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mercoledì 28 dicembre 2011

Wodensthrone - "Loss"

Bindrune Recordings, 2009
Quando ho scoperto gli Esoteric, mi sono detto: che band fenomenale ho scovato. Poi sono andato a controllarne la provenienza: britannici. E fin qui tutto bene. Poi mi è capitato di scoprire i Fen, altro gruppo di caratura superiore (seppur in tutt'altro genere), e sono andato nuovamente a controllarne la provenienza: sempre britannici. Ora scopro questi Wodensthrone, vengo immediatamente catturato dalla loro musica al primo ascolto, e per scrupolo vado ancora una volta a controllare da dove vengono: britannici anche loro. Allora forse non è un caso. La Gran Bretagna è stata importantissima per l'heavy metal, è praticamente la nazione in cui questa musica ha avuto origine: Black Sabbath, Deep Purple, Iron Maiden, Saxon...gran parte delle band storiche arrivano da lì. Sarà che i gruppi inglesi hanno davvero una marcia in più? A giudicare da quel che trovo nel debutto dei Wodensthrone, questa strana tesi pare ulteriormente confermata.

Dopo la necessaria gavetta, che conta un paio di split con altre band, il combo giunge a pubblicare il primo album "Loss", gettando un nero velo di depressiva solennità sulle nostre anime. Pescando dai grandi nomi del black metal pagano - naturalistico di stampo prevalentemente melodico, vale a dire Fen, Wolves In The Throne Room e Primordial (dei quali sono ben rintracciabili e delineabili le influenze), questi cinque ragazzi assemblano settanta minuti di musica di grande intensità, capace di farci piombare immediatamente nel mezzo di una fredda foresta nordica, mentre tutto attorno a noi albergano presenze arcane e malvage, pronte a ghermirci con i loro gelidi artigli. Altre influenze che mi vengono in mente potrebbero essere gli Alcest, con le loro atmosfere trasognate, o i Raventale, con le loro fredde stratificazioni chitarristiche e i ritmi ipnotici. "Loss" è uno dei pochi album black metal che posseggono qualità sonora elevata e che contemporaneamente non soffrono di tale strappo alla regola, ben conoscendo l'assioma secondo il quale il black metal, per essere autentico, deve essere grezzo e poco rifinito. "Loss" è invece un disco elegante, ben prodotto, che impone al classico e feroce black metal una direzione spostata verso la solenne contemplazione, più che sulla cruda aggressività. Non che il disco non sia irruento e potente: semplicemente, non si tratta di quell'aggressività nichilista e distruttiva tanto cara al black metal più radicale, ma una semplice espressione di sentimenti forti e non per forza negativi. Solo in alcuni casi circoscritti, come per esempio nella radicale e rocciosa "Black Moss", si percepiscono chiari intenti distruttivi nel sound.

I Wodensthrone hanno saputo prendere il meglio di ogni band che suona black metal atmosferico, buttandoci dentro quel tanto di personalità che è sufficiente per non etichettarli come meri cloni. Dai Primordial hanno preso le atmosfere epiche e drammatiche, rese alla perfezione anche grazie ai tappeti di tastiere e ai cori, che scelgono saggiamente di rimanere in sottofondo e nutrire la musica con garbo, invece che con prepotenza. Dai Fen hanno preso la delicatezza delle melodie, il gusto per le parti acustiche e la pesante malinconia di fondo, talmente netta da risultare palpabile. Dai Wolves In The Throne Room, principale influenza della band, hanno invece preso le ritmiche potentissime e le chitarre che si ergono come muri invalicabili, riverberando continuamente in tempeste di riff e investendoci con tappeti sonori di eccezionale bellezza. Ascoltate per esempio l'opener track, "Leodum On Lande": sembra uscita direttamente da "Black Cascade". Dai "lupi", inoltre, i Wodensthrone hanno preso anche le linee vocali, che consistono spesso in un sorprendente screaming "corale", dando l'impressione che non sia solo un uomo a cantare, ma tutta l'umanità che unisce i propri lamenti di dolore in uno solo.

Cosa mettono di personale i Wodensthrone in tutto questo? Forse l'originalità non è il loro forte, ma ascoltando il disco è impossibile non rendersi conto che una musica di siffatta qualità scaturisce principalmente dal cuore dei musicisti, e non può essere relegato a semplice imitazione. Le imitazioni lasciano sempre un po' di amaro in bocca, mentre al contrario "Loss" lascia a bocca aperta, destreggiandosi tra brani molto lunghi e dinamici, dalle ritmiche incalzanti e virtuose, basati su melodie incantevoli che fanno presa immediatamente. Ascoltate per esempio la bellissima ed enfatica "Heofungtid", o la maestosa e tonante chiusura di "That Which Is Now Forgotten" (uno dei pezzi più incredibilmente esaltanti e ricchi d'atmosfera che io abbia mai sentito, e che finisce su un corale pulito da brividi), o l'evocativo intermezzo acustico "Pillar Of The Sun", carico di antiche leggende, e vi renderete conto di come si possa toccare le corde più profonde dell'anima con poche, sapienti note e tanta, tanta atmosfera. Aggressività e melodia, furia cieca e introspezione, imponenza e minimalismo; tutto è perfettamente calibrato e si incastra come un armonioso puzzle, nel quale ogni tassello è al suo posto e non potrebbe essere sostituito da un altro migliore. Davvero non riesco a trovare difetti rilevanti a questo lavoro, che ha il pregio di essere sia immediato sia longevo, dato che comunque il materiale proposto è parecchio, e certamente per assimilarlo appieno è necessario del tempo. Forse alcuni passaggi sono un po' prolissi e la scorrevolezza del disco ne risente, ma non ritengo che questa sia necessariamente una pecca: in fondo, quello che il disco vuole comunicarci è ciò che si prova durante una lunga passeggiata in un bosco innevato, affacciandosi su strapiombi maestosi e giganteschi, mentre i lupi ci osservano da prudenti distanze e si chiedono cosa ci facciano degli umani nel loro territorio. Provare queste sensazioni può tranquillamente valere qualche minuto in più del nostro tempo. Procuratevelo, non ve ne pentirete.

01 - Fygenstream (3:11)
02 - Leodum On Lande (6:58)
03 - Heofungtid (8:14)
04 - Those That Crush The Roots Of Blood (10:28)
05 - Black Moss (12:42)
06 - Upon These Stones (11:00)
07 - Pillar Of The Sun (5:25)
08 - That Which Is Now Forgotten (11:32)

sabato 24 dicembre 2011

Woods Of Desolation - "Torn Beyond Reason"

Northern Silence Productions, 2011
L'esordio "Towards The Depths" era un album ombroso, depressivo e inguaribilmente malinconico; dello stesso stampo era il mini - cd "Sorh", che confermava gli australiani Woods Of Desolation come degni alfieri del depressive black più introspettivo e decadente, non votato ad una tragica disperazione esistenziale come può essere quella espressa da gruppi come Nyktalgia e Forgotten Tomb, ma piuttosto ad una silenziosa contemplazione di scenari tristi e sconsolati, permeati da una bellezza glaciale e nebbiosa. Già allora il duo mostrava un discreto talento e un'attitudine interessante, seppur piuttosto derivativa: è però con la terza uscita discografica, cioè questo "Torn Beyond Reason", che il gruppo compie un notevole salto nella propria evoluzione (dovuto in buona parte al cambio di line - up).

