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giovedì 31 gennaio 2013

Aidan - "The Relation Between Brain And Behaviour"

Red Sound Records, 2013
Apprezzo molto gli album strumentali. Innanzitutto sono album coraggiosi, in un mondo musicale dove spesso si dà un'importanza primaria al cantato, e solo secondariamente si considerano gli strumenti e le magnifiche trame che sono in grado di tessere anche da soli. Inoltre, la mancanza del cantato fa sì che l'ascoltatore si concentri unicamente sulle trame strumentali, che devono essere ben costruite e interessanti, per sostituire egregiamente le parti vocali e non rendere l'ascolto noioso. Non è un compito facile, ma ci sono band che ci riescono molto bene: mi fa piacere includervi gli esordienti padovani Aidan.

Cito testualmente le parole contenute nel file di accompagnamento al disco: "Attitudine strumentale, deliri post metal, accelerazioni stoner, fangosissime paludi sludge. Sono questi gli ingredienti che fanno di "The Relation Between Brain And Behaviour" uno degli esordi da tenere d'occhio in questo primo scorcio di 2013". Sono assolutamente d'accordo, specialmente sulla parte che sollecita l'interesse verso questa band, in quanto il debutto degli Aidan è uno di quei dischi che in qualche modo ti catturano, ti inchiodano l'attenzione e ti costringono ad ascoltare, non solo a sentire. La corrente strumentale gode di un'ottima produzione ad opera del già conosciuto James Plotkin, folle elemento che ha curato la resa sonora di band altrettanto folli come i Khanate; aggiungiamoci un songwriting degno di nota, e il quadro è completo. Il disco è zeppo di riferimenti all'affascinante caso clinico di Phineas Gage, uomo probo e timorato di Dio, che dopo aver subito una lesione alla testa causata da una sbarra di ferro che gli attraversò il cranio da parte a parte, non solo sopravvisse contro ogni previsione, ma diventò ladro, bestemmiatore, bugiardo. La sbarra, passando, asportò infatti con precisione chirurgica la parte di cervello che controlla i comportamenti morali, causando una trasformazione radicale della personalità dell'uomo. La trasposizione musicale di questo stupefacente evento si esplica con sonorità grevi, sporche, nauseabonde ma nonostante tutto capaci di momenti riflessivi e perfino melodici, a patto di saperli cogliere tra i solchi, in quanto non si rivelano subito. Ipnotismo, distorsioni fluenti e ricche di effetti, melodie enigmatiche e sulfuree, tastiere che acquistano sapori perfino drammatici: tutto descrive molto bene l'odissea di Gage, la sua personalità frammentata e distrutta, la sua dolorosa metamorfosi in qualcosa che nessuno, nemmeno lui stesso, riuscì più a riconoscere. Si tratta di una trasposizione pesante da digerire, questo è sicuro: non aspettatevi che la musica degli Aidan sia di facile ascolto, né tantomeno aspettatevi di poterla memorizzare nel giro di qualche ascolto distratto. Nonostante il minutaggio non elevato, il disco richiede una certa pazienza e un certo impegno per essere compreso e assimilato, vista anche la sua omogeneità che però non significa affatto che i brani siano tutti uguali. Semplicemente, ognuno di essi costituisce un tassello dell'insieme, una parte del viaggio mentale evocato dal disco nella sua interezza. Non sentirete la mancanza del growl raschiato e graffiante tipico del post - sludge: non perchè non ci starebbe bene, ma perché la completezza della musica fa sì che non sia strettamente necessario ai fini del risultato.

Chi volesse farsi un'idea di come suonano gli Aidan, può ascoltare "No Longer Gage", il brano che ritengo il più intenso e coinvolgente del lotto. La sporcizia malata della chitarra sludge si sposa alla perfezione con suggestioni malinconiche e soffuse che fanno correre i brividi lungo la schiena: una dimostrazione di acume e di personalità che fa molto piacere trovare in una band esordiente. Ma ascoltate il disco tutto assieme, e fatevi rapire dai suoi stati patologici, dal suo male di essere, dalle sue martellanti sonorità; scoprirete che un intero mondo si cela dietro a questi riffoni, e che nomi come Isis, Yob e Cult Of Luna rappresentano solo un eco, e non una presenza ingombrante che si fa sentire troppo spesso. "The Relation Between Brain And Behaviour" è un disco dedicato ad un pubblico di appassionati, ma al contempo è un disco che sa il fatto suo e che può presentarsi senza troppe remore anche di fianco ai maestri del genere. In ogni caso, merita la vostra attenzione.

