandola", più che razionalizzandola. Guai a cercare un ascolto attento e critico, si traviserebbe completamente il senso della musica. Bisogna semplicemente lasciarsi trasportare dai maestosi tappeti di tastiere che riempiono ogni singolo istante, lasciarsi ammaliare da melodie elementari ma struggenti, da una voce growl che pare un lamento rassegnato più che un infernale ruggito, dalla possente forza delle chitarre, dalle ritmiche pachidermiche ma capaci di variare anche in maniera piuttosto fantasiosa con piccoli tocchi di buon gusto che richiedono però diversi ascolti per essere notati.

Le danze sono aperte dall'intenso e drammatico sentiero di "The Primordial Gloom", nella quale notiamo subito l'importanza della sezione sinfonica, notevolmente accentuata rispetto al debut album. La melodia portante, suonata da una chitarra che non va mai oltre le note singole, è un semplice accompagnamento al maestoso sottofondo tastieristico, dal suono eccezionale e travolgente, nonostante la sua programmatica lentezza. Piano piano si aggiungono nuovi elementi, come alcune liquide note di pianoforte, suoni di pioggia che si infrange al suolo, voci corali e interessanti variazioni timbriche delle chitarre (tremolo picking), che impreziosiscono il brano e rendono il suo incedere meno pesante di quanto potrebbe apparire al primo ascolto. I break atmosferici ci portano in un'altra dimensione, mentre i rintocchi di batteria diventano in alcuni casi i veri protagonisti della scena: tutto ciò rende il brano, strutturalmente molto semplice e ripetitivo, una vera esperienza mistica e trascendentale, per chi riesca a penetrare nella sua essenza. Arriva quindi il turno della lunghissima "Shadows Over The Cosmos", dalle melodie talvolta opprimenti e talvolta ariose, che si ripetono all'infinito risultando in un brano pesante e monolitico, che ci porta quasi in uno stato di alienazione. Solo il break centrale riesce a far riposare un po' le orecchie e la mente, per il resto la musica non ci lascia scampo e ci trascina in un vortice di lugubre disperazione. Con la meravigliosa "Wanderer Of The Wastes" la musica cambia e si fa stavolta serena, celestiale e splendidamente melodica, con variazioni di armonie azzeccatissime e melodie giocate tra pianoforte e chitarre, entrambi impegnati in una gara a chi risulta più emozionante. Dopo un pezzo così maestoso troviamo un lungo interludio strumentale dal suggestivo titolo "The Hidden Sun": cinque minuti abbondanti che si reggono su una visionaria melodia di pianoforte che non cambia mai, ripetendosi instancabilmente e intersecandosi con un soffice tappeto di sintetizzatori e il suono di un temporale che si scatena tra tuoni e scrosci. Dopo essere scivolati in questo trasognato mondo dominato da un sole nascosto, arriviamo alla conclusiva "Lord Of The Black Gulf": campane mortifere e muri di chitarre invalicabili si uniscono a brevi ma intensi inserti di lead guitar che rendono il brano contemporaneamente lugubre e malinconico, per poi sfumare ancora una volta con un temporale morente e un distante coro che ci saluta a testa bassa.

"Shadows Over The Cosmos" è un disco che non ammette compromessi: o lo si ama o lo si odia. Difficile però non rimanere ammaliati da sonorità tanto piene e corpose, partorite sicuramente da un tormento interiore del nostro Ryan, che ha trovato perfetto sfogo in una musica così crepuscolare e nera, che in alcuni momenti lascia intravedere qualche lume di speranza e serenità. Chi ha apprezzato "Megaliths Of The Abyss" troverà in questo album un successore formidabile; i doomster accaniti che ancora non conoscono i The Howling Void potrebbero rimanere fulminati dalla bellezza della loro musica; chi invece non ha dimestichezza con il doom, rimarrà indifferente. Non rimane che dire: a ciascuno il suo.

01 - The Primordial Gloom (12:20)
02 - Shadows Over The Cosmos (14:57)
03 - Wanderer Of The Wastes (12:01)
04 - The Hidden Sun (5:14)
05 - Lord Of The Black Gulf (13:04)

domenica 24 luglio 2011

Sadist - "Sadist"

Beyond Productions, 2007

I Sadist sono un raro esempio di band che non copia mai sé stessa, che ad ogni nuova pubblicazione propone qualcosa di nuovo. La loro discografia lo testimonia meglio di mille parole: hanno iniziato nel 1993 come pionieri underground del Melodic Death ispirati da melodie neoclassiche, hanno mutato questo neoclassicismo in un particolare mix di mistero e orientalità con Tribe, ma solo un anno più tardi hanno sfoderato Crust che col suo genere chiuso e indefinibile abbandonava tutto quello che la band aveva creato fino ad allora, per poi finire col toccare addirittura i lidi del Nu Metal con Lego, album accolto molto male al quale seguì l’inevitabile scioglimento.

Ma il Metal ha bisogno di menti geniali, e del resto le menti geniali non possono fare a meno di mettersi all’opera: così ecco che i Sadist, troppo vulcanici per permettersi il lusso dell’inattività musicale e troppo bravi per poter fare a meno del richiamo della musica, hanno deciso di riprovarci: ecco il loro quinto album, che guarda a caso coincide col loro quinto approccio musicale diverso. C’è una tacita promessa che i Sadist fecero e che i loro fan udirono bene, e questa promessa si chiama Tribe: il pur ottimo Crust non la mantenne, e Lego sembrò tradirla irrimediabilmente. Ma una promessa è pur sempre una promessa, e se non la si mantiene prima o poi si finisce per sbatterci di nuovo la testa contro. E poco importa se da allora sono passati undici anni, la promessa era ancora lì, desiderosa di essere mantenuta: il 2007 è l’anno in cui i Sadist sono stati di parola e hanno intrapreso quel sentiero iniziato undici anni fa, quel sentiero che all’epoca sembrò spalancargli le porte verso il successo ma che invece fu abbandonato appena un anno più tardi. Il nuovo album omonimo, che è per l’appunto uno sviluppo nella direzione di Tribe, riposa però su uno stile musicale simile che abbraccia sonorità del tutto nuove e moderne, un Melodeath intelligente dai sapori jazzati e dagli umori Prog che invece che banalizzare tutto con i soliti prevedibili riff melodici di chitarra concede il giusto spazio a ciascuno strumento: il drumming è favoloso, attento ai dettagli e molto variegato, e da ogni battito sembra sprigionarsi tutto il divertimento di Alessio Spallarossa; il basso è ben udibile ed esce parecchie volte allo scoperto, deliziando l’ascoltatore; le tastiere costituiscono una squisita parte integrante a tutti gli effetti, in piena tradizione Sadist, senza essere relegate a piccola superflua aggiunta ma senza nemmeno prendere il sopravvento inondando ogni istante di musica. Così ogni strumento si ritaglia il proprio spazio, e ciò che più conta è che se lo ritaglia lavorando al servizio degli altri: niente dittature da parte della chitarra, niente sottomissioni nei confronti di basso e batteria - la musica dei Sadist è come un organismo che si serve al meglio di ciascuna delle parti di cui è composto, un organismo che sa bene che nessuna di esse durerebbe un minuto se dovesse lavorare sola ma che la loro unione è in grado di fare grandi cose, una cellula che lavora precisa con minuzia e dovizia. Il risultato non può che essere eccellente: nonostante non vi siano brani indimenticabili e neppure grandi highlights individuali da segnalare, la sinergia strumentale fa di questo disco una piccola perla da custodire gelosamente. Se posso permettermi un’unica critica alla band direi che, rispetto a Tribe, stavolta è mancato un po’ di coraggio a livello compositivo: ciascun brano si mantiene abbastanza sulle proprie rotaie, senza cercare di strafare con emozionanti voli pindarici o di stupire con strutture non convenzionali. Ma a conti fatti poco male, ciò non fa che rendere un po’ meno lucente la piccola perla, che pur sempre perla resta.

Nonostante le sue sonorità più Prog che Death, Sadist è la dimostrazione che il Melodic Death Metal esiste ancora, e che non è sempre un genere per femminucce o bimbiminkia: se suonato come si deve può ancora emozionare e dire molto. Per riuscirci può essere utile evitare di scrivere canzoni basate su un paio di riff vagamente melodici e riciclati che entrano subito in testa simulando un headbanging scadente, e magari usare un po’ della propria creatività: i Sadist l’hanno fatto, e il risultato è di tutto rispetto.

01 - Jagriti (02:30)
02 - One Thousand Memories (04:55)
03 - I Feel You Climb (03:59)
04 - Embracing The Form Of Life (04:59)
05 - Tearing Away (03:47)
06 - Kopto (03:33)
07 - Excited And Desirous (04:41)
08 - Different Melodies (05:10)
09 - Invisible (03:29)
10 - Hope To Be Deaf (05:19)
11 - Sadist (02:33)

giovedì 21 luglio 2011

Void Of Silence - "The Grave Of Civilization"

Code666/Audioglobe, 2010
Dovremmo sentirci più orgogliosi di essere italiani. Tralasciando le implicazioni politiche, sulle quali ognuno può avere l'opinione che preferisce, dovremmo pensare a questo concetto anche dal punto di vista artistico, e specialmente musicale. L'Italia possiede gran parte del patrimonio artistico mondiale, è stata patria di illustrissimi poeti, pittori, musicisti e chi più ne ha più ne metta: solo che gli italiani si dimenticano spesso di questo loro passato, forse perchè non si rendono conto che esso vive anche nel presente, e non solo nei secoli passati. I Void Of Silence, formazione romana, sono un ottimo esempio del perché bisogna essere orgogliosi di essere italiani. Sono moltissimi i nomi illustri del Metal che dall'Italia hanno saputo guadagnarsi spazio a livello mondiale: i Necrodeath per il black - thrash, i Novembre per il gothic - doom melodico, e ultimamente anche i Void Of Silence stanno raggiungendo una notorietà invidiabile, essendosi ormai affermati come capostipiti del doom - industrial più freddo e cerebrale, un vero e proprio inno nichilista incentrato sulla sfiducia nell'umanità e sull'apocalisse del mondo moderno, condannato a distruggere sé stesso in una folle corsa verso la rovina. Una corsa che nè l'umanità nè la musica dei Void Of Silence sembrano interessati a fermare.

