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domenica 29 aprile 2012

Nocte Obducta - "Verderbnis (Der Schnitter Kratzt An Jeder Tür)"

MDD Records, 2011
Oggi siamo qui riuniti per celebrare l’insperato ritorno di quella che è stata una delle più grandi band in assoluto in ambito Black Metal e dintorni: i tedeschi Nocte Obducta.

I Nocte Obducta sono un raro esempio di band che pur essendo iperproduttiva a livelli assurdi - si parla di un album netto all’anno - è sempre riuscita a produrre musica ispirata di altissimo livello, senza eccezioni. Dopo un inizio fortemente Black Metal la band si era volta verso nuovi orizzonti più progressivi, melodici, poetici, per certi versi persino dolci, per poi concedersi una passeggiata di tre quarti d’ora per i meandri del Post Metal, capolavoro di creatività e ispirazione che però purtroppo portò la band allo scioglimento. Così, nonostante questa passeggiata fu percorsa già nel 2006, venne pubblicata come lavoro postumo soltanto nel 2008. Nel frattempo gli ormai ex-Nocte Obducta decisero di approfondire la loro vena Post con un progetto chiamato Dinner auf Uranos - non capirò mai perché diamine non continuarono sotto il monicker di Nocte Obducta - progetto che vide la pubblicazione del suo primo full-length nel 2010. Ma evidentemente il richiamo dei grandi successi raggiunti sotto tale monicker era troppo ipnotico per potervi resistere a lungo, ed ecco allora che i Nocte Obducta tornarono alla luce: il risultato è Verderbnis (Der Schnitter Kratzt An Jeder Tür).

La copertina con cui si presenta Verderbnis, un’immagine posterizzata dal grande gusto grafico e dall’ottima impaginazione, costituisce fin da subito un primo campanello d’allarme: non sembra proprio trattarsi di un seguito di ciò che la band aveva intrapreso coi suoi ultimi lavori, né tantomeno una ricongiunzione alle loro tanto osannate origini. Troppo oscura per potersi ricollegare al loro soave nettare del nuovo millennio, ma del resto questo tipo di bianco e nero che elimina tutta la scala intermedia di grigi sembra andare oltre anche rispetto alle origini Black Metal. Vi ricordate l’incredibile capolavoro Sequenzen Einer Wanderung con le sue soavi melodie Post-Rock? Continuate pure a ricordarlo, perché non è questo il caso. E vi ricordate quanto erano sublimi le melodie, i riff e le atmosfere di Nektar Teil 2? Ecco, dimenticatevele perché con Verderbnis non c’entrano proprio niente. Se c’è qualcosa di Verderbnis che ricorda Nektar Teil 2 si tratta solo della rude effimera Es Fließe Blut, mentre parlando di Sequenzen Einer Wanderung i due album non hanno in comune che l’influenza elettronica. Con Verderbnis i Nocte Obducta aprono un nuovo capitolo nella propria storia, un capitolo che nulla ha a che vedere con la sognante poesia che li aveva accompagnati dallo splendido Stille fino alla magistrale chiusura di carriera. Si tratta piuttosto di una musica tenebrosa, un Black Metal rozzo e scalcagnato con al tempo stesso tanta elettronica, sebbene non sia quel tipo di elettronica tale da poter parlare di Industrial. Verderbnis si direbbe quindi una creatura torva e meschina. Eppure, incredibile a dirsi, suona comunque grandioso.

Non so trovare parole di elogio per descrivervi questo disco, perché è un tipo di musica “schiva” che tende a passare inosservata. E’ una musica strana, ma strana forte, che pur traboccando di riff sgangherati e claudicanti degni delle più lontane radici del Black Metal, si concede in contemporanea vasti, lenti respiri d’atmosfera in cui sono dei criptici effetti elettronici a traghettare l’ascoltatore. Verderbnis è un album che, tanto per fare un esempio, sa passare dal finale lento e opprimente di Schweißnebel ad un’effimera sfuriata punk-oriented come Niemals Gelebt, per poi riprendere poco dopo coi cori inqualificabili di El Chukks Taverne. Che dire di simili passaggi musicali? Non lo so, non mi viene da dire alcunché, se non che qualcosa che gli è intrinseco spinge continuamente a riascoltarli. Anche la produzione è di difficile inquadramento: sembra una produzione limpida che però cerca a tutti i costi di ricreare in modo fittizio l’effetto marcio del Black Metal. Verderbnis è quindi un oggetto misterioso che ci si gira e ci si rigira tra le mani cercando invano di comprenderlo, cercando di guardarlo da diverse angolature erroneamente convinti che ve ne sia una in grado di gettare qualche scampolo di chiarezza. E il suo fascino consiste proprio nell’essere così inafferrabile, e nell’esserlo in modo tale da rapire completamente la curiosità.

I Nocte Obducta mi hanno dunque spiazzato due volte: prima annunciando la reunion, e poi producendo un disco che non mi sarei mai aspettato, e che ancora non riesco a comprendere appieno. Ma si tratta di una sorpresa positiva, un album dal fascino malsano, quasi morboso, che sa far tornare la voglia di farsi ascoltare ogni volta che lo desidera. Questo nuovo esperimento dei Nocte Obducta non fa che accrescere la convinzione che tutto quello che esce dalle loro mani è sempre e comunque di ineguagliabile valore.

01 - Tiefrote Rufe (04:45)
02 - Schlachtenflieder (03:34)
03 - Schweißnebel (05:50)
04 - Niemals Gelebt (02:08)
05 - El Chukks Taverne (04:13)
06 - Obsidian Zu Pechstein (08:51)
07 - Wenn Ihr Die Sterne Seht (05:34)
08 - Verderbnis (05:16)

giovedì 26 aprile 2012

Kerbenok - "O"

Northern Silence Productions, 2008
Alcuni dischi sembrano concepiti apposta per spiazzare l'ascoltatore, per catturarlo poco alla volta in un crescendo irresistibile di emozioni e sensazioni, che inizialmente erano soltanto timidi accenni in un mare di nulla; emozioni e sensazioni che si provano nel momento in cui si scoprono le infinite sfaccettature di una musica che inizialmente non aveva trasmesso alcunchè, ma che con il passare degli ascolti è diventata sempre più delineata fino a scoprirsi in tutta la propria recondita bellezza, diventando così una parte importante del proprio vissuto. Posso sicuramente includere in questa categoria il debutto su full - length dei tedeschi Kerbenok, già attivi dal 2000 e reduci dalla pubblicazione dell'interessante extended play "Der Erde Entwachsen", uscito un anno prima di questa release. Il disco che mi trovo tra le mani, in un pregevole formato A5 limitato a mille copie, colpisce subito con l'impatto visivo: l'artwork è infatti eccezionalmente ricco e variopinto, enigmatico, carico di natura e dell'infinita varietà della sua magnificenza. La musica, al contrario, non colpisce subito: e questo è un punto molto importante, che come ho già accennato, costituisce la principale caratteristica di "O".