Il depressive black cupo e ferale degli esordi si trasforma improvvisamente in una musica meno impenetrabile e più immediata, che strizza l'occhio al meloblack e approda in un terreno spinoso, dove è facile risultare melensi o scontati. Non è assolutamente questo il caso dei Woods Of Desolation, che su una base musicale sostanzialmente scarna riescono a imprimere sentimenti in apparente antitesi come la tristezza e la felicità, sposandoli con eleganza e rendendoli un tutt'uno inscindibile e fascinoso. Le sei composizioni dell'album mantengono i principali stilemi dei suoni black metal (la produzione molto impastata, i muri di chitarre sporche e ronzanti che si accostano allo shoegaze, l'avvizzita voce in screaming che tuttavia concede alcuni azzeccati momenti ad un cantato pulito) ma li contaminano con atmosfere estatiche, sognanti, perfino luminose. La musica abbandona quasi totalmente la lamentosità e diventa grintosa, giocando su ritmiche generalmente più veloci della media, che conferiscono al tutto un aspetto dinamico e potente. L'album è molto omogeneo e scorre con facilità, senza particolari intoppi nè momenti che preponderano sugli altri: l'ascolto assomiglia ad un viaggio nel vasto mondo dei sentimenti umani, e richiama molto le tempeste emozionali che si provano durante un innamoramento, o un'esperienza nuova ed esaltante, o un dolore che piano piano sta passando e cancella le lacrime di dolore sostituendole con lacrime di gioia. Come si può facilmente intuire, la tecnica e il songwriting non giocano un ruolo fondamentale, preferendo ridursi all'essenziale in modo da far risaltare maggiormente la componente emotiva. "Torn Beyond Reason" è un album breve ma molto denso di contenuti: appassionato, irruento e spiccatamente melodico, grezzo e autentico. Una fusione perfettamente riuscita tra due componenti solitamente distinte, vale a dire la calda emozionalità delle melodie e le fredde pulsioni ancestrali del black; non posso fare altro che promuovere a pieni voti i Woods Of Desolation, anche stavolta.

01 - Torn Beyond Reason (6:23)
02 - Darker Days (5:09)
03 - An Unbroken Moment (7:00)
04 - The Inevitable End (9:09)
05 - November (2:44)
06 - Somehow (7:17)

venerdì 23 dicembre 2011

Opeth - "Ghost Reveries"

Roadrunner Records, 2005
Gli Opeth sono una band notoriamente difficile da etichettare, sebbene chiaramente riconoscibili nel loro stile personale, avendo messo insieme influenze provenienti da diversi generi. Si può dire con certezza che abbiano sempre fatto centro con le loro produzioni artistiche, variando stile e registri senza mai snaturarsi e neppure fossilizzarsi su un cambiamento fine a se stesso. 

L’album "Ghost Reveries" è importante dal punto di vista della fusione di stili e di immaginari. Una sonorità chiaramente associabile alla band ma con differenze significative rispetto ai primi album. L’ispida e raccolta oscurità boschiva degli esordi si è evoluta verso un passato perduto, offuscato dal tempo e dalle distanze. In chiave moderna: siderale, non archeologico. Questi panorami sono ben percepibili nel pezzo forte dell’album,” Reverie / Harlequin Forest”, e con ogni probabilità sono frutto di un innesto delle melodie sperimentate con "Damnation" (in particolare il brano “Closure”, la cui sonorità richiama quelle egiziane) e "Deliverance". Il primo con un impianto che evoca una sensazione di calma a volte triste a volte contemplativa, il secondo con ritmi energici, potenti e a tratti alienanti nella loro ossessiva cadenza. "Ghost Reveries" bilancia in modo interessante questi due opposti bisogni dell’uomo, alternandoli nella successione di canzoni ma anche all’interno di brani stessi.

I primi tre brani sono, ad opinione dell’autore, un capolavoro. La ritmicità e la melodia sono lontane dall’assumere le usuali tinte depressive ed evocano un’eruzione vulcanica dilagante, serena e sicura di se, carica del bisogno dell’uomo di liberarsi dalle aspettative sociali ed esprimersi liberamente. Non comunicano odio, rancore, disprezzo per l’altro, ma desiderio di emergere. Il crescendo, a metà di “The Baying Of The Hounds”, sfocia in un fantastico fiume, prima travolgente, poi trascinante. Uno tsunami senza vittime. La parte centrale dell’album si sposta verso il consolidamento di questa immagine, per approdare, nel finale, su pezzi più speculativi. L’esplosione, l’espressione, il riposo. “The Baying of the Hounds”, “Beneath the Mire”, “Atonement”.

Dopo questo album le immagini, evocate da ritmi di batteria e stili melodici, cambieranno definitivamente e non torneranno più su queste colorazioni, abbandonando la sperimentazione introdotta con "Damnation" e virando verso uno stile che negli Opeth non ha avuto antecedenti e costituirà una nota decisamente nuova. "Watershed", misto tra uno stile gothic e fantasy che ben si adatterebbe alle produzioni di Tim Burton, e "Heritage", decisamente improntato al jazz / rock anni 70. L'unica continuità di rilievo col futuro è la comparsa delle tastiere, che in seguito saranno integrate permanentemente nel loro repertorio, come ad esempio nell’ottima “Burden”.

Sicuramente un album di valore, con grande carica interiore, culmine di un'evoluzione stilistica della band.

01 - Ghost Of Perdition (10:29)
02 - The Baying Of The Hounds (10:41)
03 - Beneath The Mire (7:58)
04 - Atonement (6:28)
05 - Reverie / Harlequin Forest (11:39)
06 - Hours Of Wealth (5:21)
07 - The Grand Conjuration (10:21)
08 - Isolation Years (3:52)

giovedì 22 dicembre 2011

Mar De Grises - "Draining The Waterheart"

Firebox Records, 2008
Il Cile è un paese racchiuso in una stretta striscia di terra tra l'oceano Pacifico e la terribile catena montuosa delle Ande. La sua particolare posizione fa sì che sia un luogo ricco di deserti, che si estendono per centinaia di chilometri fino ad incontrare improvvise muraglie torreggianti di montagne, che troncano di netto la vastità di quei vuoti, pur essendo visibili già da lontano. Ascoltando "Draining The Waterheart", secondo lavoro in studio dei Mar De Grises, è facile avere l'impressione di camminare per uno di questi suggestivi luoghi desertici, dominati dalla presenza severa e massiccia di quei distanti monoliti, che scrutano in profondità negli animi e incutono timore anche nei viaggiatori più esperti.

