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mercoledì 29 febbraio 2012

Alley - "The Weed"

BadMoodMan, 2008
“Sarà la solita band Doom/Death, uguale a tutte le altre”. Questa è la prima cosa che viene in mente rimirando le pagine sfocate, la cromia marmorea e il logo materico ma poetico che compaiono sulla copertina di The Weed degli Alley. Sapendo poi che la band è russa e che è sotto contratto con la Solitude Productions non rimane alcun dubbio. Quando però il CD viene fatto partire si scopre invece che la Russia ha iniziato a sperimentare la clonazione umana: ci si ritrova infatti dinnanzi alla perfetta copia sovietica degli Opeth.

Qui non si tratta di semplice ispirazione, si tratta di imitazione a tutti gli effetti: le chitarre sono identiche, sia come sonorità che come tipo di riff; le ritmiche sono molto simili; le strutture dei brani sono progressive e mutevoli; di tanto in tanto compaiono i classici respiri in chitarra acustica; la voce poi è impressionante: il growl è pressoché identico, e il clean è così aderente all’originale che se solo Mikael Akerfeldt fosse più famoso il cantante degli Alley potrebbe vincere dei premi come imitatore. In altre parole, quando ascolterete The Weed vi sembrerà di essere davanti ad un ipotetico nuovo album degli Opeth. Non rimane che dedicarvi al famoso giochino: trova le differenze! Personalmente qualcuna l’ho individuata: posso segnalare un uso leggermente maggiore della grancassa, così come posso segnalare l’effimera tastiera verso metà di Fading Fall - ma come potete vedere per trovare delle differenze ci si deve proprio impegnare, quindi passo a voi il testimone.

Ma allora cosa si deve pensare di questi Alley? Cosa si deve pensare di questo loro disco d’esordio, tale The Weed? Voglio approfittare di questa situazione favorevole per esprimere qualche importante concetto sul copiare l’altrui arte. Moltissime recensioni dei più disparati album e provenienti dai più disparati siti non perdono occasione di puntare il dito contro la derivatività di certa musica, nonché contro le imitazioni che non cercano di proporre alcunché di nuovo, additandole come superflue e prive di contenuto comunicativo. Ora, finché si sostiene che molto difficilmente un album copiato da altri potrà essere un capolavoro mi trovo d’accordo. Ma il punto centrale della questione è: si vive di soli capolavori? Io credo proprio di no. E se è vero che un disco copiato difficilmente può essere un capolavoro, è altrettanto difficile che esso possa risultare piacevole? No, non lo è. Poi è vero, non ogni disco copiato è piacevole...ma questo degli Alley lo è: la musica proposta è ben lungi dall’essere banale, il songwriting è ampiamente sopra la media e riserva qualche passaggio davvero mozzafiato, il riffing è pregevole e l’esecuzione strumentale è ammirevole. Inoltre bisogna intercalarsi nella psicologia di chi suona: comporre un album musicale deve consistere necessariamente in una snervante ricerca di qualcosa di nuovo e originale? Oppure si possono comporre album musicali per puro divertimento? Io credo che questi quattro ragazzi russi siano dei fan sinceri degli Opeth e che di conseguenza trovino divertente ed eccitante imitare i loro inarrivabili idoli. Provate a proiettare su voi stessi la medesima situazione: non vi piacerebbe essere capaci di fare ciò che fanno le persone che più stimate? Non provereste soddisfazione nel realizzare di essere capaci di farle a vostra volta? Certo che sì. E poi in fondo per qualche nostalgico affezionato non è poi un male che ogni tanto spuntino band siffatte, visto che ultimamente gli Opeth - quelli veri - sembrano aver definitivamente abbandonato quel loro Progressive Death autunnale e paludoso che tanto li aveva resi celebri.

In definitiva io credo che ci siano cose ben più gravi da condannare che non le pacifiche scopiazzate, come ad esempio quelle band da quattro soldi quali Nightwish, Anathema, Amorphis ed altre che producono una musica così banale e commerciale che chiamarla musica è quasi un insulto, e lo fanno al solo fine della notorietà, dell’emancipazione dall’underground, dei dindi sonanti, svuotando così l’arte musicale di ogni significato artistico. Ecco, sono queste le band da stroncare brutalmente senza nemmeno il più piccolo briciolo di pietà, non certo gli appassionati musicisti come gli Alley che suonano quello che realmente gli appartiene, che gli scorre nelle vene, e che oltretutto in album come The Weed riescono a farlo in modo piacevole e convincente.

01 - Duhkha (04:44)
02 - Coldness (05:58)
03 - Dust Layer (09:11)
04 - Hessian Of Rime (07:21)
05 - Fading Fall (10:23)
06 - Jaded Mirrored (11:21)
07 - Days For Gray (14:35)

lunedì 27 febbraio 2012

Another Destiny Project - "Tell Me What You See..."

Autoprodotto, 2012
Nonostante gli Another Destiny Project si definiscano come un gruppo a metà tra Power e Industrial Metal, non riesco a ravvisare sufficienti influenze Industrial per poterli includere in tale genere. Forse la mia conoscenza del genere è limitata, ma quello che le mie orecchie percepiscono in questo primo full - length autoprodotto è un semplice, piacevole e ben costruito power metal che ruba qualche influenza dal progressive e ancora di più dal thrash metal, ma che non possiede la carica negativa e dissonante tipica dell'industrial, quella sonorità che mette i brividi per la sua freddezza. La musica degli Another Destiny Project è invece priva di quella cattiveria fredda, macchinosa e disumana, risultando molto più abbordabile anche a orecchie non abituate all'heavy metal. Ciò non significa che la musica non possa essere aggressiva e prorompente: il primo disco di questi ragazzi italo - croati non si risparmia infatti in quanto a potenza sonora, proponendo brani piuttosto compressi e concentrati, quel tanto che basta per rendere ogni episodio un circoscritto attacco alle nostre orecchie. Ben suonato, ben prodotto e ben congeniato, il disco è una carrellata di brani basati su un riffing di chitarra piuttosto tecnico e su una vocalità pulita ma affilata, spostata sulle tonalità acute come vuole la migliore tradizione power metal. Linee di tastiera a tratti frenetiche e a tratti dolcemente solari riescono a impreziosire i brani nei momenti in cui meno ce lo aspettiamo, e anche se le timbriche sono forse un po' troppo artefatte, risultano convincenti nell'economia dei brani: in fondo, non stiamo parlando di musica trascendentale, ma solo di un buon power / thrash metal che riesce bene nel suo scopo basilare, far muovere un po' il sedere sulla sedia e meglio ancora durante un bel concerto, con il volume sparato a mille e tanta birra a condire il felice momento.

Pur non proponendo nulla di particolarmente innovativo, gli Another Destiny Project sono sicuramente una band onesta: suonano la musica che gli piace e che può piacere anche a molte altre persone, specialmente se calata durante un determinato contesto. Tra brani veloci, stacchi melodici ariosi e ballate semiacustiche il disco scorre via piacevolmente, senza far gridare al miracolo ma senza nemmeno annoiare. Insomma, direi che le potenzialità ci sono, il gruppo può fare ancora molta strada ed è quindi doveroso promuovere gli sforzi dei musicisti con un giudizio sostanzialmente positivo.

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01 - R.E.M. (0:46)
02 - Insomnia (2:07)
03 - Sleepwalker (4:05)
04 - Doomsday (3:43)
05 - Once Again (5:49)
06 - Sand (3:56)
07 - Rorschach (4:29)
08 - Life Of Lies (3:45)
09 - Assembly (5:17)
10 - In My Name (4:54)

Summoning - "Oath Bound"

Napalm Records, 2006
Certe volte bisogna davvero arrivare fino in fondo, per comprendere la verità. Sembra un assioma banale, ma ricorre nella vita più spesso di quanto si creda: quando ormai si pensa di aver visto tutto e di conoscere ogni sviluppo di una certa situazione, si può essere smentiti in modo talvolta clamoroso. Questo è il pensiero che mi è venuto in mente non appena ho terminato di ascoltare "Oath Bound", complessivamente l'ottava produzione discografica del duo austriaco Summoning.

Come ogni band che ha costruito attorno a sè un alone quasi mitico, i Summoning hanno sempre mantenuto uno stile personalissimo e immediatamente riconoscibile nel corso della loro evoluzione, partendo da un grezzo "Lugburz" e proseguendo poi con dischi via via più intensi e più raffinati, carichi di un pathos cinematografico e recitativo notevole. Dischi che hanno fuso l'asprezza del black metal con le più raffinate orchestrazioni ed atmosfere epicheggianti, perfettamente calzanti per un film fantasy o per un lungo viaggio mentale in terre fantastiche e variopinte (è nota la passione dei due membri, Silenius e Protector, per le saghe di Tolkien e per il fantasy in generale). In tutta questa evoluzione, lenta ma costante, l'apice era stato "Stronghold", teatro di musiche talmente appassionate e vibranti da togliere il fiato; l'ottimo successore "Let Mortal Heroes Sing Your Fame" era altresì un disco notevole, ma che non riusciva a bissare totalmente il successo del precedente disco, vero e proprio disco cardine del black epico - sinfonico. Dal 2001, data di uscita di "Let Mortal Heroes...", la band si è fatta sentire solo con il mini cd "Lost Tales", e ci sono voluti ben cinque anni prima di arrivare ad un nuovo album in studio. Dopo tanta attesa, cosa aspettarsi da questo ultimo "Oath Bound"?

