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lunedì 31 gennaio 2011

Ashram - "Shining Silver Skies"

Questo blog è nato per recensire album di genere Metal, ma oggi mi sento di dover fare un'eccezione, avendo scoperto un gruppo che seppur di Metal non abbia nemmeno l'ombra, merita di essere divulgato in quanto portatore di "bellezza" musicale in senso stretto, quella su cui tanto si dibatte se esista o non esista. A mio parere esiste eccome, e album come "Shining Silver Skies" ne sono la dimostrazione: difficile, infatti, non riconoscere l'intinseca eleganza e il raffinatissimo gusto presenti in questo album.

Gli Ashram provengono dalla zona del napoletano e annoverano tra le fila Sergio Panarella (alla voce e alla chitarra), Luigi Rubino (al pianoforte) e Alfredo Notarloberti (al violino). Il trio propone un interessante mix di atmosfera new age e musica neoclassica, talvolta dolcissima e soffusa, talvolta irruenta e appassionata. "Shining Silver Skies" è il loro secondo album, seguito del debutto "Ashram", che era stata decisamente una bella sorpresa nel panorama darkwave - neoclassico (o come vogliamo chiamarlo) italiano e non. Questo seguito si muove sulle stesse coordinate sonore, migliorando però ogni aspetto e risultando ancora più emozionante, se possibile. In ogni brano il pianoforte tesse trame avvolgenti, muovendosi tra arpeggi leggeri e capaci di mutare voce e intensità qualora il contesto lo richieda, mentre lo splendido violino prende il ruolo di protagonista (a volte accompagnato da un violoncello nei momenti salienti). Tra brani strumentali e brani cantati, in proporzione più o meno equa, troviamo nell'album una buona varietà compositiva, e soprattutto un'ottima varietà emotiva. Ci sono brani veloci e trascinanti, come l'opener "5 Steps" e soprattutto "Maria And The Violin's String": quest'ultima è una strumentale di soli tre minuti che si regge su una ritmica in 5/8 che picchia, insiste, cresce nota dopo nota tra gli aumentando e i diminuendo, con mirabili intrecci di violino suonato a pizzico e note di pianoforte perfettamente incastonate tra gli archi, sfociando infine in un melodioso epilogo che simboleggia quasi una rinascita dopo la morte. Meraviglia allo stato puro. Ci sono poi episodi romantici e tristi come "Lullaby", dove fa capolino anche la chitarra acustica a sostenere un violino dal suono pieno e intenso, e "All'Imbrunire", mesto connubio di pianoforte e voce che sembra disperso nel vuoto e invocante qualcosa che manca e che non verrà mai. Trovano spazio anche veri e propri inni alla malinconia come "Il Mostro", composizione strappalacrime che si regge su arpeggi in crescendo e su un violino che sembra quasi parlare, tanto espressivo e sfaccettato è il suono che emette. Ma troviamo anche episodi atipici come "Tango Para Mi Padre Y Marialuna", chiaramente ispirato alla famosa danza argentina, o la title track "Shining Silver Skies", nella quale si percepisce un'oscura aura che negli altri brani non si trova quasi mai, e che lascia un vago senso di inquietudine addosso.

Questo album piacerà a tutti i fan della Musica con la M maiuscola, perchè oltre un certo livello non esistono più le distinzioni tra chitarre distorte o meno, tra strutture complesse o meno, e così via: esiste solo la "bellezza" in quanto tale. Procuratevelo a scatola chiusa, e che le dolci note degli Ashram possano accompagnare le vostre giornate nei momenti in cui avete più bisogno di qualcuno che vi culli dolcemente nella vostra malinconia.

01 - 5 Steps (3:07)
02 - Maria And The Violin's String (2:58)
03 - Sweet Autumn (Part II) (2:53)
04 - Lullaby (2:19)
05 - Il Mostro (3:26)
06 - All'Imbrunire (2:27)
07 - Last Kiss (3:35)
08 - Elizabeth (2:34)
09 - For Each And Every Child (4:24)
10 - Tango Para Mi Padre Y Marialuna (3:32)
11 - Lady (3:11)
12 - Shining Silver Skies (3:32)
13 - Rose And Air (2:32)
14 - Ultimo Carillon (3:50)

domenica 30 gennaio 2011

Nightrealm - "Bleakness"

Autoprodotto, 2002
A volte capita di scoprire delle vere e proprie band - rarità, nascoste così bene da chiedersi come si abbia fatto a trovarle. I Nightrealm sono stati (purtroppo devo parlare al passato) un progetto musicale proveniente dalla Finlandia e capitanato dall'omonimo frontman, che si sciolse subito dopo la pubblicazione del loro primo demo, cioè questo "Bleakness". La motivazione dell'abbandono fu descritta come "disinteresse" a continuare la vita di questa band. Non so proprio chi gliel'abbia suggerito, o quali problemi possa aver avuto Nightrealm da spingerlo addirittura ad abbandonare tutto, poiché questo demo di poco più di 30 minuti mostrava delle potenzialità a dir poco fantastiche.

La musica che troviamo in questa autoproduzione è un sorprendente doom - death ricco di ispirazione e sentimento, con quella fondamentale capacità di discernere tra la semplicità e la banalità, e con un buon uso di soluzioni originali e personali. Tra queste, posso citare alcune sezioni insolitamente veloci, un riffing dal sapore talvolta rockeggiante, una calibratissima pesantezza nelle atmosfere e un uso sapiente di strumenti come gli archi, il flauto e l'organo ecclesiale, che aiutano nel creare parti orchestrali di singolare bellezza (come ad esempio nella seconda metà di "Chapter I", o negli ultimissimi minuti dell'album, chiusi da un organo sereno e celestiale).

I brani sono solo cinque e non hanno titoli specifici, preferendo nascondersi dietro dei poetici "capitoli" seguiti da un numero romano. La lentezza tipica del genere doom qui non è mai eccessiva e non soffoca mai i buoni intenti dell'ascoltatore, il growling (talvolta corale e in alcuni momenti perfino trasformato in una voce pulita di stampo sacrale) è di buona fattura, il songwriting è sufficientemento varie ed interessante da rendere questi trenta minuti mai noiosi. La musica è sempre permeata da atmosfere "autunnali" e tristi, come suggerisce la copertina, ma è capace anche di uscire dal baratro della malinconia e di regalare alcuni esaltanti momenti di rivalsa, con una naturalezza sorprendente. Non manca nulla a questo "Bleakness" per sedersi sul trono dei migliori dischi doom mai partoriti: ha tutto quello che un amante del genere possa desiderare. Purtroppo, rimarrà un pezzo di storia destinato a non avere un seguito. E credetemi, poche volte ho rimpianto così tanto il prematuro scioglimento di una band.