Assimilati al genere doom, ma con ampie variazioni rispetto ai canoni principali del doom stesso, questi cinque cileni amano sperimentare, inserendo nella propria musica consistenti dosi di psichedelia e di elementi noise - atmosferici. Le loro composizioni sono lunghe, sulfuree, continue nel loro incedere, come una lenta frana che procede inesorabile nel corso dei secoli, consapevole che nulla la potrà fermare. Ci avevano già sorpreso e deliziato con il precedente e originale debutto "The Tatterdemalion Express", che offriva una musica cupa, contorta e caratterizzata da atmosfere dissonanti e inquiete che si contrapponevano a momenti di pace solo apparente, in realtà pregna di arcani segreti e popolata da bestie cadute in un sonno profondo. Con questo lavoro invece il quintetto sposta le coordinate sonore su un sound maggiormente improntato all'atmosfera, al viaggio psichico attraverso luoghi reconditi e misteriosi, alla desolazione delle immagini evocate: provate ad ascoltare l'opener "Sleep Just One Dawn" senza immaginarvi a vagare come viandanti reietti e maledetti, attraverso steppe aride e inospitali, dove non piove mai e l'unico movimento è quello del vento che soffia. I sudamericani sono conosciuti per essere un popolo caldo e passionale, ma quello che i Mar De Grises ci comunicano con la loro musica è tutto l'opposto, e costituisce la faccia nascosta dell'America Latina: le sue sterminate pampas, territori brulli e incolti, quasi senza vita. E in fondo ad esse, la solennità di alcune tra le montagne più alte del mondo, perfettamente simboleggiate dal suono pieno e roccioso delle chitarre, perennemente impegnate a creare stratificazioni sonore enigmatiche e difficili da penetrare e da comprendere. Prolungate contorsioni delle chitarre soliste (a tratti quasi schizofreniche e ipnotiche, grazie alle particolari dissonanze), batteria costantemente pronta a far entrare la doppia cassa non appena l'ascoltatore tenta di rilassarsi, freddi tappeti di tastiere che sanno sempre stare al loro posto senza invadere la scena, voce cavernosa e allucinata (che canta spesso in spagnolo), sempre in bilico tra uno sporco growl, un sussurro accennato e una voce simil - pulita; ogni elemento si amalgama alla perfezione con gli altri e contribuisce a rendere "Draining The Waterheart" un album ombroso e inizialmente ostico, ma dotato di un fascino eccezionale. Per certi versi può apparire addirittura noioso, poichè non si rivela immediatamente nella sua bellezza: per capire un disco come questo bisogna avere pazienza, dargli il tempo di scavare nell'anima, fino a riuscire ad immedesimarsi appieno nelle sensazioni che esso evoca. Bisogna comprendere a fondo l'allucinato vagabondaggio che si cela dietro gli intermezzi ambient alla fine dell'opener track o in "Fantasia"; la pacata rassegnazione della lenta "Kilometros De Nada"; l'urente tensione delle articolate melodie di "Deep-Seeded Hope Avant-Garde" o di "Wooden Woodpecker Conversion"; la serenità di brani pacati e commoventi come "One Possessed", dal finale estremamente romantico e sognante, dove il protagonista diventa un intensissimo pianoforte. Ogni melodia ha un sapore di mistero, ogni armonia non rivela mai appieno i propri sentimenti: tutto quello che c'è in questo album va interpretato, non è immediatamente fruibile.

Come ho detto a proposito del loro debutto, è molto difficile classificare i Mar De Grises in un genere particolare, e anche questo "Draining The Waterheart" fatica a trovare una collocazione precisa all'interno dello sterminato mondo metal. Si tratta comunque di un disco meditativo, ricco di atmosfera e dal sapore mistico e insondabile. La pesantezza dei suoni si sposa con un songwriting decisamente sopra la media, consegnandoci un prodotto che è destinato a rapire tutti gli amanti del metal non convenzionale. Vi avverto, però: prima di dare un giudizio definitivo su questo album, dategli il tempo di prendervi, perchè io ho impiegato mesi e mesi prima di comprendere il reale valore di ciò che avevo tra le mani. Ora che l'ho scoperto, però, non lo lascio più andare.

01 - Sleep Just One Dawn (8:23)
02 - Kilometros De Nada (10:53)
03 - Deep-Seeded Hope Avant-Garde (8:29)
04 - Fantasia (3:10)
05 - Wooden Woodpecker Conversion (6:13)
06 - One Possessed (7:07)
07 - Summon Me (6:23)
08 - Liturgia - Convite Y Configuracion - Purgatorio - Dialogo Infierno (13:34)

mercoledì 21 dicembre 2011

Apagoge - "Ambition"

Autoprodotto, 2011
"L'apagoge è una figura retorica utilizzata in particolare in campo filosofico, logico e giuridico assimilabile alla reductio ad absurdum di Zenone di Elea, anche se più propriamente la apagoge non è una dimostrazione bensì la giustificazione della falsità di un'affermazione sottolineando l'assurdità delle conseguenze applicative."

Quando ho letto la descrizione che riportano gli Apagoge a proposito di loro stessi, ho letto la parola "symphonic"; essa, unita ai testi dai titoli tolkieniani, mi ha fatto pensare subito ad una band che si collocasse a metà tra il suono epico e possente dei Summoning e l'epica irruenza dei Blind Guardian. Non appena ho fatto partire la prima traccia, "Ambition", sono rimasto molto sorpreso dall'assalto sonoro che mi ha aggredito, e ho capito di aver fatto i conti senza l'oste. Molto poco riferibili ai Summoning, visto lo sbilanciamento verso le chitarre più che verso le tastiere; troppo power - oriented per essere assimilati ai Blind Guardian, notoriamente dediti ad un metal spiccatamente epico e fantastico, che si è progressivamente distaccato dai ritmi veloci ed è approdato a lidi più operistici. Ciò che propone questa giovane band di Ravenna, alle prese con il secondo Ep che fa seguito al precedente "Berserk", è invece un power metal dalle tinte vagamente sinfonico / epiche, meno accentuate di quel che si potrebbe pensare, e più assimilabie al filone thrash e progressive, generi che sempre più spesso vengono uniti al power metal nel tentativo di rendere il songwriting meno statico. Tentativo riuscito da parte degli Apagoge, che assemblano quattro tracce piacevoli e capaci di coinvolgere l'ascoltatore, picchiando duro quando serve ma riservandosi ampie fette di melodiosità. Qualità sonora eccellente, riffing energico, parti vocali assolutamente protagoniste della scena grazie a numerosi cambi di registro e timbriche (si passa dalla voce pulita e teatrale fino addirittura ad un sorprendente growl!), ritmiche corpose e tecniche, capaci di variare con sufficiente fantasia per spezzare l'andamento del brano e non renderlo una cavalcata troppo monocorde; sono questi gli elementi sui cui la band fonda il proprio operato, dimostrando buone potenzialità. La fusione dei generi è riuscita molto bene per quel che riguarda questo breve Ep di esordio: c'è da augurarsi che il gruppo proceda per questa strada e riesca ad aggiungere ancora qualche elemento al proprio sound, così da risultare completamente personale e convincente, traguardo che a giudicare dalle premesse non appare così lontano.