Ascoltando il disco pare che non ci sia nulla di nuovo rispetto a tutto ciò che conoscevamo già. Le atmosfere ricreate dalla band si mantengono sempre sullo stesso tenore, un'attitudine pomposa e magniloquente che cerca di dipingere scenari epici e battaglieri tramite l'uso di partiture ripetitive ma elaborate, concettualmente semplici eppur raffinatissime; partiture affidate a chitarre taglienti, voci abrasive e vastissime gamme di suoni prodotti dai sintetizzatori, da sempre elemento distintivo del gruppo per il modo poliedrico e fantasioso in cui vengono usati. Musica non aggressiva nè irruenta, bensì adatta per accompagnare un viaggio mentre si lascia che la mente fantastichi un po', quasi come se fosse tutto un grande recital. Insomma, in parole povere, tutta la bellezza a cui i Summoning ci hanno sempre abituato è presente anche su "Oath Bound", tramite una nuova carrellata di brani sempre lunghi ed evocativi, piacevoli e ben costruiti, ricchi di idee melodiche valide e di sviluppi convincenti. Brani drammatici e possenti come "Across The Streaming Tide", "Northward" e "Might And Glory" sono la conferma che i Summoning non hanno perso nulla della loro vena artistica e compositiva, come del resto ci si poteva aspettare, dopo una carriera lunga e ricca. "Oath Bound" non è molto diverso dagli album che l'hanno preceduto: alcuni piccoli elementi di novità sono presenti, ma sono complessivamente poca cosa. Cori in pulito che cominciano a prendere piede, uso delle percussioni più intenso, brani completamente privi di chitarra ("Mirdautas Vras"): piccole innovazioni che comunque sono assimilabili a dettagli marginali. La sensazione di deja vu si protrae per tutte le sette canzoni dell'album, ma quando arriva il pezzo conclusivo siamo di fronte alla svolta inaspettata di cui parlavo all'inizio, quella che nessuno si aspetterebbe in quel momento: la conclusiva "Land Of The Dead" è l'anima dell'album, il motivo per cui questo disco deve essere acquistato, la somma massima delle capacità artistiche dei Summoning. La sorpresa imprevedibile è proprio questo meraviglioso brano di quasi tredici minuti (il più lungo mai composto dai Summoning), affidato a melodie spettacolari, chitarre e percussioni potentissime, suoni di incredibile spessore, voci appassionate e intense: una sorta di estremizzazione di tutte le caratteristiche migliori dei Summoning, concentrate tutte in un unico brano. Provate a non commuovervi ascoltando l'ottavino che introduce le prime strofe, o il largo e malinconico corale conclusivo al quale è appaiato un dolcissimo flauto (stavolta vero!): non ci riuscirete, sentirete gli occhi appannarsi dall'emozione e capirete che Protector e Silenius hanno realmente superato se stessi. Posso dire senza remore che si tratta del miglior brano mai composto dal gruppo, che trova spazio negli ultimi solchi dell'ultimo album, come a simboleggiare il capolavoro definitivo e irripetibile.

Giunge quindi il momento di tirare le somme. Sostanzialmente, ritengo che "Oath Bound" sia l'ennesima spettacolare prova discografica dei Summoning, in pieno accordo con il loro stile e perfettamente coerente con la musica a cui ci hanno sempre abituato, cosa che farà felici tutti i loro fan storici e renderà il disco un buon terreno di prova per chi ancora il gruppo non lo conosce. Non hanno cambiato quasi niente dai tempi di "Minas Morgul", ma hanno via via fatto tesoro dell'esperienza e raffinato il loro sound fino a completare quello che potremmo considerare il compendio delle loro migliori capacità. Proprio per questo motivo, la sensazione di "deja vu" non disturba affatto. E poi c'è lei, quella "Land Of The Dead", che costituisce la scintilla divina, l'elemento in più che trasforma un ottimo disco in un capolavoro, così come la complessità dei sentimenti umani trasforma la vita in un'esperienza straordinaria e irripetibile, elevandola dallo status di mera permanenza sul pianeta Terra. Procuratevi dunque questo gioiellino, ne vale davvero la pena.

"Upon the plain, there rushed forth and high
Shadows at dead end of night and mirrored in the sky

Far far away
beyond might of day
And there lay the land of the dead
of mortal cold decay..." 

01 - Bauglir (2:58)
02 - Across The Streaming Tide (10:20)
03 - Mirdautas Vras (8:13)
04 - Might And Glory (8:26)
05 - Beleriand (9:27)
06 - Northward (8:39)
07 - Menegroth (8:12)
08 - Land Of The Dead (12:50)

venerdì 24 febbraio 2012

Kathaarsys - "Verses In Vain"

Silent Tree Productions, 2007
Dopo aver fatto ristampare il loro esordio autoprodotto, Portrait Of Wind And Sorrow, alla Concreto Records nel 2006; dopo aver firmato un contratto con la Silent Tree Productions; dopo aver rinnovato la formazione cambiando due membri su tre; dopo aver compiuto un salto di qualità nell’artwork della cover, che da un muschiame indistinto si tramuta ora in una splendida foresta con tanto di albero secolare, e nel logo, che da scritta qualunque improvvisata prende ora le sembianze di uno splendido arzigogolo miniato che a sua volta riprende il tema naturalistico della foresta; dopo aver fatto tutto ciò - e a tempo di record! - ecco che nel 2007 gli spagnoli Kathaarsys sono già pronti a sfoderare il loro secondo full-length, uscito con una formazione che rimarrà stabile nel tempo:

- J.L. Montáns, leader e fondatore della band, come cantante e chitarrista;
- Marta Barcia al basso;
- Adrián Hernández alla batteria.

In questo rapido valzer di notizie e novità, quello che paradossalmente sembra essere cambiato poco è la musica: Montáns ricomincia proprio da dove era rimasto, dal suo epico Progressive Black Metal che stavolta colpisce di striscio anche i volti di Death e Doom, e alla domanda “lascia o raddoppia” ecco che lui raddoppia: il risultato è “Verses In Vain - Etude About Death in E Minor, Narration And Drama in II Acts”, un ambiziosissimo doppio CD della durata di quasi novanta minuti spalmati su appena cinque brani, cinque articolate suites che compositivamente parlando cercano proprio di riprodurre quell’attitudine quasi inafferrabile della musica classica alla quale fa riferimento il titolo, in cui brani non seguono semplicemente un paio di motivetti fissati ma si evolvono in direzioni sempre diverse. Da questo punto di vista Verses In Vain mi ricorda parecchio Morningrise degli Opeth, con quel songwriting apparentemente un po’ sconclusionato che ha però il merito di far vivere mille emozioni diverse, tutte concatenate, una dopo l’altra ed una dentro l’altra. Non c’è tempo di seguire una trama che subito lo scenario cambia, e ci si ritrova ad essere parte integrante di un vortice di idee e melodie che tra arpeggi, assoli e blastbeats stimola la mente e fa correre scalza la fantasia sull’erba imperlata di rugiada di un verde sconfinato prato. Ma per apprezzare fino in fondo le scorribande musicali di Verses In Vain bisogna conoscerne la trama: per quanto ho potuto discernere si tratta della descrizione degli ultimi istanti di vita di un uomo, tale “the insignificant one”, che, recatosi in una foresta, si suicida. Si tratta di cinque momenti, cinque fasi che costui vive nella propria psiche, una per ciascun brano, tutte condite da uno squisito simbolismo naturalistico in linea con la percezione cosciente dell’uomo. L’introduzione Doom/Death di Doomed In The Black Abyss è il modo migliore per figurare l’entrata nella foresta, luogo contemplativo in cui i raggi del sole possono a malapena penetrare le folte, alte chiome verdi degli alberi; ed è qui che l’uomo viene risucchiato in un turbinio di pensieri e ricordi che ci parlano delle sue sofferenze.

He talks... l’uomo sembra intento nel suo monologo interiore, facendo intendere chiaramente tutta la sua delusione nei confronti della vita e del mondo in cui ha vissuto. Sebbene cerchi di prendere tempo egli sa già quale sarà l’epilogo di questo suo ultimo viaggio, di questo suo ritorno alle origini della natura.

...Now the forest talks to him... dopo aver espresso il suo dolore, il suo rancore e la sua mascherata rassegnazione, gli sembra quasi che la foresta gli risponda cercando ora di spronarlo, ora di compatirlo; ma ovviamente si tratta solo di un’elaborazione mentale dei complessi che si agitano nella sua psiche in questi attimi di irreversibile scoramento, un velleitario risveglio di vecchie esperienze di vita che si manifestano consciamente sottoforma di voci interiori.

...He thinks about the stagnant water in the abyss... l’uomo allora riflette su quanto ha concepito finora, ma sente che la voglia di vivere è ormai solo un vago ricordo. La sua attenzione viene inghiottita dall’abisso, dall’oscuro abisso in cui ristagnano le putride acque della morte, quello stesso abisso psicologico di cui Nietzsche dice “E quando guarderai a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarderà dentro di te”.

...He feels the abyss... l’abisso è ipnotico, lui lo fissa e quindi l’abisso guarda dentro di lui, scrutando le sue più intime profondità...egli si sente come spogliato, nudo al cospetto di siffatta voragine il cui richiamo è ormai troppo forte, e non può fare a meno di camminare verso la sua eterna oscurità...

...He says farewell. L’uomo trova la forza psicologica definitiva per compiere il gesto estremo in precedenza pianificato, e lascia questo mondo.

Il finale di In The Everlasting Misery assiste dunque al suicidio dell’insignificante, ed è accompagnato da una mesta outro in pianoforte che coi suoi magnifici toni sfiorenti ricorda una sorta di onoranza funebre. Solo ora la scelta musicale compositiva, estremamente frammentaria e inafferrabile, risulta del tutto comprensibile: essa ci narra degli stati mentali che vive il protagonista, ci narra degli ultimi pensieri della sua vita, degli ultimi istanti in cui necessariamente le emozioni più contrastanti si mescolano l’una con l’altra, passando repentinamente da momenti di falsa serenità all’apprensione più lancinante, da incontrollati ma effimeri scatti d’ira ad un’inguaribile grigia rassegnazione: la rassegnazione al fatto che il mondo delle favole promessoci da bambini è solo una finzione, non è reale, non esiste, e quindi non si può far altro che convivere con la dura e cruda realtà dei fatti, al cospetto della quale il suicidio rimane l’unica via d’uscita.

Non resta che balzare in piedi e ricoprire i Kathaarsys di applausi scroscianti per questa fantastica opera che hanno dato alle stampe, un dramma raccontato per mezzo di un dramma il cui vero dramma è forse il fatto che probabilmente rimarrà sconosciuto anche alla maggior parte di coloro che il Metal lo masticano quotidianamente. Il che è realmente un dramma...perché Verses In Vain è uno di quei dischi sui quali si potrebbe scrivere un libro, così ricco e intriso di significati ed emozioni com’è. E allora quali pretese posso avere io di rendergli giustizia con queste poche irrisorie righe di recensione? Nessuna pretesa infatti, ma il mio scopo sarà raggiunto se per mia mano qualcun altro saprà farsi rapire completamente dalle spire di questo insaziabile monolite, proprio come è successo a me.