01 - Lebanon, 1823 (2:44)
02 - No Longer Gage (6:31)
03 - Left Frontal Lobe (3:54)
04 - Dr. John Martyn Harlow (3:18)
05 - Pulse 60, And Regular (5:50)
06 - Ptosis (5:51)
07 - Lone Mountain (8:26)

martedì 29 gennaio 2013

Monolithe - "Monolithe II"

Appease Me Records, 2005
Qualcuno magari pensava che il debutto dei francesi Monolithe, composto da un'unica traccia di cinquantadue minuti, sarebbe rimasto un esperimento nella loro carriera, uno di quei dischi che concepisci una sola volta nella vita e poi passi ad altro; in effetti, una scelta così oltranzista e radicale poteva disorientare chiunque non fosse più che intenzionato a conoscere la band e il suo particolarissimo mondo sonoro. Invece, due anni più tardi i Monolithe ritornano in auge con un album che da questo punto di vista è esattamente identico al suo predecessore. Dura un minuto e mezzo in meno, questo è vero, ma la sostanza non è cambiata: una sola, mastodontica traccia di oltre cinquanta minuti, ancora una volta intitolata con il nome del disco stesso. Come per dire: la coerenza prima di tutto, chi ci ama ci segua così come siamo, chi non ci ama stia alla larga dai nostri album. Su questo bisogna dire che i Monolithe meritano rispetto, se non altro per la loro spiccata anticommercialità e per la loro maniera prettamente personale di concepire il funeral doom, portandolo alle estreme conseguenze di sé stesso.

A livello musicale, qualcosa è cambiato? Sì e no, in parti che è difficile quantificare con esattezza. Siamo di fronte ad un nuovo monolite interminabile di funeral doom etereo, dlatato e onirico, che bisogna vivere con una certa partecipazione, senza fretta, senza la pretesa che la musica allenti la presa e diventi meno soffocante, se non per alcuni momenti circoscritti. L'ottimo impianto sonoro non è cambiato, la compattezza della composizione è eccellente, le idee melodiche vincenti non mancano; nonostante il lavoro sia più o meno la fotocopia del debutto "Monolithe I", si lascia ancora una volta ascoltare con piacere, a patto che riusciate a concepire l'idea di un brano tanto lungo ed asfissiante, che non si può far altro che ascoltare tutto di fila se volete che tale brano acquisti un senso compiuto. Ma allora, dove sono le novità che accennavo prima? Stanno più che altro nei dettagli, nelle sfumature: un'attitudine che è diventata un pochettino più progressiva, una minore pesantezza delle linee chitarristiche, una maggiore presenza di tastiere, un uso leggermente più accentuato delle dissonanze (con il riff a 27:35, per esempio, il gruppo supera se stesso!), e addirittura l'inserto di una fisarmonica che con la sua lenta malinconia folkloristica costituisce l'elemento più originale e distintivo di questo lavoro, dato che non è propriamente uno strumento affine al classico funeral doom, e invece qui appare perfettamente contestualizzato ed efficace. Ma come dicevo, si tratta di dettagli: anche un ascoltatore esperto faticherà a trovare differenze sostanziali tra Monolithe I e II, che si muovono su coordinate pressoché identiche e, come ci si può aspettare, faranno nuovamente la gioia di chi ha apprezzato il primo lavoro, mentre lasceranno ugualmente indifferente chi non l'aveva apprezzato ai tempi.