I Kerbenok si cimentano in un black metal di stampo progressivo e raffinato, carico di riferimenti naturalistici ed estremamente vario, sia come range di influenze black (si va dai Satyricon ai Wolves In The Throne Room) sia come struttura dei brani, che si avvicinano molto alle poliedriche evoluzioni degli In The Woods, specialmente per quanto riguarda la quasi totale assenza di ritornelli, bridge, strofe e di tutto ciò che riguarda la forma canzone come la conoscono tutti. Per una band che è ancora praticamente esordiente, questo è senza dubbio un progetto ambizioso, che sceglie di essere tale non solo per via della sua intinseca natura sfumata e variegata, ma anche per la notevole durata, superiore a settanta minuti. Inizialmente, il disco lascia perplessi: troviamo cascate di riff ruvidi e taglienti che paiono non condurre in nessun luogo in particolare, alternanze notevoli tra sezioni spinte e momenti di quiete atmosferica che paiono messi lì a casaccio, un'apparente destrutturazione e prolissità dei brani che ad un primo ascolto potrebbero essere tacciati di inconcludenza e manierismo tecnico. Tutti elementi che fanno pensare: ma dove vogliono andare a parare i Kerbenok? Sanno almeno che genere di musica vogliono suonare, o si stanno solamente dedicando ad un esercizio di assemblaggio tra generi e sottogeneri, dimenticandosi però di aggiungerci la scintilla di ispirazione? La tentazione di mettere via il disco dopo il primo ascolto, pentendosi dei soldi spesi, è abbastanza forte.

Tuttavia, con il passare degli ascolti (e credetemi, ce ne vogliono davvero tanti) tutto comincia ad andare al suo posto. Come un puzzle che inizia a risolversi per conto suo, nel momento in cui si rinuncia al tentativo di comporlo razionalmente e ci si abbandona al puro istinto risolutore, i brani iniziano progressivamente a sfoggiare delle atmosfere e delle soluzioni davvero notevoli, molto differenziate tra loro e capaci di spaziare tra colori differenti con grandi dosi di fantasia e creatività. Ecco che le apparentemente insensate cavalcate strumentali prendono forma e diventano dei lunghi viaggi psichedelici che ci conducono attraverso una nebbia fitta e persistente, squarciata da veli di beatitudine che giungono del tutto inaspettati e salvifici; ecco che la vulcanicità dei riff di chitarra non è più solamente un esercizio di maniera, ma un ordinato e preciso caleidoscopio emozionale che esalta ad ogni nuovo sviluppo. La spiccata personalità di questa band emerge così dalle acque profonde come un isolotto vulcanico appena nato, ancora incandescente e ricolmo di ribollente vitalità. Sonorità misteriose, cangianti, sopraffine: posata aggressività che si mescola con l'introspezione, suggestioni poetiche unite a suoni grezzi e rugginosi, volutamente soffocati da una produzione sicuramente non pulitissima, ma come al solito adatta allo scopo che vuole raggiungere. Insomma, niente che possa essere compreso dopo pochi ascolti, specialmente per via dei continui cambiamenti che sopraggiungono non solo tra un brano e l'altro, ma anche all'interno dei brani stessi. Ecco quindi alternarsi voci maschili che spaziano dallo screaming acido al possente cantato di un tenore, voci femminili che accompagnano il fluire strumentale con leggiadria e classe, ritmiche talvolta pompate e talvolta dimesse, tastiere soffici e sognanti, sapienti inserti folk, chitarre che sanno tramutarsi in spietate lame di ghiaccio e un attimo dopo diventano giocose e sbarazzine, per poi cambiare di nuovo in delicate e toccanti. Difficile trovare un brano particolarmente memorabile, o al contrario un pezzo inferiore a un altro: e questo è strano, perchè in un disco così eterogeneo è molto insolito che non ci siano pezzi che spiccano sugli altri. Non citerò dunque alcun brano, perchè questo disco ha senso solo se viene ascoltato tutto assieme, come un'unica lunga canzone che esplora ogni possibile lato della vita. Da questo punto di vista "O" è comunque un disco sorprendente, poichè nel suo continuo vagare e sperimentare riesce sempre a mantenere un'invidiabile coerenza interna e una freschezza compositiva che, una volta compresa a fondo, decreterà la longevità e  l'assoluto spessore artistico del disco.

Lasciatevi dunque cullare dalle intriganti sonorità di "O", come se foste degli esseri inermi che vengono trasportati dal vento per centinaia di chilometri. Nel vostro turbinoso viaggio vi passeranno davanti infiniti scenari, che dovrete semplicemente avere la volontà di cogliere, sforzandovi di metterli a fuoco con i vostri occhi disabituati. All'inizio sarete sballottati qua e là senza capire niente, in preda alla nausea e al disorientamento: ma quando vi sarete abituati a tale marasma, aprirete gli occhi e scoprirete che state semplicemente vivendo un'esperienza nuova, interessante e verace; un volo pindarico in un mondo fatto di colori che non esistono nello spettro del visibile, un viaggio psichedelico ed esaltante nella complessità della vita.

"O" è il classico disco che ha bisogno di molto tempo per rivelare la sua essenza, ma che come tutti i grandi classici, una volta scoperto non appassisce mai e non ha mai finito di dire quello che ha da dire. Il mio unico rimpianto è che questo disco probabilmente non verrà mai conosciuto come dovrebbe; queste mie poche righe hanno il solo scopo di tentare di rendergli giustizia, almeno un briciolo di ciò che merita, ma nella piena consapevolezza che pochi sapranno cogliere un frutto succoso e delizioso come questo formidabile debutto.

01 - Aus Der Stille... (2:53)
02 - Heimstatt In Trummern (12:45)
03 - Die Schwere Unserer Glieder (7:11)
04 - Im Kreise Ziehen Wir Unsere Runden (12:18)
05 - Waldfrieden (2:27)
06 - Frihet Er Vaares (9:57)
07 - Verstandes Klinge (5:58)
08 - Lys (1:54)
09 - Hardangervidda (8:56)
10 - ...In Das Was Noch Kommen Mag (7:07)

mercoledì 25 aprile 2012

Catamenia - "Halls Of Frozen North"

Massacre Records, 1998
Appena un anno dopo che i Children Of Bodom rivoluzionarono il modo di intendere il Metal estremo melodico ecco comparire un'altra band finlandese, i Catamenia, provenienti da Oulu. Quando parlo di Metal estremo melodico non sono in preda ad un attacco isterico contraddittorio, ma semplicemente mi riferisco alla versione “Gothenburg”, per così dire, di quei generi quali Death e Black. I Children Of Bodom vengono annoverati tra le fila del Melodic Death, anche se a me sembrerebbe più giusto parlare di Extreme Power; sta di fatto che i Catamenia si collocano invece in pieno Melodic Black.