Sito ufficiale

01 - Ambition (5:51)
02 - Smeagol (5:09)
03 - The Wooden Door (6:03)
04 - Shadow From The Past (4:05)

Uruk-Hai - "Unholy Medieval Congregation"

Die Todesrune Records, 2006
Gli Uruk-Hai sono una particolare razza di orchi della Terra di Mezzo, perfetti per la guerra. Sono resistenti alla luce, posseggono resistenza e forza maggiori rispetto ai comuni orchi e amano nutrirsi di carne, anche umana. Si distinguono dagli altri orchi per via del colore scuro della pelle e delle dimensioni generalmente maggiori.

Disambiguazione - Se stai cercando qualsiasi altro significato di Uruk-Hai, vedi “Uruk-Hai (disambigua)”.

Con il termine Uruk-Hai ci si può riferire a:
* Uruk-Hai, band austriaca Ambient.
* Uruk-Hai, band spagnola Black Metal.

Noi qui ci riferiamo ai secondi, quelli spagnoli, che dopo qualche anno di gavetta giungono al primo full-length. Gli Uruk-Hai sono dediti ad un Raw Black Metal nel senso più stretto del termine: marcio, quasi rancido, e in più intriso di succulenta blasfemia medievale. E paradossalmente la recensione potrebbe finire qui, dopo appena un’intro wikipediana e tre righe scarse, perché non c’è nient’altro da dire. La band non compie alcun minimo tentativo di variazione musicale, non una minima contaminazione con elementi che non appartengano allo stretto cerchio del Raw Black, neanche il più piccolo sprazzo di creatività: questo è ciò che vogliono gli Uruk-Hai. Siete appassionati al genere? Allora probabilmente adorerete Unholy Medieval Congregation. Preferite qualcosa di più ricercato e creativo? Allora probabilmente vi annoierà dopo i primi tre o quattro brani. Il Raw Black non potete proprio reggerlo? Allora vi sembrerà spazzatura, uno dei tanti dischetti underground tutti uguali tra loro con poco da comunicare. Questa sua caratteristica, questo suo essere così quadrato, così adeso ad un genere preciso, fa il bello ed il cattivo tempo: riservato a chi adora il marciume musicale, il grezzume, il sozzume del buio Medioevo in cui l’opposizione al cristianesimo consisteva in una serie di improbabili riti occulti pagani. Probabilmente, quando marciavano sulla Terra di Mezzo, gli orchi portavano con sé il loro iPod con su questo album.

Quanto a me, questa completa mancanza di originalità non mi sembra una grave pecca come invece magari vorrebbero far credere certi ascoltatori monotematici fissati solo con l’Avantgarde e la creatività. A conti fatti si tratta di una proposta grezza e feroce che non scade mai in mid-tempo commerciali - cosa che io reputo ben più grave - e in cui trovano spazio anche soluzioni molto interessanti, come ad esempio il riff della titletrack o il tetro sacrilego arpeggio di The Return Of The Pagan Fullmoon. Quindi perché disdegnarla? Anzi, meno male che esistono anche dischi semplici e diretti come questo che per le mie orecchie costituiscono un piacevole stacco dal mio complesso mondo musicale; perché in fondo tacciare di monotonia tutti gli album di questa categoria non significa forse cadere nella monotonia di ricercare a tutti i costi qualcosa di sempre nuovo e differente?

01 - Under The Embrace Of The Black Plague (05:29)
02 - My Sword For The Shadows Throne (04:34)
03 - Unholy Medieval Congregation (03:54)
04 - The Dark Veil Of The Winter Forest (03:51)
05 - Interludio (00:45)
06 - The Return Of The Pagan Fullmoon (03:22)
07 - Knights Of The Castle Of The Black Sun (03:45)
08 - Filosofia Oculta (04:36)
09 - The White Order Of Lucifer (04:16)
10 - Night Of The Templars (02:25)

Meshuggah - "ObZen"

Nuclear Blast Records, 2008
I Meshuggah sono forse la band che meglio rappresenta il concetto di “evoluzione musicale”. Hanno saputo crearsi uno stile unico e immediatamente riconoscibile, e una volta fatto ciò invece che sedersi comodamente sugli allori intasando la loro discografia con album tutti uguali si sono sempre presi il loro tempo e hanno partorito qualcosa di sempre diverso dalla volta precedente. Sono passati dalla placida claustrofobia degli acclamati None e Destroy Esare Improve al Post-Thrash metallico e super-aggressivo di Chaosphere, per poi rallentare nuovamente incupendosi e appesantendosi col machiavellico Nothing e quindi trovare una nuova svolta dinamica e progressiva con i magistrali I e Catch 33. Tre anni dopo i Meshuggah sono di nuovo in pista, e stavolta tocca ad ObZen.

Questo ObZen non è né un punto di arrivo né tantomeno l’inizio di qualcosa di nuovo: è semplicemente un ulteriore gradino evolutivo nella lunga storia di questa band, gradino evolutivo che si configura come un punto di cospicua confluenza di tutte le caratteristiche citate sopra, che sapientemente mescolate e composte l’una con l’altra divengono ora le sfumature di un tutt’uno che definire picassiano è un eufemismo. ObZen continua a coltivare l’attitudine machiavellica dei lavori più recenti, ma lo fa con un approccio decisamente più diretto ritrovando l’impatto dei primi dischi, approccio che oscilla costantemente tra la ferocia rabbiosa di Chaosphere e l’andamento inibitorio di Destroy Esare Improve, il tutto riccamente speziato di Jazz come è sempre stata tradizione per i Meshuggah. ObZen sembra quindi il crocevia di tutte le differenti fasi creative che la band ha attraversato negli anni, neanche fosse il punto triplo dell’acqua, ma non si tratta solo di sintesi: no, è anche progressione, innovazione, ed è un’ulteriore passo che ci proietta in un futuro discografico ancora tutto da scoprire.

Fin dall’inizio ci si accorge che, ancora una volta, qualcosa è cambiato: Combustion, perfetta come opener, è un brano davvero atipico e per certi versi quasi orecchiabile che ha il merito di richiamare l’attenzione fin da subito. E che dire della scoppiettante Bleed? Un autentico capolavoro, forse il momento dell’album più vicino ai primi lavori della band - come si può ascoltarne l’assolo senza richiamare alla mente il fantastico Destroy Erase Improve? Proseguendo ci si immerge sempre più in una musica labirintica e asfissiante, un Math invalicabile dal sound sempre più moderno ed enigmatico che ormai ha definitivamente soppiantato il vecchio Post-Thrash, Math che prende totalmente il sopravvento in quello che è decisamente il punto più alto di tutto il disco: la coppia finale di brani, Pravus e Dancers To A Discordant System, gli Scilla e Cariddi da superare se si vuole terminare l’ascolto, le Colonne d’Ercole che dividono il futuro ancora ignoto della band da questo loro grande presente che continua a regalarci capolavori. E già che siamo arrivati in fondo è sufficiente citare la strofa sulla quale il disco si chiude per farci un’idea delle tematiche toccate dalla band:

“We believe - so we're misled
We assume - so we're played
We confide - so we're deceived
We trust - so we're betrayed”


I Meshuggah portano con sé ancora una volta un messaggio forte, e concettualmente e musicalmente, due facce queste di una stessa moneta che vi offrirà da un lato la testa dell’umanità su un piatto d’argento e dall’altro la croce dell’inerme cecità che noi tutti, in fondo, scegliamo di caricarsi sulla schiena: un perfetto ritratto dell’umana specie, debole e timorosa, superstiziosa e credulona, intenta a fuggire dalle proprie paure invece che affrontarle e nel frattempo messa sempre più alle corde dalla claustrofobia che nutre nei confronti della realtà, realtà che ormai la avvolge e la paralizza nelle sue gigantesche spire, le spire di questo serpente dispettoso che prima o poi la asfissierà, la sterminerà, la sradicherà.