A dire il vero, c'è qualcosa in "Monolithe II" che non mi convince pienamente. Forse è colpa di un suono di tastiera che in certi momenti ha un timbro un po' troppo artefatto; ma non penso si tratti solo di ciò. In fondo si tratta di un dettaglio, al quale si può passare sopra senza troppi problemi. Il problema, se di problema si può parlare, è su un livello differente. Non saprei come spiegarlo, ma a questo seguito manca un po' di quella spontaneità di cui era dotato il debutto, diventando sicuramente più raffinato ed elaborato, più complesso a livello di arrangiamenti e di songwriting, ma anche meno squisitamente emozionale, meno spontaneo appunto. Nonostante le atmosfere siano comunque epiche e grandiose, e le melodie siano di ottimo livello, il disco non riesce a convincermi fino in fondo: mi convince al 99%, ma non al 100%. Il problema di base credo sia uno solo: per quanto l'ascolto sia in ogni caso un'esperienza interessante e coinvolgente, credo che la soluzione stilistica di base sia già stata sfruttata a fondo con il precedente "Monolithe I", e che il disco avrebbe dovuto mostrare un'evoluzione più netta, per staccarsi dallo status di disco fotocopia. Le piccole differenze tra i due album non sono sufficienti a togliermi dalla testa l'idea che "Monolithe II" sia un leggero calo di tono, anche se diverse persone mostrano di apprezzarlo più del debutto, quindi non voglio dare alle mie affermazioni una connotazione assoluta. Ma nonostante tutto, anche se in certi punti pecca un po' di artificiosità, "Monolithe II" è indubbiamente un disco validissimo, un lavoro con tutte le carte in regola per impressionare positivamente ogni appassionato di funeral doom che si rispetti. Non mi resta dunque che rinnovare i complimenti ai Monolithe, se li meritano tutti.

01 - Monolithe II (50:27)

lunedì 28 gennaio 2013

Kerbenok - "Der Erde Entwachsen (Gewollte Wunden)"

Autoprodotto, 2007
Le demo autoprodotte sono il vero motore della musica metal, sono la brulicante base dalla quale ogni tanto esce fuori la band rivelazione, il disco capolavoro, il musicista talentuoso che dà vita a qualcosa di assolutamente nuovo e coinvolgente. Nell'infinito marasma dell'underground, nel quale tutti cercano di sgomitare per farsi strada in un mercato sovraffollato e saturo, spuntano talvolta gruppi originali e interessanti come i tedeschi Kerbenok, che come nella migliore delle tradizioni, esordiscono con un extended play per poi passare all'album in studio vero e proprio, così da preparare un po' il terreno. "Der Erde Entwachsen" ha proprio questo scopo, ma si può dire che nella sua brevità è già un lavoro completo, che si slega dal mero compito di filo guida e si fa notare per la sua intrinseca qualità.

Un delicato arpeggio di matrice post rock, accompagnato da un flauto silvano, apre le danze di "Das Kalte Feuer", per poi lasciare il passo ad un assalto black metal dal retrogusto un po' tribale e folkloristico, quasi preso dai Finntroll. Sono passati solo tre minuti, ma ci stiamo già rendendo conto che la musica ci cattura, ci trasporta in un qualche genere di ambientazione, insomma ci coinvolge. L'ambientazione più calzante non può che essere il bosco, con i suoi animali, le sue reti di radici sotterranee, le sue cortecce impregnate di profumi resinosi, quello stesso bosco che appare nell'emblematica immagine di copertina, la quale raffigura il muschio che cresce su un tronco. L'inarrestabile vitalità della foresta è espressa da ritmiche cangianti, da chitarre dinamiche, da una voce a metà tra il growl e lo scream che non comunica negatività o disagio, ma al massimo appare più come una narrazione. Rallentamenti melodici e gustosi si intersecano nella fitta trama delle chitarre distorte per regalarci serene passeggiate lungo sentieri pianeggianti, salvo poi ritornare a picchiare senza remissione nel momento in cui la strada si fa contorta e ricoperta di arbusti: queste sono solo alcune delle impressioni che giungono alla mia mente dopo l'ascolto di questa prima traccia.