Forti di un disco eccellente (per non dire strepitoso) come "Human Antithesis", datato 2004, era difficile per i nostri uomini bissare un successo così completo. L'aspettativa era alta, e pareva impossibile che sarebbe nato un altro album in grado perlomeno di eguagliare quel maestoso capolavoro, tetro e nero come la pece, che vedeva la straordinaria partecipazione di Alan Nemtheanga, vocalist dei Primordial. La band aveva saputo, con quell'album, sublimare tutte le proprie energie negative in un disco probabilmente irripetibile, che aveva fatto gridare al miracolo la maggioranza dei doomster italiani e stranieri, impressionati dalla fredda e calcolata ferocia che il gruppo immetteva nelle proprie note e campionature elettroniche. Eppure, con questo "The Grave Of Civilization", uscito ben sei anni dopo, i Void Of Silence ce la fanno a regalarci un altro disco di alto livello, come forse nessuno si aspettava: un ulteriore passo verso la rovina e lo sfacelo totale del nostro tremolante mondo.

Non siamo però di fronte ad un disco fotocopia, di quelli che si limitano a ricalcare il successo riproponendo le stesse soluzioni, solo un po' meno ispirate. Niente di tutto questo: molte novità ci attendono, pazientemente elaborate nel corso dei sei anni di gestazione. La prima è l'ennesimo cambio del vocalist (ora c'è Brooke Johnson dietro il microfono) e ciò si traduce nella scomparsa completa del growl e dello scream: ora è unicamente la voce pulita, cantilenante, solenne e maledetta, a reggere il gioco. Una scelta interessante, che potrebbe (ma solo in teoria) avvicinare alla musica del gruppo anche i fan meno oltranzisti, coloro che non tollerano la voce death in tutte le sue manifestazioni: tuttavia, come spiegherò in seguito, non è cosa tanto scontata che il cambio di vocalità renda il sound più accessibile, poiché quella dei Void Of Silence non è mai stata musica di facile ascolto e assimilazione. Come ci si aspetterebbe da un disco che mischia sapientemente la pesantezza del doom con le fredde atmosfere dell'industrial, "The Grave Of Civilization" non lascia spazio a sentimenti positivi, ma inghiotte gli animi in uno stato di cupa disperazione apocalittica, come se la fine del mondo stesse per venire: come un pianeta che ci punta diritto addosso, e continua a diventare sempre più grande nel cielo, mettendo a nudo tutte le nostre meschinità e costringendoci a fare i conti con la nostra fine prima del tempo. I brani scorrono come macchie di catrame che lentamente si allargano e inglobano gli sventurati che si trovano sulla loro strada; le voci e le chitarre, ancora più pesanti e dissonanti che in passato, paiono lamentarsi più che produrre suoni; e in mezzo a tutto questo pathos di morte, le eclettiche tastiere accompagnano il fluire delle composizioni con mesta eleganza, contribuendo ad aumentare la sensazione di abbandono nei confronti della vita, quella sensazione che ti prende quando pensi che ormai nulla valga più la pena di essere vissuto. Qua e là fanno capolino alcune sezioni arpeggiate inquietanti, che mettono i brividi e invadono la mente di un unico colore, il nero. E talvolta spuntano anche melodie di chitarra tanto oscure da ricordare i migliori My Dying Bride (sentite per esempio l'inizio di Apt Epitaph e ditemi se non vi ricorda "A Doomed Lover"). Tuttavia, non si tratta più di musica spiccatamente cerebrale come in passato: se "Human Antithesis" era un disco dove la negatività esistenziale era palpabile, dove l'odio trasudava da ogni nota e "mordeva" l'ascoltatore con forza, questi sentimenti paiono ora attenuati, come se avessero perso la loro forza distruttiva. Troviamo infatti un sound più liquido e onirico, sostanzialmente più rarefatto, ed è venuta leggermente meno la componente "industrial" che aveva invece caratterizzato fortemente il precedente "Human Antithesis". Alcuni elementi, ovviamente, sono rimasti invariati: i testi visionari, la lunga durata dei brani (quasi tutti sopra i dieci minuti), le ritmiche lente e contorte, l'attitudine "maledetta" che i nostri sono sempre riusciti a mantenere senza scadere nell'autocelebrazione fine a sè stessa. "The Grave Of Civilization" rappresenta dunque un altro capitolo dell'interessantissima evoluzione della band, che dalla rabbia primordiale di "Towards The Dusk" e "Criteria Ov 666" è giunto infine ad una condizione dolorosa, rassegnata, che si limita a pennellare con colori mostruosi un prossimo scenario di morte. Paradossalmente, il sound è più melodico che in passato: fanno capolino anche sprazzi di malinconia e di tristezza, sentimenti che non erano ancora stati toccati dalla musica del combo, impegnata finora a mostrare un volto crudele e spietato, che non si esprimeva con la batteria a mitraglia o una voce roboante, ma con sottili combinazioni di suoni e atmosfere che mettono angoscia.

Non posso descrivere ogni brano nei dettagli, perché sarebbe inutile e controproducente: "The Grave Of Civilization" è un tutt'uno inscindibile, che va ascoltato dall'inizio alla fine senza interruzioni, e che in fin dei conti risulta particolarmente omogeneo e quindi ben poco valutabile se non nel suo complesso. Nonostante la lunghezza dei brani e la loro apparente prolissità, si tratta comunque di un album estremamente scorrevole, che finisce quasi senza lasciarcene render conto, e che fa viaggiare con la mente verso luoghi bui, incatenati ad un' oscurità insondabile, come possiamo già vedere dalla fenomenale copertina, che si sposa alla perfezione con la musica: la sensazione ascoltando questo album è proprio quella di essere al cospetto di un'enorme tempio oscuro, e di osservarlo dal basso della propria piccolezza, come un'ultima visione prima della fine annunciata. Grandissimo è stato l'impegno e il lavoro dietro questo album, e ciò si è tradotto in un nuovo capolavoro: non posso fare altro che inchinarmi di nuovo di fronte al terzetto romano, e di pensare che dopo tutto in Italia non siamo poi così malvagi, se ogni tanto saltano fuori artisti come questi.

01 - Prelude To The Death Of Hope (3:02)
02 - The Grave Of Civilization (17:31)
03 - Apt Epitaph (12:27)
04 - Temple Of Stagnation (D.F.M.I. MMX) (9:50)
05 - None Shall Mourn (15:21)
06 - Empty Echo (4:43)

domenica 17 luglio 2011

Woods Of Desolation - "Sorh"

Eisenwald Tonschmiede, 2009
La musica di questo combo australiano, composto da soli due membri, è espressione della più devastante malinconia che possiate immaginare. Nei solchi di questo dischetto albergano paesaggi avvizziti, frustati da violenti rovesci di pioggia che rendono il sottobosco un crogiolo di foglie umide, odorose e striate di fango, mentre contemporaneamente creano maestosi arcobaleni che percorrono le valli vicine; nelle soffertissime melodie vivono l'arrivo della stagione fredda, il lento addormentarsi della natura, la triste sorte delle foglie che cadono dagli alberi una dopo l'altra. Quando il depressive black metal sceglie di concentrarsi di più sull'introspezione e sul pennellare gli scenari naturali, piuttosto che sull'esternazione del proprio male di vivere, escono dischi come questo "Sorh", contrazione di "Sorrow" (rammarico): esso contiene musica tendenzialmente lenta, crepuscolare e grondante fredda rugiada, musica che non può essere apprezzata da persone tendenzialmente felici e positive, le quali ripudierebbero simili atmosfere senza possibilità di appello.

L'elemento più caratteristico del disco, quello che gli permette di ricreare in maniera così efficace le atmosfere autunnali e la tristezza che esse suscitano, è la produzione. Una qualità sonora molto povera, con muri di chitarre impenetrabili e pressoché continui, rende necessario un orecchio allenato per riuscire a percepire la musicalità in mezzo a un tale fragore, che inghiotte gli strumenti e li rende quasi indistinguibili l'uno dall'altro: tuttavia, sarebbe un errore grossolano considerarla come un difetto, perchè se ci trovassimo di fronte ad un disco che suona allo stesso modo ma con suoni puliti e patinati, il suo effetto sulla nostra anima sarebbe cento volte minore. In questo soffuso e impastato calderone troviamo invece delle confuse muraglie di chitarre che gemono con melodie spiccatamente romantiche e decadenti, assieme a suoni di pioggia e di tuoni, una distante voce in screaming che rimane quasi completamente coperta dalle chitarre, più qualche raro passaggio arpeggiato e libero da distorsioni che suona come una rinascita celestiale. Le strutture dei brani sono semplici e ripetitive, le trame melodiche sono quasi inestricabili dalla confusione strumentale, le percussioni rimbombano in lontananza come alberi che cadono rovinosamente al suolo, e tutto ha un sapore di decadenza e rassegnata contemplazione di una vita ormai prossima allo spegnersi, e che consuma il suo ultimo atto in mezzo ad una foresta spoglia e caduca.

Non ci sono particolari elementi di novità in quello che la band propone: se non fosse per la spettacolarità delle atmosfere ricreate, e per la solenne bellezza delle melodie, quest'album potrebbe passare inosservato, in quanto esiste già una vasta discografia che esplora questo genere. Ma i Woods Of Desolation non sono semplicemente "un gruppo tra i tanti", e il risultato della loro spiccata sensibilità artistica è un dischetto pregevole, commovente, in grado di regalare vividi sogni ed emozioni durature. "Sorh" raggiunge a stento i venticinque minuti, ma si tratta di venticinque minuti intensi, che si possono gustare solo in una particolare disposizione d'animo: quella della malinconia più assoluta, inguaribile, deliziosamente irresistibile. In tale condizione, non sarete voi a trovare la musica dei Woods Of Desolation, ma sarà lei a trovare voi, completando alla perfezione ciò che la vostra anima non riesce a spiegarsi con le parole.

01 - Intro (2:00)
02 - The Leaden Sky Torn (8:55)
03 - Enshrouded By Solitude (7:57)
04 - Within The Crimson Tide (6:56)

Burzum - "Hvis Lyset Tar Oss"

Misanthropy Records, 1994
Ho impiegato non poco tempo prima di comprendere e assimilare Burzum, nome dietro al quale si cela il ben conosciuto musicista norvegese di nome Varg Vikernes, che tutti conosciamo per i rilevanti fatti di cronaca nera avvenuti nei primi anni '90. Non starò a tediare il pubblico con il racconto trito e ritrito del burrascoso passato di Varg: in questa sede voglio unicamente occuparmi della musica, che solo di recente è entrata a far parte di me, nonostante conoscessi Burzum da almeno una decina d'anni.