01 - Chapter I (7:48)
02 - Chapter II (8:22)
03 - Chapter III (5:54)
04 - Chapter IV (2:43)
05 - Chapter V (7:30)

giovedì 27 gennaio 2011

Sentenced - "The Cold White Light"

Century Media, 2002
Esiste uno strano teorema nel gothic metal, che non si può spiegare a parole (o perlomeno io non ci riesco): la sottile linea che divide un gruppo ispirato da un gruppo che è sì capace, ma non riesce a scollarsi di dosso l'etichetta di "commerciale". Penso agli Evanescence, autori di alcune hit davvero mirabili, ma che non sono mai riusciti a prendermi più di tanto, forse per via di un'attitudine fin troppo semplice e, per l'appunto, "commerciale" (passatemi il termine). I Sentenced si muovono in bilico tra le due categorie, ma per quanto riguarda loro propendo di più verso la categoria di "ispirati", anche se non saprei proprio spiegare cos'hanno in più rispetto a un gruppo come gli Evanescence.

Partiti come band death metal grezza e cattiva, i finlandesi si sono via via evoluti in direzione di un alleggerimento del sound, che li ha portati vicini al classico stile gothic metal da classifica, dotato però di sufficiente credibilità da non scadere nel commerciale o nel banale. "Down", "Frozen" e "Crimson" erano tre ottimi album, che se da un lato peccavano di una certa ripetitività e staticità a livello di soluzioni, dall'altra sapevano come conquistare i cuori degli ascoltatori grazie a melodie avvolgenti, brani sempre trascinanti e ricchi di malinconico pathos. "The Cold White Light" si muove sulle stesse coordinate, guidato dalla profonda voce di Ville Laihiala, che a metà tra il triste e l'ironico spazia su temi suicidiari, amorosi e insomma i soliti che possiamo trovare nel genere gothic metal. Undici tracce che variano molto l'una dall'altra:  troviamo ad esempio episodi irruenti e robusti come "Cross My Heart And Hope To Die", ma soprattutto "Neverlasting", un pezzo in pieno stile rock suonato però con chitarre molto più potenti e distorte, e dalle tematiche tipicamente "vivi la vita al massimo", in apparente contrasto con lo stile della band, cupo e introspettivo; ballate di grande effetto come "Brief Is The Light" e "Everything Is Nothing"; episodi ironici e canzonatori come "Excuse Me While I Kill Myself" e "The Luxury Of A Grave". Dimostrazione che la band riesce a non prendersi troppo sul serio, ironizzando anche sulla propria dichiarata mania per le tombe, il suicidio e in generale la depressione, che qui viene rivisitata anche in chiave divertente. I brani si muovono tutti su strutture piuttosto immediate, ritornelli che fanno subito presa, sporadici passaggi di atmosfera e un generale amore per tutto ciò che è disperatamente romantico e "gotico" (senza arrivare agli eccessi commerciali di band come H.I.M. e soci, però). Ottima "Guilt And Regret", dove fa capolino un pianoforte molto azzeccato nel creare un'atmosfera appunto di "colpa e pentimento", mentre il vero brano "forte" dell'album è a mio avviso la traccia conclusiva "No One There", forte di un'interpretazione vocale davvero convincente e di una tensione emotiva stavolta più che palpabile, mentre in altri brani (come "Blood And Tears", punto debole del disco) poteva essere un pò artefatta.

Tirando le somme, non si tratta certamente un capolavoro, ed è un disco che a qualcuno potrà sembrare eccessivamente smielato, ma che io a dispetto di tutto continuo a ritenere un album valido e maturo, anche se non complesso nè elaborato. Chi l'ha detto che la musica per essere bella debba essere per forza difficile e cerebrale?

01 - Konevitsan Kirkonkellot (1:40)
02 - Cross My Heart And Hope To Die (4:06)
03 - Brief Is The Light (4:23)
04 - Neverlasting (3:35)
05 - Aika Muitaa Muistot (Everything Is Nothing) (4:32)
06 - Excuse Me While I Kill Myself (3:49)
07 - You Are The One (4:15)
08 - Blood And Tears (4:30)
09 - Guilt And Regret (3:44)
10 - The Luxury Of A Grave (4:43)
11 - No One There (6:15)

Novembre - "Classica"

Century Media, 1999
"Classica" è l'album che ha fatto conoscere i Novembre al grande pubblico internazionale, grazie alla pubblicazione ad opera della Century Media, conosciuta ed importante label straniera. Il complesso romano si è sempre distinto per una buona originalità e per l'assoluta qualità dei propri lavori, permeati da un'ottima capacità di trasporre sentimenti ed emozioni in musica nel modo più genuino e diretto, senza troppi fronzoli, ma mettendoci unicamente passione, unita ad ottime doti compositive e tecniche. "Classica" è un capitolo fondamentale della loro intensa e malinconica discografia: il capitolo più passionale, più rabbioso, più vissuto e coinvolgente.

La loro musica è, come suggerisce il nome, malinconica e autunnale; si nutre di una di matrice doom - death contaminata da melodie a tratti in stile Opeth, dall'attitudine decadente dei primi Katatonia, e nondimeno dalla tradizione popolare italiana, che talvolta emerge come influenza lieve ma significativa per definire la personalità della band (una nota sul booklet spiega che questo album è dedicato a Fabrizio De Andrè). Se il predecessore "Arte Novecento" esplorava atmosfere soffuse, dolci e cantate unicamente in voce pulita, "Classica" si presenta come un lavoro molto più duro e aggressivo; la malinconia non è più contemplativa come nei precedenti lavori, bensì piena di rimorso, pentimento e rabbia impotente, che traspare sia nei testi che nella musica, ad opera di pezzi magistrali come "My Starving Bambina", dominati da chitarre irruente, ritmiche insistenti e una prestazione vocale intensa, tra growl e voce pulita. Il cantato pulito "lamentoso" di Carmelo Orlando è capace di trasformarsi in un growling disperato, riccamente espressivo e mai pigro o banale; le chitarre sono capaci di evoluzioni melodiche spettacolari così come di riff schiacciasassi, che troviamo in brani come "Love Story" (una vera mazzata) o "Onirica East" (brano notturno, disturbante, ricco di soluzioni tecniche mirabili). Ma c'è spazio anche per episodi dalla dolcezza sconvolgente, come "Nostalgiaplatz", malinconica semi - ballad dalle sonorità calde e avvolgenti, a "Foto Blu Infinito", brano strumentale dalle stupende linee melodiche ed impreziosito da un liquido suono di un basso freetless.