In questo Halls Of Frozen North, tale il titolo del loro album d’esordio, gli allora neofiti Catamenia furono in grado fin da subito di trovare il bandolo della matassa: i loro brevi brani sono carichi di melodie molto catchy ma al tempo stesso accattivanti, e nonostante le sonorità tipiche del cosiddetto Gothenburg Metal - passatemi il termine, anche se esso viene solitamente usato in un contesto un po’ diverso - vengano usate diffusamente all’interno del disco, con tanto di rigogliose tastiere che inondano piacevolmente ogni brano, Halls Of Frozen North ha il grande pregio che i ritmi e le sonorità propri del Black Metal lasciano sempre almeno qualche piccola traccia di sé. Cosa, questa, che non è affatto scontata, dato che quando si parla di Gothenburg, sia esso di stampo Black o Death, le band finiscono sovente per diventare così ruffianamente melodiche e sempliciotte che di Black e Death non rimane più nulla, e il più delle volte ci si ritrova d’innanzi ad una musica apatica che finisce per non sapere più di nulla. Ma per fortuna, come detto, niente di tutto ciò affligge i Catamenia: tra le linee melodiche che disegnano le loro canzoni spuntano ora il tremolo picking, ora uno scream per nulla ingentilito dalle circostanze, ora delle ritmiche molto sostenute che se non sono blastbeat poco ci manca. E nonostante la band cerchi di far viaggiare il pensiero dell’ascoltatore di pari passo col gelido vento che soffia nelle ghiacciate sale del nord, sensazione acuita dalle sonorità delle tastiere che costituiscono forse il vero strumento portante dell’album, la sua musica appare calda e viva, del tutto priva di quella deludente freddezza di altre band affini come ad esempio gli ultimi Lord Belial.

Per quanto ho avuto modo di constatare, il Melodic Black è un genere molto meno diffuso del Melodic Death, il quale invece si diffonde come un’erba infestante, e se quest’ultimo ebbe le sue origini già nei primi anni ’90 non so se lo stesso possa dirsi per il primo. Non sono un’enciclopedia del genere, ma a pelle non mi viene in mente nessun gruppo che avesse cominciato a suonare Melodic Black prima dei Catamenia, perlomeno non in modo così fortemente Gothenburg. In ogni caso, primo o no, Halls Of Frozen North è davvero un bel disco che difficilmente annoia, a dispetto della sua immediatezza. Merita di essere ascoltato con vivo interesse, quantomeno da tutti gli appassionati del Gothenburg e dintorni.

01 - Dreams Of Winterland (03:30)
02 - Into Infernal (03:37)
03 - Freezing Winds Of North (03:36)
04 - Enchanting Woods (03:38)
05 - Halls Of Frozen North (03:06)
06 - Forest Enthroned (03:49)
07 - Awake In Dark (02:51)
08 - Song Of The Nightbird (03:40)
09 - Icy Tears Of Eternity (03:04)
10 - Burning Aura (03:36)
11 - Child Of Sunset (02:36)
12 - Land Of The Autumn Winds (03:50)
13 - Pimeä Yö (04:19)
14 - Outro (01:21)

giovedì 19 aprile 2012

Brodequin - "Festival Of Death"

Unmatched Brutality Records, 2001
Festival Of Death più che un gioviale festival sembra un violento meeting tra una mitragliatrice e uno sciacquone, meeting che, a dispetto dell’effimera durata, ora della fine avrà consumato ettolitri d’acqua e migliaia di pallottole. Ma è sufficiente scoprire che si parla dei brutallari americani Brodequin, giunti qui al loro secondo full-length, per cambiare la metafora e sostituire alla mitragliatrice e allo sciacquone gli antichi strumenti di tortura: Festival Of Death è dunque l’urlo di dolore che emette il condannato disperato, è lo scricchiolio delle sue ossa, è il rumore della carne che poco a poco si dilania. Tra i pionieri del Brutal Death Metal americano alla Disgorge, i Brodequin sono infatti noti per la loro passione per gli strumenti di tortura usati nel passato, passione che il loro growler e bassista Jamie Bailey trasforma in testi ricchi di particolari grazie anche alla sua laurea in storia:

Hung alive in chains,
lack of food and water enhancing the weakened state,
forced to stand by a neck shackle or suffocate,
blistered and burnt from the sun,
infected weeping wound insects have found
and feed upon the unprotected body.
Disease has filled, too weak to stand,
slowly suffocates, body remains displayed
while birds begin removing the flesh.


Questo è il festival della morte, materia quotidiana specialmente nei secoli bui del medioevo ai quali lo splendido artwork sembra fare riferimento. Non potrebbe esserci scelta musicale più consona di un Brutal Death Metal nell’accezione più stretta del termine per accompagnare una simile mattanza, un Brutal Death completamente privo di compromessi: chitarra segaossa pesantissima, batteria con un range sonoro limitatissimo e con doppio pedale spianato e costante, growl incomprensibile in stile latrina ingorgata, e quasi tutti i brani che si tengono ben al di sotto dei tre minuti di durata andando così a comporre la classica mezzora di brutale devastazione propria della maggior parte dei dischi di questo genere. Il risultato è una genuina cascata di riff e blastbeat a getto continuo, ripetute sfuriate che investono l’ascoltatore impreparato creando in lui un senso di repulsione, ma che deliziano l’appassionato del genere.

Alla luce di tutto ciò si potrebbe dire che Festival Of Death è un disco completamente privo di originalità, inventiva, creatività, e che a causa della sua assenza di variazioni nel tema musicale risulta sfiancante per chiunque non sia abituato a questo genere di musica. Un appassionato di Funeral Doom, o, che so, di Viking, abituato a concentrarsi sulla melodia e sulle sensazioni che questa evoca, probabilmente lo considererebbe come un prolungato rutto in uno sgabuzzino buio, sgabuzzino che poi chiuderebbe a chiave per non riaprirlo mai più. Sono tutte critiche che possono starci; tuttavia io credo che non colgano nel segno. Infatti quello che i Brodequin fanno e vogliono fare non è altro che produrre una musica brutale fatta di riff e ritmi serrati, dimostrando che si può produrre qualcosa di buono anche astraendo dalla melodia. Del resto sarebbe avventato pretendere che le ossa di un torturato che vengono spolpate dalla loro sede naturale producano un qualsivoglia tipo di melodia. L’unica melodia plausibile qui è il cornacchiare concitato degli uccelli che si avventano sulle membra del condannato per strapparne dei brandelli preziosi per la loro sopravvivenza.

In definitiva se uno non sa apprezzare la musica brutale scevra di ogni melodia è del tutto inutile che si metta a criticare questo disco, perché esso vuole essere un disco brutale dalla testa ai piedi, e come tale va considerato. A me questo tipo di Brutal Death della vecchia scuola, classico e intransigente, non dispiace affatto, specialmente nel caso dei Brodequin che lo suonano con quelle sonorità grezze un po’ antiquate e con dei buoni riff. Infatti Festival Of Death di buoni riff ne contiene parecchi, e sebbene i Brodequin proseguano ad innovazione e creatività zero ciò non gli impedisce di produrre della buona musica per tutti coloro a cui piace sguazzare in una pozza melmosa di riff e blastbeat. E se poi tutti gli altri non vogliono metterci piede per non sporcarsi...affari loro.

01 - Mazzatello (02:30)
02 - Judas Cradle (02:12)
03 - Trial By Ordeal (02:48)
04 - Torches Of Nero (01:54)
05 - Vivum Excoriari (02:56)
06 - Lake Of The Dead (03:26)
07 - Blood Of The Martyr (02:03)
08 - Gilles De Rais (02:38)
09 - Flow Of Maggots (02:58)
10 - Bronze Bowl (02:51)
11 - Auto De Fe/Raped In The Back Of A Van (Last Days Of Humanity Cover) (04:37)

venerdì 13 aprile 2012

Leech - "Against Leviathan!"