Disco 1
01 - Doomed In The Black Abyss (19:52)
02 - And All My Existence In Vain... (16:21)
03 - The Revenge Of The Old Spirit Will Never Arrive (13:17)

Disco 2
01 - The Dawn Leaves Pieces Of Rottenness(15:46)
02 - In The Everlasting Misery (20:22)

Septic Mind - "Истинный Зов (The True Call)"

Solitude Productions, 2011
Qualcosa è cambiato.

Ancora i Septic Mind, ancora per la Solitude, ancora un album di un’ora e ancora diviso in tre lunghe tracce cantate in russo; ma qualcosa è cambiato. Quel logo che da vissuto e quasi barocco è divenuto semplice e minimale, e l’immagine della cover che da un fastoso turbine ocraceo si è ridotta ad un malinconico vecchio teschio grigio, ne sono dei chiari sintomi. Cosa ci si deve aspettare da una simile apparenza di decadimento e miseria?

La musica di Истинный Зов, alias The True Call, parla chiaro a dispetto dell’alfabeto cirillico: tutto è avvolto in un grande abbraccio atmosferico che non lascia traspirare nulla; l’importanza di quel fiume di sintetizzatori che già animava The Beginning è cresciuta a dismisura, e per spessore e persistenza l’atmosfera di The True Call si configura come la scrosciante parete d’acqua di un’alta cascata, il cui vapore acqueo si innalza danzando e ovattando la visuale. Il pezzo forte ci è offerto come primo piatto: i primi quindici minuti dell’omonima opener costituiscono un eccellente esempio di musica di incommensurabile valore in cui si intreccia di tutto un po’, da un arpeggio introduttivo dolcemente malinconico a degli zampilli quasi psichedelici, una rigogliosa fauna di suoni ed echi che si diffondono su di un soffice tappeto intessuto dalle quattro corde, ma soprattutto una pazzesca progressione melodica che mette i brividi. E qui non sto parlando di Funeral Doom, di Atmosphere, di Noise o di qualunque altro genere: sto parlando di musica nella sua accezione più generale, perché certi momenti musicali meritano di essere apprezzati a prescindere dalla loro classificazione, dalla loro appartenenza, dalla loro matrice. Altri momenti memorabili sono le ammalianti sonorità nella parte finale di Doomed To Sin, che hanno una vena quasi Folk, e il singolare arpeggio nelle prime fasi di Planet Is Sick. Ma le sorprese non si estinguono certo in appena quindici minuti: proseguendo con l’ascolto ci si rende conto che quello che un tempo era un Funeral Doom succube della grandiosità degli Esoteric è stato ora lucidato a nuovo e trattato con robuste iniezioni di sana personalità, ed in certi momenti tende persino verso una lontana meta Sludge. Si pensi che dopo l’intro di Doomed To Sin, costituita da un riff memorabile, per qualche istante sembra addirittura di sprofondare nei Khanate! The True Call è un disco che sa regalare emozioni e colpi di scena, degno di essere ascoltato ed ammirato, non c’è dubbio.

Il punto un po’ più deboluccio della band, posto che si debba trovare a tutti i costi un punto debole, consiste a mio avviso ancora una volta nelle chitarre ritmiche, o meglio in quei momenti nei quali esse vengono abbandonate dai progressivi ricami melodici ed elettronici. Non voglio dire che siano brutte o insufficienti, ma solo che si tratta di chitarre nella norma, quasi un ossimoro se contrapposte all’irresistibile creatività del resto della musica. Emblematici in tal senso sono i dieci minuti finali di The True Call, decisamente di un altro passo in confronto ai fantastici primi quindici. Fortunatamente però questi momenti di eclissi sono radi - molto più radi che nel vecchio The Beginning! - e di conseguenza i brani sono liberi di manifestare tutto il proprio valore. I Septic Mind si stanno muovendo in una direzione molto promettente che sembra porre in secondo piano i giganteschi ripetitivi riffoni di chitarra, relegandoli a mero sfondo, a vantaggio di una greve coltre fuligginosa di noise fluttuanti e sonorità inusuali, così fitta e densa che anche scrutandola con sguardo penetrante non si intravede cosa essa si prodighi ad avvolgere e celare. Questo temo che potrà rivelarcelo solo il futuro, ma l’attesa sarà lieta, perché ho come l’impressione che se i Septic Mind continueranno a seguire questa personale vena creativa potranno arrivare a inventare dei dischi impensabili. Per ora la mia non è null’altro che una tenue - ma motivata - speranza; chi vivrà, vedrà.

Vorrei chiudere con un’ulteriore considerazione. In ambito Doom la Solitude, tra alti e bassi, ha messo sotto contratto svariati gruppi di buon livello che come minimo sono degni di essere ascoltati più di una volta, ma per essere sincero ben pochi di essi riescono ad oggi a toccare vette di grande valore. I Septic Mind ci riescono ora con The True Call, loro terzo album e secondo per la label russa, andando così di diritto a completare l’attuale triade delle teste di serie della Solitude Productions al fianco di Ea ed Abstract Spirit. Complimenti!

01 - Истинный Зов (The True Call) (25:35)
02 - Обречён Грешить (Doomed To Sin) (18:43)
03 - Планета Больна (Planet Is Sick) (14:41)

Blut Aus Nord - "The Mystical Beast Of Rebellion"

Oakenshield, 2001
A volte il silenzio vale più di mille parole.

Molte band sono famose per aver cominciato la propria carriera suonando un certo genere, e poi per essere passate a suonarne un altro. Spesso ciò avviene con l’ausilio di un disco di transizione, che tiene temporaneamente ancora buone alcune caratteristiche del vecchio stile ma al contempo ne introduce di nuove. Non così per i Blut Aus Nord: la loro transizione si è incarnata in cinque anni di silenzio discografico, rotti improvvisamente da The Mystical Beast Of Rebellion. C’è qualcuno che lo ritiene comunque un album di transizione tra il vecchio Black Metal degli anni ’90, vedi Ultima Thulee e Memoria Vetusta I, e il futuro Avantgarde Black Metal che verrà da The Work Which Transforms God in poi. A mio avviso invece qui non c’è alcun segno di transizione: The Mystical Beast Of Rebellion appartiene già pienamente al periodo Avantgarde della band, e al di là delle gracchianti chitarre ritmiche e dello scream taglientissimo non ha nulla che lo possa ricondurre al Black classico, men che meno al loro Black Metal epico e sognante. I Blut Aus Nord sono entrati nel tunnel del silenzio che suonavano Black Metal, e ne sono usciti completamente trasformati; niente transizioni visibili. Ai francesi non restava ora che trovare le giuste coordinate in questo nuovo spazio in cui allora muovevano i primi passi.

Che cosa dispendia The Mystical Beast Of Rebellion una volta che viene fatto girare nello stereo? Disagio, ombrosità, claustrofobia. Ai Blut Aus Nord sembra essere ceduto il terreno sotto i piedi, e quelle alte montagne nelle vallate delle quali risuonavano le loro epiche melodie sembrano essere state inghiottite dalle viscere di una terra rotta da un inenarrabile cataclisma. I loro echi portati dal freddo vento montano sono ora divenuti strazianti grida provenienti da una cella buia ed umida sepolta in un posto non meglio specificato; la loro musica immaginifica e naturalistica si è tramutata in un invisibile grido che proviene dal profondo dell’inconscio. Questa è la caduta dei Blut Aus Nord, questa è “The Fall” in sei capitoli che dispendiano riff gracchianti e spesso ripetitivi su ritmi serrati e assai poco variabili, sonorità metalliche e aliene ed uno scream raschiante come gli artigli del carnefice che solcano la carne della vittima: è questo l’impenetrabile muro sonoro che i Blut Aus Nord erigono con The Mystical Beast Of Rebellion, questo e niente altro. Una muraglia cinese psicologica costruita con pochi mattoni. Un disco di una pochezza allarmante. E però un disco denso, carico di soffocante angoscia. Non si tratta infatti di una caduta reale, bensì di una caduta simbolica che conduce all’ascensione e alla catarsi del loro Black Metal: ciò che un tempo risplendeva sotto la luce del sole è ora rilegato in qualche sperduta profondità, e va colto con coraggio ed audacia.

Alla fine di questa estenuante cavalcata il modo migliore per rendere l’idea della nuova direzione che i Blut Aus Nord hanno intrapreso con questo disco è costituito dal finale, davvero emblematico: l’ultima traccia non dura dieci minuti come suggerisce la tracklist, bensì poco più di sette; il resto è silenzio che scorre verso una hidden track. Allora si segue il silenzio con apprensione aspettando che la musica riparta per il gran finale, mentre il display dello stereo segna 08:00, 08:30, 09:00, 09:30, 10:00...quando il disco finisce senza che nulla sia successo. E’ veramente necessario inserire una hidden track per ottenere una hidden track? I Blut Aus Nord lo fanno senza farlo. Un finale intenso tutto giocato sui nervi - poco importa se c’è solo silenzio, ciò che conta è la situazione psicologica che si viene a creare durante l’attesa, e quindi questo vuoto finale costituisce una parte dell’album a tutti gli effetti. Così come il silenzio ha guidato la transizione musicale della band, allo stesso modo il silenzio chiude questa prima emblematica effige e ci proietta verso gli sviluppi futuri.

A volte il silenzio vale più di mille parole.

01 - The Fall: Chapter I (06:39)
02 - The Fall: Chapter II (07:43)
03 - The Fall: Chapter III (03:38)
04 - The Fall: Chapter IV (06:51)
05 - The Fall: Chapter V (06:01)
06 - The Fall: Chapter VI (10:23)

Bejelit - "Hellgate"

Battle Hymns Records, 2004
Signore e signori, sono lieto di annunciarvi un esempio encomiabile di come dovrebbe suonare il Power Metal.

Avete presente tutti quei dettagli che inducono molte persone a detestare tale genere? Parlo di strutture banali fino alla nausa, di riff basati su due note in assenza di idee migliori, di ritmiche clonate di brano in brano, di voci fin troppo gaie di pseudo-cantanti che latrano in una notte di luna piena durante il proprio ciclo estrale: ebbene, nulla di tutto ciò affligge i Bejelit, band piemontese che esordisce nel 2004 con Hellgate. Quello che i Bejelit hanno inciso su disco è un esempio di Power Metal disinibito, molto aggressivo e molto personale, completamente libero da tutti i cliché del genere e al tempo stesso parecchio ispirato.