Ogni brano è una storia a sè, che si giostra tra improvvise e devastanti accelerazioni, melodie sempre ricercate ed emozionanti, momenti di quiete, il tutto senza mai rientrare in un genere ben definito: la musica dei Novembre è più vicina alla libera espressione artistica ed emotiva che al banale incasellamento in un genere precostituito e pieno di canoni da rispettare. Non saprei trovare un difetto nella musica dei Novembre, e in particolare in questo album: c'è tutto quello che si può desiderare, tecnica, potenza, sentimento, interpretazione, melodia, personalità. Da segnalare la ristampa prodotta nel 2008 dalla Peaceville, che ha migliorato il suono ed aggiunto tre bonus track di cui un inedito, "Colour Of An Eye". Per chi ancora non li conoscesse, è ora di cominciare, poiché lasciar passare inosservato un gruppo simile è davvero un delitto.

01 - Cold Blue Steel (05:23)   
02 - Tales from a Winter to Come (05:37)   
03 - Nostalgiaplatz (04:29)   
04 - My Starving Bambina (04:48)   
05 - Love Story (04:29)   
06 - L'Epoque Noire (March the 7th 12973 A.D.) (04:42)   
07 - Onirica East (06:27)   
08 - Foto Blu Infinito (04:16)   
09 - Winter 1941 (06:35)   
10 - Outro - Spirit of the Forest (Tales... Reprise) (02:57)    

Bonus track nella ristampa 2008:
11 - Colour Of An Eye (5:24)
12 - Tales From A Winter To Come (Demo version) (4:47)
13 - Winter 1941 (Demo version) (2:41)

mercoledì 26 gennaio 2011

Bathory - "Twilight Of The Gods"

Black Mark Productions, 1994
Lo svedese Tomas Forsberg, in arte Quorthon (deceduto nel 2004 per via di un attacco cardiaco all’età di soli 38 anni), è stato un cantante e polistrumentista che tecnicamente non era eccelso nè con gli strumenti nè con la voce. Tuttavia, come capita spesso, queste lievi pecche non gli hanno impedito di entrare negli annali del viking metal, facendosi  ricordare come un artista capace di trasmettere emozioni forti e ricreare scenari fantastici, in particolar modo con l'arrivo del cosiddetto “periodo epico”. Infatti, dopo la pubblicazione del seminale “Under The Sign Of The Black Mark” (caposaldo del black metal pionieristico), il trio Bathory si sfalda e il gruppo rimane composto da un unico membro: Quorthon. Ormai solo, il nostro eroe si occupa sempre di comporre tutti i pezzi, collaborando anche con altri musicisti, ma che restano per l'appunto solo collaborazioni, continuamente mutevoli. Questo è l'inizio di una nuova, splendida era, che permetterà al musicista di esprimere il meglio di sè, anche grazie ad una lenta ma costante maturazione tecnica e artistica.

I primi sprazzi di epicità arrivano con “Blood Fire Death”, ancora grezzissimo, ma già capace di ricreare epici scenari di battaglia tramite composizioni memorabili come “A Fine Day To Die” e “Blood Fire Death”, vere e proprie cavalcate metalliche intrise di spade e sangue. Seguì il fondamentale “Hammerheart”, e poco dopo arrivò questo “Twilight Of The Gods”, probabilmente il miglior album viking metal della storia (anche se non tratta solamente di tematiche vichinghe, ma tocca anche temi sociali come lo sfacelo dell'uomo moderno). Abbandonando quasi del tutto l'aggressività degli esordi e le rocciose composizioni che ascoltavamo sul precedente album, la musica si fa ancora più squisitamente epica e maestosa, decisamente improntata alla melodia e alla solennità, due caratteristiche che colpiscono immediatamente e seducono con estrema efficacia. Con i suoi programmaticamente brani lunghi e lenti, la sua voce possente e melodiosa, i suoi cori ormai onnipresenti, le sue atmosfere magnifiche e le sue sapienti alternanze tra chitarre acustiche ed elettriche, il disco richiama grandi spazi aperti, epocali battaglie e tragici avvenimenti, scolpiti permanentemente nei secoli.

La tecnica strumentale è abbastanza irrilevante, in quanto non è certo sul virtuosismo che la musica punta; la produzione è volutamente sporca e povera, facendo guadagnare mille punti al disco in materia di atmosfera e fascino "antico". Ogni traccia è un mastodonte da brividi lungo la schiena: nessuno come Quorthon è stato capace di trasportare l’ascoltatore nel mondo dei tremendi Vichinghi, che ora rivivono grazie alla sua musica. L’album procede imperterrito per quasi un’ora, tra suite maestose come l'opener "Twilight Of The Gods" o la splendidamente melodica e trascinante "Blood And Iron", per concludere con l'epilogo di “Hammerheart”, che riprende il titolo del precedente album: un vero e proprio inno al Nord, stavolta senza distorsioni (è un estratto de "I Pianeti" di Gustav Holst, liberamente re - interpretato da Quorthon). Tutto splendido dall'inizio alla fine, nessun momento noioso nonostante la ripetitività dei brani, solo tanta emozione pulsante e tanto furore epico. Il migliore brano viking metal mai scritto, secondo me, è proprio la title track posta in apertura: quattordici minuti di epicità granitica, irripetibile. Inizia tutto in sordina, come una preparazione alla battaglia che aleggia nell'aria; si prosegue in crescendo tra cori possenti e linee melodiche superlative; dopo la "narrativa" parte centrale arriva il climax, costituito da una lunga e struggente sezione strumentale, nella quale l'epopea battagliera trova il suo compimento e l'apice della drammaticità evocativa; e infine l'odissea si chiude con una chitarra acustica spaesata e malinconica, incerta nel suo vagare, come un'anima persa che percorre il campo di battaglia quando tutto è ormai finito, raccogliendo le anime dai corpi morti che giacciono in terra per portarli nel Valhalla.

"Twilight Of The Gods" è un capolavoro, un'irripetibile gemma del metal di stampo immaginativo e cinematografico, una perla che resiste al passare degli anni con fierezza e non teme confronti nè rivincite. Nessuna persona che dica di apprezzare la musica metal può permettersi di non possedere questo disco. Fate onore alla memoria di Quorthon e comprate quest'autentica leggenda musicale.