La successiva "Der Erde Entwachsen" è l'incarnazione più spasmodica e violenta delle forze naturali, espresse da ritmiche convulse e da una violenza strumentale che non si placa mai, come a simboleggiare un cataclisma che coinvolge l'intero ecosistema. Nascosta sotto la fitta rete di distorsioni e colpi ai piatti, tuttavia, è presente una traccia melodica che tenta di farsi sentire, come il timido cinguettio di un uccellino nel corso di un incendio devastante; notevole è la maestria della band nel rievocare tali immagini, che comunque si prestano a moltissime interpretazioni, dimostrando che la musica è solo apparentemente caotica e slegata, come appare ad un primo ascolto. Tocca poi a "Der Fall" chiudere i ventiquattro minuti di questo dischetto, mostrandoci un'altra sfaccettatura della band: cori medianici e sonorità ipnotiche reggono la prima parte del brano fino alla consueta esplosione sonora, che va poi a sfumare improvvisamente in un magico finale acustico dal sapore giocherellone, nel quale avviene finalmente la riconciliazione con la brutalità della natura.

Influenzato nettamente dalle sonorità folk - black di gruppi cardine come Ulver, Borknagar, Taake e i sopracitati Finntroll, questo dischetto brilla comunque di luce propria, grazie ad una spiccata personalità e ad una capacità non comune di amalgamare diverse influenze e diversi livelli sonori in un complesso assolutamente convincente. Addentrarsi nel boschivo sentiero dei Kerbenok è un'esperienza che porta ad una sicura immedesimazione, anche se inizialmente può risultare un ascolto ostico; non ci rimane che stupirci, ancora una volta, di quanto buon materiale esista nel sepolto mondo degli esordienti, che per fortuna questa volta hanno potuto raggiungere una buona fetta di pubblico, grazie alla ristampa operata dalla benefattrice Northern Silence Productions.

01 - Das Kalte Feuer (8:58)
02 - Der Erde Entwachsen (6:10)
03 - Der Fall (8:35)

venerdì 25 gennaio 2013

Elysian Blaze - "Blood Geometry"

Osmose Productions, 2012
Se siete alla ricerca di un'esperienza musicale davvero nuova, e se non avete paura di tuffarvi a capofitto in un album a dir poco colossale, la nuova fatica targata Elysian Blaze non può che essere la scelta perfetta per voi. Con questo impressionante e interminabile doppio album, il talentuoso musicista australiano Mutatiis produce infatti quella che può essere considerata come la sua conferma definitiva, il tetto massimo della sua arte oscura ed esoterica, quell'arte che aveva sbalordito tutti quando uscì il precedente "Levitating The Carnal", di cui questo nuovo "Blood Geometry" rappresenta l'evoluzione più spettacolare e completa che si possa immaginare.