01 - Combustion (04:11)
02 - Electric Red (05:53)
03 - Bleed (07:19)
04 - Lethargica (05:49)
05 - ObZen (04:26)
06 - This Spiteful Snake (04:54)
07 - Pineal Gland Optics (05:14)
08 - Pravus (05:12)
09 - Dancers To A Discordant System (09:36)

martedì 20 dicembre 2011

Moonsorrow - "Voimasta Ja Kunniasta"

Spikefarm Records, 2001
"Della forza e dell'onore": questa è la traduzione del titolo del secondo album dei Moonsorrow, gruppo finlandese tra i più noti in ambito Folk - Black metal, e ormai diventati un assoluto punto di riferimento per le giovani band che approdano a questo genere. "Voimasta Ja Kunniasta" è sicuramente uno dei dischi più riusciti e rappresentativi della carriera dei Moonsorrow, se non addirittura il più importante; di certo è il più conosciuto, e probabilmente il più acclamato. Ascoltare questo album è come immergersi in una battaglia combattuta tra furore, spade e sangue, nella quale nuovi eroi nascono e i soldati periscono per una causa importante, come l'indipendenza del loro popolo o, più semplicemente, la sete di gloria e di conquista. Ciò si esprime tramite sonorità che fondono sapientemente le ruvide distorsioni strumentali e vocali del black metal con il calore e l'epicità della musica popolare, quella che veniva suonata da corni e flauti all'approssimarsi dei due eserciti, schierati uno contro l'altro. Chitarre irruente ma spesso lasciate in secondo piano, ritmiche veloci, tappeti di tastiere molto presenti e dal suono corposo, sezioni corali possenti ed epiche, melodie che sanno variare dallo sbarazzino al solenne: "Voimasta Ja Kunniasta" è il risultato di tutto ciò. 

Dopo la breve ma radiosa strumentale "Tyven", gemma di melodia solare e gioiosa che richiama tantissimo la tradizione nordica (e che personalmente considero la più bella intro della storia del metal), veniamo subito investiti dalla potenza di "Sankarihauta", brano che non concede sconti e si avventa subito nella mischia, con la spada tratta e il cuore gonfio di passione e orgoglio. Ancora meglio va "Kylan Paassa", introdotta da un sinistro scintillare di spade e dotata di un'atmosfera sicuramente più severa e cruda, nonostante le tastiere tentino di mitigare il dramma che sta per consumarsi. Tuttavia, il suono di uno scacciapensieri e di una fisarmonica riesce a mantenere quel carattere folkloristico che si respira costantemente, anche nei momenti più duri e veloci, che si susseguono l'uno dopo l'altro dando prova anche di una buona dote compositiva. Questo aspetto è inoltre esaltato dal fatto che la band canta in finlandese. Più cadenzata è invece la successiva "Hiidenpelto / Hapean Hiljaiset Vedet", lenta e minacciosa all'inizio, poi quasi strappalacrime, con il suo sviluppo malinconico e affranto, che andrà a concludersi con un finale potente e drammatico, esaltato da cori che raggiungono il culmine dell'espressività. Dopo un brano così emotivamente schiacciante, arriva un pezzo più scorrevole e positivo come "Aurinko Ja Kuu", quasi una rinascita dopo un momento di sconforto, nel quale gli strumenti folk riescono a creare un'atmosfera quasi festaiola, anche se qualche residuo di malinconia tarda a sparire. Ormai irrimediabilmente immersi in questo mood battagliero ed epico, raggiungiamo l'ultimo brano e troviamo il capolavoro. "Sankaritarina", di stampo quasi bathoriano, è il brano più lungo del lotto (quasi quattordici minuti) ed è quello con cui il disco trova il suo compimento: la morte dell'eroe, che dopo tante battaglie vinte è costretto a perire, ma sempre in gloria e senza perdere nulla del suo prestigio, anzi guadagnando l'immortalità. Il suono del mare ci introduce gentilmente al brano, mentre una melodia estremamente evocativa prende forza poco alla volta, in un crescendo di strumenti che mette i brividi. Quando il brano esplode e comincia la cavalcata, non ce n'è più per nessuno: l'ascoltatore viene trascinato in un mondo fantastico, nel quale vivrà in prima persona tutte le vicissitudini dell'eroe, fino a sentirsi un eroe egli stesso. Il finale, intenso e ombroso, lascia poi spazio ad una ripresa dell'iniziale tema di "Tyven", che suona in sordina mentre il rumore del vento ci dà l'ultimo saluto.

Pietra miliare del folk - black, "Voimasta Ja Kunniasta" brilla per la sua eccezionale capacità evocativa e per un equilibrio perfetto tra le sue componenti, guadagnandosi così un'ottima longevità e il parere favorevole di una vasta fetta di pubblico. Provate anche voi ad ascoltarlo senza immaginarvi protagonisti di una saga nordica, mentre viaggiate a cavallo per miglia e miglia, cercando villaggi in cui raggranellare soldati che poi andranno a formare il vostro esercito, che conquisterà il mondo intero. Difficilmente ci riuscirete: le immagini evocate da questa musica sono così potenti che risulteranno evidenti a qualsiasi ascoltatore. Non mi rimane dunque che consigliare vivamente questo album a chi, nella musica, ricerca viaggi di fantasia e storie da raccontare.

01 - Tyven (1:52)
02 - Sankarihauta (7:41)
03 - Kylan Paassa (7:38)
04 - Hiidenpelto / Hapean Hiljaiset Vedet (9:20)
05 - Aurinko Ja Kuu (8:14)
06 - Sankaritarina (13:50)

lunedì 19 dicembre 2011

The Morningside - "Moving Crosscurrent Of Time"

BadMoodMan Music, 2009
Ritornano i russi The Morningside con il loro secondo full - lenght, dopo l'interessante e bucolico esordio denominato "The Wind, The Trees And The Shadows Of The Past". Titoli sempre lunghi per i dischi di questo quartetto, così come sono lunghe le loro composizioni, sempre in bilico tra le melodie più calde e le atmosfere più gelide, tra il psichedelico progressivismo del post - rock e l'affascinante grezzume delle sonorità black metal.