A quanto ne so, non sono l'unico ad essere stato catturato "in ritardo" dalla sua musica, che è notevolmente ostica, onirica e di difficile assimilazione, nonostante sia scarna e decisamente poco complessa. Varg riversa nei suoi album tutto il suo malessere esistenziale e le sue paranoie misantropiche, partorendo sempre dischi introspettivi e carichi di sentimento negativo: è innegabile che al primo impatto ciò possa disorientare l'ascoltatore non avvezzo, il quale probabilmente rimarrà interdetto dalle atmosfere gelide, dall'ossessività ritmica, dalla staticità compositiva e nondimeno dalle strazianti urla di Varg, più simili a lamenti in corso di una tortura, che ad un canto. Il fatto che Varg sia solito inserire sezioni dark ambient e sottofondi di tastiera nei suoi album non migliora le cose: tale caratteristico impreziosimento non serve per rendere la musica più mite e fruibile, bensì per aumentare la sensazione di paranoia e di marciume che essa crea, grazie a giri ipnotici e sinistri, ripetuti fino a far cadere l'ascoltatore in un limbo indefinito di straniamento. Come spesso accade nel black metal, o se non altro nel suo filone più classico e ortodosso, la tecnica strumentale è molto elementare e passa in secondo piano: ci saranno cinque o sei riff in tutto l'album, i ritmi sono sempre i soliti 4/4 e 6/8, le modulazioni sono praticamente assenti. Cosa rende allora questo disco un lavoro così speciale, a parte l'inquietante copertina, raffigurante il dipinto "Il Povero" di Theodor Kittelsen?

Non è così immediato rispondere a questa domanda, ma ci provo. Prendiamo per esempio la prima lunghissima traccia "Det Som Engang Var" (non collegata con l'omonimo album di Burzum, uscito l'anno precedente). In questi quattordici minuti Varg crea quella che si può chiamare la sua summa compositiva, il suo paradigma, e vi racchiude l'essenza della sua musica. Riff di chitarra taglienti come spade di ghiaccio ci avvolgono per due interminabili minuti prima di iniziare con una lunghissima cavalcata, nè lenta nè veloce, pregna di malvagità occulta e caratterizzata da giri di chitarra e tastiera rabbrividenti, che si ripetono decine di volte senza mollarci mai, come ossessioni striscianti che ormai hanno catturato la nostra mente e ci condurranno sempre più verso il Male. Qui sta la magia di Burzum: nel suo secco minimalismo, la sua musica possiede un potere occulto notevole, lucidamente folle, capace di risvegliare in noi le più oscure emozioni, specialmente con l'uso di una vocalità malata e schizofrenica. Per cogliere la vera essenza di questa musica occorre un full - immersion mentale, un'attenzione particolare nel cogliere le impercettibili sfumature che caratterizzano i pezzi, senza le quali essi sarebbero unicamente piatti e monotoni. E ovviamente serve un'attitudine particolare, un amore innato verso il gelo e le sonorità claustrofobiche, perchè nei dischi di Burzum è solo questo che troviamo, senza mezzi termini. Ciò vale sia per i brani più veloci e aggressivi come le due tracce centrali "Hvis Lyset Tar Oss" e "Inn I Slottet Fra Droemmen" (anch'esse assai ripetitive, ma potentemente malvage e feroci), sia per i brani ambient strumentali come la conclusiva "Tomhet". Quest'ultima traccia, ben conosciuta ed apprezzata nell'universo burzumiano, si compone di quattordici minuti di ipnotismo privo di distorsioni, che spegne i pensieri razionali e ci porta ad un livello diverso di coscienza.

Il connubio tra Black Metal e Dark Ambient raggiunge, con questo album, una delle sue vette più alte. Disco seminale nella produzione artistica di Burzum e di tutto il black metal in generale, "Hvis Lyset Tar Oss" è un'esperienza quasi metafisica, che va assaporata senza pretese di raffinatezza o ricercatezza, ma semplicemente per quello che è: una lucida, terrificante rappresentazione della condizione umana nei suoi aspetti più cupi e insondabili. Burzum potrà essere amato oppure odiato, specialmente per le sue vicende personali e per le sue discutibili esternazioni di stampo filosofico - religioso: ma quando un essere umano, chiunque esso sia, riesce a partorire una musica di tale forza espressiva, ogni giudizio cessa di avere significato ed è solo la musica che deve parlare.

01 - Det Som Engang Var (14:21)
02 - Hvis Lyset Tar Oss (8:04)
03 - Inn I Slottet Fra Droemmen (7:51)
04 - Tomhet (14:11)

venerdì 15 luglio 2011

Bathory - "Hammerheart"

Se c'è un musicista che è riuscito a trasporre in musica il furore e l'epicità delle scorrerie vichinghe e delle loro tradizioni, questo è Quorthon, maestro del viking metal svedese, scomparso in giovane età per un problema cardiaco. "Hammerheart" rappresenta il caposaldo del periodo epico, il disco che perfeziona le prime, accennate sonorità cinematografiche e battagliere di "Blood Fire Death" (ancora molto influenzato dal black metal, ma già un disco seminale per il viking) e fa prendere vita ad una serie di capolavori del genere, che impressioneranno e influenzeranno non pochi musicisti negli anni a venire. "Hammerheart" è un concentrato di storie nordiche musicate con sorprendente maturità ed estro, pur non rinunciando al proverbiale grezzume senza il quale un disco Viking non è nemmeno considerato "puro": e non si fa certo fatica a rendersi conto che la produzione e la qualità sonora di questo album siano a dir poco approssimative, impastate, ma proprio per questo motivo affascinanti, come se fossero un eco dei tempi antichi, quando ancora tutte le comodità tecnologiche non esistevano, anzi nessuno ne immaginava nemmeno la possibile esistenza.

Brani lunghi, lenti, solenni e a modo loro aggressivi, con sonorità compresse e sature, che stordiscono l'ascoltatore come il rombo di una cascata di ghiaccio che si sbriciola. Accordi tonanti e ripetuti infinite volte, batteria marziale e severa, cori impregnati di lirismo e di ardore, una voce solista assolutamente caratteristica nella sua imperfezione timbrica e tonale, e proprio per questo tanto amata dai fan, per via della sua genuina spontaneità. Ogni brano ha il suo posto all'interno dell'album, tuttavia i capisaldi assoluti che posso citare sono l'apertura di "Shores In Flames", undici minuti in cui a stento si sentono due cambi di ritmo, ma che fanno sognare ad occhi aperti, come se ci trovassimo su un drakkar che lentamente si avvicina ad una spiaggia e, dopo avervi attraccato, vede una violenta battaglia scoppiare sulle rive, che lascia dietro di sè lunghe scie di sangue e di fuoco; "Father To Son", dal pesantissimo incedere e dal riffing acido e spietato; "Song To Hall Up High", un commovente interludio acustico che commemora gravemente la morte di un grande re nordico; e infine un manifesto del nome Bathory, la conosciuta "One Rode To Asa Bay", famosa tralaltro per aver dato alla luce il primo ed unico video di Quorthon, e che è stato addirittura trasmesso su MTV senza subire alcun taglio (record di durata!). Dopo l'introduzione ad opera di uno scacciapensieri e dello scalpitare di zoccoli, una melodia che pare presagire alla fine del mondo ci accompagna per nove minuti recitando una vera e propria battaglia finale, sottendendo tappeti di tastiere (!) e assoli scintillanti, insieme a rintocchi di campane che vanno a chiudere un'era gloriosa, ma mai dimenticata e tenuta viva dalla passione di un artista come Quorthon, a cui dobbiamo stima e rispetto per aver creato uno dei progetti musicali più emozionanti di sempre. "Hammerheart" è una pietra miliare del Metal (e non solo del filone Viking), e come tale va posseduto e vissuto con orgoglio, assaporando le sue note di ghiaccio e fuoco fino a farlo diventare una parte di sè. Si tratta di un passo che ogni metallaro che si rispetti è portato a compiere. Se non altro in memoria dello scomparso Thomas Forsberg, in arte Quorthon.

01 - Shores In Flames (11:08)
02 - Valhalla (9:33)
03 - Baptised In Fire And Ice (7:57)
04 - Father To Son (6:28)
05 - Song To Hall Up High (2:30)
06 - Home Of Once Brave (6:44)
07 - One Rode To Asa Bay (10:23)

Deinonychus - "Ark Of Thought"

Supernal Music, 1997
Ci sono band che suonano senza idee né passione, ma in questo mondo di superficialità trovano terreno fertile e la loro fama perdura nel tempo; ci sono altre band dal tatto sublime che compongono piccoli capolavori che le mura dell’underground confinano e le sabbie del tempo seppelliscono. Ma tali capolavori si conservano lì, perfettamente mummificati, come preziose reliquie, e ogni tanto capita che qualcuno di essi venga riportato alla luce.

Uno di questi piccoli cimeli che hanno rivisto la luce, perlomeno nel corso delle mie ricerche, è l’antica “arca del pensiero”, un vecchio disco del 1997 di una band olandese che porta il nome di un dinosauro che significa “artiglio terribile”: i Deinonychus. In effetti gli intensi colori caldi e i titoli evocativi dei brani mettono in moto il proprio flusso di coscienza e spingono i propri pensieri a fluire per libera associazione riportandoci al tempo che fu, in altri desolati lidi, guidati da profumi famigliari e altri particolari che ci rievocano le esperienze della nostra infanzia che tanto ci hanno segnato nel bene e nel male. Quando la musica inizia a riempire il silenzio intorno a noi tutte queste emozioni si fanno più intense: le melodie sono decadenti e fortemente malinconiche con una punta di disperazione data dal cantato cadaverico, ogni tanto entra il piano, altre volte l’organo ecclesiale, e di tanto in tanto ecco qualche sparuto arpeggio. La grande varietà di soluzioni stilistiche rende ancora più fluido il passare del tempo e facilita lo scivolare via lungo la tangente che fa rivivere i nostri ricordi: la sola voce spazia dal growl ad una via di mezzo tra uno scream e un clean, passando per un parlato oscuro alla Candlemass, fino ad arrivare a delle urla indecifrabili nell’ultimo brano; la musica alterna momenti lenti a parti in blastbeats. Il tutto riesce ad essere comunque molto lineare grazie alla grande abilità dei due musicisti di amalgamare diverse idee e soluzioni in un unico stile. Tutto ciò è notevole, se si pensa che fino ad allora i Deinonychus erano molto produttivi: Ark Of Thought è infatti il loro terzo full-length in poco più di un anno e mezzo, registrato rapidamente e dato alle stampe nemmeno otto mesi dopo il suo predecessore The Weeping Of A Thousand Years. Solitamente le band così produttive finiscono per produrre lavori mediocri e poco ispirati, ma non è il caso dei Deinonychus: Ark Of Thought è un crogiolo di ispirazione e creatività, e ciò che è più sbalorditivo è che non è una brutta copia dell’album precedente: pur essendo lo stile musicale assolutamente riconoscibile, l’approccio stilistico è un po’ diverso grazie a brani più corti, mediamente più veloci e differenti anche nelle strutture. Quindi che dire? Complimenti ai Deinonychus per essere stati capaci di produrre un simile piccolo capolavoro conservatosi intatto sotto l’azione delle sabbie del tempo, che ora inevitabilmente non potrà far altro che essere nuovamente inghiottito da questo ingiusto deserto finché qualche altro esploratore avventuroso e ardito lo rinverrà e godrà dei suoi frutti.