01 - Twilight Of The Gods (14:00)
02 - Through Blood By Thunder (6:15)
03 - Blood And Iron (10:24)
04 - Under The Runes (5:58)
05 - To Enter Your Mountain (7:36)
06 - Song Of Blood (7:34)
07 - Hammerheart (4:56)

Raventale - "After"

BadMoodMan Music, 2010
L'avevamo lasciato con il buonissimo "Mortal Aspirations", ed ecco che Astaroth si rifà vivo dall'Ucraina con i suoi Raventale, nome fittizio dietro il quale si nasconde solo lui, essendo l'unico componente della band. Il disco odierno, complessivamente il quarto nella discografia della band, è ancora una volta piuttosto breve: i suoi trentacinque minuti scarsi di musica potrebbero far pensare ad un EP, ma i fan storici sanno che Astaroth ama pubblicare album brevi, intensi ed incisivi, che non si perdono in troppe divagazioni e vanno sempre diritti alla meta.

"After" non fa eccezione: anche qui, come nei suoi predecessori, troviamo un'interessante mix di black - doom metal grezzo e minimale, perennemente in movimento e con pochi momenti di pausa, i quali fungono da spartiacque in mezzo a cavalcate di chitarra e batteria lunghe e sognanti. La varietà compositiva non è mai stato il punto forte dei Raventale, e anche qui si nota una certa staticità nel songwriting; tuttavia, devo dire che da questo punto di vista il nostro Astaroth è molto migliorato, confezionando pezzi lievemente più vari e dinamici rispetto al solito. Non che i precedenti fossero brutti, anzi: semplicemente erano molto ripetitivi, ma questo faceva parte della loro intima essenza, ed era giusto così. Per quanto ciò si riscontri anche in questa release, quest'aspetto è stato smussato e ciò dimostra che Astaroth è stato capace di evolvere il proprio sound senza snaturarlo nemmeno in minima parte.

"After" potrebbe essere la colonna sonora di un viaggio a cavallo lungo una steppa, o comunque un luogo sufficientemente desolato e spoglio: il punto forte della musica dei Raventale, infatti, rimane l'alone onirico, la capacità di prendere per mano e condurre lungo un viaggio che annulla i pensieri e trasporta in un mondo quasi rilassante, seppur espresso per mezzo di chitarre distorte e voce growl. Un plauso è da fare anche per quanto riguarda proprio il cantato: finalmente emerge come si deve dal tappeto strumentale, non più sepolto come nei precedenti lavori, nei quali era praticamente un ronzio di fondo, che avrebbe potuto benissimo non esserci. Vedo ora di analizzare un pò i cinque brani che compongono l'album: l'opener "Gone" consiste in dieci minuti di triste rabbia, con poche variazioni nello sviluppo del brano ma con un finale ambient - atmosferico davvero pregevole, in piena tradizione Raventale: non possono non tornare in mente le brevi sezioni strumentali prive di distorsioni che troviamo in ogni loro album, pochi minuti capaci di evocare beatitudine con una facilità enorme. La title - track "After" è anch'essa oscura e molto doomish, richiamante un po' le atmosfere degli Anathema di "The Silent Enigma" e un po' il black metal di artisti come Burzum, lancinante e vagamente epicheggiante. L'ottima strumentale "Youth", è costruita su progressioni di accordi classiche ma sempre efficacissime nel ricreare atmosfere malinconiche, e intervallata da altri sprazzi di atmosfera creati dai sintetizzatori, abilmente amalgamati nel generale contesto doom metal. Solo cinque minuti, ma molto intensi. Stupisce invece la presenza di "Flames", praticamente una cover di un loro stesso brano, che si trovava sul primo album: non si capisce perchè abbiano voluto registrarla nuovamente, dato che l'originale non era affatto male. Ma i Raventale ci hanno abituato anche a queste stranezze, come quando misero in mezzo al loro album "Long Passed Days" la cover di "Sunset Of Age" degli Anathema, in posizione centrale rispetto alle altre tracce, e dunque assolutamente atipica.

La traccia conclusiva, senza titolo, è il brano più duro e dissonante dell'album, il più legato alla matrice strettamente black metal di gruppi come i Satyricon, anche per quello che riguarda le linee vocali. L'album è consigliato a chi nella musica non ricerca troppi fronzoli ma ama il minimalismo e l'immergere le proprie orecchie in un flusso sonoro continuo e con poche interruzioni. Forse alcune soluzioni avrebbero potuto essere sfruttate meglio, ma in definitiva ci troviamo davanti ad un lavoro sicuramente meritevole, fresco e piacevole quanto basta per non cadere facilmente nel dimenticatoio. Ancora una volta, ottimo lavoro, caro Astaroth.

01 - Gone (10:05)
02 - After (5:01)
03 - Youth (5:10)
04 - Flames (6:52)
05 - Untitled (7:20)

lunedì 24 gennaio 2011

Colosseum - "Chapter I: Delirium"

Firedoom Records, 2007
Questo primo capitolo inaugura la trilogia dei finnici Colosseum, band che ormai si è sciolta per sopraggiunta morte del leader Juhani Palomaki, già attivo negli Yearning ed impegnato nei suoi ultimi anni di vita con questo nuovo progetto Funeral Doom, dalle tinte fortemente oniriche e funeree, come una grandiosa tragedia teatrale. I nostri si muovono su coordinate sonore che definirei a metà tra le raffinate orchestrazioni degli Shape Of Despair e il gusto estremo dei Tyranny (altre due band casualmente finlandesi), e il risultato finale è indubbiamente di ottimo livello: i suoi punti forti sono un'attenta cura dei dettagli e soprattutto la presenza di linee melodiche molto evocative e sempre protagoniste assolute, che incantano i sensi e trasportano l'anima lungo sentieri maestosi e scenografici.

Come ciascuno dei loro colleghi, anche i Colosseum viaggiano su tempi esasperatamente lenti, evocano morte ad ogni singola nota, scrivono testi oscuri e allucinati e cantano con una voce ringhiosa e gutturale: nello specifico, la voce del compianto leader Juhani è un mostruoso lamento spostato completamente nel registro grave e costantemente raddoppiato, così da dargli un alone di funerea maestosità che può piacere o non piacere nel suo estremismo, ma che di certo non manca di personalità e inventiva. Ci sono altri elementi "anomali" che saltano piacevolmente all'orecchio, come gli inserti elettronici e tastieristici che aumentano la già spiccata teatralità della musica, oppure i lunghi e sognanti assoli di chitarra, eccezionalmente puliti ed espressivi: assoli che sono difficili da sentire in un genere che notoriamente non si basa su lunghe ed elaborate melodie chitarristiche. Gli episodi si susseguono con classe ed eleganza, sviluppandosi lentamente e facendoci vivere emozioni caleidoscopiche: sezioni che atterriscono, aperture melodiche sublimi, lente e disperate marce funebri, momenti onirici e psichedelici, parti strumentali che rilucono come diamanti neri dalla bellezza abbagliante. Il comune denominatore è la ricerca di una particolarissima "teatralità funerea", che poi proseguirà pressochè invariata nei due successivi full - length del gruppo. Se proprio devo citare un brano in particolare, non posso che soffermarmi sulla stupefacente "Aesthetics Of The Grotesque", brano dalle atmosfere enormi, quasi illimitate, intrise di una malinconia bruciante; ma il meglio arriva con l'incredibile coda, talmente imponente e maestosa da far scendere perfino lacrime di commozione, e senza nemmeno troppa difficoltà: uno dei momenti più meravigliosi che mi sia capitato di vivere ascoltando un album.