Attraversando la porta dell’inferno non troverete brani banali ad annoiarvi, niente che si addormenti passivamente sulla nauseante soluzione strofa-ritornello; nessuna traccia di autoplagio, né tantomeno i disdicevoli abusi del pur glorioso falsetto. Del resto avete varcato la porta dell’inferno, non del paradiso! Qui ci si diverte! Troverete infatti ad accogliervi tra le fiamme corposi giri di chitarra alla velocità della luce e le classiche pedalate di grancassa intrecciati con abilità e dovizia di saggezza, e senza che ci si fossilizzi sopra a sproposito; troverete un basso intraprendente, scoppiettante, spesso eretto in prima linea invece che rimanere sepolto senza lode e con molta infamia sotto le frustate delle chitarre; troverete una band che riesce a racchiudere una favolosa suite come The Haunter Of The Dark in appena quattro minuti e mezzo; una band che in perfetta tradizione Power si concede anche alla ballad, ma che quando lo fa il risultato è qualcosa di spettacolare come I Won't Die Everyday; una band che chiude un grande disco con un grande brano, In Void We Trust, epico, oscuro e progressivo, che sbiadisce su un pianoforte che ha un che di magico. Com’è possibile riscontrare una tale fastosa abbondanza in un disco Power? E’ possibile perché l’intelligenza dei Bejelit consiste anche nel saper interpretare un po’ tutti i modi possibili di suonare il Power: dallo stile classico ai cori epici, dai sintetizzatori orchestrali ai taglienti riff thrash-oriented, il tutto fuso insieme con grande maestria. In un tale sfarzoso contesto anche quel paio di brani che ricordano maggiormente il Power classico, cioè Dust In The Wind e Slave Of Vengeance, risultano bramosi e accattivanti, dimostrando che il vero problema del Power classico non è tanto il singolo brano quanto la generale mancanza di idee. Mancanza che qui manca, sicché per doppia negazione otteniamo un’affermazione di sostanza ed energia: affermazione che porta il nome di Hellgate, un disco per tutti coloro che non credevano che il Power potesse dare tanto. Vi ricrederete.

01 - BloodSign (03:19)
02 - Bones And Evil (06:02)
03 - The Haunter Of The Dark (04:30)
04 - I Won't Die Everyday (06:11)
05 - Slave Of Vengeance (03:31)
06 - Skull Knight Ride (05:03)
07 - Death Chariot (05:18)
08 - Dust In The Wind (05:02)
09 - Bejelith (04:29)
10 - In Void We Trust (08:08)

martedì 21 febbraio 2012

Drudkh - "Songs Of Grief And Solitude"

Supernaul, 2006
Dopo aver pubblicato diversi album di ottimo valore per quanto riguarda il filone pagan black atmosferico, tralaltro a ritmi molto sostenuti (in certi casi addirittura più di un album all'anno), gli ucraini Drudkh producono quella che rimarrà la mosca bianca nella loro nutrita discografia: un album totalmente acustico e strumentale contenente puro folk slavo, suonato senza distorsioni nè effetti artificiali di alcun genere. Due chitarre acustiche dalla timbrica calda e intensa, qualche breve ma riuscita incursione di strumenti a fiato, e nient'altro. Melodie cristalline, pulite e ripetitive si rincorrono per tutto il disco, andando a ricordare non poco dischi come il seminale "Kveldssanger" (anche se non si può paragonare il folk scandinavo a quello slavo, sono due cose molto diverse) e, secondo me, riuscendo tranquillamente ad eguagliarlo in quanto a intensità emotiva, la quale non segue necessariamente la complessità tecnica ed esecutiva che qui è francamente scarsa. Niente voci, niente basso, percussioni ritmiche ridotte ad alcuni sporadiche e soffici carezze sui tamburi: insomma, una musica spoglia di qualsiasi orpello, che si regge unicamente sull'emozione che provoca. Cosa c'è di più affascinante e stupendamente anacronistico di un album che, in un momento storico nel quale gli effetti elettronici e i suoni artificiali spopolano, decide di affidarsi unicamente alle corde di nylon e al vibrare dell'aria dentro un flauto?

"Songs Of Grief..." è indubbiamente un album di folk tradizionale, come riportato anche nello stupendo e rustico booklet; tuttavia, lo è solo fino ad un certo punto, poichè quasi tutti i brani di questo album sono parziali rivisitazioni acustiche di pezzi già scritti dagli stessi Drudkh in passato. Bisogna specificare che non sono gli stessi brani "rivestiti" con strumenti diversi: vengono mantenuti solo alcuni riff e alcune melodie, il resto è tutto inedito. In veste acustica, i brani acquistano un'atmosfera ancora più particolare, che ne esalta la componente malinconica e drammatica, nonchè lo spirito panteistico e strettamente legato alla Madre Terra. Nonostante alcuni momenti paiano perfino sereni e tranquilli, in realtà il disco è permeato da una continua tristezza, da una sensazione di inquietudine perenne che non può essere facilmente mitigata. "Songs Of Grief..." non è un disco felice, come del resto recita il titolo: è invece un ricettacolo di sofferenza, espressa in modo delicato ma contemporaneamente poderoso.

Poco importa se gli elementi sono pochissimi, se i brani sono abbastanza ripetitivi, se non ci sono grandi variazioni stilistiche tra un pezzo e l'altro: quando la musica ha qualcosa da comunicare, può farlo sia con cento strumenti che con uno solo, e raggiungerà comunque il suo scopo. Il disco brilla di luce propria esattamente per questo motivo: pur basandosi su due soli strumenti, ha tantissimo da dire e riversa le sue emozioni come un torrente inarrestabile, calmo ma capace di erodere il granito, se lasciato libero di agire indisturbato. I brani scorrono l'uno dopo l'altro con fluidità, catturandoci silenziosamente nel profondo e lasciandoci con il fiato sospeso, nell'attesa di sentire come quelle due magiche chitarre riusciranno a far vibrare all'unisono le proprie corde con le nostre, interne. Momenti davvero emozionanti si susseguono senza dover aspettare troppo tra uno e l'altro, anche perchè la brevità del disco fa sì che in poco tempo esso sia già finito. E quando finisce, molto probabilmente schiaccerete di nuovo play e andrete a ripescare il brano che vi ha fatto emozionare di più tra tutti, per poi riascoltarlo ancora e ancora.

"Songs Of Grief..." dimostra ancora una volta come il black metal abbia un'altra faccia: abbandonate le potenti distorsioni, i ritmi rocciosi e le voci gracchianti e primordiali, insomma dopo essere stato spogliato di tutto ed essere stato ridotto al nucleo emotivo, esso si rivela come un'intima confessione di dolore e raccoglimento, che cerca redenzione nella bellezza della natura e nella sua immane potenza. In questo i Drudkh hanno fatto centro, confermandosi come una band piena di talento e idee, capace di variare il proprio stile e di sperimentare, nonostante alcuni detrattori pensino il contrario e li critichino solo per il fatto di aver pubblicato dieci dischi in dieci anni. Questo dischetto è stato ampiamente criticato, ma secondo me il problema è solo una questione di assimilazione: ci vuole tempo prima di comprendere il messaggio nascosto in un disco come "Songs Of Grief...". A mio parere non ha nulla da invidiare agli altri dischi della band, e può tranquillamente sedersi ai primi posti nella classifica. Promuovo dunque a pieni voti questo piccolo gioiello, adatto solo a chi considera la musica anche come un mezzo di riflessione, come uno strumento per cercare dentro di sè cose dimenticate e sopite.

01 - Sunset In Carpathians (2:47)
02 - Tears Of Gods (8:35)
03 - Archaic Dance (3:29)
04 - The Milky Way (9:53)
05 - Why The Sun Becomes Sad (5:45)
06 - The Cranes Will Never Return Here (3:26)
07 - Grey Haired Steppe (2:09)

Finnr's Cane - "Wanderlust"

Frostscald Records, 2010
Se gli Immortal avessero deciso di rallentare i ritmi, di eliminare lo screaming e di darsi al neofolk atmosferico contaminato dal post rock, probabilmente avrebbero partorito un disco molto simile a quello che i neonati Finnr's Cane ci propongono come loro prima uscita discografica. Il paragone può apparire bizzarro, ma andando ad analizzare il disco non è poi così lontano dalla verità. Se in generale il post rock, quando si contamina con il black metal, evoca immagini naturali spesso improntate alle stagioni fredde come l'autunno e l'inverno, il primo album di questi tre canadesi (che si presentano sotto pseudonimi) è una riuscitissima estremizzazione del concetto di "freddo" in musica.

Gli ingredienti sono più o meno sempre gli stessi del post - black metal, ma stavolta sono mischiati con proporzioni differenti. La consueta velocità del black metal canonico sfuma in favore di una musica lenta e altamente ipnotica, influenzata dall'attitudine ambient e dotata di risvolti vagamente psichedelici e onirici; solo in alcuni tratti i ritmi accelerano, all'improvviso, come per risvegliarci dal trasognato torpore che l'ascolto continuativo induce. I suoni sono gelidi, avvizziti come un albero morto in mezzo ad una tormenta di neve; non comunicano nulla di solare o positivo, ma solo un'angosciosa morsa di freddo che punge e scarnifica lentamente, con impietosa e tranquilla ferocia. Non si tratta tuttavia di suoni secchi o poveri: i muri di chitarre godono di un sound davvero ben costruito ed efficace, dotato delle giuste proporzioni tra il necessario grezzume e l'altrettanto necessaria intellegibilità. I passaggi acustici e melodici non sono abbondanti, e quando ci sono risultano comunque molto dimessi e propedeutici a successivi sviluppi glaciali; destano comunque interesse le occasionali progressioni strumentali di chitarre pulite rubate direttamente dal miglior post rock d'autore, quello che cresce lentamente e raggiunge il compimento solo dopo molte battute (ascoltate per esempio "Glassice"). Le sporadiche parti vocali sono costituite da un distante clean nascosto nelle intercapedini delle trame strumentali, un lamento lento e spiritico che conferisce alla musica un vago alone inquietante, come una preghiera panteistica. Qualche leggero sprazzo di voce sporca entra talvolta a dare il suo contributo, ma marginalmente, quasi senza far accorgere della sua presenza. I brani sono molto omogenei, contigui l'uno all'altro con apprezzabile coerenza stilistica, non particolarmente vari a livello di soluzioni, ma comunque molto evocativi e convincenti nella loro ragionata staticità ambientale. Qui sta la personalità del gruppo: sono infatti ben lontane le atmosfere luminose degli Alcest, le possenti e malinconiche linee melodiche dei Drudkh, la raffinatezza compositiva dei Fen, tutti elementi che fanno parte del sound dei grandi nomi del genere. Quello che i Finnr's Cane ci propongono è invece una catarsi animica nella quale la solitudine e la gelida desolazione sono l'imperativo. Il gruppo è riuscito a sublimare i vari elementi che hanno reso famoso il genere e a plasmarli per costruire un sound tutto loro, nettamente sbilanciato verso alcuni aspetti e per questa ragione potenzialmente molto interessante. Via libera dunque a trame strumentali ripetitive, sostenute da leggerissimi veli di tastiere e da melodie che tentennano, indugiano, girano su se stesse come indecise; benvenute le atmosfere ancestrali e severe, immuni alla luce e al calore del sole; strada spianata ai brividi di freddo che fisicamente sentiremo sulla nostra pelle ascoltando brani spettacolari come "Eternal" o "The Lost Traveller", immobili e solenni monoliti di ghiaccio che svettano su una landa desolata, come il deserto gelato dove sorge il misterioso Kadath.