And fall to my knees when I see the light, the final light before the darkness,
And I know, I am alone with her, my mother nature
And I shall go now, into the arms of mother nature and time beyond…

01 - Chrysanthemums In Bloom (04:31)
02 - Revelation (03:43)
03 - My Days Until (05:38)
04 - Oceans Of Soliloquy (05:32)
05 - Serpent Of Old (04:05)
06 - Leviathan (06:52)
07 - The Fragrant Thorns Of Roses (06:31)
08 - Birth And The Eleventh Moon (06:29)

giovedì 14 luglio 2011

Summoning - "Stronghold"

Napalm Records, 1999
I Summoning sono una band famosa per aver fatto della coerenza stilistica il proprio punto di forza. Nessuno si stupisce se i due austriaci pubblicano un album che assomiglia a quello precedente, poiché ci si aspetta già che il successivo sarà ugualmente simile (ma attenzione: non uguale). Protector e Silenius, gli unici due componenti dei Summoning, hanno affrontato un'evoluzione nella loro lunga carriera, che li ha portati a toccare diverse sonorità, ma che ha mantenuto sempre salde alcune caratteristiche, prima fra tutte l'amore sconfinato per le saghe di Tolkien (Silmarillion, Lo Hobbit, Il Signore Degli Anelli), e seconda l'approccio a metà tra un grezzo black metal e un lento incedere epicheggiante in stile Bathory. Tuttavia, la musica dei Summoning è così poliedrica e particolare da essere difficilmente inquadrabile in un singolo genere. Suonano black metal orchestrale, oppure epic metal grezzo? Di fronte ad una così spiccata personalità, le etichette perdono di significato.

"Stronghold" è un disco importante per i Summoning, un caposaldo della loro discografia, che fa da ponte tra le sonorità più feroci e gelide dei primi album e il secondo filone, più melodico e spiccatamente cinematografico. Questo è forse l'aggettivo che descrive meglio la musica dei Summoning: cinematografica. Pochi gruppi, se non nessuno, sono riusciti ad acquisire una potenza evocativa così forte come quella che esprimono i Summoning con ogni loro album. Per chi già conosce le saghe tolkieniane, e contemporaneamente apprezza la musica metal, i due austriaci sono una manna dal cielo: ogni loro album è la perfetta colonna sonora di un viaggio attraverso la Terra di Mezzo, popolata da draghi, elfi, orchi malvagi, maestose città scavate nella roccia e mai espugnate da alcun esercito nemico, picchi innevati sotto i quali si estendono chilometri di miniere sotterranee dimenticate, demoni di fuoco che albergano nelle profondità della terra, foreste incantate i cui alberi camminano. Le consuete ritmiche lente, cadenzate e rilassanti hanno il compito di condurci lentamente attraverso questo spettacolare viaggio, che pare non finire mai data la notevole lunghezza di ogni brano, mentre una vastissima gamma di strumenti (chiaramente sintetizzati) dona al disco una grande varietà e uno spessore artistico notevole, nonostante le composizioni siano tutte piuttosto ripetitive e puntino unicamente sulle atmosfere, piuttosto che sulla complessità delle strutture. Ciò non toglie che la musica sia particolarmente elaborata, nella sua semplicità strutturale: anzi, direi che la cura per i dettagli è quasi maniacale. L'unione di queste sonorità "da film" con il black metal marcio e crudo (ma mai veloce!) è quanto di più riuscito possa esistere: le possenti chitarre e la graffiante voce in screaming non fanno che rendere ancora più epico un viaggio di per sè emozionante, durante il quale pare proprio di rivivere le mirabolanti avventure raccontate da Tolkien nei suoi interminabili ma bellissimi libri. "Long Lost Where No Pathway Goes" ricorda il lungo peregrinare della Compagnia dell'Anello attraverso le Terre Selvagge; le commoventi linee melodiche di "Like Some Snow-White Marble Eyes" richiamano l'attraversamento dell'incantato bosco di Lothlorien; "The Rotting Horse On The Deadly Ground" è la drammatica battaglia dei campi del Pelennor, dove si combattè per difendere Minas Tirith dall'enorme esercito di Mordor; la cristallina severità di "Where Hope And Daylight Dies" (una vera novità per i Summoning, essendo un brano cantato unicamente dalla voce pulita di Tania Borsky) è il lamento funebre per la perdita dello stregone nelle miniere di Moria. Ogni brano ha la sua storia: bisogna solo chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dall'immaginazione.

I Summoning sono un nome che garantisce qualità: assolutamente imbattibili nel loro genere, essi rappresentano la migliore colonna sonora non ufficiale delle saghe fantasy di Tolkien, così come i Tyranny e i Fungoid Stream sono riusciti a creare le colonne sonore non ufficiali degli allucinati racconti di Lovecraft. "Stronghold" è probabilmente il punto più alto della loro discografia, un disco sostanzialmente perfetto sotto ogni punto di vista: coinvolgente, vibrante, melodico e mai pacchiano, magnificamente prodotto e perfino bello da vedere (date un occhio allo splendido booklet, una vera ciliegina sulla torta). Devo dire, però, che i Summoning sono una band che si odia oppure si ama, e non ci sono vie di mezzo. Qualcuno rimarrà completamente indifferente e li considererà esageratamente teatrali e mortalmente noiosi: qualcun altro se ne innamorerà perdutamente e non potrà più farne a meno. Decidete voi da che parte stare, io ho già fatto la mia scelta.

...The Loud Music Of The Sky...

01 - Rhun (3:25)
02 - Long Lost To Where No Pathway Goes (7:23)
03 - The Glory Disappears (7:49)
04 - Like Some Snow-White Marble Eyes (7:19)
05 - Where Hope And Daylight Die (6:28)
06 - The Rotting Horse On The Deadly Ground (8:25)
07 - The Shadow Lies Frozen On The Hill (7:01)
08 - The Loud Music Of The Sky (6:47)
09 - A Distant Flame Before The Sun (9:42)

Progenie Terrestre Pura - "Promo 2011"

Autoprodotto, 2011
"Progenie Terrestre Pura è un progetto nato sul finire del 2009 dalla collisione mentale tra Eon [0] e Nex [1]. Il nostro obiettivo, fin da subito, è stato quello di unire il Black Metal a sonorità elettroniche e Ambient senza tuttavia fermarsi al classico binomio Black/Ambient, ma cercando di ampliarlo inserendo una componente elettronica più elaborata e stratificata (un approccio IDM e dei paesaggi Psybient), capace anche di creare un’ atmosfera nuova, diversa e poco sentita nella musica Black Metal."

Una presentazione ambiziosa da parte di questi due ragazzi italiani, che intendono cimentarsi in un genere inflazionato come il Black Metal, cercando di renderlo il più possibile originale e personale. Devo dire che, da quello che trovo in questo demo promozionale, l'obiettivo sembra proprio essere stato raggiunto, tanto che ho qualche difficoltà se tento di classificare il loro genere musicale. Questa demo si compone di sole due tracce, che superano entrambe i dieci minuti di durata, e che inizialmente lasciano piuttosto spiazzati: può sembrare che il gruppo non abbia ben chiaro il genere musicale che vuole suonare, ma è solo un'impressione, poiché ascolto dopo ascolto la musica prende forma e cattura l'attenzione, appassionando sempre di più. Con la genuinità tipica delle autoproduzioni, ancora non inficiate dal peso di una casa discografica che impone questo e quello, Eon [0] e Nex [1] ci propongono un viaggio onirico e visionario, che di Black Metal mantiene solo alcuni elementi, mentre per il resto preferisce esprimersi liberamente, contaminandosi con una quantità di influenze eterogenee. Vedo ora di descrivere un po' i due brani, nel tentativo (difficile) di riportare con le parole le strane sensazioni che tale musica mi provoca.

La prima traccia "Progenie Terrestre Pura" inizia con dolci suoni elettronici che mi hanno ricordato le produzioni intimiste ed eteree di Vangelis, mostro sacro della musica elettronica. Una chitarra in tremolo si unisce lentamente ai sintetizzatori, vibrando nervosamente e attendendo solo il momento giusto per esplodere, mentre una voce allucinata in sottofondo (non un growl, non uno scream, non un pulito: piuttosto un sussurro rauco, un rantolo malato) recita un testo pregno di significati simbolici:

"They breed chrysalises, capsules of life
immortal but motionless.
Growing codes, they breathe on series
the time stopped itself."


Ed ecco che i ritmi accelerano, e le chitarre si fanno protagoniste: come non ricordare ora la granitica espressività dei Neurosis di "Through Silver In Blood" ? In particolare di quella stupenda "Aeon", teatro di  muri di chitarre che sommergevano tutto come valanghe impazzite, e ci riportavano alla mente scenari arcani di vulcanismo e terremoti? Ma ecco che passiamo ad una nuova fase, dal ritmo sincopato, che prelude ad una nuova, furiosa accelerazione. Di nuovo quella sensazione di essere travolti da una massa nevosa, da un fiume in piena, da una corrente di vento solare: in ogni caso, di essere trascinati via da una forza irresistibile, suadente e maestosa. Il carattere "cosmico" e per certi versi anche fantascientifico di questa musica è evidente. Passiamo ora alla seconda traccia, dal bellissimo titolo di "Sinapsi Divelte".