La band prosegue la sua evoluzione musicale in modo convincente, partorendo un disco che riprende i punti forti del debut album e li migliora ulteriormente, cesellando i suoni e introducendo anche diverse novità stilistiche. Se il precedente album era un inno alla natura, tendenzialmente pacato e costituito da tracce intensamente malinconiche e ricche di interminabili parti melodiche di chitarra, qui troviamo invece un sound sempre molto articolato dal punto di vista delle chitarre soliste, ma indubbiamente più grintoso e aggressivo, leggermente più spostato verso la componente black e sulla graniticità delle chitarre ritmiche. Dopo l'introduzione, ce ne accorgiamo subito dalla partenza di "Fourteen": quasi a richiamare le sonorità più Katatonia - oriented, la band decide che oltre a pennellare melodie spettacolari è anche capace di ribassare i toni e risultare oscura e impenetrabile, anche grazie ad un growl - scream sempre di ottima fattura, rabbioso e acido (senza scadere in pessimi e strozzati grugniti che non vanno da nessuna parte). Ma presto il gruppo cede alla propria indole e il brano ritorna a perdersi in fughe chitarristiche ispiratissime, che danno quasi l'impressione che gli strumenti stiano parlando, che ci stiano comunicando i più reconditi segreti delle loro anime metalliche. E così va avanti per tutto l'album, regalandoci tracce pregevoli come "Insomnia" e "The Outcome (Admit One)", capaci di smuovere gli animi con le loro melodie comunicative e sincere, che non sono scisse da un'ottima tecnica strumentale e da una meticolosa ricerca a livello compositivo ed esecutivo (vedi per esempio l'elaborata title - track). 

Il disco scorre nel lettore in modo piuttosto omogeneo, puntando sempre tutto sulla raffinatezza delle linee chitarristiche, sull'ottimo growling (che rimane però quasi sempre in secondo piano rispetto agli strumenti) e all'attitudine progressive che costituisce l'ossatura dei brani, rivalutati però in chiave prettamente metal per quanto riguarda le sonorità. I brani hanno infatti mantenuto la loro natura camaleontica, variando spesso i propri temi portanti e riuscendo sempre a non risultare banali nè monotoni, ed è così che riescono a non annoiare mai nonostante il minutaggio rispettabile. Ascoltare "Moving Crosscurrent Of Time" dà l'idea di un piacevole viaggio in automobile attraverso paesaggi mutevoli, senza scadere nella malinconia inguaribile, ma mantenendo sempre un certo piglio di vivere e un'energia di fondo che non si assopisce mai. In sostanza, un lavoro godibilissimo e ben costruito, che pur essendo lontano dall'essere un capolavoro, è sufficientemente curato ed ispirato da meritarsi un degno posto nelle vostre discografie. I fan di gruppi storici come Agalloch, Katatonia e Ulver troveranno nei The Morningside una valida conferma, che non sfigura affatto di fronte ai "maestri".

P.S: Non renderei giustizia all'album se non citassi la copertina: quei raggi di sole che avvolgono l'albero sono tra le cose più belle che ho visto in fatto di copertine di dischi metal. Complimenti!

01 - Intro (4:20)
02 - Fourteen (6:15)
03 - Autumn People (9:11)
04 - Insomnia (6:39)
05 - Moving Crosscurrent Of Time (9:00)
06 - The Outcome (Admit One) (9:58)
07 - Outro (6:52)

sabato 17 dicembre 2011

Moonsorrow - "Kivenkantaja"

Spikefarm Records, 2003
Ci tenevo particolarmente a recensire Kivenkantaja per esprimere un punto di vista diverso da quello generale, secondo il quale questo disco sarebbe un capolavoro di inestimabile valore. A quanto ho avuto modo di sperimentare, tale sembra essere il parere all’unanimità di chi ne parla. Il mio punto di vista è diverso, sebbene sia potenzialmente lo stesso, e onde evitare di essere frainteso specifico fin da subito che non ho intenzione di gettare fango su Kivenkantaja, né tantomeno sui Moonsorrow: a mio avviso si tratta di un disco potenzialmente perfetto da parte di una band che ha in sé qualcosa di leggendario. Quindi veniamo subito alla domanda fatidica: cos’ha Kivenkantaja, a mio modo di vedere, che non va? Cosa gli impedisce di eccellere?

Dal punto di vista del songwriting non ho nulla da contestare a chi lo ritiene un capolavoro: i brani hanno un andamento velatamente progressivo che commisto a questo genere musicale così epico ci sta davvero bene, hanno inoltre dei grandi riff, ma soprattutto contengono dei passaggi musicali di notevole maestria, specialmente nella titletrack e in Tuulen Tytär/Soturin Tie. I Moonsorrow in questo sono sempre stati maestri, e il loro modo di scrivere musica mi sembra unico. Io credo però che tutto quanto ci sia di eccellente in questo disco sia drammaticamente rovinato dalle sonorità delle tastiere. Non fraintendetemi, io sono uno di quelli che adora le tastiere nel Metal; il punto è che le tastiere di Kivenkantaja - e per la verità la stessa cosa si verifica anche in Voimasta Ja Kunniasta, anche se in maniera decisamente minore - sembrano di plastica, finte come un seno rifatto, con quei loro toni fastidiosamente ameni, così smodatamente adatti ad un cartone animato al punto di non farsi prendere sul serio, di non essere credibili. Tanto per prendere l’esempio più lampante, ecco a voi Jumalten Kaupunki: grande brano dal grande songwriting, ma ascoltate le tastiere...ma dai, fanno sul serio? Ho provato a chiedermi più e più volte quale sia il significato di queste sonorità, cosa volesse ottenere la band...toni vichinghi? Impossibile. Epicità? Direi proprio di no. Ilarità festaiola tipica del Folk Metal? Non può essere nemmeno questo. Nonostante i miei sforzi non riesco a darmi una risposta. Più che le tastiere di una band come i Moonsorrow sembrano le tastiere arraffazzonate di una band debuttante che ha registrato il proprio disco in uno scantinato e, per mancanza di mezzi, ha dovuto accontentarsi delle uniche sonorità che aveva a disposizione, nonostante suonassero un po’ circensi. E che non si dica che si tratta di una caratteristica standard del Folk Metal, perché io di band Folk/Viking ne conosco parecchie e nessuna, né tra le più famose e easy-listening come Ensiferum ed Eluveitie, né tra le più sconosciute e raffinate come Kroda e Woodtemple, ha mai utilizzato dei sintetizzatori così orribili e ridicoli insieme.

Come premettevo all’inizio della recensione, sia chiaro che non voglio in alcun modo demolire Kivenkantaja, un disco che comunque ascolto con piacere e i cui passaggi musicali sono in grado di deliziarmi. Io di Kivenkantaja non cambierei nemmeno una nota: è un album scritto magistralmente, sarebbe un delitto imperdonabile volerlo modificare. Quello che dico è semplicemente che andrebbe registrato daccapo eliminando completamente i sintetizzatori e sostituendoli con degli autentici strumenti folk. E’ sufficiente paragonare le sonorità di Verisäkeet, disco che i Moonsorrow pubblicheranno solo due anni più tardi, con quelle di Kivenkantaja per capire di cosa sto parlando.

Mi permetto di fare en passant un piccolo inciso che non c’entra nulla col resto: quando la gente parla di questo disco, gli accostamenti ai Bathory si sprecano. Ora, a prescindere dalla mia opinione sui Bathory, non riesco in alcun modo a vedere le eventuali somiglianze. Mi sembra di paragonare la verdura alla frutta. Non so per quale motivo si tenda ad accostare il Folk finto e sbarazzino di Kivenkantaja al Black/Viking crudo dei Bathory...bah, rimango perplesso.