Woodsmoke, 2007
Immaginatevi di entrare in un negozio di dischi Metal e guardatevi attorno: scaffali pieni di CD dei generi più diversi con le loro copertine ben in vista, ognuna coi suoi colori e col logo della rispettiva band, e poi numerose t-shirt appese al muro. Avete mai pensato cosa c’è dietro tutta questa varietà di immagini e colori? Ci sono gli sforzi di centinaia di band, ognuna delle quali dedica una certa attenzione al proprio logo, all’artwork, all’immagine da stampare in copertina che in qualche modo dovrebbe ispirare ed invogliare la gente a comprare il loro album, dovrebbe rappresentare il tipo di proposta musicale, al fine di far presa sugli appassionati di quel genere.

Su tutt’altro piano si muovono i Leech, band americana che finora si è segnalata solo per alcuni demo e split tra cui figura Against Leviathan!, una demo composta da appena due brani che però si spinge oltre i venti minuti di durata. I Leech si presentano come una band del tutto elitaria, volutamente riservata ad un pubblico poco più vasto della cerchia di amici e familiari, e lo testimonia anche il formato con cui è uscita questa demo: limitata ad appena cento copie, il CD è racchiuso in un libricino di dodici pagine in cui la band spiega la propria ideologia anarco-primitivista. Pare che l’anarco-primitivismo - come mi suggerisce sottobanco l’Anarchopedia - sia una corrente dell’anarchismo verde che deplora l’inquinamento e l’alienazione portati dalla società industrializzata, e proclama un ritorno a condizioni di vita antecedenti. Ed in effetti gli interminabili titoli - che complessivamente sono più lunghi del CD - sembrano suggerire proprio questo disprezzo nei confronti dell’industrializzazione: "Subito la nostra casa fu sormontata da un ruggito che lacerò i nostri cuori, zittendo il vento e le quiete canzoni degli uccelli; realizzammo ciò che avevamo perduto [la natura], e cominciammo ad invocarla. Incatenati al fantasma di una bugia, inciampiamo ciecamente verso la nostra morte, fermandoci di tanto in tanto per calciare (ma senza mai dubitare) la carcassa marcescente ai nostri piedi che rallenta la nostra avanzata". Il ruggito metallico delle fabbriche, il soverchiamento della natura, le carcasse degli animali morti per l’inquinamento, sono questi i temi caldi, sempre attuali, che animano i Leech. Come se non bastasse, allegato a tutto ciò vi è anche un poster. Altre cinquanta copie della demo sono state pubblicate su cassetta - ma chi è che ascolta più le cassette? Insomma, stiamo sguazzando nell’underground dell’underground, nulla a che vedere coi gremiti scaffali del negozio di dischi Metal di prima.

Dopo essere stati investiti da tutta questa cura della propria immagine, viene spontaneo chiedersi: ma la musica proposta almeno è degna? Sono lieto di poter dire: assolutamente sì. La musica che la band ha scelto per accompagnare la propria visione primitivistica della società è un Black Metal di quello primordiale per davvero, prodotto che peggio non si può, in cui la chitarra pare arrugginita e le bacchette della batteria sembrano picchiettare contro una scatola di plastica; insomma le proverbiali registrazioni in una cabina telefonica - anche se forse nel caso dei Leech sarebbe meglio dire in un albero cavo, perché la cabina telefonica è già troppo industrializzata. Ma Against Leviathan! non è soltanto una massa informe di riff mal prodotti e blastbeat: tra le aggrovigliate increspature delle chitarre si cela una melodia onnipresente che fluisce in modo continuo, come se fosse un’anima pulsante che dona alla musica una vita propria. Per intenderci si tratta di un Black Metal alla Sventevith dei Behemoth, quel Black Metal un po’ Pagan inframezzato da vari arpeggi le cui melodie quasi nostalgiche trasportano immediatamente nel bel mezzo di un bosco. Non una proposta originale né particolarmente brillante, ma sicuramente molto efficace sotto il profilo emozionale, perlomeno per tutti coloro che sanno apprezzare questo tipo rozzissimo di Black Metal. Io non possiedo questa demo, ma l’ho sentita più e più volte su YouTube e posso dirvi che la sua euforia piacevolmente ingenua e scoraggiata non mi stanca mai. Vale davvero la pena di dedicargli un po’ di attenzione.

01 - At Once, Our Home Was Overcome By A Roar Which Tore Through Our Hearts, Silencing The Wind And The Quiet Songs Of The Birds; We Realised What We Had Lost, And Began To Call To Her. (11:40)
02 - Chained To The Ghost Of A Lie, We Blindly Stumble Toward Our Death, Stopping Occasionally To Kick (But Never Question) The Rotted Carcass At Our Feet Which Slows Our Pace. (09:29)

Dolorian - "Dolorian"

Wounded Love Records, 2001
Non c’è niente di così particolare come la primordiale paura che si prova quando si è soli al buio. Basta un fremito, uno scricchiolio inaspettato, ed immediatamente la nostra mente viene sommersa dai più disparati sentori di malaugurio e ci inchioda immediatamente con una paralisi della ragione. Siamo sicuri di aver sentito dei passi alle nostre spalle, e anche se non vediamo nessuno sappiamo che qualcuno ci osserva. E a breve si comincia ad avvertire quel bisogno nevrotico della luce. Questo ce lo raccontarono in maniera magistrale già gli Iron Maiden nel 1992 con quello che è poi divenuto forse il loro brano più memorabile, ma se dovessi indicare una colonna sonora per accompagnare un simile momento di terrore angosciante non potrei fare scelta più azzeccata di Dolorian, album dell’omonimo trio finlandese.

Non si tratta di un Black Metal che con urla e ritmi infernali descrive questo terrore istintivo; si tratta piuttosto di una musica, per così dire, “buia” dall’incedere lento ma inesorabile, perfettamente adatto ad una situazione coercitiva come quella della paura del buio in cui la nostra mente è paralizzata dalla frenesia, frenesia che si fa ancor più impotente frustrata dalla mancanza di appigli che la lentezza e la passività di questa musica le riserva. Pochissimi sono i costituenti di questo album, giusto una chitarra, un basso, una batteria e tanti sussurri che paiono le voci immaginarie che crediamo di udire quando siamo soli nell’oscurità della notte, mentre i corposi arpeggi continuano fatalmente ad alimentare la musica che prosegue incessante nonostante sembri sempre che sia sul punto di spegnersi come la tenue fiammella di una candela.

I Dolorian avevano già bisbigliato la loro presenza nelle tenebre con When All The Laughter Has Gone, disco ottimo dal titolo emblematico che verteva su una rallentata e personalissima rivisitazione del Black Metal. Ora questa rivisitazione si fa ancora più personale, divenendo davvero unica: abolito lo scream per lasciar spazio a sussurri continui, quasi completamente abolite anche le tastiere, di Black non resta praticamente nulla se non un’eco lontana. E nonostante la gente tenda a parlare di questa band come di una band Black/Doom, io non ravviso tracce nemmeno di Doom, dato che la pesantezza di quest’ultimo è assente sia nelle ritmiche che nelle chitarre. Volendo classificare a tutti i costi questa seconda opera dei Dolorian credo che l’appellativo migliore sia quello di Dark Post-Black. Ma questa etichetta non fa altro che dare un’idea vaga ed incompleta di cosa sia realmente questo disco: lo inquadra, ma in alcun modo può contribuire a cogliere l’originalità di quello che ha fatto questo trio finlandese; in alcun modo può contribuire a cogliere la memorabilità di ogni singolo riff e la pienezza dei loro macabri arpeggi. A volte la musica è troppo personale per poter essere contenuta dietro un’etichetta, e questo è sicuramente il caso di Dolorian, che nella sua semplicità, nel suo minimalismo, riesce a proporre qualcosa di poco inquadrabile, unico ed affascinante.