Anche qui abbiamo una lisergica introduzione ad opera dei synth, affiancata presto a chitarre zanzarose e da freddi suoni metallici, che creano subito un'atmosfera di paranoia. Un riff deciso irrompe sulla scena, mettendo voglia di partire con l'headbanging, fino a quando non compare sulla scena una voce pulita e solenne, sempre in secondo piano rispetto agli strumenti (scelta che trovo sempre azzeccatissima, quando qualcuno ha il coraggio di adottarla). Tra il quinto e il settimo minuto si capisce che i Progenie Terrestre Pura non hanno dimenticato di inserire un po' di melodia nelle loro composizioni, anche se hanno deciso di centellinarla e di farla risaltare solo dove è necessario: per il resto, meglio lasciarla appena accennata, in sordina, cosicchè sia più difficile da trovare e regali più soddisfazioni una volta conquistata. Un finale dalle tinte epiche ci saluta con orgoglio, sfumando lentamente verso un nero oblio: e la sensazione è quella di aver veramente effettuato un viaggio in zone sconosciute dello spazio interplanetario, incontrando pulsanti sorgenti di luce e buchi neri famelici. Mischiando influenze black metal, ambient, sludge, doom e post - metal, Eon [0] e Nex [1] hanno prodotto un lavoro di ottima caratura, originale e coinvolgente, capace di evocare sensazioni particolari, e che lascia ben sperare per il futuro. Attendiamo con sollecitudine la loro irruzione ufficiale nell'ambiente discografico, perché se le premesse sono queste, c'è da aspettarsi un signor disco.

01 - Progenie Terrestre Pura (10:12)
02 - Sinapsi Divelte (11:11)

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mercoledì 13 luglio 2011

Kauan - "Lumikuuro"

BadMoodMan, 2007
Se il Metal fosse una pittura, che tipo di pittura sarebbe? Mi vengono in mente le forti tinte dell’espressionismo, le violente pennellate di Michelangelo e i suoi vividi chiaroscuri; oppure per quanto riguarda il Metal più estremo potrei citare la pittura infernale di Bosch, il simbolismo di Bruegel, o ancora l’inquietante surrealismo di Salvador Dalì; il Black Metal potrebbe essere riassunto ne “L’urlo” di Munch e nella sublime freddezza paesaggistica di Friedrich; infine l’Avantgarde potrebbe trovare un suo corrispettivo nel futurismo. C’è da sbizzarrirsi. Ma una cosa è certa: l’acquarello, col Metal, non c’entra niente.

Un bel giorno però salta fuori una band che emerge dal freddo della Russia, che canta in finlandese (!) e che decide di chiamarsi Kauan in onore dei Tenhi: ed ecco che il Metal ha trovato il suo acquarello. La gamma cromatica di cui la band si serve non è molto ampia, ma ciascuno dei pochi colori pastellati che usa è ricchissimo di mille sfumature diverse, testimoniando ancora una volta che le opere monocromatiche o comunque con pochissimi colori sono infinitamente più suggestive di quelle che utilizzano l’intera tavolozza. E tra questi leggeri tocchi di pennello troverete una “vita” sonora paragonabile alla brulicante fauna del sottobosco, una miriade di strumentazioni che sembrano direttamente collegate con l’armonia della natura, con il delicato equilibrio della vita, come le innumerevoli tastiere xilofonate che rivestono il disco e in particolare la titletrack, come il tenue sognante assolo di chitarra in Syleilyn Sumu, come il preludio in pianoforte allo spettacolare violino che chiude Villiruusu. Trova spazio anche una versione “acustica” di Syleilyn Sumu, anche se è difficile parlare di acustica: l’unica cosa che manca è la chitarra elettrica, perché per il resto compare comunque un’ampia gamma di strumentazioni. Sintetizzatori delicati e una sbiadita chitarra rauca sono la trama e l’ordito di questa stoffa pregiata, chiamata Lumikuuro, con cui i Kauan tessono un nuovo abito per un Post Black molto d’atmosfera. Un abito che calza a pennello, perché l’effetto delle chitarre è davvero speciale: col loro sound abbastanza sporco e sempre secondario creano un contrasto splendido con l’estrema pulizia delle tastiere e degli arpeggi, sempre cristallini. Stessa cosa vale per la voce: uno scream basso e torvo si mescola ad un clean gentile.

Immaginate di essere in un bosco d’inverno, e di vedere attorno a voi una distesa di bianco rotta solo dalle sporadiche scaglie di corteccia che emergono qua e là come pennellate impressioniste acquarellate. Intorno a voi il silenzio più glaciale, increspato soltanto dai soffi di vento freddo e dalla neve che scricchiola sotto i vostri scarponi. E in questa sorta di natura morta boreale immaginate che sotto la bianca spessa coltre ghiacciata è già tutto un fermento di futuri semi che metteranno le radici e piccoli animaletti andati in letargo, preludio ad una prossima primavera. Questo è Lumikuuro.

01 - Alku (02:08)
02 - Aamu Ja Kaste (07:01)
03 - Lumikuuro (07:28)
04 - Savu (04:11)
05 - Koivun Elämä (06:27)
06 - Syleilyn Sumu (05:14)
07 - Villiruusu (05:17)
08 - Syleilyn Sumu (Akkustika) (05:11)

Cacophony - "Speed Metal Symphony"

Shrapnel, 1987
Martin Adam Friedman: Washington D.C., 8 dicembre 1962, meglio noto come Marty Frediman. Virtuoso chitarrista solista che, una volta affermatosi, dal 1990 al 1999 si ridusse a fare il chitarrista più scontato del pianeta nella band più scontata del pianeta, i Megadeth, producendosi in qualche buon assolo e in riff banali oltre ogni limite. In seguito si produsse in lavori solisti tristemente influenzati dall’elettronica.
Jason Eli Becker: 22 luglio 1969, meglio noto come Jason Becker. Giovanissimo chitarrista virtuoso, all’epoca sedicenne. Nel 1991 gli venne diagnosticata la sclerosi laterale amiotrofica, una malattia che intacca la libertà dei movimenti colpendo il sistema motorio. Finì con l’impossibilità di camminare e addirittura di parlare, ovviamente dovette smettere di suonare la chitarra, e poté continuare la sua attività musicale solo con l’aiuto di opportuni sistemi computerizzati.

Ecco in cosa consisterebbero i Cacophony se esistessero ancora: un pagliaccio che, a dispetto delle sue immense abilità, si riduce a suonare coi Megadeth e poi in seguito a progetti elettronici, e uno sfortunatissimo talento bruciato dalla SLA, costretto su una sedia a rotelle senza nemmeno più l’uso della parola. Ma prima che le sabbie del tempo riducessero in questo stato i due guitar heroes, le cose erano ben diverse: la sinfonia dello Speed Metal suonava fiera e pomposa, grazie anche al contributo di un cantante niente male come Peter Marrino e di un ottimo batterista quale Atma Anur, come il quale - purtroppo - nel mondo dell’Heavy Metal se ne vedono pochi.
In fin dei conti bisogna dirlo: la band nacque quando Friedman arruolò il sedicenne Becker - furono loro il primo nucleo - e come è inevitabile che sia si tratta di un lavoro incentrato sulle incredibili evoluzioni dei due: assoli dopo assoli, ce n’è di tutti i tipi e di tutte le varietà: veloci, lenti, shred, melodici, lunghi, corti, e sono uno più bello dell’altro. E anche quando la chitarra si imbizzarrisce oltremodo e tutto sembra perduto, come in Concerto, ecco che all’improvviso si sfocia in note dolci e toccanti: sintomo di una superiore capacità di controllo dello strumento, oltre che di un notevole gusto compositivo.
Ma bisogna anche dire che il merito maggiore di quest’album non è tanto l’innata abilità del duo dalla corda facile, quanto tutto ciò che ci sta attorno: la band ha infatti avuto la grande intelligenza - che non è cosa da poco - di costruire molto bene i suoi brani, di non pensare solo alle chitarre e ridurre il resto a mero evitabile accompagnamento, di rendere tutto gradevole e interessante sotto ogni aspetto. Infatti le strutture dei brani sono interessanti, i riff ritmici sono molto belli, la batteria cerca sovente di esibisri in soluzioni personali con cambi di tempo molto Prog; inoltre trovano spazio anche momenti più pacati come il bell’arpeggio che apre The Ninja, e i ritornelli sono perfettamente riusciti - si vedano su tutti quelli di Savage e Desert Island. Questi aspetti “secondari”, che magari passano inosservati agli orecchi più superficiali, hanno invece l’incalcolabile merito di rendere l’album piacevole e variopinto: di riflesso migliora notevolmente anche la qualità degli assoli, perché invece che ridursi a piccole oasi in mezzo ad un oceano stancante di nulla essi suonano come querce secolari in un’ampia foresta rigogliosa.

Fu così che due talentuosi ragazzi seppero costruire i Cacophony, un progetto tanto magnifico quanto effimero che nondimeno ebbe il tempo di consegnare alla storia, forse senza nemmeno rendersene conto, uno dei dischi Heavy Metal più belli di tutti i tempi.

01 - Savage (05:50)
02 - Where My Fortune Lies (04:33)
03 - The Ninja (07:25)
04 - Concerto (04:37)
05 - Burn The Ground (06:51)
06 - Desert Island (06:25)
07 - Speed Metal Symphony (09:37)

martedì 12 luglio 2011

Septicflesh - "The Great Mass"

Season Of Mist, 2011
Is human a parasitic organism on the body of earth?

Is this the horrid truth that will be realized at the point of no return?

When a parasite sucks the life of its host completely, it also dies.

Is man a suicidal god?

Esistono gli album kolossal nel mondo del Metal? Esiste una specie di Hollywood del metallo? Non lo so, ma nel caso di The Great Mass tutto lascia presagire una risposta positiva. Artwork fastoso curato nei minimi dettagli, skin del sito ufficiale della band semplicemente superlativa, coinvolgimento l’orchestra filarmonica di Praga, mixaggio di Peter Tagtgren e un trailer di un minuto e mezzo degno del miglior kolossal hollywoodiano. Dopo una simile pubblicizzazione è inevitabile che The Great Mass si presenti come un disco ambiziosissimo; e dopo averlo sentito risulta parecchio controverso. Ma lasciamo che siano i Septicflesh stessi a darci l’input per comprendere quest’opera, lasciamoci guidare da ciò che la band ha scritto nel booklet...