Raccogliendo le idee espresse in questa recensione posso dirvi che per me ascoltare Kivenkantaja è come innamorarsi perdutamente di una ragazza intelligente, profonda, sensibile, ma così brutta da far fatica a guardarla in faccia. Questo è il dramma interiore che vivo ogni volta che ascolto questo disco, questo il conflitto che mi lacera dall’interno: l’avvertire con tanta empatia la sua intima genialità, e il contemporaneo essere assalito dai rimpianti per non potermelo godere con una strumentazione appropriata. E alla fine mi sento desolato proprio come la splendida outro Matkan Lopussa, desolato e impotente mentre la musica volge al termine. Ma forse in fin dei conti poco male, dato che da Verisäkeet in poi il problema è scomparso. Non mi rimane che l’assillante rimpianto: peccato che i Moonsorrow ci siano arrivati solo allora...

01 - Raunioilla (13:36)
02 - Unohduksen Lapsi (08:17)
03 - Jumalten Kaupunki/Tuhatvuotinen Perintö (10:42)
04 - Kivenkantaja (07:39)
05 - Tuulen Tytär/Soturin Tie (08:36)
06 - Matkan Lopussa (04:54)

giovedì 15 dicembre 2011

Sigh - "Scenes From Hell"

The End Records, 2010
Sembra che negli ultimi anni la figura dei Sigh si sia messa a ruotare con forza attorno all’eccentrica Dr. Mikannibal, la seducente giapponesina dottoressa in fisica e sassofonista che si veste in modo provocante e canta in growl. Il suo avvento nella band, avvenuto a partire dallo scorso Hangman’s Hymn (2007), è stato determinante non solo dal punto di vista musicale, ma anche da quello di immagine: ora nei booklet compaiono solo lei e Mirai anziché, come di consueto, tutto il resto della band, e nel web di discute con interesse su alcuni dei suoi costumi come mangiare insetti, girare nuda per casa e le tre ferree regole da seguire durante la registrazione della voce:
Regola numero uno: registrare sempre nuda.
Regola numero due: prima della registrazione bere sangue di mucca.
Regola numero tre: non masturbarsi prima della registrazione.
Lei dice di non farlo per motivi di immagine, ma solo per spontaneità caratteriale...sta di fatto che, spontaneità o no, la Dr. Mikannibal ha dato una vera scossa ai Sigh dal punto di vista di immagine e fama.

Ma, non prima di aver contemplato la strepitosa cover-art che annuncia la nuova uscita discografica della band, veniamo a parlare di ciò che conta davvero: la musica. Sembra che per la prima volta dopo tanti anni i Sigh siano riusciti ad assestarsi su una precisa proposta musicale: dopo Imaginary Sonicscape (2001), Gallows Gallery (2005) e Hangman’s Hymn (2007), tre album che in buona sostanza prendevano il materiale del disco che li precedeva e lo rinnegavano brutalmente, i Sigh non reinventano sé sessi ma prendono le mosse dall’ultimo Hangman’s Hymn, il quale aveva colpito per la sua ferocia, per la sua velocità e per i numerosi inserti in sax. Ma non provate nemmeno lontanamente ad usare la parola “ripetersi” quando parlate dei Sigh: che l’approccio musicale sia il medesimo è vero, ma ciò non significa che la band abbia copiato sé stessa. Se infatti ogni singolo brano di Hangman’s Hymn risultava particolarmente diretto e semplice nella sua struttura, in Scenes From Hell si trova di tutto: brani feroci come Prelude To The Oracle, Vanitas e Scenes From Hell, l’apoteosi del sax come in L'Art De Mourir e The Soul Grave, e una specie di suite più ponderata che consta del trittico The Red Funeral, The Summer Funeral e Musica In Tempora Belli. Un disco vario insomma che riesce a mantenere tutti i pregi del suo predecessore aggiungendovi qualità novelle quali maggiori rallentamenti, brani più lunghi e articolati, e momenti strumentali più elaborati in cui esce di nuovo tutta l’abilità compositiva di Mirai. In particolare si passa da sofisticate sollecitazioni del pianoforte a violente zaffate in sax, da esibizioni strumentali quasi circensi alla furia ereditata dal Black, da effimere nicchie funeree a possenti cavalcate in stile montagne russe, il tutto con la pantagruelica varietà sonora e la sconcertante naturalezza che da sempre contraddistinguono lo stile di Mirai Kawashima. Pieno, in carne e rubicondo: non saprei come altrimenti descrivere il sostanzioso lavoro che i Sigh hanno compiuto nella stesura e realizzazione di Scenes From Hell, sicura testimonianza di una band in salute.

L’immediatezza delle melodie e la spigliatezza dei riff da un lato, la pomposità sonora e compositiva dall’altro: questa curiosa dualità da vita ad un album molto piacevole che sa coniugare una proposta musicale unica nel suo genere ad uno stile catchy, molto diretto. A ben due decenni di distanza dagli esordi e all’alba dell’ottavo full-length i Sigh sembrano vivere ancora nel pieno delle loro giovinezza e vitalità creativa. Grandiosi!

01 - Prelude To The Oracle (04:12)
02 - L'Art De Mourir (04:57)
03 - The Soul Grave (04:01)
04 - The Red Funeral (06:56)
05 - The Summer Funeral (07:08)
06 - Musica In Tempora Belli (06:01)
07 - Vanitas (06:26)
08 - Scenes From Hell (03:35)

mercoledì 14 dicembre 2011

Akercocke - "Rape Of The Bastard Nazarene"

Goat Of Mendes, 1999
Nel mirabolante mondo del Metal ci sono band che esordiscono con un capolavoro, e che poi vengono ricordate e osannate principalmente per quel disco d’esordio; vi sono poi altre band che invece iniziano in modo un po’ claudicante e migliorano col tempo, arrivando a toccare vette impensabili e producendo dischi di grande spessore. Per fare qualche esempio eccellente di band che appartengono a questo secondo gruppo vi cito i Nile, i Cephalic Carnage, i Deathspell Omega e i Negura Bunget. Per aggiungerne una quinta ecco a voi gli Akercocke, che esordirono nel 1999 col loro Rape Of The Bastard Nazarene al grido di “Hereupon I defy God and his Christ, the angels of heaven, rejecting all that lives in God’s name!”.