"Delirium", tuttavia, non è esente da alcuni piccoli difetti, che per quanto non siano particolarmente rilevanti, gli impediscono di elevarsi allo status di vero capolavoro. La solenne bellezza delle melodie e delle atmosfere non è sufficientemente controbilanciata da un songwriting dinamico e da uno sviluppo interessante di ciascun brano: ci sono anche episodi un po' statici ed eccessivamente pachidermici come "Saturnine Vastness" o "Corridors Of Desolation", che pur godendo di tutte le ottime proprietà che ho descritto prima, hanno un andamento un po' troppo pesante e ripetitivo che appesantisce il fluire dell'album. In generale il disco, facendo molto leva su alcuni elementi (melodie, suoni particolari, stati d'animo evocati) finisce talvolta per trascurarne degli altri, come la fluidità, la ricerca di progressione, la personalizzazione dell'accompagnamento chitarristico che qui è spesso costituito unicamente da accordi singoli. Con questo non intendo assolutamente dire che questo debutto sia un album che si ascolta un paio di volte e poi si butta via: contiene infatti molti brani troppo belli per dire una cosa simile, ma è vero che ascoltarlo tutto di fila è un compito gravoso e che lo spettro della noia potrebbe ogni tanto fare capolino. Quel che servirebbe per renderlo un capolavoro è un po' più di varietà nel songwriting e uno sviluppo meno lineare, ma tutto sommato posso dire che "Delirium" è un ottimo album, capace di far vivere momenti davvero meravigliosi: "Weathered", "Delirium" e "Aesthetics Of The Grotesque" sono capitoli che splendono di luce propria, anche se ho la netta impressione che questa band dia il meglio di sè quando è presa a piccole dosi, ascoltando i brani uno alla volta. In ogni caso, un lavoro notevole, che non manca di ispirazione e che non mancherà di commuovere gli animi più sensibili con la sua meravigliosa tragicità: per un appassionato del genere, almeno un ascolto è d'obbligo.

01 - The Gate Of Adar (10:50)
02 - Corridors Of Desolation (6:40)
03 - Weathered (13:00)
04 - Saturnine Vastness (10:09)
05 - Aesthetics Of The Grotesque (12:17)
06 - Delirium (11:40)

martedì 18 gennaio 2011

Skepticism - "Alloy"

Red Stream, 2008
Padri del Funeral Doom Metal insieme ai connazionali Thergothon, che però si sono sciolti dopo un solo album, i finlandesi Skepticism hanno avuto una carriera lunga, ma non particolarmente intensa a livello di produzioni: dal 1991, data di formazione, ad oggi hanno prodotto solo quattro album completi, più una buona serie di EP, i primi testimonianti il loro passato di death metal band, gli altri delle curiosità sperimentali. rilasciati come anticipazioni degli album in studio, ma contenenti versioni differenti dei brani che sarebbero poi stati proposti nelle uscite ufficiali.  Questo stesso "Alloy" ha avuto una gestazione di ben cinque anni, al punto che si credeva che gli Skepticism si fossero irrimediabilmente persi, e invece eccoli qua. Come si saranno evoluti? Le ottime sperimentazioni di "Farmakon" saranno state portate avanti o ci sarà un ritorno alle loro (gloriose) origini?

Possiamo dire entrambe le cose. Il sound si è fatto sicuramente più semplice e diretto che in "Farmakon", dove predominavano le strutture dilatate e complesse; ma contemporaneamente è più "leggero" e meno mortifero di quello che trovavamo nei loro primi, pesantissimi lavori. Si potrebbe parlare di ritorno al passato, ma con la novità di essere un disco più facilmente fruibile, anche se è ben lontano dal potersi definire "commercializzato". Sarebbe un errore pensare che i maestri Skepticism abbiano deciso di concedersi al grande pubblico: già dalla prima traccia, la maestosa ed enorme "The Arrival", capiamo che i nostri non hanno perso nemmeno un briciolo di classe e di, se vogliamo, snobismo: la loro musica era e rimane per pochi appassionati, che amano farsi travolgere da un muro sonoro che evoca tristezza e malinconia di natura inestricabile, soffocante. Un brano che riesce a gettare su chi l'ascolta un velo di angoscia, tramite uno splendido e profondissimo growl che si unisce a linee melodiche solenni e meravigliosamente accompagnate dall'organo ecclesiale, strumento cardine dei finnici, quello che li ha resi famosi. Il disco prosegue su coordinate simili, esplorando sfumature sonore molto interessanti: "March October" è un pezzo che per certi versi avrebbe potuto stare anche su "Farmakon", grazie alla buona quantità di soluzioni melodiche e armoniche in esso presenti (addirittura una chitarra solista, cosa quasi sconosciuta nella musica degli Skepticism) mentre "Antimony" si fa notare per la grande quantità di riff di chitarra a cascata, che la rendono sufficientemente melodica da essere quasi piacevole, se non fosse per il raggelante growl e per il severo organo che non manca mai di far sentire la sua voce. Non posso mancare di segnalare anche la meravigliosa "Pendulum", brano lento eppure capace di creare una tensione emotiva fortissima, quasi fosse la colonna sonora di un film dell'orrore: tra accelerazioni, rallentamenti e giri strumentali che riportano al punto di partenza, il brano si sviluppa in un crescendo semplicemente esaltante, che sfocia in un finale dove la tensione raggiunge il climax, reggendosi su un tema inquietante che cresce progressivamente di forza fino ad esplodere in un epilogo vibrante e demoniaco. Chiude il disco "Oars In The Dusk", brano relativamente veloce e dinamico, che si conclude con un crescendo veloce e dal respiro epico, quasi da cerimonia militare. Al primo ascolto questo album potrà non colpire particolarmente i sensi e l'anima: bisogna rigirarselo un po', assimilarlo poco per volta e infine riconoscere che gli Skepticism sono stati capaci di guardare al futuro pensando al passato, e regalandoci ancora una volta un album di ottimo livello. Certo,  riproporre un'altra "The March And The Stream" o "The Falls" è difficile, ma nessuno ha detto che sia per forza necessario. Complimenti ai ritrovati Skepticism!