This is a mass (a musical composition) born from an alchemical marriage between extreme metal music and wicked symphonic music. Musica sinfonica malvagia, di quella oscura e pomposa: questo è il tema musicale ricorrente di ogni brano, tema che proviene dritto dalle brillanti Persepolis e Babel’s Gate appartenenti al precedente Communion, in cui la band aveva già lasciato intendere di divertirsi molto nel giocare con la musica sinfonica. Ora troviamo sviluppi ancora migliori: imponenti sezioni orchestrali che si ergono come alte cattedrali gotiche su una base potente da far paura, con un Sotiris che macina riff violenti e un Fotis a tratti devastante; e tra toni orchestrali e cori vocali si viene sommersi da fiumi sonori schiaccianti ed altamente evocativi. In questa fondue di tremenda pomposità e tenue melodia si possono citare in particolare il riff sinfonico di Five-Pointed Star, il breve flauto mozzafiato verso metà di Oceans Of Grey, i toni sontuosi di Apocalypse, l’andatura piacevolmente schizzata di Mad Architect. Ma già sotto questo aspetto accade la prima cosa assurda, e l'incantesimo è rotto: qualcuno infatti dovrebbe spiegarmi cosa diavolo c’entrano Rising e Therianthropy con gli altri brani - in Rising l’orchestra è addirittura assente! Che senso ha mettere un brano privo di orchestra nel mezzo di un disco in cui gli altri nove sono incentrati prevalentemente su di essa? E poi le melodie di questi due pezzi sono davvero scontate ed eccessivamente pacchiane, specialmente quella di Therianthropy, che come finale di un disco simile è davvero scadente. Oltretutto costituisce uno stacco troppo netto dalla precedente - superlativa! - Mad Architect: quando si passa da questa a quella sembra quasi di cambiare CD! Per essere del tutto sinceri non è che siano due brani pessimi o irrimediabilmente irrecuperabili, con un po’ di cosmetica li si potrebbe facilmente adattare al resto del disco...il punto è: perché i Septifclesh non l’hanno fatto? E’ un peccato che abbiano inserito due brani così, ma soprattutto è un fatto assurdo e inspiegabile.

It is a fitting sound matrix for a black mass as it celebrates the existence of the Greater mysteries and glorifies the rebellious spirit. Music after all, is a dark art, as there is no light involved… No, nessun raggio di luce, se non forse nel finale; per il resto, solo tenebre e scettici rompicapo, una mistura di riflessioni filosofiche su morte e immortalità, religione e sincretismo, spiritualismo ed attività extracorporea, fenomeno e noumeno. Cos’è l’uomo? Cos’è ciò che egli crede di sapere? Quanto le sue percezioni sensoriali e la sua memoria influenzano il suo modo di concepire la realtà? L’artwork incarna questi valzer filosofici di domande senza risposte, mischiando elementi di più religioni e richiami simbolici a me sconosciuti. Nonostante questo, The Great Mass presenta una copertina che...boh, con tutto il lavoro minuzioso che c’è dietro l’artwork di questo nuovo lavoro ci ritroviamo davanti una cover con uno sfondo completamente piatto, che sembra il poco edificante manto di un topo morto. Suvvia, avrebbero potuto mettere uno sfondo che desse meglio l’idea della profondità e delle vertigini...sono perplesso.

This is not a safe place for the mass of common fearful people. It is a battleground of strange thoughts, where questions are breeding more questions, and chaotic theories confront endless paradoxes. Non è facile valutare questo album, ma credo che la cosa migliore da fare sia chiedersi cosa volesse ottenere il quartetto greco. A occhio direi che la loro idea fosse quella di combinare in qualche modo la pomposità e la squisitezza della musica sinfonica con un Metal estremo violento ma al tempo stesso melodico e orecchiabile, che sia fruibile da una fetta di pubblico relativamente ampia. Se davvero è questo ciò che la band ha tentato di fare, beh, non si può rivolgerle alcuna critica: obiettivo centrato in pieno. Ma, visto che le tematiche trattate sono così insicure e inadatte per quelle persone che hanno bisogno di costruirsi il loro sistema sotto i cui principi riportare tutto ciò di cui fanno esperienza, persone spaventate dal non poter comprendere ogni cosa, persone che pretendono di avere subito tutte le risposte; visto appunto tutto ciò, perché la band non si avventura mai in brani complessi - come Mad Architect, ad esempio - che si fanno largo tra arrangiamenti virtuosi e articolati? Perché invece di tutto ciò trovano spazio brani comunque splendidi ma tutto sommato abbastanza facili da assimilare e persino da fischiettare?

Come avevo premesso, The Great Mass è un disco ambiziosissimo ma parecchio controverso, e se da un lato riesce a raggiungere traguardi musicali indubbiamente elevati, dall’altro lato sembra perdersi in un bicchier d’acqua per quanto riguarda gli aspetti più ovvi. Ma in fondo che dire...criticare questo disco davvero non si può, perché accantonando Rising e Therianthropy ci troviamo di fronte otto momenti altisonanti di grande musica, ben ideati e perfettamente realizzati grazie alla grande cura nelle orchestrazioni e all'enorme varietà di soluzioni differenti, otto momenti capaci anche di dare una certa continuità, solidità e coerenza al tutto. Gli album di cui rammaricarsi sono ben altri, questo è ampiamente positivo sotto la maggior parte degli aspetti. E allora inseritelo nel vostro stereo...

...and...

...Let the ceremony begin!

01 - The Vampire From Nazareth (04:08)
02 - A Great Mass Of Death (04:46)
03 - Pyramid God (05:13)
04 - Five-Pointed Star (04:33)
05 - Oceans Of Grey (05:11)
06 - The Undead Keep Dreaming (04:29)
07 - Rising (03:16)
08 - Apocalypse (03:55)
09 - Mad Architect (03:36)
10 - Therianthropy (04:28)

venerdì 8 luglio 2011

Tyranny - "Bleak Vistae"

Firebox, 2004
Tutti conoscono i Tyranny per il mostruoso full - length denominato "Tides Of Awakening", ad oggi il loro unico (e probabilmente ultimo) album completo. Tra gli amanti del genere, i due finlandesi sono diventati delle celebrità, poiché sono riusciti a portare l'estremismo sonoro del genere ad un livello ancora più spaventoso e oscuro, come nessuno mai era riuscito a fare prima.

Non tutti però ricordano che questo splendido album è stato preceduto da un mini cd, vale a dire questo "Bleak Vistae". Qualcuno si chiederà come faccia un mini album a durare ben tre quarti d'ora, ma nel mondo maledetto del funeral doom questo è possibile, anzi direi che è tutt'altro che anormale, visto che i brani sono chilometrici e sfiancanti per definizione. Nello specifico, questo corposo extended play contiene tre tracce dalla durata media di quindici minuti l'una: tre tracce nere come la pece, prive di qualsiasi spiraglio luminoso, opprimenti e ferali al punto da suscitare dei veri sentimenti di paura e smarrimento, specialmente se lo si ascolta al buio. Fin dalle prime note, le ritmiche bradipiche e gli enormi accordi di chitarra distortissima ci conducono lentamente all'interno di una grotta oscura, dove verremo fatti prigionieri di un blob catramoso dal quale non riusciremo mai più a uscire, rimanendo prigionieri della nostra mente malata e contorta. Un ruggito di sottofondo, pressochè immobile di tono e di intenti, accompagna costantemente questa discesa nei gironi più remoti dell'inferno, talora associandosi a inquietanti tappeti di tastiere e organo ecclesiale, usati sempre con moderazione e solo nel momento in cui il contesto lo richiede, evitando così di scadere nell'abuso gratuito. Poche variazioni ritmiche, pochissime variazioni melodiche, solo tanta oscurità senza ritorno che si avverte costantemente dall'inizio alla fine: avventurarsi nei solchi di "Bleak Vistae" può far sentire persi nell'immensità cosmica, circondati dal vuoto e da un cielo nero impenetrabile, mentre le fioche e distanti stelle scintillano sinistramente come dei puntolini malefici, che ci osservano da lontano con profonda malvagità.

"Bleak Vistae" è un'esperienza piuttosto pesante, da consigliare solo agli strenui amanti del genere: i Tyranny non suonano musica per tutti, ma solo per chi ama ricercare le più oscure profondità dell'animo umano e non ha paura di tuffarcisi dentro, consapevole del fatto che, come ripeteva Nietzsche, quando si guarda dentro l'abisso, anche l'abisso guarda dentro noi. Rispetto al capolavoro "Tides Of Awakening", che seguirà tre anni più tardi, le differenze sono quasi impercettibili: per cui questo "Bleak Vistae" può essere un buon punto di partenza per chi ancora non conosce i Tyranny e vuole iniziare gradualmente a tuffarsi nel loro malato vortice sonoro, fatto di mostruosità abissali e terrore ancestrale. Siete i benvenuti, ma attenti... lasciate a casa i bambini, gli anziani e i deboli di cuore.

01 - Passing Through Ague (13:31)
02 - The Leaden Stream (14:10)
03 - Drown (16:57)

Darkthrone - "Transilvanian Hunger"

Peaceville Records, 1994
Un concentrato di freddo odio e puro nichilismo autodistruttivo: così definirei "Transilvanian Hunger", quarto lavoro discografico dei norvegesi Darkthrone, fautori di un black metal ortodosso che ha avuto un'importanza storica enorme per la nascita e l'affermazione del genere.

Fenriz e Nocturno Culto sono noti per essere tra i black metallers più intransigenti dell'intera scena norvegese, gente che ha partorito dischi malati e fondamentali come "Under A Funeral Moon" e "A Blaze In The Northern Sky", i quali hanno dato un nuovo volto alla nascente musica estrema, portando il black metal alla notorietà di cui gode oggi, nel bene e nel male. Notorietà dovuta anche ai fatti di cronaca, come gli incendi di chiese e gli omicidi, e anche a deliranti dichiarazioni partorite da alcuni esponenti del genere, tra cui gli stessi Darkthrone. Ma loro non sembrano preoccuparsene, bastando a sè stessi con la loro spietata coerenza, che da sempre gli ha conferito un alone malvagio e impenetrabile. Il carattere "estremo" dei due membri si riflette pienamente in questo album, che come i predecessori è grezzo, minimale e glaciale, in piena linea con tutti gli stilemi del genere (di cui i Darkthrone sono stati uno tra gli inventori). La musica non lascia spazio ad alcun compromesso: produzione approssimativa,  timbro degli strumenti secchissimo, ritmi martellanti che non cessano nemmeno per un secondo lungo tutto l'album, riffing minimale e ripetitivo, una voce "castrata" e raschiante, atmosfere gelide e misantropiche, linee di basso praticamente inesistenti, testi allucinati e scritti quasi interamente in lingua madre. Cosa chiedere di più? Questi due folli e antisociali musicisti norvegesi, in possesso di una tecnica strumentale certamente non raffinata ma sufficiente a esprimere ciò che vogliono, riescono a costruire un riff su quattro note e a farlo durare per cinque minuti (come nel caso della title track, o della stupenda "Graven Takeheimens Saler"), lasciandoci dei brividi di freddo sulla pelle nonostante l'apparente cacofonia e scarsità di idee presenti. Non si può stare a disquisire se la musica sia valevole o no, nel momento in cui si toccano certe corde: perchè qui conta unicamente l'effetto che la musica produce, non la musica in sè. Posso assicurare che ascoltare questo album è come trovarsi in una gelida landa nordica, sferzati dal vento e dalla neve, completamente soli e con la consapevolezza che quando la furia degli elementi si scatena, la salvezza è remota. I lupi mostrano i denti, aspettando di affondare i denti nella carne della loro prossima vittima, facendo sprizzare ovunque il sangue ancora caldo; gli spiriti delle montagne guardano con malvagità chiunque si avvicini. Queste sono le immagini che possono facilmente essere evocate dall'ascolto di una musica così ferocemente negativa, ma l'immaginazione è aperta a molte altre possibilità, e nessuna di esse è positiva.