Mutatiis, che da sempre è l'unico componente del progetto, si muove fin dagli albori su terreni a metà tra il black metal e il funeral doom, donando alle sue composizioni una notevole atmosfera e un piglio compositivo che pesca a piene mani dal dark ambient, dal depressive black e perfino un po' dal drone. In questa confusa orgia di etichette e classificazioni, che possono solo dare un'idea approssimativa dell'estro che possiede Mutatiis nel fonderli assieme, nasce con tre anni di ritardo sulla tabella di marcia questo "Blood Geometry", doppio album dalla durata complessiva di due ore e dieci minuti, un tempo obiettivamente pachidermico che rende il disco un avversario davvero difficile da fronteggiare perfino per un appassionato del genere. Sarebbe impresa ardua ascoltare due ore di qualsiasi tipo di musica, ma con gli Elysian Blaze la cosa diventa ancora più difficile, considerando la loro proposta a dir poco di nicchia, zeppa di elementi particolarissimi che non fanno altro che complicare ulteriormente l'esperienza dell'ascolto. Oltre alla complessità strutturale dell'opera, che è indubbiamente notevole, c'è infatti da rimanere annichiliti dai suoni gelidi e remoti, dalla produzione volutamente confusa e ovattata, dalle ritmiche ossessive e malevole che variano la velocità lungo uno spettro molto ampio, dalla voce che è poco più che un lamento demoniaco sepolto nelle viscere del pianeta a chilometri di profondità. E soprattutto, c'è da rimanere annichiliti dal modo in cui tutti questi elementi si combinano assieme per restituire un disco di una compattezza stilistica e di una coerenza interna eccellente. Gli strumenti penetrano uno dentro l'altro creando muraglie ipnotiche e suggestive, tra tappeti sonori epicheggianti, improvvise accelerazioni e rallentamenti che paiono annegare nel vuoto per poi lasciare spazio a decine di minuti di atmosfera pura, in un complesso e stupefacente caleidoscopio di strutture e sovrastrutture pluristratificate che bisogna avere la pazienza di estricare e comprendere poco alla volta, con il passare degli ascolti (ne servono a decine, prima di cominciare a capirci qualcosa). Ritmiche funeral doom su suoni black, ambientazioni drone su melodie che arrivano a toccare la new age (provare per credere), alternanza tra pieno e vuoto che ha un sapore squisitamente cosmico e onirico, sprazzi di sacralità maledetta che si affiancano alla pesantezza più schiacciante, e così via in un continuo evolversi di sonorità e intenti che conducono in un labirinto incomprensibilmente vasto e complicato. Stupenda è la scelta di lasciare la produzione sonora allo stesso livello "povero" che avevamo ascoltato su "Levitating The Carnal"; nonostante essa costituisca un elemento di disturbo per chi volesse intraprendere un ascolto attento (e in tal caso buona fortuna al temerario che ci proverà!), l'impastamento e la rarefazione del suono è ciò che rende questo disco così evocativo, alla pari di un protagonista inaspettato che sbalordisce per la forza con la quale si impone sulla scena: il pianoforte. Esso costituisce la vera anima di "Blood Geometry", comparendo nei momenti più intensi come dispensatore di vita o di morte, e producendosi in melodie che risultano perfino commoventi, se di commozione si può parlare in un album così ferale e notturno, che non lascia spazio per la luce del giorno. Vi accorgerete subito che non sono le rombanti e confuse chitarre, nè la latrante voce, nè le inquietanti tastiere, nè le maestose sezioni corali ad avere il pieno controllo della scena; i tasti bianchi e neri sono i veri padroni, i maestri indiscussi che compaiono quando c'è bisogno di una presenza autorevole che metta in riga tutti gli altri, per annichilirli con una dimostrazione di proterva superiorità. L'entrata del pianoforte, dalla timbrica oscura e liquida, conferisce al disco un carattere marziale, misterioso, adamantino; come una vera e propria opera musicale, capace di lasciare segni indelebili nell'anima.

Dando un'occhiata alla tracklist, si può farsi solo una vaga idea di ciò che troveremo all'interno di questo "Blood Geometry". Cosa possiamo infatti aspettarci da pezzoni giganteschi come "Sigils That Beckon Death", di ventitrè minuti, "Pyramid Of The Cold Son" di ventidue, e "Blood Of Ancients, Blood Of Hatred" di addirittura trentasei? Spiegarlo in poche parole è impossibile: succedono troppe cose all'interno di essi, e su ciascun minuto si potrebbe parlare per ore, sviscerando tutti i significati di una musica di tale intransigente e severa bellezza. Ogni pezzo potrebbe essere considerato un disco nel disco, un'appendice all'appendice, un differente movimento di un'opera dalle sfaccettature infinite. Posso solo dire che "Blood Geometry" è un disco che porta all'estremo ogni aspetto della musica estrema, dilatando i tempi in maniera encomiabile e coraggiosa, e proponendosi con uno spirito che più anticommerciale non potrebbe essere, consapevole del fatto che la sua bellezza verrà colta solamente da chi possiede la giusta attitudine e la giusta pazienza per comprendere a fondo un lavoro come questo. Mutatiis non si è limitato a ricopiare "Levitating The Carnal" e a riproporcelo in versione allungata, ma ha creato un vero e proprio monumento musicale nero, un monolite immenso che potrebbe diventare la vostra prossima ossessione, che vi lascerà totalmente incapaci di intendere e di volere e che vi terrà inevitabilmente soggiogati. Perchè una volta che si entra nei siderali meandri di "Blood Geometry", uscirne è davvero un compito arduo.

Un lavoro titanico, da venerare silenziosamente nei secoli dei secoli.