"Wanderlust" è un disco giocato interamente sulle atmosfere e sulla potenza immaginativa che si sprigiona da esse, per cui a qualcuno potrà risultare noioso o poco strutturato: tuttavia, io non posso che raccomandarlo a chiunque detesti le spiagge affollate e ami la solitudine delle cime innevate, perchè ascoltando queste note vi sembrerà davvero di trovarvici sopra, avvolti da una impenetrabile coperta di gelo. Non è certamente un disco geniale nè particolarmente elaborato, si tratta solo di musica di enorme effetto per chi ama un certo tipo di sonorità: mai come in questo caso, dunque, il giudizio di un recensore è un qualcosa che deve essere completato dal giudizio di chi poi andrà ad ascoltare l'album.

01 - The Healer (3:00)
02 - Snowfall (4:51)
03 - A Winter For Shut - Ins (6:14)
04 - The Lost Traveller (6:30)
05 - Glassice (8:22)
06 - The Hope For Spring (6:03)
07 - Eternal (7:03)
08 - House Of Memory (6:15)

lunedì 20 febbraio 2012

Abstrakt Algebra - "Abstrakt Algebra"

Megarock Records, 1995
C’era una volta una grande band chiamata Candlemass che nel giro di pochi anni arrivò al successo più alto e incondizionato ispirandosi alla musica dei Black Sabbath e inventando di fatto il Doom Metal. Ma la perdita del loro cantante, fulcro e uomo simbolo Messiah Marcolin fu l’inizio della fine: seppur di buona fattura, il disco successivo fu un totale fallimento dal punto di vista delle vendite sicché la band decise di sciogliersi. Ma poiché il bassista, leader e fondatore Leif Edling era già ai tempi troppo vulcanico e ispirato per potersi tenere lontano dalla musica, mise in piedi - circondandosi di nuovi musicisti - un nuovo progetto chiamato Abstrakt Algebra, l’inizio di una nuova storia.

C’erano una volta gli Abstrakt Algebra dunque, che si presentarono con una proposta ambiziosa, sicuramente di nicchia se si pensa che proveniva da un musicista che aveva abituato il proprio pubblico ad uno stile più semplice e diretto, più epico e teatrale. Infatti l’influenza dei Candlemass è qui ridotta all’osso, confinata a radi e sparuti episodi. Si tratta piuttosto di una musica molto difficile da etichettare nonostante non sia molto complessa, una musica di matrice Heavy Metal classico e pur sempre oscura, opprimente, ma completamente priva di quel pathos fortemente epico che caratterizzava i Candlemass e che qui cede il passo a toni enigmatici, astratti, estranianti. Il più grande merito degli Abstrakt Algebra è però quello di aver introdotto un’intelligente ed ampia varietà come purtroppo di rado la si può ammirare, otto brani tutti diversi tra loro seppur uniformati sotto lo stesso mood futuristico. Si va dalla liturgica Stigmata all’isterica Bitterroot, passando per la funerea April Clouds che invade con disinvoltura l’oscuro mondo del Funeral Doom. E che dire se immediatamente dopo un simile episodio si passa a Vanishing Man, un brano dalle tendenze addirittura cyber? Stupenda è poi la titletrack, tanto nella memorabile prestazione canora quanto nelle atmosfere e nel ponte in pianoforte. Una carrellata di brani da levare il fiato perfino al divino Eolo...specialmente alla luce del fatto che non v’è traccia di uno solo di essi che scenda sotto la soglia dell’eccellenza! Le danze si chiudono che meglio non si potrebbe con Who What Where When, un brano al quale a dispetto del titolo non manca affatto un perché: un’immensa suite che ad un certo punto si infossa nelle profondità di un antro oscuro per poi tornare a nuova vita con una prestazione chitarristica da pelle d’oca e con tante altre emozioni. Dopodiché cala il sipario. Che dire? Beh, se il seguito alla gloriosa esperienza coi Candlemass dev’essere questo, ben venga! A mio modesto e soggettivo parere si tratta di uno dei dischi più belli di sempre in ambito Doom classico. Peccato però che contrariamente a quanto la qualità di quest’opera lascia presagire gli applausi dalla platea furono scarsi e freddi, e vuoi per la grande ambiziosità della musica proposta, vuoi per il nefasto riferimento alla matematica, il sipario non si rialzò più.

C’era una volta una piccola band chiamata Abstrakt Algebra che morì ancor prima dell’alba del suo secondo full-length, registrato ma mai pubblicato, condannata forse dalla sua qualità sopraffina, forse dalle inevitabili aspettative in chiave Candlemass. Per poter pubblicare tale materiale Leif Edling fu costretto a ritoccarlo e a riformare i Candlemass - sebbene con una formazione fittizia che nulla aveva a che vedere con quella che conquistò il mondo sul finire degli anni ottanta - così usando in modo inopportuno questo monicker altisonante. Inutile dire che il risultato fu penosamente ignorato...ed ecco che anche i risorti Candlemass tornarono nella bara dopo breve tempo, e tutti morirono infelici e scontenti.

Post Scriptum. A differenza di tante altre storie, questa in qualche modo ha un lieto fine: i Candlemass risorsero per la seconda volta grazie all’omonimo album pubblicato nel 2005 che vide il ritorno di Messiah Marcolin, e anche se questi lasciò di nuovo poco dopo Leif e soci continuarono in grande spolvero, approdando addirittura in Nuclear Blast. Per quanto riguarda gli Abstrakt Algebra essi non videro mai più la luce, ma per chi dovesse essersi appassionato a questo loro singolo capitolo consiglio di seguire i Krux, un altro side project di Leif Edling che riprende musicalmente proprio quanto egli iniziò a sviluppare con gli Abstrakt Algebra.

01 - Stigmata (05:42)
02 - Shadowplay (05:19)
03 - Nameless (05:34)
04 - Abstrakt Algebra (07:24)
05 - Bitterroot (07:34)
06 - April Clouds (07:26)
07 - Vanishing Man (05:31)
08 - Who What Where When (15:22)

venerdì 17 febbraio 2012

Akercocke - "Words That Go Unspoken, Deeds That Go Undone"

Earache Records, 2005
Una copertina assolutamente sensazionale che gioca alla grande sulla bicromia bianco-nero e sulla prospettiva vertiginosa ci rende edotti del fatto che gli Akercocke sembrano aver dato una grande svolta alla loro carriera: per la prima volta nella loro storia non compare una donna nuda! Ma talvolta le apparenze ingannano: infatti l’atteggiarsi dell’oscura figura che fumando si appresta a lasciare l’edificio lascia inevitabilmente supporre di aver da poco finito di consumare.

Non potrebbe esserci analisi migliore per introdurci alla filosofia musicale di Words That Go Unspoken, Deeds That Go Undone, il quarto full-length dei londinesi Akercocke: la band sembra aver in qualche misura sublimato il proprio stile, la propria incontrollata furia primordiale, completando la sintesi che il precedente ottimo Choronzon aveva audacemente iniziato. Non c’è la solita tracotante rabbia infernale, o meglio c’è ma è sotto un malefico controllo; stavolta è tutto più composto, oserei dire incravattato: proprio come la lussuria - tema ricorrente per la band - da esplicita si è tramutata in un’elegante allusione, lo stesso sembra fare la musica, la quale si rifugia dietro un ordine che ben si confà a quello di quattro diabolici gentlemen inglesi. Con questo non voglio certo dare ad intendere che la band sia scesa dalle glorie del suo personalissimo Blackened Death Metal per darsi ad una qualche improbabile forma di dark pop...sarà sufficiente tuffarsi nell’esplosiva Verdelet per poter ammirare ancora una volta tutta l’ineguagliabile classe britannica di un gruppo che si ostina a rifiutare l’idea di vivere di rendita, preferendo esplorare ogni volta sentieri non ancora battuti. Uno di questi conduce ad un piccolo “capolavoro nel capolavoro”, Shelter From The Sand, un opale degno di menzione speciale: si tratta di un brano che fluisce in un torbido oceano di tinte oscure per poi subire una catarsi verso la metà e concedersi un finale strumentale d’eccezione. Davvero notevole. Ancor più notevole però è il fatto che per il resto non ci sono particolari highlights da segnalare, non ci sono situazioni singole che si stagliano alte e fiere al di sopra del resto della musica: Words That Go Unspoken, Deeds That Go Undone è uno di quei rari dischi che pur senza strafare suonano grandiosi grazie ad una sapiente miscela musicale, in cui ogni singolo passaggio è perfettamente azzeccato, ogni cambio di scenario arriva al punto giusto e conduce nella direzione giusta, ogni singola nota è esattamente dove deve stare, e la produzione è perfetta rispetto allo stile proposto. Questo è ciò che mi pare di cogliere tutte le volte che ascolto questo stupendo disco. Tutto ciò che avete sempre amato degli Akercocke - tutto, e ovviamente di più - lo ritroverete anche qui, e ancora una volta in una nuova veste.

Le parole che non vengono dette conducono necessariamente a fatti che non vengono compiuti; eppure quest’album è stato compiuto, quindi qualcuno deve averlo detto. Non so chi sia questo qualcuno, ma lo ringrazio di tutto cuore: gli Akercocke continuano la loro marcia blasfema all’insegna della grande musica. Un disco prelibato per tutti coloro che non si accontentano del Death Metal come mamma l’ha fatto.