Se lo spettrale When All The Laughter Has Gone era un grande disco, Dolorian è un capolavoro: grande ispirazione, idee fresche e snelle, riff memorabili, tutti, dal primo all’ultimo. I Dolorian dimostrano di avere in testa delle idee ben chiare e di saperle tradurre con sapienza in un tutto pulsante, organico, vivo, nonostante in un certo senso attorno alla loro musica sembri tirare aria di morte. Non ci resta che raccoglierci in un angolino di camera nostra e respirarla con loro.

01 - Grey Rain (02:44)
02 - Blue Unknown (07:37)
03 - Hidden/Rising (08:40)
04 - Cold/Colourless (09:09)
05 - Nails (02:26)
06 - Numb Lava (07:36)
07 - Ambiguous Ambivalence (01:54)
08 - Seclusion (09:11)
09 - Faces (00:56)

martedì 10 aprile 2012

Ea - "Ea"

Solitude Productions, 2012
Vediamo di ricapitolare un po' la storia di questa band, che ormai è attiva da sei anni, ma ha la particolarità (credo più unica che rara) di essere ancora totalmente avvolta nel mistero. Sei anni di attività e quattro album pubblicati non sono stati sufficienti per svelare l'identità di questi musicisti, ancora avvolti nell'anonimato più assoluto. Ho perfino scritto alla Solitude Productions per elemosinare qualche informazione, e la risposta che mi è stata data è: "Per questioni contrattuali, non possiamo rivelare nulla". Non c'è più neanche da discutere.

Ormai è passato diverso tempo dalla pubblicazione del primo, stupefacente "Ea Taesse", ma questa enigmatica band non ha ancora smesso di infiammare i nostri timpani con musica di altissimo spessore, che pesca a piene mani dalla migliore scena Funeral Doom (Shape Of Despair, Colosseum, The Howling Void) e rielabora il tutto in maniera personale, ispirata, curatissima e incredibilmente convincente. Ogni disco che gli Ea hanno concepito si è rivelato essere un capolavoro, e ogni disco è stato diverso dal precedente: come potevamo aspettarci, anche questo nuovo lavoro è un po' diverso dai mastodonti che l'hanno preceduto. Tanto per cominciare, nel booklet non troviamo più nemmeno la frase che aveva reso famosa la band, in quanto era l'unica frase che dava informazioni su di loro: non c'è più scritto che gli Ea cantano in una lingua morta, ricreata sulla base di ricerche archeologiche, e che essi stessi sono la voce degli antichi che ci ha raggiunto attraverso i secoli. Ora siamo di fronte ad un libretto perfettamente vuoto, con immagini scure e confuse, enigmatiche come la band. Come espresso anche da un comunicato sul sito della Solitude Productions, infatti, questo disco non ha più connessioni con la trilogia "ancestrale", nonostante conservi il consueto cantato growl completamente inintellegibile e gutturale, che declama fonemi sconosciuti. Un'altra cosa interessante è che il disco non ha titolo, e si compone di una sola traccia di 47 minuti e 38 secondi, anch'essa senza titolo. Se nei dischi precedenti i brani erano sempre un tutt'uno ma almeno erano spezzati, qui invece abbiamo a che fare con un lunghissimo, interminabile monolite sonoro, che bisogna ascoltare per forza tutto intero, se vogliamo scoprire come finisce il disco. Come dite, è un tempo troppo lungo? Non sono d'accordo per niente...tutte le notti perdiamo otto ore dormendo, e ogni giorno ne passiamo altrettante lavorando...che saranno mai tre quarti d'ora per concentrarsi su un album?

Il nuovo lavoro degli Ea ci avvolge fin da subito con lugubri e gravi note suonate da un pianoforte demoniaco, che esprime tutta la sua malvagità con suoni pulitissimi e sinistri, pronti per lasciare il posto ad una lenta cavalcata all'interno di tutte le possibili emozioni umane. Solennità, desolazione, potenza, durezza, asprezza, gravità, dolcezza: qui dentro c'è di tutto, amalgamato in un caleidoscopio stupefacente. A livello sonoro, nella discografia della band il disco che più si avvicina a questo lavoro è "Ea II": moltissima atmosfera, abbondante utilizzo di cori, organo ecclesiale, sovraincisioni ed effetti di ogni genere, muri di chitarre quasi onnipresenti, melodie ariose e dagli sviluppi lentissimi, ottima varietà di strumenti e timbriche utilizzate, con stratificazioni di tastiere sempre impeccabili e magnificamente corpose. Ma "Ea" pesca molto anche dagli altri album: prende da "Ea Taesse" l'alone sacrale e tremendamente oscuro, mentre "Au Ellai" è perfettamente riconoscibile nelle melodicissime parti di chitarra solista e negli ariosi stacchi atmosferici ad opera degli archi. Le linee melodiche sono ancora una volta elaborate e mai banali, gli arpeggi in pulito sono sempre dilatati e sognanti, la voce è sempre catacombale ed efficace nel creare atmosfera nonostante la sua presenza rara e discreta, la produzione è stellare e perfetta (meno granitica rispetto ai primi lavori, ma sempre pulitissima). Insomma, in questo disco c'è più o meno quello che già conoscevamo. Ma non si tratta solo di un collage riciclato dalle B-side dei precedenti dischi: come spiegare altrimenti l'improvvisa accelerazione in doppia cassa, con tanto di indiavolata voce black metal (!) intorno al ventiquattresimo minuto (ma non è l'unico punto dove gli Ea si rivelano insospettabilmente veloci)? O ancora, il meraviglioso sottofondo di archi pizzicati poco dopo il diciottesimo minuto, punto di arrivo di una sovrapposizione di almeno sei linee melodico - armoniche che si aggiungono progressivamente al calderone? E come non stupirsi ascoltando l'accorato e lacrimevole assolo di chitarra intorno al trentaduesimo minuto? Niente di tutto questo era finora comparso in un album degli Ea, e colpisce al cuore con immediata efficacia, dimostrando che la band è anche capace di superare i propri limiti. Se da una parte il disco non si discosta moltissimo dagli standard del gruppo, la sua particolarità sta in questi frequenti momenti innovativi, che fanno "avanzare di grado" la musica del gruppo e tolgono questo nuovo album dallo status di "disco fotocopia". Questo fa la differenza tra un buon disco ed un capolavoro: mi chiedo come facciano questi musicisti a scrivere sempre un disco più bello dell'altro.