CD 1

01 - A Choir For Venus (4:30)
02 - The Temple Is Falling (18:25)
03 - Sigils That Beckon Death (23:55)
04 - Blood Geometry (9:01)

CD 2

01 - A Blaze For Twilight (3:45)
02 - Pyramid Of The Cold Son (22:12)
03 - Blood Of Ancients, Blood Of Hatred (36:36)
04 - Void Alchemy (11:12)

lunedì 21 gennaio 2013

Ahab - "The Giant"

Napalm Records, 2012
Recensione scritta a quattro mani da Vanni e Daniele.

Un breve estratto dal diario di bordo della nave Nautik Funeral Doom, guidata dal comandante Ahab.

Giorno 1 (25/11/11): si salpa per il terzo emozionante viaggio nelle onde del burrascoso oceano Atlantico. Gli Ahab hanno annunciato che presto si dedicheranno alla registrazione del loro terzo disco, la scrittura del quale volge ormai al termine.

Giorno 68: gli Ahab sono in studio per le registrazioni, e quelle del basso e della batteria sono già state completate. I lavori sembrano procedere bene, ma il viaggio non è che all'inizio.

Giorno 98: ora il titolo del nuovo album è stato reso noto: "The Giant". Il disco sarà disponibile in maggio, quindi non prima di una sessantina di giorni. Ma la notizia più grandiosa è un trailer di quasi quattro minuti delle registrazioni dell’album! Lo splendido arpeggio che lo apre e la fragorosa musica in cui poi esplode accrescono la curiosità: gli Ahab stanno arrivando! Non vedo l’ora!

Giorno 103: oggi è stata una giornata strana, particolarmente provante. Gli Ahab hanno rivelato la copertina del loro nuovo full-length, che come primo impatto è molto deludente. L’idea è sicuramente carina, ma sembra mancare di serietà. Tuttavia dopo i primi istanti l’attenzione cade sul font usato per il titolo, e poi a catena su una serie di altri particolari: gli Ahab si sono dati alla psichedelia? No, mi sembra impossibile, è solo una stramba ipotesi.

Giorno 155: è il momento della svolta: finalmente un brano intero online! Si tratta della titletrack "The Giant". L’esperienza sonora è stata notevole ed emozionante! Il timbro degli Ahab lo si sente tutto, tanto nelle ritmiche quanto nello stile compositivo, ma ci sono grandi novità: le sonorità vanno in parte verso lo sludge, in parte verso il post metal, mentre alcuni riff suonano davvero psichedelici. La mia intuizione era sorprendentemente corretta! Uno sviluppo insperato da parte degli Ahab, ma sembra promettere molto bene.

Giorno 182: l'album esce nei negozi.

Giorno 252: acquisto l'album.

Giorno 253 (04/08/12): ascolto l'album.

Si preannunciava una rivoluzione pazzesca, sembrava delinearsi addirittura una svolta psichedelica. E invece tutto sommato "The Giant" è un album che non rinnega nulla di tutto quello che gli Ahab sono stati fino ad oggi: si “limita”, per così dire, ad introdurre una svolta più rockeggiante, orientata al post metal, con sonorità lievemente più scarne e minimali. Ma a conti fatti gli Ahab sono ancora gli Ahab: stessi ritmi, stesso songwriting, stesso feeling. Stesso funeral doom intelligente, elaborato sotto tutti i punti di vista (anche e soprattutto ritmicamente); stessa candida ossessione per le tematiche acquatiche e per tutto ciò che in musica richiama l'acqua e il suo ipnotico effetto. Ciò si riflette anche nell'aspetto tematico: così come "The Call Of The Wretched Sea" raccontava la storia della caccia a Moby Dick, e "The Divinity Of Oceans" narrava il dramma del naufragio della baleniera Essex, stavolta è Edgar Allan Poe ad essere tirato in ballo come ispirazione, rivisitando liberamente l'allucinata storia di Arhur Gordon Pym, marinaio di Nantucket che si imbarca clandestinamente su un vascello decretando l'inizio di una spaventosa spirale di orrore e morte. La cura e la maestria con cui gli Ahab effettuano questa trasposizione musicale è notevole, così come sono notevoli i testi, infarciti di vocaboli raffinati e particolari che li rendono dei veri e propri frammenti di grande letteratura. Così come succedeva con i precedenti due album, anche in questo caso è impossibile separare la musica dal testo: essi vanno di pari passo, e privati l'uno dell'altro sono come la mela di Platone, tristemente incompleta.