01 - The Arrival (6:38)
02 - March October (10:30)
03 - Antimony (8:46)
04 - The Curtain (5:48)
05 - Pendulum (9:13)
06 - Oars In The Dusk (6:22)

sabato 15 gennaio 2011

Mournful Congregation - "The Dawning Of Mournful Hymns"

Weird Truth Productions, 2002
Mastodontico: non si può dire altro di questo doppio album - raccolta degli australiani Mournful Congregation, band poco conosciuta, sottovalutata e della quale è difficile reperire il materiale. Per fortuna, i numerosi demo, EP e split album prodotti dalla band in giovane età non sono andati perduti o relegati solo a qualche raro nastro per collezionisti, ma sono stati resi disponibili con questo album, che raccoglie tutto ciò che la band ha scritto prima di pubblicare il suo reale primo album in studio, "The Monad Of Creation", datato 2005 anche se la band esiste da molto più tempo, addirittura dal 1993.

Nello specifico, la band australiana è un pilastro originalissimo ed insostituibile del Funeral Doom Metal, proposto in una maniera molto personale: come si può ben notare dall'ascolto di questo lunghissimo doppio album (100 minuti di musica in totale!) i nostri rallentano all'inverosimile i ritmi, ribassano le chitarre e growlano in modo aspirato come tutti i gruppi Funeral, ma a questo uniscono un ottimo gusto per le sezioni acustiche, per la melodia che arriva dritta al cuore e per l'uso quasi esclusivo delle chitarre, a discapito delle tastiere e delle orchestrazioni che sono sì usate, ma ridotte veramente all'osso. L'artwork completamente nero non deve ingannare: accanto alla pesantezza e all'angosciosità tipica di questo sottogenere, i nostri sono capaci di una dolcezza insospettabile, che a volte sfocia in brani davvero struggenti e che hanno le potenzialità per piacere anche a chi non si sente minimamente avvezzo al metal estremo. La musica è in ordine cronologico, dunque il primo brano del primo dei due CD è il più vecchio e da lì si procede sempre verso le produzioni più recenti: non si nota un grandissimo cambiamento dai primi agli ultimi demo ed EP, se non un incremento della componente melodico - acustica ed un lieve alleggerimento delle atmosfere, che rimangono comunque sempre opprimenti e talora perfino claustrofobiche. C'è da dire che i primi brani sono forse un po' piatti se confrontati alle produzioni più recenti, a volte fin troppo quadrati e poco vari, ma ciò testimonia anche il fatto che la band è riuscita ad evolversi in maniera lenta ma costante, arricchendo il proprio sound delle splendide melodie chitarristiche che l'hanno resa importante nel suo genere. L'uniformità del tutto rende inutile descrivere traccia per traccia, perciò mi limito a citare solo due brani, entrambi posti a chiusura del rispettivo CD. "An Epic Dream Of Desire" chiude il primo dei due ed è un brano di oltre quindici minuti di durata, nel quale la voce è solo un sussurro di sottofondo e il growl non compare mai: a mio parere il miglior brano mai scritto dal gruppo, è un vero e proprio mastodonte di malinconia, capace di emozionare con poche e semplici note perse nel vuoto, singole e tremolanti, prodotte ora da una chitarra elettrica, ora da una chitarra acustica. "The Epitome Of Gods And Men Alike" (notare i titoli, molto poetici, così come i testi) dura la metà ma non è meno intensa: il growl qui ritorna, ferale e posseduto, e si unisce a spettacolari assoli e melodie di chitarra, dotate di una carica emotiva semplicemente disarmante.

Tutta così la musica dei Mournful Congregation: semplice, pulita, armoniosa e melodica, mantenendo sempre inalterato il suo pesante velo di tristezza e latente disperazione. Un gruppo da scoprire, e questo album è il modo migliore per farlo.

Disco 1

01. Fading Light Of A Dying Sun (11:45)
02. Astralic Dreams (10:06)   
03. Weeping (02:47)   
04. Suffer The Storms (09:17)
05. Heads Bowed (12:32) 
06. Miriam (02:57)   
07. An Epic Dream Of Desire (15:43)

Disco 2

01. Skyward Gaze, Earthward Touch (09:41)
02. Rememberance Of The Transcending Moon (11:21)
03. Empirical Choirs (07:26)
04. Tears From A Grieving Heart (10:02)
05. Opal Of The Stream Beneath The Hills (13:10)
06. Elemental (00:53)
07. The Epitome Of Men And Gods Alike (08:23)

martedì 11 gennaio 2011

Anorexia Nervosa - "Redemption Process"

Listenable Records, 2004
Quinto album in studio per gli Anorexia Nervosa, gruppo francese piuttosto affermato nell'ambito del symphonic black metal più estremo e veloce. Come i suoi illustri predecessori, questo album colpisce immediatamente l'ascoltatore con la forza di un macigno scagliato a folle velocità, arricchendosi notevolmente con una sezione sinfonica di tutto rispetto e una produzione sicuramente più adeguata rispetto a quella dei precedenti lavori, anche se ancora non si può definire questo album "ben registrato". Il black metal esige una produzione grezza, ma a mio parere quando la vena sinfonica è importante la produzione deve andare di pari passo, raffinandosi: in caso contrario si rischia che le ottime orchestrazioni, come quelle che troviamo in questo platter, siano addirittura difficili da sentire, inghiottite dalle chitarre. In sostanza, tuttavia, la produzione di questo album è discreta e rende abbastanza giustizia a questo disco fatto di assalti ferocissimi, scenari apocalittici e perfino qualche sprazzo melodico, in un marasma sonoro di indubbio impatto.