"Transilvanian Hunger" è un disco primordiale, sanguinolento, senza vincoli, selvaggio e crudo come pochi altri: sta a voi la scelta tra amarlo e disprezzarlo ferocemente. Non ci sono vie di mezzo, quando si parla dei Darkthrone: prendere o lasciare. Io ovviamente ho scelto di prendere, per poter ancora una volta gustare il mio amato Nord e il suo superbo abbraccio gelido anche se sono comodamente seduto sul divano di casa mia.

01 - Transilvanian Hunger (06:10)
02 - Over Fjell Og Gjennom Torner (02:29)
03 - Skald Av Satans Sol (04:29)
04 - Slottet I Det Fjerne (04:45)
05 - Graven Tåkeheimens Saler (04:59)
06 - I En Hall Med Flesk Og Mjød (05:13)
07 - As Flittermice As Satans Spys (05:56)
08 - En Ås I Dype Skogen (05:03)

Saturnus - "Martyre"

Euphonius, 2000
Giunti al secondo disco dopo l'ottimo debutto "Paradise Belongs To You", i danesi Saturnus si affermano come una delle più interessanti realtà nel panorama doom metal, in particolare per quel che riguarda il filone meno pesante, meno tetro e più dedito ad atmosfere romantiche, languide e appassionate. Se il debutto della band era ancora piuttosto grezzo e appesantito, con frequenti rimandi ai primi My Dying Bride, si può dire che con "Martyre" i nostri abbiano compiuto un notevole passo avanti, raffinando il loro sound in una maniera sorprendente.

 L'aggressività sonora è quasi scomparsa, a favore di un sound estremamente melodico, per certi versi perfino orecchiabile, elegante e fascinoso. Niente muri di chitarre, niente growl devastanti (sostituiti da una voce estremamente teatrale, a metà tra il grunt semi - pulito ed il parlato, marchio di fabbrica caratteristico dei Saturnus): piuttosto trovano spazio arpeggi delicati e leziosi, mesti accompagnamenti di chitarra pulita e talvolta acustica, melodie dallo spiccato sapore decadente, eppur così emozionanti nella loro rassegnazione, che richiama alla mente storie di amanti perduti e tonnellate di malinconici addii. Se c'è un album di doom metal che incarna perfettamente il concetto di "romanticismo", questo è "Martyre": non quel romanticismo spicciolo fatto di sentimentalismo frivolo, bensì quel romanticismo nella sua accezione primitiva, che impone di lasciare libero sfogo alle proprie emozioni più recondite, senza preoccuparsi di nasconderle. Ne sono la dimostrazione brani eccelsi come "Inflame Thy Heart", dallo sbalorditivo assolo di chitarra che si contrappone alla triste rabbia dell'incipit; "Softy On The Path You Fade", soffertissima, nella quale la chitarra simula un pianto sconsolato tramite melodie cristalline e pulitissime; "Thou Art Free", delicatissima ballata acustica dalla voce sempre in parlato; "Noir", unico brano nel quale Thomas abbandona il parlato e/o il growl, e decide di cantare anche in un vero clean; "Drown My Sorrow", introdotta da un arpeggio di una tristezza pressoché assoluta, sul quale si sviluppa un brano disperato e sofferente, che ricorda l'apparente pacatezza esteriore di un'anima in realtà tormentata da qualcosa che non riesce a gestire. Brani più intensamente rabbiosi si uniscono ad episodi soffusi e tranquilli, ma sempre permeati da una malinconia di fondo che pare inguaribile.

Ci vuole un po' di tempo per entrare in sintonia con il disco (io stesso inizialmente lo ritenevo privo di mordente, prima di accorgermi del reale carattere dell'album) ma quando ci si riesce, esso regala emozioni incomparabili. Un disco da ascoltare quando la malinconia assale i sensi, come catarsi per l'anima, che dopo tanto dolore riuscirà infine a ritrovare la luce.

01 - Seven (1:54)
02 - Inflame Thy Heart (6:42)
03 - Empty Handed (4:12)
04 - Noir (5:34)
05 - A Poem (Written In Moonlight) (5:42)
06 - Softly On The Path You Fade (7:08)
07 - Thou Art Free (4:37)
08 - Drown My Sorrow (6:51)
09 - Lost My Way (4:47)
10 - Loss In Memoriam (6:50)
11 - Thus My Heart Weepeth For Thee (6:13)
12 - In Your Shining Eyes (2:35)

giovedì 7 luglio 2011

Ulver - "Kveldssanger"

Head Not Found, 1996
"Kveldssanger", letteralmente "i canti della sera", è un album che lascia il segno, volenti o nolenti. Esso rappresenta una sorpresa non da poco, per i fan degli Ulver, che erano rimasti stregati dal fenomenale esordio "Bergtatt". Questo è l'album immediatamente successivo, ed è completamente diverso, pur mantenendo saldi alcuni principi che governano stabilmente il primo periodo artistico degli Ulver. Se l'esordio era un album di black metal evocativo ed elegante, capace di mescolare sapientemente furia della natura ed estasi contemplativa unendo entrambe con un tocco di malinconia devastante, ecco che "Kveldssanger" ci spiazza proponendoci trentacinque minuti di musica completamente acustica, priva sia di distorsioni, sia di cantato growl / scream. Insomma, un album di puro folk norvegese al 100%, distillato con maestria da un artista poliedrico e instancabile come Garm, capace di riuscire in qualsiasi genere musicale egli si cimenti. Del suo eclettismo ci accorgeremo successivamente, con la pubblicazione di "Nattens Madrigal", che concentrerà in un colpo solo tutto il black metal più feroce ed oltranzista che qui invece sparisce completamente; e non parliamo nemmeno del cambio totale di sonorità che seguirà ancora oltre.

Di "Bergtatt", questo album mantiene solamente l'amore per la melodia, per le cantilene "spirituali" e per le tematiche pagane, riguardanti il rapporto tra l'uomo e la natura. Gli strumenti utilizzati per esprimersi, tuttavia, si riducono unicamente alla chitarra acustica, al violoncello e al flauto, oltre alla voce che talvolta è solitaria, come nell'emozionante interludio "Sielens Sang", un minuto e mezzo di crescendi vocali intrecciati, da pelle d'oca. I brani sono quasi tutti strumentali, i pochi testi presenti (scritti in danese antico, come in "Bergtatt") sono più simili a nenie, a poesie o a invocazioni: tutto ciò fa di "Kveldssanger" un album delicato, etereo, dal carattere gentile eppur dotato di tremenda forza espressiva, poiché non sempre le emozioni più forti sono smosse dai suoni più forti. Come non commuoversi ascoltando "Høyfjeldsbilde", i cui malinconici giri di chitarra paiono quasi cullarci, mentre attorno a noi un falò scoppiettante ci impedisce di assiderare durante una fredda notte scandinava? E come non rimanere a bocca aperta ascoltando i diciotto secondi scarsi di "Ord", nei quali una voce trascendente declama un verso spettacolare ("Non dovrebbe promettere di camminare nell'oscurità, colui che non ha mai visto la notte") ? Come non sentirsi di nuovo bambini, ascoltando le giocose note di "Halling", musica che sembra scandire un rituale dell'infanzia, quando tutto era più spontaneo e più felice? E ancora, come non tremare dall'emozione con l'oscura "Utreise", che pare quasi celare dentro di sè misteri arcani e che è meglio rimangano sepolti?

"Kveldssanger" è un album notturno, introspettivo, capace di far sognare anche l'ascoltatore più prevenuto, catturandolo irrimediabilmente con melodie soavi e cristalline (valorizzate dall'ottima produzione) e portandolo in un mondo fiabesco, tra insetti notturni che cantano incessantemente, fili d'erba che si muovono sospinti dal vento, tramonti ormai morenti e acqua che scorre in lontananza, appena percettibile. Ogni capitolo è un'emozione a sè stante, non esiste spazio per la noia se non per un ascoltatore superficiale, non c'è una nota sbagliata. E non c'è più nulla di Black metal in questo album, eppure il suo carattere è irrimediabilmente "nero": un black metal sublimato e girato all'incontrario, che pur senza distorsioni e lancinanti grida riesce ad estrapolare la "vera" essenza di tale musica, ovvero il rispetto per la natura e per la sua terrificante potenza. Ciò si può esprimere con la più violenta scarica di elettricità, o con il più tenue pizzico di una corda di nylon. Questa volta gli Ulver hanno scelto la seconda opzione.

Semplicemente inarrivabile, da avere assolutamente.

01 - Østenfor Sol Og Vestenfor Maane (3:26)
02 - Ord (0:18)
03 - Høyfjeldsbilde (2:15)
04 - Nattleite (2:12)
05 - Kveldssanger (1:32)
06 - Naturmystikk (2:56)
07 - A Cappella (Sielens Sang) (1:26)
08 - Hiertets Vee (3:55)
09 - Kledt I Nattens Farger (2:51)
10 - Halling (2:08)
11-  Utreise (2:57)
12 - Søfn - Ør Paa Alfers Lund (2:38)
13 - Ulvsblakk (6:56)

Ansur - "Warring Factions"

Candlelight, 2008
Prima fase, 1-2 ascolti. Non si capisce cos’abbiano combinato gli Ansur. Dov’è finito quanto udito in Axiom? Una band che autodefinisce il proprio stile con le parole “Extreme Progressive Metal”, ma onestamente non vedo dove sia la parte Extreme: questo sembra un disco di Rock progressivo che affonda le radici negli anni ‘70 e con un sound che ricorda vagamente il Metal. I ruvidi riff Blackened di Axiom sono scomparsi alla volta di una chitarra ritmica dalle sonorità Rock, e la batteria è a tratti così delicata e appena accennata che sembra che sia stata applicata della bambagia sulle pelli per attutire i colpi. Il resto è un calderone in cui viene gettato dentro di tutto: numerose parti strumentali che sembrano incollate insieme casualmente, inserti incoerenti provenienti un po’ da ogni angolo degli anni ’70, fino ad arrivare ad uno sgradevole siparietto western che era tranquillamente evitabile. La voce fa schifo.