Musicalmente parlando, tutto ciò che rendeva gli Ahab una grande band è rimasto, è stato solo trasfigurato in una veste ancora più riflessiva, impalpabile, per certi versi sì psichedelica, ma non nel senso stretto del termine. "The Giant" non fa viaggiare con la mente, se non contestualmente alle atmosfere evocate; non è un trip che si potrebbe amplificare con una dose di droga sintetica. La psichedelia di "The Giant" è una psichedelia sommessa, più che altro un'attitudine per le sonorità liquide, inafferrabili, per le melodie enigmatiche e circolari, che dicono tutto e non dicono niente, così come il continuo sciabordio dell'acqua sulle rocce costiere racchiude in sè arcani significati che necessiterebbero di una vita intera per essere sviscerati. A dispetto della paludosa oscurità che continua a far parte del sound del gruppo, qui la componente melodica diventa ancora più forte che nei precedenti lavori, aiutata notevolmente da un uso incrementato del cantato pulito a discapito del sempre ottimo growl (il quale non perde nulla della sua catacombale efficacia). La voce maschile ammalia con momenti di assoluta bellezza come nell'opener "Further South", introdotta da chitarre gentili e pulite che suonano con tranquillità, mimando le prime onde del mattino che muovono delicatamente il vascello lasciato alla fonda. Nel momento in cui un cantato celestiale prende vita, una nuova emozione cresce dentro di noi: echi dei migliori Pink Floyd (a qualcuno è venuta in mente High Hopes?) fanno capolino, ma l'assoluta e indiscutibile personalità del quartetto tedesco fa sì che rimangano solo echi vaghi, mentre a fare tutto il lavoro è un connubio sopraffino di composizione, affinamento, arrangiamento e bilanciamento tra le parti. Tuttavia, gli Ahab non si sono dimenticati di ciò che sono, vale a dire un gruppo funeral doom metal; ecco che a metà brano compaiono riff schiaccianti, pesanti come macigni, dotati del consueto riverbero che anche stavolta ci fa sentire sperduti in mezzo all'oceano, se non addirittura in fondo ad esso. La maturità artistica raggiunta dal gruppo, anche solo dopo aver ascoltato questo primo brano, appare fin da subito impressionante.

"Aeons Elapse" comincia con un arpeggio inquietante, notturno; una voce sussurrante prepara l'esplosione di un riff apocalittico sostenuto da grida possenti, imperniate di sofferenza atroce, lamenti che ancora una volta ricordano l'angoscia di un naufragio, l'incessante agitarsi delle onde, ritmicamente diaboliche come solo l'acqua sa essere. Ma ecco che la nuova psichedelia Ahabiana fa capolino nella voce pulita e nelle scale arabe utilizzate per accompagnarla: sembra quasi di ascoltare la voce di un gigante delle acque, forse di Poseidone in persona, che si rivolge agli uomini con un tono divino e inappellabile. Una riff dalla potenza spaventosa distrugge la relativa beatitudine creata dal clean, mentre il growl acquista una forza espressiva che atterrisce; ma di nuovo, si ritorna su territori inesplorati e magici grazie ad una scala di chitarra costantemente ascendente e discendente, che sfuma lasciando solo i rintocchi di batteria, lenti e stanchi, a comunicarci un senso di incompiutezza. Un finale aperto. Che mai potrà succedere ancora, in questo viaggio maledetto e colmo di sventure?