Lo stile è quello del black sinfonico con pochi fronzoli, nel quale cori e sezioni orchestrali sono ben presenti  ma vengono messi in secondo piano, e frequentemente suonano "in sordina". Il sound è non particolarmente elaborato come ad esempio quello dei Dimmu Borgir, ma più diretto e spaccaossa, anche se i brani raggiungono durate abbastanza ragguardevoli. I pezzi, come spesso accade nel genere, tendono ad assomigliarsi un pò tutti tra loro, ma ciò non toglie che si tratti di un lavoro di qualità, come confermano le due splendide highlight "The Shining" e "Sister September": la prima, posta in apertura di album, è costruita su una scala ascendente semplicemente maestosa e si sviluppa in un turbinoso e funambolico crescendo, condito da blast beat quasi onnipresenti e da uno screaming che definire indemoniato è dire poco; la seconda più melodica, lenta ed epica, anthemica nel suo incedere possente e fiero. Spicca anche "An Amen", un brano ancora più oscuro e morboso, come ci si aspetta da una band come gli Anorexia Nervosa, che ha fatto del sound malato e schizoide un suo punto di forza. Tra episodi riusciti ed altri un po' meno convincenti, l'album riesce comunque a trasmettere scariche di violenza formidabile, condita da una velocità esecutiva davvero notevole: ciò è sufficiente a rendere "Redemption Process" un album di ottimo livello nel suo genere, breve ma intenso e feroce quanto basta per essere ricordato. Con una produzione appena leggermente migliore, sarebbe stato un capolavoro: ma anche così è un disco ragguardevole, da consigliare vivamente agli appassionati del genere.

01 - The Shining (5:30)
02 - Antinferno (6:47)
03 - Sister September (6:34)
04 - Worship Manifesto (5:29)
05 - Codex Veritas (7:07)
06 - An Amen (7:28)
07 - The Sacrament (6:32)

mercoledì 5 gennaio 2011

Forest Of Shadows - "Where Dreams Turn To Dust"

Rage Of Achilles, 2001
"Where Dreams Turn To Dust" è forse l'esempio più calzante e perfetto di come si possa suonare un Doom metal caldo, avvolgente, malinconico e introspettivo senza cadere nella pochezza artistica e nella faciloneria, ma al contrario utilizzando pochissimi elementi per creare composizioni meravigliose.

I Forest Of Shadows nascono dalla mente di un'unica persona, che risponde al nome di Niclas Frohagen, polistrumentista svedese che si occupa di tutto, con poche collaborazioni esterne e molto impegno personale. L'EP che ho tra le mani, impreziosito da due bonus track provenienti dai precedenti demo della band, è a mio parere uno dei migliori dischi Doom che siano mai stati suonati: l'atmosfera che Niclas riesce ad evocare in questo lavoro è semplicemente unica, irripetibile. L'attitudine della sua musica è un feeling maestoso, autunnale, sempre estremamente melodico e dalle linee facilmente riconoscibili, ma mai banali nonostante la loro semplicità. A dimostrarlo c'è il primo brano, "Eternal Autumn", dal titolo programmatico: una meravigliosa introduzione di flauto lascia improvvisamente esplodere una melodia evocativa, grondante rugiada, impregnata di colori e suoni di un bosco autunnale. Tempi lenti e solenni, stacchi acustici di pregevole fattura, voce alternata tra un growl insospettabilmente caldo ed un cantato pulito di grande espressività, quasi panteista nella sua gentile pacatezza. Più volte il brano varia il tema portante, per poi tornare sul tema precedente, confezionando nove minuti e mezzo di viaggio attraverso l'ammaliante bellezza della stagione fredda e decadente che risponde al nome di autunno. La successiva "Wish" è un viaggio stavolta più sognante, che inizia in modo duro con un growl stavolta più severo e aspro, ma che si perde successivamente in lunghe strofe cantate in pulito e coadiuvate da una chitarra acustica che sa ritagliarsi perfettamente il suo spazio, senza mai passare in primo piano. Strofe rilassanti e bucoliche, che conducono per mano lungo un sentiero di foglie secche, come fosse l'ultimo viaggio che ci è concesso su questa Terra. Concludendosi con una frase emblematica "So i close my eyes, and I sigh", arriviamo a "Of Sorrow Blue", brano ancora più malinconico e mesto, nel quale fanno capolino alcune spettacolari sezioni di archi, che spezzano la rocciosa progressione della chitarra ritmica con alcuni break melodici da commozione istantanea. Ma le sorprese non sono finite: nella parte centrale il brano prende improvvisamente quota, le chitarre si ingrossano, i ritmi diventano veloci al punto di inserire la doppia cassa (!), la voce esprime un misto di rabbia e tristezza mirabile: ed infine scolliniamo dolcemente, andando a morire in un finale acustico di chitarra e violino, ancora una volta dalla bellezza disarmante.

Il disco ufficiale sarebbe finito qui, e il materiale che abbiamo ascoltato finora sarebbe già sufficiente per renderlo un capolavoro: ma non è finita. Chi è stato così fortunato da procurarsi la versione rimasterizzata, che include le bonus track, scoprirà che esse non sono semplicemente dei riempitivi, ma sono altri due bellissimi pezzi. "Under A Dying Sun" è una lunghissima composizione di oltre quindici minuti, dalla struttura variegata e in costante evoluzione, tanto che si potrebbe quasi parlare di progressive doom: nonostante non ci siano mai particolari soluzioni a livello tecnico. In questo lungo brano troviamo davvero di tutto: accelerazioni in doppia cassa, rallentamenti, sezioni acustiche, melodie distorte e sognanti, come in un connubio di tutto quello che abbiamo ascoltato nei tre brani precedenti. E non dimentichiamoci che è una sola persona a comporre e suonare tutti gli strumenti: un'ulteriore nota di merito va a Niclas per il suo lavoro. Dopo aver attraversato paesaggi ed emozioni di ogni genere, è giunto il momento di concludere il disco con "The Silent Cry", introdotta da un malinconico pianoforte che in meno di un minuto potrebbe nuovamente commuovere gli animi più sensibili. Altri cinque minuti di melodie eleganti e distorsioni "gentili", se così possiamo chiamarle, ma anche di sezioni più violente e veloci, che non diventano mai sguaiate, perchè sempre controbilanciate dalla delicatezza intrinseca della musica. Con una progressione dissonante si chiude finalmente il disco, e a questo punto le parole che posso dire sono terminate: non mi resta che consigliare caldamente a tutti di procurarsi questo dischetto, che saprà essere la perfetta colonna sonora delle vostre stagioni fredde, e che vi farà più volte provare la sensazione di trovarvi in una foresta, senza nessuno attorno, circondati unicamente da foglie bagnate e rami secchi. E di scoprire che è un'esperienza meravigliosa.