01 - Verdelet (04:45)
02 - Seduced (04:40)
03 - Shelter From The Sand (10:40)
04 - Eyes Of The Dawn (04:41)
05 - Abbadonna, Dying In The Sun (01:20)
06 - Words That Go Unspoken (05:12)
07 - Intractable (03:56)
08 - Seraphs And Silence (04:44)
09 - The Penance (04:32)
10 - Lex Talionis (03:29)

Falls Of Rauros - "The Light That Dwells In Rotten Wood"

Bindrune Recordings, 2011
Ultimamente sono alla ricerca sempre dello stesso tipo di sound, e grazie alle ricerche tematiche sono incappato in diverse band interessanti. I Falls Of Rauros, provenienti dal Maine, sono una di queste scoperte: per quanto non siano una band eccezionale, sicuramente sono dei bravissimi musicisti. Con questo terzo lavoro, seguito degli ottimi "Into The Archaic" e "Hail Wind And Hewn Oak", il gruppo mostra di raggiungere pienamente l'obiettivo che si è posto, facendo la gioia degli appassionati del genere.

Ma di quale obiettivo e di quale genere stiamo parlando? L'obiettivo è sicuramente quello di farci rilassare e di spedirci con la mente in un freddo bosco autunnale, nebbioso e silenzioso, facendoci quasi sentire sulla pelle quel freddo e quell'umidità che trasudano da laghi e fiumiciattoli glaciali. Il genere è quell'indefinibile commistione di black metal melodico, post rock e sonorità eteree, atmosfere grigie che non evocano alcun sentimento negativo, ma solo tranquillità e pace. Non fatevi ingannare dall'aspra voce in screaming e dagli ombrosi e pesanti suoni di chitarra che popolano "Banished": nonostante il pezzo faccia la voce grossa, deviando leggermente dalle atmosfere più folkeggianti dei primi album, è evidente fin da subito che non si tratta di un assalto sonoro. Sembra più un lento e meditativo calarsi nei meandri della natura più nascosta e ancestrale, tentando di carpirne i segreti più reconditi. Le melodie sono infatti solenni e avvolgenti, le chitarre descrivono scenari intriganti, la voce assomiglia più a quella di uno spirito della foresta che ci chiama con fare suadente, e non a quella di un demone risorto dagli abissi infernali. Non mancano ovviamente richiami agli Agalloch, ai primissimi Ulver, ai Wolves In The Throne Room, ai Drudkh e ai soliti grandi nomi: è difficile ormai non rimanere in qualche modo influenzati da band di siffatta qualità. Tuttavia, i Falls Of Rauros dimostrano di possedere comunque una buona personalità e di riuscire a non annoiare con i propri brani, che sono parecchio lunghi. A dire il vero, i pezzi veri e propri sono solo tre, mentre i rimanenti tre sono degli intermezzi d'atmosfera che si collocano al posto giusto nell'economia "meditativa" del disco. La parte del leone è svolta dall'eccellente trio dei pezzi lunghi, che si sviluppano senza fretta, alternando una calibrata pesantezza e velocità con momenti di quiete riflessiva, destreggiandosi tra assoli gentili e sprazzi di sezioni acustiche, mantenendo sempre un buon gusto melodico e un'attitudine magniloquente, ricca di simbolismo e significati nascosti. La musica è un fiume che ci trasporta con dolcezza ma irresistibilmente, un fiume che cambia continuamente direzione e si sviluppa lungo anse tortuose, così come i brani non seguono alcuno schema fisso, ma sono liberi di variare come piace a loro, di infilarsi in ogni angolo della nostra mente così come l'acqua si infiltra dappertutto, bucando perfino la roccia. Non si può negare che dietro ciascun pezzo vi sia una storia da raccontare: può essere la storia di una grande vallata, di una gigantesca frana, di un ghiacciaio che si sta sciogliendo, di una montagna sferzata dalle tempeste...l'immaginazione non ha confini, mentre si ascolta un disco come questo. L'eccezionale introduzione di "Silence" è la perfetta sublimazione di questo concetto: voglio vedere a quante persone non si stamperà in mente una qualsiasi immagine, ascoltando la gentile chitarra acustica che lascia spazio ad un incredibile e trascinante riff in tremolo picking, di quelli che fanno sognare ad occhi aperti.

Con eleganza e classe, i Falls Of Rauros ci propongono dunque una musica che non fa gridare al miracolo, ma sa essere un meraviglioso accompagnamento per le nostre fredde e desolate giornate, specialmente se trascorse in un luogo a stretto contatto con la natura, dove far fluire meglio i pensieri e le emozioni. Hanno assorbito bene la lezione dei maestri, l'hanno fatta propria, hanno evoluto il proprio sound nel corso degli anni e ora sono qui per regalarci l'ultimo, succulento frutto del loro lavoro. Lasciarlo appassire sarebbe un peccato.

01 - Earth's Old Timid Grace (3:52)
02 - Banished (10:46)
03 - Awaiting The Fire Or Flood That Awakes It (13:25)
04 - Nonesuch River Chant (1:36)
05 - Silence (9:38)
06 - The Cormorans Shiver On Their Rocks (4:29)

Drudkh - "Estrangement"

Supernaul, 2007
"Estrangement" è la settima produzione discografica degli ucraini Drudkh nel corso di quattro anni. La prolificità di questa interessante band è ben conosciuta, e li ha portati ad una certa notorietà, anche se logicamente non tutti gli album possono essere di alto livello, se si pubblica a questi ritmi. Ciò non toglie che, una volta trovata la formula giusta e i fan affezionati, i dischi prodotti successivamente possano essere di qualità sopraffina, anche se non portano particolari novità. "Estrangement", infatti, pur essendo un disco senza troppe pretese di originalità (interna ed esterna al gruppo), si distingue per essere comunque un ottimo album, ispirato e ben composto quel tanto che basta per non cadere nel dimenticatoio. Anzi, devo dire che certe sezioni di questo album sono davvero memorabili.

Descrivere il sound dei Drudkh è piuttosto difficile, trattandosi di un black metal molto personale e immediatamente riconoscibile tra mille. Forse il loro tratto distintivo sono i riff corposi e grezzi, le melodie decadenti e autunnali, i particolarissimi assoli di chitarra disseminati a sorpresa lungo i loro brani, i ritmi che ricordano vagamente la musica popolare ucraina, così come i testi cantati esclusivamente in lingua madre. Ma non saprei dire con precisione cosa li rende unici. A livello di evoluzione, qualcosina è cambiato dai tempi del primo, glorioso "Forgotten Legends" e dal successivo e altrettanto magico "Autumn Aurora"; le atmosfere si sono lievemente alleggerite e c'è stato spazio anche per qualche esperimento, come il particolarissimo album acustico "Songs Of Grief And Solitude", che precede di un anno l'album in questione. Adesso arriva questo "Estrangement", composto da quattro brani che spaziano dalla malinconia al feeling epico, passando per sezioni crude e ruvide, e inserendo alcune idee melodiche di pregevole fattura. Il black metal "naturalistico" ed evocativo tipico dei Drudkh non è stato rinnegato, e seppur non sia ai livelli dei massimi capolavori della band, non mancherà di stupire e affascinare i fan di questa corrente musicale, che ultimamente sta riscuotendo molti consensi. I tre brani principali sono lunghi, tendenzialmente minimalisti, non troppo aggressivi e popolati quasi unicamente dagli strumenti base: chitarra distorta, basso, batteria e voce. Le precedenti suggestioni folkeggianti e atmosferiche sono state quasi totalmente soppiantate, e si è ritornati indietro nel tempo, spogliando il sound di qualsiasi orpello e proponendoci un black metal "modello base": sempre made in Drudkh, ma ridotto all'osso come ai tempi di "Forgotten Legends". Una cosa che si può notare è l'accelerazione dei ritmi, come in "The Swan Road" (2005), ma ciò che davvero rende fruibile questo disco è come al solito la bellezza delle linee melodiche: i pezzi macinano riff maestosi e suggestivi, su una base ritmica lievemente confusa e perfetta per descrivere le cangianti atmosfere naturali che il gruppo evoca con maestria. I brani sono piuttosto simili tra loro e l'omogeneità è evidente, tuttavia ogni tanto la musica ci lascia a bocca aperta con passaggi davvero notevoli, come la drammatica sezione centrale di "Solitary Endless Path", il velocissimo e funambolico finale di "Skies At Our Feet" o il break melodico di "Where Horizons End", dove un riff spettacolare duetta con un assolo grondante dolore da tutte le parti. Non che il resto del disco sia insignificante, anzi: su una base già interessante di suo, questi momenti "superiori" risaltano e donano al disco quel tocco di classe in più che gli fa ampiamente superare la sufficienza. Personalmente, poi, mi sento di promuovere questo disco con un voto molto più alto della sufficienza, solo per la presenza della conclusiva "Only The Wind Remembers My Name", che ritengo il più bel pezzo mai scritto dai Drudkh: una strumentale di quattro minuti epica, tragica e sconsolata, teatro di un assolo superlativo che pare quasi raccontarci l'immensa solitudine di cui è vittima. Difficile ascoltarla senza rimanere intimamente commossi da tanta forza espressiva.

Per concludere, "Estrangement" è sicuramente un buonissimo album, suonato con passione e impegno da una band che ha forse il difetto di volersi evolvere troppo velocemente, ma che brilla comunque per la sua indiscutibile vena artistica e per la sua genuinità. Non aspettatevi i fasti di un "Forgotten Legends" o di un "Blood In Our Wells", ma aspettatevi comunque una musica suonata con il cuore e con passione. Per quel che mi riguarda, promossi con ottimi voti.

01 - Solitary Endless Path (10:54)
02 - Skies At Our Feet (10:43)
03 - Where Horizons End (10:52)
04 - Only The Wind Remembers My Name (4:00)

Sinheresy - "The Spiders And The Butterfly"

Revalve Records, 2011
I Sinheresy provengono da Trieste e sono la dimostrazione che ancora oggi si può suonare un buon power metal sinfonico senza scadere nella banalità gratuita. Io stesso, che tendo a considerare certi generi ormai inflazionati e contaminati dalla "sindrome del clone infinito", talvolta devo ricredermi e constatare che si può essere freschi e piacevoli anche senza dover portare per forza grosse innovazioni. Basta mettere nelle proprie note una buona dose di passionalità e impegno, evitando di trascinare stancamente i pezzi, e il gioco è fatto. Se alle spalle il talento c'è, ovviamente. In questo caso posso dire che c'è, senza ombra di dubbio.