Seconda fase, 2-6 ascolti. Le singole parti strumentali sono davvero belle, molto coinvolgenti, non si tratta di tecnica fine a sé stessa: c’è sempre una melodia precisa, e di ottimo gusto, che porta da qualche parte. Tastiere e chitarre sono ottimamente integrate tra loro. Però in questo disco manca un collante che tenga unite le squisite impennate strumentali, manca un tessuto di riff ritmici che tenga insieme il tutto, manca quel tessuto Blackened che era così dominante in Axiom. Qui non abbiamo vie di mezzo: da 0 a 100, o da 100 a 0 forse, nell’arco di soli due anni. In questo modo Warring Factions rimane un coacervo selvaggio di deliziosi pezzi strumentali dall’ampio range sonoro che coinvolge tastiere, organi e sax, e dal drumming spesso fievole e appena sussurrato tipico del Jazz e del Rock progressivo; pezzi strumentali che vagano nell’album come il fumo di un incenso vaga nella stanza in cui il bastoncino brucia - Warring Factions è come uno scenario in cui le parti strumentali sono fazioni rivali che guerrigliano tra loro, prive di qualsiasi strategia o fine. La voce fa schifo.

Terza fase, 6-12 ascolti. La memorizzazione dei brani comincia a fare effetto. In generale, non sempre tale effetto è benevolo: memorizzare un brano può anche portare a realizzare che esso è davvero scadente - ma non in questo caso: l’effetto sembra essere positivo per ogni brano, compreso An Exercise In Depth Of Field con il suo siparietto western. Là dove prima regnava il chaos ora sembra trasparire una parvenza d’ordine, o perlomeno di coerenza, e l’evolvere di ogni singolo brano inizia ad assumere una forma precisa - si inizia ad intravedere un’evoluzione deterministica laddove prima si trattava di moto browniano. Prima il disco non sembrava un insieme di brani, ma di momenti musicali in selvaggia libertà; ora invece si riescono a scorgere quei confini che delimitano un brano dall’altro. Ma la voce fa schifo.

Quarta fase, 12+ ascolti. Qui accade una cosa che non mi so spiegare. Warring Factions non è un album che mi esalta o mi fa gridare al capolavoro...però improvvisamente apro gli occhi ed esamino i fatti, e quello che riscontro è che da parecchio tempo lo ascolto di continuo. Una di quelle cose a cui non si fa caso, ma che poi si afferra all’improvviso. E’ diventato una specie di droga, ne sono dipendente, quelle parti strumentali che prima galleggiavano libere nell’aria ora scorrono nelle mie vene come un fluido vitale perfettamente mescolato ai globuli rossi e alle piastrine. E ora tutti i brani hanno un senso, e sono uno più stupendo dell’altro. Mi rendo ancora conto di quell’eccessiva leggerezza sonora che fin dal principio non mi è andata a genio, ma l’album scorre via perfetto così com’è, senza ostruirmi le vene, senza creare embolie...ormai è parte di me, del mio fisico, dei miei processi vitali. La voce però fa ancora schifo, anzi è peggio che mai: col progredire dell’apprezzamento di tutto il resto essa assume un ruolo ancora più fastidioso e insopportabile.

A questo punto la prestazione canora di Aulie merita una menzione speciale - o forse sarebbe meglio dire minzione speciale - accuratamente separata dal resto della recensione. E’ vergognosa, allarmante, ignominiosa, non ho idea di cosa gli sia saltato in testa, so soltanto che lo scream di Axiom si è trasformato in un urlo sporco e stonato - ma dico io, si può stonare urlando? Roba dell’altro mondo! - del tutto fuori luogo e dissonante rispetto alla musica, slegato oltre ogni limite e fastidioso come il sole sulla pelle, come l’acciuga in un piatto vegetale, come l’etichetta in un paio di slip. Fortunatamente i momenti cantati costituiscono una piccolissima frazione del disco complessivo, e quindi, sebbene a fatica, sono tollerabili.

Tornando al disco nel suo ensemble, perché ho scritto una recensione “a fasi”? Perché lungo il percorso che mi ha portato ad amarlo questo disco ha suscitato in me emozioni e giudizi discordanti, e passarci sopra limitandosi a parlarne bene sarebbe stato riduttivo. Così ho optato per un punto di vista cronologico, più educativo. Alla fine comunque il risultato è il medesimo: Warring Factions è un disco molto bello dal gusto tipicamente settanti ano, un gusto settanti ano della maggior raffinatezza, uno scenario in cui le fazioni rivali - i.e. le parti strumentali - convivono in un delicato equilibrio che però è quanto basta per conferirgli un grande splendore. Se poi la band avesse annoverato tra le sue fila un cantante degno di essere definito tale, invece che un pescivendolo con la raucedine, questo equilibrio sarebbe stato ancora più splendido.

01 - The Tunguska Incident (08:45)
02 - Sierra Day (05:53)
03 - Phobos Anomaly (06:20)
04 - An Exercise In Depth Of Field (12:16)
05 - At His Wit's End (07:59)
06 - Cloudscaper (07:42)
07 - Prime Warring Eschatologist (12:39)

venerdì 1 luglio 2011

Disillusion - "Back To The Times Of Splendor"

Metal Blade, 2004
Esagitato, feroce e stupendamente eclettico: questi sono i primi tre aggettivi che mi vengono in mente per descrivere questo lavoro dei Disillusion, gruppo tedesco dedito ad un genere a metà tra il progressive e il melodic death metal, amalgamati in un fantastico connubio di tecnica, ricercatezza e attitudine piacevolmente distruttiva.

"Back To The Times Of Splendor" è il primo full - length della band, pubblicato (addirittura dalla Metal Blade) dopo diversi EP e nastri demo, e fin dal primo ascolto non può non colpire l'attenzione con un brano camaleontico come "And The Mirror Cracked", introdotto da una melodia arabeggiante e da una chitarra impazzita che vortica unitamente alla sezione ritmica, andando quasi a simulare un giro della morte, quella sensazione che si prova sempre ascoltando i migliori gruppi Technical Death. Ritmiche serrate e tecnicissime, unite ad una voce abrasiva e rabbiosa, ci lasciano senza respiro, prima di cedere il posto ad una voce pulita dalla notevole estensione nonchè dall'eccellente interpretazione. Qualche passaggio di tastiera in sottofondo si incastra bene nel fiume strumentale, che conosce raramente dei momenti di pausa: ecco perchè il primo aggettivo che ho usato per descrivere l'album è stato proprio "esagitato". Ma i Disillusion sono capaci anche di rallentare il passo e proporre dei momenti davvero seducenti, come troviamo a metà brano: stupende melodie di chitarra elettrica pulita e chitarra acustica, dal piglio quasi scherzoso controbilanciato dalla malinconia di un pianoforte in sottofondo, ci fanno dimenticare di aver appena ascoltato un'ecatombe sonora e ci ammaliano immediatamente, salvo poi abbandonarci per cedere il posto ad una ripetizione della prima parte.

Basterebbe questo primo, esaltante brano per voler spendere i soldi necessari a procurarsi il CD, ma non è finita qui: andando avanti il disco non fa che migliorare, grazie agli irresistibili refrain di "Fall", dalle sonorità più vicine al death melodico (ma mai di quello becero e orrendamente commercializzato), oppure con la spiccata pesantezza di "Alone I Stand In Fires", dai toni nervosi e tesi e dalle ritmiche costantemente instabili. Mirabile, in quest'ultimo brano, è il connubio tra voce pulita e voce growl, quasi compenetrate l'una con l'altra, come nella migliore tradizione prog - death. Un pezzo grosso in arrivo è "Back To The Times Of Splendor", lunghissima suite di quasi quindici minuti, introdotta da una meravigliosa melodia d'archi, che quasi subito lascia esplodere un muro chitarristico impressionante, che poi si sfalda in una continua evoluzione ritmica e sonora, per quello che probabilmente è il brano più aggressivo e spinto dell'intero lotto. Stupefacente è l'energia che emana dalle note dei Disillusion, un'energia mai fine a sè stessa e che non stanca mai, qualsiasi sia la durata delle composizioni: la varietà di soluzioni utilizzate è fin troppo spiccata per permettere all'ascoltatore di annoiarsi (nonostante l'uso delle tastiere sia relativamente poco frequente, e la stragrande maggioranza della musica sia retta dalla chitarra ritmica e dalla voce). I toni cambiano con la rilassante "A Day By The Lake", stavolta meno spinta nelle sue distorsioni e più squisitamente melodica, quasi "rock", senza però dimenticare una profonda vena malinconica di fondo che la rende perfino struggente. L'album si chiude con un pezzo ancora più chilometrico, "The Sleep Of Restless Hours", brano dai toni acidi e a tratti inquietanti, più lento nelle ritmiche (che rimangono sempre e comunque intricate), ma che conta anche qualche apertura melodica dove fanno capolino dei tappeti di tastiere, che riescono a non coprire tutto e a non risultare fuori luogo.

Con questo esordio i Disillusion si sono guadagnati il favore della critica e dei fan, grazie ad una perizia tecnica notevole, ad un'ottima capacità di songwriting e ancor più all'abilità di non trasformare la loro musica in un polpettone pseudo - progressive poco digeribile e poco fruibile. Nulla di tutto questo: "Back To The Times Of Splendor" è un album fresco, genuino e sincero, suonato con passione e con eclettismo. Per essere un debutto, posso tranquillamente dire che si tratta di un disco eccezionale, dalle mille sfaccettature e che, nonostante l'apprente impatto "schiacciasassi", va gustato poco per volta e scoperto pian piano. Lascio a voi il compito.

01 - And The Mirror Cracked (8:27)
02 - Fall (4:54)
03 - Alone I Stand In Fires (6:53)
04 - Back To The Times Of Splendor (14:39)
05 - A Day By The Lake (4:53)
06 - The Sleep Of Restless Hours (17:02)