01 - Eternal Autumn (9:26)
02 - Wish (8:24)
03 - Of Sorrow Blue (11:30)
04 - Under A Dying Sun (Bonus Track) (15:36)
05 - The Silent Cry (Bonus Track) (5:20)

Death - "Symbolic"

Roadrunner Records, 1995
Un insieme di tecnica sopraffina, aggressività e rabbia, pensieri profondi ed emotività incontenibile: questo a mio parere è "Symbolic", penultimo album in studio dei Death, band che conosciamo tutti per la triste storia che ha visto protagonista il geniale leader Chuck Schuldiner, deceduto prematuramente per via di una neoplasia cerebrale che non gli ha lasciato scampo. "Symbolic" prosegue la linea evolutiva iniziata con "Human", che cominciava già a differenziare il death "ignorante" e grezzo degli esordi arricchendolo con soluzioni tecniche e stilistiche nuove, e proseguito poi con il seminale "Individual Through Patterns", che portava tecnica e sentimento ad un livello ancora superiore. Qualcuno ha definito "Symbolic" un disco freddo e macchinoso, ma non sono affatto d'accordo: l'ingresso del funambolico Gene Hoglan alla batteria, autore di una performance semplicemente sbalorditiva, e una maggiore attenzione per i dettagli non significa per forza essere macchinosi, ma semplicemente più raffinati. Anche l'ingresso dei nuovi membri, Kelly Conion al basso e Bobby Koelble alla seconda chitarra, potrebbe causare rimpianti, ma non è questo il caso: i nuovi arrivati non si fanno certo problemi e massacrano comunque le nostre orecchie con scariche di violenza spaventose e mai banali. Nonostante l'evoluzione che li ha portati lontani dai pesantissimi esordi di "Scream Bloody Gore" e "Leprosy" e dalla morbosità di "Spiritual Healing", i Death non hanno deciso di ammorbidirsi: questo è un album che pesta duro dall'inizio alla fine, viaggiando sulla doppia cassa, tempi dispari e riff taglienti, come si può notare già nella sinistra opener che porta il nome del disco, teatro di  ferali loop chitarristici e di improvvise e devastanti accelerazioni sostenute dal consueto screaming acido di Chuck, tra i più espressivi che io ricordi nel genere death metal.

Le strutture dei brani si fanno più complesse, talvolta ai limiti del progressive metal, e si fa notare anche il lavoro solistico, che stupisce come al solito per precisione e incisività, senza mai scadere nel virtuosismo fine a sè stesso. Interessante novità dell'album è la presenza più massiccia di spunti melodici e di sezioni addirittura malinconiche, in brani come "Sacred Serenity", "Without Judgement" e la conclusiva "Perennial Quest", dal meraviglioso finale acustico pennellato qua e là da tocchi di chitarra elettrica, sperduta e desolante. Ogni brano ha una particolarità che lo rende speciale, e il disco non è affatto monotono come si potrebbe pensare per un album death metal: basta ascoltare per esempio la ben conosciuta "Crystal Mountain", diventata uno dei simboli della band: fughe chitarristiche si affiancano ad una batteria quasi impazzita, che viaggia spesso e volentieri sulla doppia cassa, ma senza rubare spazio ad alcune sezioni melodiche di ottimo gusto, che donano un ampio respiro al brano. Ma il brano che mi ha colpito di più è "1000 Eyes", dannatamente mordente con la sua velocità e il suo drumming fuori dall'usuale, e con il suo ritornello in impennata, memorabile. Ogni brano contribuisce a rendere questo album un capolavoro del genere, assolutamente irrinunciabile per qualsiasi appassionato di Metal, poiché con questo album i Death hanno rasentato la perfezione assoluta, sotto tutti i punti di vista: tecnico, stilistico, emotivo ed esecutivo. Crudo, spiazzante e dannatamente vero: questo è "Symbolic", un album da avere.

01 - Symbolic (6:35)
02 - Zero Tolerance (4:50)
03 - Empty Words (6:24)
04 - Sacred Serenity (4:28)
05 - 1000 Eyes (4:30)
06 - Without Judgement (5:30)
07 - Crystal Mountain (5:09)
08 - Misanthope (5:06)
09 - Perennial Quest (8:20)

lunedì 3 gennaio 2011

Shape Of Despair - "Written In My Scars"

Solarfall Records, 2010
Sono passati ben sei anni dall'ultima prova discografica dei finnici Shape Of Despair, grande nome del Funeral Doom Metal che si è fatto rispettare dopo la pubblicazione di dischi seminali come "Shades Of..." e "Angels Of Distress". A parte la raccolta omonima, uscita nel 2005, il gruppo sembrava definitivamente scomparso dalle scene, tanto che molti fan si erano rassegnati al fatto che "Sleeping Murder" sarebbe rimasto l'ultimo brano composto dalla band. Invece no: grande è stata la sorpresa quando è stato annunciato questo EP in edizione limitata a 500 copie. Ma ancora più sorprendente è stato scoprire che conteneva solo due pezzi, di durata non chilometrica come di consueto, ma entrambi intorno ai sei minuti, e soprattutto scoprire che il disco sarebbe stato pubblicato unicamente su vinile.

Dopo una lunga ricerca e una lunga attesa mi trovo finalmente tra le mani questo 33 giri e, con una certa emozione, posiziono la puntina sulla superficie picea del vinile. Si può dire che, nella sua brevità, questo "Written In My Scars" sia una prova ben riuscita, che porta avanti un certo lato sperimentale del gruppo: quello che di solito la band fa in dodici minuti e più, qui è condensato in sei. La title track è il primo dei due brani, etereo e sognante grazie all'uso di sonorità chitarristiche particolari e alla splendida voce di Natalie Koskinen, che accompagna il ferale singer Pasi nel suo consueto growl da oltretomba. Le orchestrazioni di "Angels Of Distress" si uniscono all'alleggerimento sonoro che trovavamo su "Illusion's Play", mentre le strutture rimangono estremamente semplici e poco articolate, risultando quasi ipnotiche. I finnici non hanno perso un briciolo della loro capacità di creare atmosfera con pochi elementi e con orchestrazioni ben mirate, ma non hanno neppure perso la capacità di innovare: la successiva "The Bliss Of Sudden Loss" è infatti ben diversa, basata su riff di chitarra ariosi e insistentemente ripetuti, e stavolta priva di voce femminile e arrangiamenti tastieristici. Anche il ritmo, pur sempre lento, accelera lievemente e si fa dinamico: si può dire che il brano sia una continuazione della linea iniziata con la sopracitata "Sleeping Murder", che mostrava gli Shape più diretti e meno crepuscolari, anche se in termini relativi. Disco breve, ma non interlocutorio: se queste sono le premesse, c'è da aspettarsi un ritorno sulle scene in grande stile con il prossimo album, che aspettiamo con ansia. Nell'attesa, un piccolo grande pezzo da collezione per chi è riuscito ad accaparrarselo, dato che ormai è quasi completamente esaurito. Aspettiamo il loro ritorno con fiducia.

01 - Written In My Scars (6:01)
02 - The Bliss Of Sudden Loss (5:47)