Se ascoltato nella giusta ottica, senza fretta e senza aspettative, "Ea" è capace di trasportare in un altro mondo grazie alle sue sonorità enormemente evocative e alla sua encomiabile potenza espressiva. Non bisogna aspettarsi proprio nulla, bisogna solo lasciarsi prendere da questo lento fiume di lava che continua a scorrere, e scorrere, e scorrere, senza mai fermarsi se non per pochi illusori attimi, dei quali subito si perde la memoria. L'estasi è assicurata per i fan storici della band, che potranno godere di altri tre quarti d'ora di musica intensa, maestosa e magniloquente, ma qualsiasi appassionato del genere che ancora non conosce gli Ea potrà essere fulminato da questo lavoro e innamorarsi perdutamente della sua grandiosità. "Ea" è molto più di una semplice conferma, molto più di un semplice buon lavoro: è ancora una volta l'espressione di un qualcosa di sovrumano, impossibile da comprendere con la sola intelligenza umana, e che va semplicemente vissuto con l'anima. Del resto, la musica è così. Qualcuno diceva: "Siamo circondati dalla musica e ne ricaviamo grande conforto, ma non abbiamo neppure la più pallida idea di cosa sia". Di fronte ad un lavoro così immane come questo, che si siede tranquillamente a fianco dei suoi predecessori e di qualsiasi altro disco Funeral Doom di valore, anch'io alzo le mani e dico solo: procuratevelo, ascoltatelo, amatelo, fatelo vostro. La vita è breve, bisogna fare in fretta.

01 - Ea (47:38)

venerdì 6 aprile 2012

Arckanum - "ÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞ"

Debemur Morti Productions, 2009
Shamatee, la gnostica mente pensante che si cela dietro la one-man band Arckanum così come anche ad un inquietante look pagano sciamanico, produce una musica che potrebbe essere definita come l’arte di fare molto con poco, di comporre buona musica usando pochi riff, pochissime soluzioni stilistiche e nessun tipo di sperimentazione. Ed è sempre stato così. E’ vero che da quando Shamatee ha ripreso pubblicare full-length nel 2008 con Antikosmos ha modificato il suo vecchio Black Metal di stampo Pagan inserendo evidenti elementi Melodic Black, ma l’attitudine di fondo è rimasta la stessa: fare molto con poco. Questo vale anche per il nuovo full-length dal curioso titolo ÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞ. Esso è così elementare, primordiale e scarno nei suoi elementi musicali che se fosse il prodotto di una grande multinazionale alimentare probabilmente assisteremmo a spot del tipo: “Compra la genuina musica di Arckanum. Essa è ottenuta usando solo riff di prima scelta attentamente selezionati dai nostri esperti, concepiti in ambienti naturali e senza OGM”.

E allora scendiamo nei dettagli di questo disco, cominciando con l’andare oltre la copertina che nelle sue linee da bozzetto dimostra un gusto grafico davvero notevole. Onestamente non so cosa significhi il titolo, ma il simbolo Þ è una lettera usata nell’antica lingua scandinava e deriva da una runa. Nel titolo esso compare undici volte, tante quanti i brani del platter i cui titoli iniziano proprio con tale lettera. Ne ignoro il significato, quindi muovo un altro passo e giungo alla musica. Troviamo subito molti brani diretti e semplici, ma proseguendo con l’ascolto fanno la loro comparsa opportuni inserti d’atmosfera come Þyrstr, Þjazagaldr e l’outro Þyteitr che a mio avviso sono come manna dal cielo ed evitano di annoiare - perché quando si ascolta il Metal estremo melodico il rischio è sempre dietro l’angolo. Ma per fortuna Shamatee ha saputo fare meglio ancora: ad una prima metà veloce e melodica, assolutamente catchy e culminante con la bellissima Þjóbaugvittr, segue una seconda metà più lenta, macchinosa, avvolgente, che in qualche tratto ricorda di più i vecchi lavori dello svedese. Questa scelta intelligente rende il disco equilibrato, evitando da un lato una compilation di stancanti canzoncine easy-listening, e dall’altro una mazzata machiavellica priva di highlights. E non solo: la coesistenza di questi due approcci antitetici permette loro di esaltarsi a vicenda: il disco parte in quarta colpendo subito nel segno, ma giusto appena prima di risultare noioso cambia registro incanalando altrove l’attenzione dell’ascoltatore - lezione questa che molte altre band che sciorinano ingenuamente il loro Metal estremo melodico non hanno ancora imparato. Questi accorgimenti, che magari potrebbero passare inosservati, hanno invece il grande merito di rendere interessante e sempreverde un disco che per lo stile musicale proposto rischiava fortemente di essere un flop. Così ancora una volta Shamatee dimostra di essere un mago nel creare tanto servendosi di pochi strumenti, e ancora una volta riesce a proporre un disco piacevole che merita di essere ascoltato. Non un capolavoro, né un disco indimenticabile, ma sicuramente molto buono e potenzialmente in grado di soddisfare sia gli amanti del Melodic Black che i blackster più intransigenti.

01 - Þórhati (03:59)
02 - Þann Svartís (04:06)
03 - Þyrpas Ulfar (05:36)
04 - Þursvitnir (05:49)
05 - Þyrstr (01:33)
06 - Þjóbaugvittr (04:45)
07 - Þjazagaldr (04:54)
08 - Þá Kómu Niflstormum (07:47)
09 - Þrúðkyn (04:29)
10 - Þríandi (04:16)
11 - Þyteitr (02:47)

martedì 3 aprile 2012

Esoteric - "The Maniacal Vale"

Season Of Mist, 2008
Dopo undici lunghi anni, tanto è il tempo trascorso da The Pernicious Enigma, gli Esoteric escono di nuovo con un doppio disco, uno dei loro lunghi, interminabili, massacranti doppi dischi. Dopo quattro anni dalla loro ultima effige tornano a colpire, tornano a stupire. I titanici maestri di Birmingham sono di nuovo al top.

Siete amanti del Doom, o il Doom non vi piace per niente?
Siete amanti del Metal estremo, oppure preferite il Metal più classico?
Siete amanti della musica sofisticata e ricercata, oppure preferite il catchy?
Tutto ciò in questa sede è di importanza assai secondaria, perché secondo la mia opinione ogni tanto escono dei dischi così sopraffini che andrebbero saputi apprezzare a prescindere dalle personali preferenze musicali. Uno di questi dischi è The Maniacal Vale degli Esoteric.

E’ difficile descrivere a parole quanto speciale sia questo disco, ma forse ci sono tre concetti chiave che possono darne un’idea fedele: ricercatezza sfrenata, progressività cadenzata, apparente inaccessibilità. Sono queste le parole d’ordine che sembrano aver guidato Greg Chandler e soci nella realizzazione di The Maniacal Vale e che si riflettono nelle plurime direzioni melodiche, progressive e atmosferiche che ogni singolo brano assume. E’ forse inutile dire che il bello di questo disco e di questa band non sta certo nella possibilità di fare headbanging...si tratta piuttosto di un cammino tortuoso da intraprendere con curiosità e pazienza. Il modo forse migliore per immedesimarsi in questa nuova avventura musicale propostaci dagli Esoteric è quello di inabissarsi in sé stessi, quello di lasciare che il vostro inconscio dia forma e plasticità alla musica che vi investirà. Immaginatevi di immergere le vostre mani nell’umida creta e di plasmare a poco a poco la musica che scorrerà sui vostri timpani, pezzettino dopo pezzettino, con spontaneità e abnegazione. Allora dallo scorrere gentile e incerto delle vostre dita sul blocco terroso si ergeranno pian piano le pareti invisibili di un’angusta grotta, con le sue imponenti stalattiti gocciolanti e strani inquietanti graffiti.