Con questo primo EP, uscito con la giovane etichetta romana Revalve Records, il gruppo si presenta come fautore di un power metal piuttosto tecnico e intricato, ma che fa dell'immediatezza e della bellezza cristallina delle melodie il suo principale punto forte. Le influenze principali provengono da Nightwish (dei quali i Sinheresy sono stati a lungo una cover band, prima di iniziare finalmente a scrivere pezzi propri), Within Temptation, Theatre Of Tragedy; Epica e via dicendo: tutti nomi importanti, ma a fianco dei quali il gruppo triestino non sfigura affatto, proponendo un sound grintoso e convincente, suonato e prodotto come si deve. Cardine del sound sono le due voci, maschile e femminile: mentre normalmente le due voci si alternano tra clean femminile e growl maschile, qui entrambi i cantanti scelgono il clean: cristallino ed espressivo quello della cantante Cecilia Petrini, profondo e drammatico quello del cantante Stefano Sain, che non disdegna una certa dose di aggressività. Spetta però alla voce femminile la palma dell'espressività e del protagonismo: una voce come questa non ha nulla da invidiare alle cantanti gothic più blasonate.

I cinque brani scorrono con naturalezza, tinti da verve drammatica e malinconica, a tratti quasi operistica grazie alla nutrita presenza di trame tastieristiche, tuttavia mai invadenti. "Temptation Flame" cattura immediatamente l'attenzione con il suo riffing nervoso e sincopato, mentre le due voci pennellano trame turbinose e possenti, che fanno salire più di un brivido lungo la schiena. Anche la successiva "The Spiders And The Butterfly", più aggressiva e rocciosa, si lascia ascoltare più e più volte e conquista grazie alle sue sonorità quasi thrash, spezzate da un ritornello altamente melodico. Ancora più tirata e inquieta è "Merciless Game", giocata su una doppia cassa quasi costante e sul maggior ruolo dedicato alla voce maschile, che sporadicamente pronuncia qualche parola in growl. Un finale di grande impatto, popolato da virtuosismi e da una splendido scambio tra le due voci, fa da ponte per "Forever Us", ballata strappalacrime che è ben lontana dalle pacchianate in stile Hammerfall e compagnia bella: qui troviamo veramente un brano commovente e delicato, dove la voce della cantante può esprimersi in tutta la sua elegiaca bellezza e pulizia, mentre un violino in sottofondo pennella note dolcissime e sognanti. Particolarmente riuscita è l'unione tra le due voci, che cantano all'unisono senza stridere, essendo entrambe in pulito. L'oscura e contorta "When Darkness Falls", dal titolo programmatico, è una degna chiusura di questo breve ma emozionante EP, frutto delle fatiche di una band che mostra già un grande talento e una capacità espressiva non comune. Come dico sempre in questi casi, vale a dire quando mi trovo di fronte ad un debutto promettente, raccomando di tenerli d'occhio: il metal italiano è più vivo che mai, e sarebbe un peccato se band capaci e virtuose come questa rimanessero troppo a lungo nell'ombra.

01 - Temptation Flame (4:29)
02 - The Spiders And The Butterfly (6:11)
03 - Merciless Game (3:51)
04 - Forever Us (5:31)
05 - When Darkness Falls (5:00)

giovedì 16 febbraio 2012

Alcest - "Souvenirs D'Un Autre Monde"

Prophecy Productions, 2007
Luminoso, dolce, magico.

Questi sono i primi tre aggettivi che mi vengono in mente per descrivere il primo album dei francesi Alcest, capitanati dall'eclettico polistrumentista Neige. Questo disco demolisce completamente un teorema che rischiava di diventare una verità assoluta, vale a dire che un disco con radici black metal debba essere per forza negativo, o comunque triste, malinconico, disperato, o uno qualsiasi di questi aggettivi. Neige riesce invece, con un colpo di reni che donerà agli Alcest una meritata fama, a produrre un disco black che suona in modo completamente opposto. Bisogna specificare, per correttezza, che non si tratta di black metal vero e proprio: anzi, per essere sinceri, il black è solamente un'influenza, così come il disco è influenzato dallo shoegaze (My Bloody Valentine per esempio), dal gothic, dal neofolk e da diversi altri generi che hanno tutti una connotazione potenzialmente positiva, non per forza oscura e tetra. Le influenze black si sentono soprattutto nel sound delle chitarre, zanzarose e tremolanti; ma nel complesso finale rimane solo una delle componenti dell'album, che vengono equamente divise tra i vari generi. L'insieme di tali componenti creerà un sound che farà la fortuna degli Alcest e che verrà imitato da molte altre giovani band a seguire.

"Souvenirs D'Un Autre Monde" è un disco sorprendentemente poetico, che fin dalla prima nota rapisce con le sue melodie cristalline e candide, che evocano sogni felici e spensierati. "Printemps Emeraude" parte decisa con una linea melodica che evoca la potenza della luce solare, che vivifica tutto ciò che incontra sulla sua strada: tale sentimento luminoso traspare sia dalle parti elettriche sia da quelle acustiche, le quali frequentemente vengono ad interrompere il sognante muro chitarristico che fa dell'impenetrabilità il suo tratto distintivo. Niente voce in screaming, niente esagerazioni sonore: il soave cantato di Neige (talvolta sostituito da una voce femminile di grande espressività) è un inno alla bellezza, alla gioia, all'amore trasognato e romantico, alla felicità che sorge da una serena giornata estiva. Le tracce scorrono con una fluidità ed una naturalezza semplicemente disarmanti, sollevandoci dal grigiore terreno e portandoci in un luogo ameno, paradisiaco, che Neige identifica con la "Fairy Land", una sorta di mondo parallelo con cui ritiene di essere stato in contatto da bambino.

Le accelerazioni ritmiche, a tratti notevoli, non modificano per nulla il carattere sereno e positivo del disco: prevale sempre quella leggiadra sensazione di appagamento e di sogno perpetuo, ben lontano dall'essere uno scuro incubo. Il disco scorre senza una singola caduta di tono, senza mai un momento morto: ogni brano è pervaso da quel fervente sentimento di gioia che viene espresso alla perfezione anche da chitarre pesantemente distorte ed effettate, dimostrando che non sono solo i suoni a creare il carattere musicale, ma soprattutto le atmosfere. Semplicemente eccezionale è "Les Iris", teatro di una prova vocale spettacolare e di un maestoso finale che ci regala emozioni impagabili, trasportandoci realmente su un tappeto magico che vola in luoghi incantati; non è da meno "Ciel Errant", un viaggio attraverso un campo ricolmo di fiori variopinti e profumatissimi. Ma la sorpresa vera e propria arriva con "Tir Nan Og", giocosa e felice, che ci riporta indietro nel tempo a quando eravamo bambini ed eravamo pieni di sogni, speranze e felicità per ogni cosa che ci pioveva dal creato, anche la più insignificante. E mentre il brano pennella melodie meravigliose e prive di distorsioni, che giocano magistralmente tra tonalità maggiori e minori, è ben difficile che un sorriso non ci si dipinga sul volto, e che non ci venga da ripensare ai momenti più felici della nostra esistenza.

La musica racchiusa in "Souvenirs D'Un Autre Monde" è paragonabile all'ingenuo stupore dei bambini, che esprimono i loro sentimenti con naturalezza disarmante, senza curarsi delle brutture del mondo, che ancora non conoscono. Non c'è malizia, non c'è ironia, non c'è volontà di fare del male: tutto ciò che troverete in questi solchi è puro cuore, sincero e genuino. Le melodie di questo album sono fatte per volare alto, non per tenerci inchiodati alla terra, o peggio alle sue viscere. Ovviamente è sottointeso che un simile getto di luce abbagliante non può mancare nella vostra discografia.

01 - Printemps Emeraude (7:19)
02 - Souvenirs D'Un Autre Monde (6:18)
03 - Les Iris (7:41)
04 - Ciel Errant (7:12)
05 - Sur L'Autre Rive Je T'Attendrai (6:50)
06 - Tir Nan Og (6:10)

mercoledì 15 febbraio 2012

Onatem - "Extreme Effusions Of Violence"

Autoprodotto, 2010
I trevisani Onatem sono un'altra piacevole sorpresa nell'ambito dell'ultra underground, che in Italia trova sempre posto, anche se noi italiani tendiamo spesso a dimenticarcelo, considerando il nostro paese poco prolifico o poco interessante per lo sviluppo del metal. Errore. Pur non proponendo nulla di nuovo, infatti, questo gruppo ci regala un EP che può migliorare la giornata a molti metallari, grazie al suo sound quadrato, potente e aggressivo, che si stampa in testa fin dal primo ascolto e colpisce soprattutto a livello di impatto.

Il quartetto nasce nel 2005 e si fa conoscere tramite diversi concerti live, fino alla pubblicazione del loro primo prodotto discografico "Mind Of A Suicide Birth", a cui fa seguito questo "Extreme Effusions Of Violence", che già dal titolo mostra molto bene ciò che vuole trasmetterci: una scarica di violenza ragionata ed efficace, espressa da brani tendenzialmente lenti, cadenzati e popolati da chitarre che ricordano molto lo stile dei vecchi, gloriosi Pantera. Chitarre che sfoderano un riffing interessante, non scontato nè eccessivamente monotono. La rabbiosa voce di Matteo Santi è un misto tra gli stili di Phil Anselmo (Pantera) e Jens Kidman (Meshuggah): una prova davvero notevole e convincente, che si merita tutti i complimenti del caso (non che gli altri musicisti siano da meno). Quella degli Onatem è una musica perfetta per fare headbanging, distruggendosi le vertebre del collo ma con il piacere di farlo: come resistere agli assalti sonori delle varie "Armageddon", "Another Me Killing God", "The Torch Of The Dark", che tuttavia lasciano spazio perfino a qualche sprazzo di melodia (il sorprendente assolo di "Desolation") ? Nelle nostre orecchie si riversa un fiume di metallo incandescente e distruttivo, quel buon vecchio thrash metal che sa regalare molte soddisfazioni quando è ben suonato. Insomma, un disco che non ti cambia la vita, ma che ti fa sentire felice di essere metallaro: non è poco, decisamente! Non mi resta quindi che promuovere gli Onatem, raccomandandomi che continuino a suonare musica in grado di far scuotere le nostre malconce teste, così da fare pace con un mondo spesso ingiusto. Da tenere d'occhio con fiducia.
01 - Intro (0:41)
02 - Armageddon (2:48)
03 - Everything Is Unknown (3:39)
04 - Another Me Killing God (3:20)
05 - Desolation (5:33)
06 - The Torch Of The Dark (3:39)
07 - The Art Of Deception (2:52)

martedì 14 febbraio 2012

Frozenbleed - "Distance"

Autoprodotto, 2012
Un mestissimo pianoforte, con deboli suoni elettronici di sottofondo, è il biglietto da visita con cui ci accoglie "Distance", primo EP della giovane band italiana Frozenbleed. Un EP che fa della depressività il suo scopo, proponendoci cinque tracce votate alla più completa rassegnazione e all'incapacità di reagire alla condizione umana.