Gli Akercocke sono una band britannica sorta sulle ceneri dei Salem Orchid di Jason Mendonca e David Grey, i quali pur esistendo fin dai primi anni ’90 non erano andati oltre qualche demo. Nuovo monicker, nuovi musicisti che si uniscono al duo Mendonca-Gray, ed ecco che con loro arriva un mediocre ma interessante debutto discografico. Perché dico “mediocre ma interessante”?
Mediocre, perché si tratta sostanzialmente di 35 minuti di sfuriate, riffing feroce, urla e blastbeats senza controllo e apparentemente privi di un senso preciso, che nel più delle occasioni sembrano non portare da nessuna parte, spegnendosi prima di riuscire a cogliere nel segno. Per di più la produzione è orrenda, non tanto nel senso che il sound è povero e sporco - il che in generale non è una pecca - quanto nel senso che è piatto.
Ma interessante, in quanto non si tratta di classico Death, Black o Blackened Death come lo fanno tutti, carino ma scontato e già visto; si tratta invece di un Blackened Death strano, singolare, farcito di elementi difficili da inquadrare che in qualche modo creano atmosfere da cerimoniale tra il sinistro e il grottesco. Il problema è semplicemente che, a differenza di quanto avverrà dal successivo The Goat Of Mendes (2001) in poi, in Rape Of The Bastard Nazarene tutto ciò rimane vago, appena accennato, seppellito in fondo all’oceano di sregolatezza e indefinitezza di cui parlavo sopra. In altre parole, Rape Of The Bastard Nazarene ci mostra l’embrione degli Akercocke, una band viva e vegeta ma ancora in fase di bozza. Gli unici pezzi che vivono di vita propria e che mi pare corretto menzionare al di sopra degli altri sono Marguerite And Gretchen e Il Giardino Di Monte Oliveto Maggiore, brano singolare quest’ultimo dal titolo in italiano che fa riferimento ad un’abbazia in Toscana.

Facendo un overview di questo esordio discografico risulta evidente che lo stile degli Akercocke è stato fin da subito originale, unico e riconoscibile, tant’è che io ad oggi ancora non conosco una sola band che gli somigli, anche soltanto vagamente. L’impressione è che gli Akercocke le idee valide ce le avessero già, ma che purtroppo non siano riusciti a concretizzarle come si deve...ma non temete, perché già dall’album successivo la storia cambierà. Eccome se cambierà.

01 - Hell (04:20)
02 - Nadja (02:57)
03 - The Goat (02:30)
04 - Marguerite And Gretchen (06:59)
05 - Sephiroth Rising (01:11)
06 - Zuleika (04:13)
07 - Conjuration (01:57)
08 - Il Giardino Di Monte Oliveto Maggiore (04:01)
09 - Justine (05:09)

domenica 11 dicembre 2011

Kathaarsys - "Portrait Of Wind And Sorrow"

Autoprodotto, 2005
Tempo fa parlavo con Daniele, il proprietario del blog, del concetto di “ispirazione”. Si tratta infatti di una parola molto usata ma soprattutto abusata, la cui stessa definizione recita in modo confuso: “stato di creatività artistica, estro creativo”, rimandando quindi ad un altro concetto che viene usato in modo poco chiaro, quello di “creatività”. Non mi dilungherò cercando di darne una definizione rigorosa in questa sede, dato che quella che state leggendo è una recensione e non un saggio di linguistica, e cercherò piuttosto di darne un’interpretazione intuitiva. Che cos’è l’ispirazione? Quel che so è che se mi venisse chiesto di indicare su due piedi un album che reputo molto ispirato, citerei Portrait Of Wind And Sorrow dei Kathaarsys.

I Kathaarsys sono una band spagnola che per distinguersi dagli altri milioni di Catarsis, Catharsis, Katarsis e Katharsis che ci sono in giro ha pensato bene di piazzare nel proprio nome una “y” e di raddoppiare una “a” - un po’ come la famosa “h” dei Sonohra, che Elio ci ha ricordato essere “un’acca che non ha né scopo né destinazione, collocata alla cazzo di cane nel mezzo del nome”. Fortunatamente però non è solo questa complicazione nella nomenclatura che distingue questa band dalla massa di tutte le altre: i meriti sono prettamente musicali.

Portrait Of Wind And Sorrow è il loro esordio discografico, registrato nel 2004 e autoprodotto nel 2005, poi ristampato nel 2006 con una nuova copertina - decisamente più avvenente dell’originale... - dalla Concreto Records. L’approccio musicale è “alla Opeth”, e più precisamente ricorda molto quel clamoroso capolavoro intitolato My Arms, Your Hearse: ampio uso di chitarra acustica, arpeggi alternati a riff estremi, cantato che alterna frequentemente fasi pulite e fasi sporche. Ma come detto qui si parla di ispirazione, e infatti il tutto è reinterpretato in modo inconsueto e con una grande dose di personalità: i riff pescano direttamente dal Black invece che dal Death, e molti di essi hanno un marcato gusto Epic. Se volessimo andare a pescare tra le influenze - non che sia strettamente necessario, ma può sempre aiutare - potremmo citare, oltre agli Opeth, anche Bathory, Emperor e Primordial, tutte sfumature che fanno capolino tra le pieghe della musica dei Kathaarsys, ma che non se ne impadroniscono mai: essa rimane libera di esprimere sé stessa, libera di cavalcare le onde della propria enfasi e di assopirsi avvolta nelle fasce della propria fantasia, in cui la boschiva ruvidità della nebbia dei riff “contrasta” col tepore evocativo delle melodie. Ma, sempre per parlare di ispirazione, l’aspetto che più apprezzo di questo disco è il fatto che non si ha mai, e dico mai, l’impressione che la band stia cercando di prendere tempo, di tirar lunghe le canzoni giusto per arrivare alla fine del disco, come invece molti altri fanno. Ogni successione di riff, ogni cambio di ritmo, la melodia di ogni singolo arpeggio, ciascuno di essi appare come una piccola tesserina di un unico grande puzzle, collocata in una posizione precisa per un tempo ben definito al fine di ottenere un risultato macroscopico perfetto. Potete verificare da voi che ciò che dico corrisponde a verità: prendete ad esempio Epic Pagan Times e fatela scorrere con attenzione, scandagliatela in ogni suo particolare, e lasciatevi rapire dal superbo stacco melodico centrale racchiuso da cascate di riff sempre diversi e perfettamente incastonati tra loro, scanditi da un periodico giro di note arpeggiato degno del migliore scenario epico-medievale. Questi sono i temi ricorrenti di Portrait Of Wind And Sorrow: riff e melodie, riff e melodie, riff e melodie, il tutto in un’elegante veste progressiva. E questa capacità dei Kathaarsys di sapere esattamente cosa fare e dove farlo è un ottimo esempio di ciò che io intendo con la parola "ispirazione".

Tutto questo conferma una delle massime alle quali sono più fedele e che ho potuto largamente confermare nel tempo, massima che probabilmente mi renderà un buffone agli occhi di molti ma che non posso fare a meno di constatare in modo sempre più veritiero: mediamente la grande musica la si trova nell’underground, prodotta da band (relativamente) sconosciute che i più ignorano, e non nei grandi dischi che hanno fatto la storia e sono sulla bocca di tutti. Portrait Of Wind And Sorrow è uno di questi dischi sconosciuti, e dopo un debutto autoprodotto di questa qualità uno potrebbe immaginarsi solo due possibilità: o questa band sfornerà un capolavoro dietro l’altro, superandosi ogni volta, oppure si commercializzerà per riuscire a rimediare un buon contratto discografico e vendere qualcosa. Oggi, col senno di poi, sappiamo che i Kathaarsys hanno scelto di percorrere la prima strada.

01 - Perennial Forest Of Winter (11:09)
02 - Gnostic Seasons (09:52)
03 - Epic Pagan Times (10:29)
04 - Portrait Of Wind And Sorrow (10:18)
05 - Walk The Mist In The Lack (11:41)
06 - Nectar In The Nocturnal River (12:02)