Questa perlomeno è l’immagine distinta che giunge a me ogni volta che mi abbandono a The Maniacal Vale. L’intro di Circle - un’intro davvero pazzesca! - mette fin da subito in chiaro cosa intendo dire: un lungo arpeggio echeggiante quasi rimbombasse contro delle pareti rocciose, come se la band avesse effettuato le registrazioni proprio all’interno di una grotta. E’ esattamente questo il curioso effetto sonoro al quale la creta dà forma, la sensazione di essere in una grotta sconosciuta ma familiare, sensazione che si ripresenterà spesso durante questo viaggio di oltre cento minuti in cui si perde la cognizione di sé e della realtà. Avanzare lentamente tastando le gelide pareti per poi smarrirsi nei momenti quieti ed enigmatici in cui l’atmosfera si fa così spessa che si taglia con un coltello: stratificazioni su stratificazioni di arpeggi, noise, tastiere e chitarre melodiche creano diversi substrati che inizialmente è impossibile seguire tutti assieme; il tutto sempre con quel caratteristico sound echeggiante che fa l’effetto-grotta. Ascoltare la superba Quickening per credere. Lo smarrimento iniziale è totale. Smarrimento che poi viene incastonato dalle granitiche chitarrone che improvvisamente si levano possenti producendosi in lunghi machiavellici riff i quali, una volta caduti nelle loro spire, non lasciano possibilità di fuga. In mezzo a questo gigantesco mulinello interiore che trascina giù, sempre più giù, verso le aride acque dell’abisso, una menzione speciale se la meritano Circle e Ignotum Per Ignotius: l’apertura e la chiusura di questo secolare viaggio, forse i brani migliori per songwriting e ispirazione, una sorta di Bronzi di Riace che vegliano sul contenuto del resto del disco, contenuto che si mette particolarmente in luce anche durante la violenta esplosione di Caucus of Mind e i curiosi toni ariosi di The Order Of Destiny, contrastanti con la terrificante disperazione vocale.

All’inizio è molto difficile relazionarsi con la musica di questo disco; non è facile destreggiarsi in più di cento minuti di una tale complessità, in cui la musica si evolve lentamente e procede su tanti strati diversi. Ma se dopo aver memorizzato un po’ i brani si riesce ad immedesimarsi completamente in questo tipo di musica, vi assicuro che quello che ti lascia dentro The Maniacal Vale è semplicemente devastante. E’ un lungo viaggio che fa riflettere su sé stessi e che produce un cataclisma interiore. Bisogna essere degli avventurieri senza timore per esplorare le buie, umide profondità di questa grotta, che forse in fin dei conti più che una grotta naturale rappresenta un po’ quelle che sono le profondità arcaiche e simboliche del nostro inconscio più recondito, da tanto che lo stile musicale misterioso e angosciante si presta bene a dipingere una simile immagine. Qui nessuna bussola può aiutare. Ma forse sono proprio gli avventurieri più impavidi che, forti delle loro esperienze estreme, riescono a gustarsi fino in fondo ogni situazione che vivono sulla propria pelle, ogni piccola cosa quotidiana che istintivamente ci sembra così scontata ma che invece racchiude tutto un mondo dietro sé stessa. E sebbene The Maniacal Vale sia un disco estremo che poche persone avventuriere riusciranno ad assimilare completamente e quindi ad apprezzare, queste poche persone avventuriere avranno la fortuna ed il merito di poter vivere intensamente un viaggio che nessun biglietto aereo o interrail può eguagliare.

Disco 1
01 - Circle (20:45)
02 - Beneath This Face (11:22)
03 - Quickening (12:19)
04 - Caucus of Mind (07:22)

Disco 2
01 - Silence (15:45)
02 - The Order Of Destiny (11:33)
03 - Ignotum Per Ignotius (22:43)

Vomitory - "Blood Rapture"

Metal Blade Records, 2002
Chi ascolta i Vomitory sa bene quanto siano unici nel loro reinterpretare l’Old School Death Metal con ritmiche serrate e tremende chitarre segaossa, un mix di riff gloriosi e aggressività lacerante che non ha uguale. Io sono un fan di questa band, e tra tutti i loro lavori esplosivi il mio preferito è Blood Rapture. Perché? E’ difficile scegliere un album dei Vomitory in quanto bene o male si somigliano tutti, eppure io credo che Blood Rapture per la sua continuità e la sua densità di ispirazione abbia qualcosa in più degli altri.

In questo vecchio lavoro della band, il suo quarto full-length per l’esattezza, troverete tutto ciò che è tipico dei Vomitory: ritmi martellanti, taglienti sciabolate di chitarra, e tanta sostanza Brutal dall’anima Old School. Per giunta in questo album più degli altri non è solo la musica ad avere chiari lineamenti Old School, ma anche tutto ciò che la accompagna, dai titoli delle canzoni all’artwork, dal font splatter usato nel booklet alla foto della band. Ma come sempre l’aspetto migliore dei Vomitory è proprio la musica: essi hanno partorito molti dei riff più belli che io conosca, riff che col loro modo brutale, accattivante e un po’ antiquato di suonare acquistano ancora più fascino. Blood Rapture in particolare ne è un ricco crogiuolo, una miniera inesauribile in grado di soddisfare il fabbisogno dei minatori più esigenti. Ogni brano è un’esplosione di riff, colanti e fragranti riff che fanno venire l’acquolina in bocca - ce n’è abbastanza per una scorpacciata da fare indigestione! Potete scegliere un brano qualsiasi dei nove che compongono la tracklist, e vedrete che andrete comunque a botta sicura. Numerosi sono poi gli highlights che costellano questo album: il riff semplicemente memorabile di Madness Prevails, oppure l’esplosione con assolo di Redeemed In Flames, brano che incorpora parti alla velocità della luce come anche parti più lente degne dell’Old School della migliore qualità. E che dire dell’incalzante Eternity Appears? Ma uno degli episodi migliori è sicuramente il brano di chiusura che dà anche il titolo all’album stesso: dapprima lento e schiacciante, per poi esplodere in tutta la solita furia della band e in un grande assolo; un brano che pone termine alla mattanza nel migliore dei modi.

Chi ha il Death Metal nel sangue non può affatto prescindere dai Vomitory, e soprattutto non può prescindere dal loro truculento Blood Rapture: un disco da museo della musica, un must-have a qualsiasi costo.