Più vicini al gothic rock che al metal in senso stretto (del quale mantengono comunque le influenze), il loro suono ricorda quello di band come Sentenced, HIM, ultimi Anathema e ultimi Katatonia, spogliati della componente metal e riproposti in versione ancora più suadente e gentile. Solo di rado le chitarre si fanno sentire davvero, mentre per il resto la band preferisce mantenere i propri strumenti in sordina, nel tentativo di cullare l'ascoltatore in una malinconia continua e avvolgente. "Distant Reflections" ne è un buon esempio: toni dimessi, voce pulita che si adagia soffice su un tappeto strumentale mai troppo corposo, temi improntati alla tristezza; solo in brevi momenti la musica si risveglia leggermente dal torpore e sembra accelerare un po', ma ciò non dura che pochi secondi, dopodiché si ritorna in questo limbo vellutato e romantico. Tocca ad "Autumn Leaves" il ruolo di mostrare il lato più diretto dei Frozenbleed, tramite un tappeto chitarristico più marcato e ritmi leggermente più sostenuti. Su ciò si stagliano melodie delicate e rilassanti, quasi shoegaze, insieme ad una voce che a tratti ricorda quasi i Katatonia più depressi; molto riuscito è anche l'accompagnamento di pianoforte che corre parallelamente alle chitarre. "Absence" mostra un feeling più oscuro e tenebroso, nonché accenni di growl "sussurrato" che fa il paio con la voce pulita; un brano intriso di malessere, non più così rilassante come il disco ci aveva fatto credere di essere. Anche "Lost Fragments" si fa notare per i suoi arpeggi sinistri e obliqui e per la presenza di effetti vocali piuttosto strani per un gruppo gothic, tuttavia abbastanza riusciti nel contesto "malato" e lievemente schizoide del brano. Dov'è finita la pacata gentilezza delle prime tracce? Forse la ritroviamo nel finale della canzone, più aperto e melodico, ma sempre tremebondo e inquieto.

Il dischetto è in definitiva un buon prodotto, che piacerà sicuramente agli amanti del gothic rock, in particolare se non disdegnano qualche spruzzata di metal all'interno del sound. Non ha particolari difetti, se non forse quello di un'incisività che potrebbe essere migliorata: ma forse è la produzione a non rendere giustizia ai Frozenbleed. Conto che con mezzi migliori e un po' più di esperienza riusciranno a migliorarsi ancora parecchio.

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01 - Prologue (2:29)
02 - Distant Reflections (6:11)
03 - Autumn Leaves (7:58)
04 - Absence (5:47)
05 - Lost Fragments (feat. Serenades) (6:04)

Metallica - "S&M"

Elektra, 1999
Tutti conosciamo il fondamentale contributo che i Metallica hanno dato al mondo del metal, e purtroppo tutti conosciamo la fine che hanno fatto dopo la pubblicazione di “And Justice For All”, ultimo dei loro veri album. Da quel momento in poi, infatti, non c’è più nulla: solo pseudo metal commerciale e privo di ispirazione, con rari momenti interessanti e tanta noiosa pacchianeria. Dopo i mediocri “Load” e “Reload”, che mostravano un blues rock stanco e sostanzialmente inutile, qualcuno sperava che il doppio live album “S&M” (che sta per Symphonic & Metallica) avrebbe potuto risollevare la reputazione della band americana, consegnando ai fan un prodotto che li avrebbe di nuovo portati sulla cresta dell’onda. Peccato che ciò non sia successo: un progetto così ambizioso e mastodontico come quello di far suonare un’orchestra sinfonica e un gruppo thrash metal può non funzionare bene, e nessuno si stupirebbe se il risultato fosse una mezza ciofeca.

Il problema di “S&M” è sostanzialmente questo: gli manca un senso. Si tratta di un doppio album che contiene due ore di musica, con i migliori classici dei Metallica (ma anche i pezzi più scialbi) riproposti dal vivo insieme ad un’orchestra di cento elementi, che dovrebbe regalargli atmosfere pazzesche ed entusiasmanti ma che in realtà riesce solamente ad appesantire il tutto e a rendere le canzoni, se non ridicole, come minimo pacchiane. Imbarazzanti sono le versioni di “Master Of Puppets” (completamente svuotata dalla sua essenza tormentata e maledetta), “Hero Of The Day” (che era già brutta di suo), “Fuel” (se l’originale poteva essere passabile, qui decisamente si sfiora il grottesco). L’orchestra pare quasi che suoni per conto suo, producendo pesanti e tortuosi ghirigori che non c’entrano una fava con la musica, spesso e volentieri coprendo quel poco di sana aggressività che era rimasto ai Metallica. Non c’è quasi nessun brano che si salva: gli unici pezzi ad acquistare una certa atmosfera sono “The Thing That Should Not Be”, che con l’ausilio dell’orchestra diventa molto più oscura e fascinosa, e “The Call Of Ktulu”, più ricca e drammatica rispetto alla seppur superba originale. Si salva anche “No Leaf Clover”, uno dei due pezzi inediti (insieme alla meno interessante “Human”), grazie a linee melodiche accattivanti e ad una certa verve malinconico / aggressiva che non guasta mai. Per il resto, veramente il nulla, o meglio un roboante insieme di suoni che però puntano in direzioni opposte, per cui la somma finale viene zero. Apprezzabile lo sforzo di preparare e incidere un disco simile, meno apprezzabile la trionfia e inutile volontà di apparire i migliori sulla piazza, quasi completamente da buttare il risultato finale. La parte migliore è la cover di Ennio Morricone, ed è tutto dire. C’è chi ha fatto molto di meglio, insieme ad un’orchestra: Deep Purple, Rage...torniamo ad ascoltarci chi queste cose le sapeva fare davvero, e lasciamo i Metallica nel loro ormai irrecuperabile limbo di commercialità e cronica carenza di idee valide.

CD 1

01 - The Ecstasy of Gold (Ennio Morricone Cover) (02:30)  
02 - The Call of Ktulu (09:34)  
03 - Master of Puppets (08:55)
04 - Of Wolf and Man (04:19)
05 -  The Thing That Should Not Be (07:27)
06 -  Fuel (04:36)
07 - The Memory Remains (04:42) 
08 - No Leaf Clover (05:43)  
09 - Hero of the Day (04:45) 
10 - Devil's Dance (05:26)
11 - Bleeding Me (09:01)  

Disc 2

01 - Nothing Else Matters (06:47) 
02 - Until It Sleeps (04:30)
03 - For Whom the Bell Tolls (04:52)  
04 - Human (04:20)
05 - Wherever I May Roam (07:02)
06 - The Outlaw Torn (10:00)  
07 - Sad But True (05:46)
08 - One (07:53)
09 - Enter Sandman (07:39)  
10 - Battery (07:25)

domenica 12 febbraio 2012

Wolves In The Throne Room - "Malevolent Grain"

Southern Lord Recordings, 2009
Con una delle copertine più affascinanti che mi sia capitato di vedere, gli statunitensi Wolves In The Throne Room tornano con un altro breve capitolo del loro black metal atipico, che ha destato notevole interesse nella scena metal. Brani lunghi, atmosfere dilatate, costante sfruttamento della tecnica black metal che viene tuttavia contaminato da elementi diversi, come le suggestioni atmosferiche e perfino un vago sapore di post rock. Questo "Malevolent Grain", contenente solo due tracce, esce in un momento nel quale la band ha catalizzato su di sè una buona attenzione, grazie soprattutto al precedente album "Two Hunters", episodio vibrante e poderoso della discografia dei Lupi.

"Malevolent Grain" mantiene il minimalismo che ha contraddistinto le precedenti release, ma si lascia andare a qualche riuscita sperimentazione, come del resto credo fosse anche lo scopo di questa uscita "intermedia", che spezza le pubblicazioni degli album maggiori. Le due lunghissime tracce infatti sono ben distinte tra loro e si reggono su novità interessanti. "A Looming Resonance" è un brano intensamente lamentoso e cupo, che si sviluppa lentamente crescendo nota dopo nota, partendo da una base pulita e arrivando via via a prendere sempre più velocità e ad appesantire il sound, mentre la drammatica voce femminile di Jamie Myers diventa l'assoluta protagonista della scena. In questo brano non compare affatto lo screaming: il gruppo non aveva mai concepito un brano simile. La musica e la voce, assieme, creano un alone fortemente ipnotico che dona al brano un tocco quasi psichedelico: in particolare è la voce, elegantemente raddoppiata, a possedere uno strano tono, dalla calma inquietante e innaturale: pare una cantilena posseduta. Di ben altro avviso è invece la successiva traccia "Hate Crystal", veloce, grezzissima e acerba, dai suoni impastati e accalcati gli uni sugli altri: forse il pezzo più tirato e aggressivo mai composto fino ad allora dalla band. Dopo otto minuti di ritmi martellanti e frenetici, il pezzo sfuma in un finale quasi noise, altamente allucinato e visionario: è così che i Wolves In The Throne Room vogliono lasciarci una volta finito di ascoltare questo dischetto.

"Malevolent Grain" è un prodotto indubbiamente interessante, che funge da degnissimo apripista per il disco che seguirà, l'acclamato "Black Cascade". Un pezzo da collezione, che sicuramente farà la gioia dei fan storici della band, ma che potrebbe essere l'ideale per far avvicinare un neofita alla musica del gruppo. Del resto, anch'io ho scoperto i Wolves In The Throne Room proprio grazie a questo EP, e ora sono arrivato a considerarli uno dei migliori gruppi black in circolazione: sarà un caso?

01 - A Looming Resonance (13:01)
02 - Hate Crystal (10:38)