01 - Chaos Fury (03:09)
02 - Hollow Retribution (02:13)
03 - Blessed And Forsaken (03:45)
04 - Madness Prevails (03:51)
05 - Redeemed In Flames (04:24)
06 - Nailed, Quartered, Consumed (02:21)
07 - Eternity Appears (04:12)
08 - Rotting Hill (03:36)
09 - Blood Rapture (05:10)

domenica 1 aprile 2012

Orrenda Acciaieria - "Orrenda Acciaieria"

Cosmic Swamp Records, 2011
Quante sorprese dalle band italiane! Ultimamente ne stiamo scoprendo parecchie di interessanti, anche perchè sempre più spesso riceviamo proposte di recensioni, e qualche volta ci capita di trovare elementi davvero anomali come questi Orrenda Acciaieria, band proveniente dai dintorni di Como (a due passi da casa mia, tralaltro). Dietro l'interessantissimo monicker si nascondono tre folli musicisti, Simon Ferrante, Stefano Marangoni e Juri Rossi, i quali assemblano una musica davvero difficile da etichettare e soprattutto da capire: l'unica cosa di cui possiamo stare certi è che il nome della band non è stato scelto a caso, poichè la musica stessa evoca potenti immagini "metalliche", frastornanti, alienanti e frenetiche come può essere il lavoro in un'acciaieria. Clangore incessante dei macchinari, odori peculiari e acri, sbuffi di vapore bollente, atmosfera malsana e tesa: questo si trova sia nell'acciaieria vera che nel disco in questione, che musicalmente si colloca nel filone stoner - hardcore - post metal, ispirato a gruppi come i Pelican, i The Ocean, i Neurosis e altri grandi nomi del genere. Evito però di etichettare in maniera univoca l'originale proposta musicale dei comaschi, in quanto credo che all'origine essi vogliano evitare di essere incasellati in un unico genere.

Il disco si compone di tre brani, a loro volta suddivisi in più parti, cosicchè il totale dei pezzi diventa di otto. Sonorità dure, compatte, dal sapore malaticcio e paranoide, fanno la parte del leone in un disco che non concede nulla alla melodia e si propone come obiettivo quello di frantumare i timpani di chi ascolta, disorientandolo al massimo. Suggestioni noise e momenti di puro caos elementale, chitarre distortissime e ricche di effetti "rumoristici" come per simboleggiare i tremendi e continui fragori delle industrie dell'acciaio, una voce raschiata e quasi completamente sepolta sotto il marasma strumentale, una sezione ritmica pesantemente calcata e onnipresente che spesso e volentieri si perde in binari paralleli, ritmi che continuano a cambiare senza apparente motivo; quasi una sorta di versione modificata dei Meshuggah di "Chaosphere" o di "Nothing". Non c'è spazio per la sanità mentale, in questo blob sonoro che afferra alla gola e trascina inesorabilmente nella follia: bisogna essere preparati per ascoltarlo tutto di fila senza uscire di senno. Dietro titoli visionari come "Il Morbo", "Octopus Vulgaris" e "Lento Per Sigaretta" si nascondono brani assolutamente contorti e convulsi, che cercano il proprio senso nel non - senso e nella continua destrutturazione di sè stessi, così da assicurare al massimo l'effetto straniante del lavoro moderno nelle fabbriche.

Ascoltando questo disco vi sembrerà davvero di essere in tuta da lavoro dentro un'acciaieria, mentre cercate di capire cosa ci fate lì dentro tra tutto quel frastuono e quelle grida continue dei vostri colleghi. E magari mentre vi accorgete che l'attrezzo che avete in mano potrebbe essere usato in maniera impropria, dentro quest'acciaieria pazza, insana, schizofrenica... Una tale atmosfera, mai piacevole da vivere, ora si può ascoltare anche in versione musicale. Decisamente è un'esperienza che vi consiglio di fare, perchè non conosco molte altre band che siano riuscite a partorire dischi così particolari. Un lavoro che lascia il segno, in un modo o nell'altro.

01 - Il Morbo I (2:18)
02 - Il Morbo II (3:11)
03 - Il Morbo III (3:55)
04 - Il Morbo IV (2:48)
05 - Octopus Vulgaris I (6:01)
06 - Octopus Vulgaris II (2:00)
07 - Lento Per Sigaretta I (3:25)
08 - Lento Per Sigaretta II (4:08)

Evershine - "Renewal"

Autoprodotto, 2011
Lo ammetto: non sono un grande fan del power metal, anzi in realtà non lo sono per niente. Dopo un iniziale periodo di infatuazione per band come gli Stratovarius, o addirittura i Rhapsody, sono passato ad altri generi, dimenticandomi quasi totalmente del filone power e tendendo a considerarlo come un genere "minore", abbastanza trascurabile. Questa mia evoluzione musicale mi ha portato ad accogliere con una certa diffidenza i riff di chitarra veloci e graffianti, i suoni di tastiera virtuosi e trascinanti, la batteria a mille e le ugole acute dei cantanti power, costantemente impegnati a raggiungere note sempre più elevate con sempre maggiore tecnica. Non so da dove derivi tutto ciò, probabilmente è un pregiudizio bello e buono, come li abbiamo tutti. Tuttavia, dopo l'iniziale sconcerto (chiamiamolo così), quando mi capita di ascoltare un disco power alla fine mi piace, non me lo riascolterei magari cento volte, ma la sua figura la fa sempre e riesce ad appassionarmi degnamente. 

Anche per il debutto discografico degli italiani Evershine è stato così. Ho ricevuto una proposta di recensione da questa band, senza sapere esattamente il genere che suonassero; ho fatto partire la prima traccia con un piacevole misto di lieve ansia e curiosità, e ho immediatamente riconosciuto che "Renewal" è un disco Power al 100%, quel power che tende un po' a ricalcare se stesso ma che se è suonato bene garantisce sempre notevoli dosi di adrenalina e di divertimento. Nello specifico, la musica degli Evershine non è certamente di qualità scadente, essendo la band ormai attiva da diversi anni nell'underground: la padronanza tecnica è eccellente, le linee vocali sono ricche di effettistica ma in ogni caso sempre convincenti, gli inserti orchestrali di gusto neoclassico sono ben dosati e azzeccati nel loro contesto, le melodie sono di ottima presa (a tratti splendide) e hanno quell'interessante retrogusto epico che fece la fortuna dell'acclamato "Visions", datato 1995 e ancora oggi un punto di riferimento per tutte le band che anche solo pensino di voler iniziare a suonare power. Consapevoli di non suonare nulla di nuovo, ma al contempo consapevoli di suonare con passione, gli Evershine confezionano un debutto molto piacevole, al quale davvero non manca nulla per essere considerato un album rispettabile, grazie anche ad alcune buone influenze hard rock e glam che gli donano un certo alone casereccio e tolgono la band da eventuali e fastidiosi paragoni con gruppi un po' troppo plastificati come i DragonForce. L'ottima produzione, pulita e potente, rende giustizia ad un disco che fa dell'immediatezza il suo principale punto forte, e che fin da subito trascinerà i fan del genere in una piacevole odissea di velocità, melodia e potenza inarrestabile, quella potenza che rende impossibile rimanere fermi mentre si ascolta la musica. Non troverete brani di scarso livello, cadute di tono o perdite di energia: il fiume di "Renewal" vi investirà in pieno dall'inizio alla fine, travolgendovi piacevolmente.

Cos'altro chiedere da un gruppo esordiente, che si produce i dischi in proprio? Ripeto: il power non è certamente la mia passione, ma quando trovo un disco power suonato come si deve, sono sempre felice di poterne parlare bene. Per quel che mi riguarda, quindi, promossi!

Sito ufficiale
Pagina Myspace

01 - Evershine (3:41)
02 - Angel Killer (5:12)
03 - The Storm (6:35)
04 - Demons Ride (4:14)
05 - A Chance To Be Free (7:12)
06 - Here We Come (4:10)
07 - Faith And Dreams (4:50)
08 - Run (3:57)
09 - Where Heroes Lie (7:50)