"Deliverance (Shouting At The Dead)" sfrutta con eleganza le sue linee chitarristiche per creare atmosfere più serene e distensive, che riportano luce nei cuori nonostante la pesantezza dei suoni, e che curiosamente sono scelte per rappresentare uno dei momenti più drammatici della novella di Poe: l'incontro, dopo settimane alla deriva, di una nave il cui intero equipaggio è morto. Le melodie degli Ahab non sono mai state banali, anzi sono sempre state tra le melodie più raffinate ed eccellenti che ho mai ascoltato; se possibile, con quest'ultimo lavoro la band ha addirittura migliorato questa propria caratteristica, già di per sè eccelsa. All'arrivo della superba "Antarctica The Polymorphess", il quartetto tedesco ci mostra un volto ancora differente, il volto della malinconia, della bellezza sublime di un continente ghiacciato e candido che inizia ad apparire mentre si procede inesorabilmente verso sud; le parti in crescendo di stampo progressive sono a dir poco sbalorditive per l'efficacia con cui arrivano diritte al cuore senza nemmeno l'ombra di ruffianeria, così come è sbalorditiva la bellezza e l'eleganza delle parti melodiche, imperniate su una voce pulita dai toni elegiaci, celestiali. Dopo un finale tempestato di emozioni si prosegue il viaggio con la possente "Fathoms Deep Below", teatro di una lentezza pachidermica tipica del funeral doom più estremo; non capisco perchè questa traccia venga additatata come riempitiva e inferiore qualitativamente alle altre, dato che è un pezzo a mio parere superbo, sinistro e affascinante proprio come tutti gli altri brani di "The Giant". Vero, forse è quello che rimane meno stampato in testa, ma sarebbe un'assurdità dire che si poteva tranquillamente escluderlo dalla tracklist, come ho letto da qualche parte. Basta solo ascoltare l'eccellente assolo di chitarra, sempre giocato su scale misteriose che richiamano le profondità oceaniche ... Chiusa questa piccola parentesi, siamo arrivati a "The Giant", che conclude l'odissea con un incedere pesante, stentoreo, distruttivo: la lentezza diabolica del riff portante, che curiosamente non è affiancato ad un pesante growl ma ad un'allucinata voce in clean, atterrisce letteralmente chi l'ascolta. Un breve stacco a metà brano pare riportare la calma e la tranquillità, ma è solo l'inizio della fine: un lento e parossistico crescendo, l'ultimo, ci narra le ultime gesta di Arthur Gordon Pym, pronto a chiamare a sè questo sconosciuto e diafano gigante delle acque, che molte somiglianze ha con la morte. Sulle aggiunte presenti sulle edizioni limitate ("Time's Like Molten Lead" sulla versione digipak, e inoltre anche "Evening Star" sulla versione in vinile), non mi esprimo e lascio che siano gli ascoltatori a scoprirle piano piano: ogni epopea non è completa se non mantiene un certo mistero su almeno uno dei suoi aspetti.

Giorno 467. Ora che siamo giunti alla fine di questo emozionante terzo viaggio della nave Nautik Funeral Doom, guidata dal comandante Ahab, è con parole di assolute pienezza e soddisfazione che appongo il punto al diario di questo lungo, incredibile viaggio, un viaggio che mi ha lasciato dentro esperienze indelebili. Non posso essere sicuro che questi miei scritti si conserveranno con il passare del tempo, ma se qualcuno mai li leggerà, lo esorto ad intraprendere anche lui il viaggio dal quale sono tornato, e che mi ha arricchito come non mai, facendomi scoprire un mondo nuovo e meraviglioso. Non abbiate paura di salpare, la nave rolla e beccheggia ma vi condurrà sempre ad un porto sicuro, anche dopo la tempesta più violenta e paurosa ... sempre che non incontriate un vascello pieno di marinai morti sulla vostra strada.

01 - Further South (9:01)
02 - Aeons Elapse (12:48)
03 - Deliverance (Shouting At The Dead) (7:52)
04 - Antarctica The Polymorphess (11:49)
05 - Fathoms Deep Below (9:11)
06 - The Giant (10:39)

domenica 20 gennaio 2013

Arckanum - "Kampen"

Recensione scritta a quattro mani da Vanni e Daniele.

Come tutti gli anni, prima o poi arriva l’estate, e come tutte le estati si assiste al caratteristico esodo della gente che si accalca sulle autostrade affrontando code chilometriche a base di sole cocente e stress incalzante...e tutto questo per cosa? Quale impresa epica si cela dietro siffatte eroiche gesta? Quale baluardo ultimo dell’umanità costoro stanno accorrendo a salvare? Ebbene, costoro si incamminano...per andare al mare. E cosa ci vanno a fare al mare? Nella maggioranza dei casi ci vanno per stiparsi come una miriade di sardine sotto i roventi raggi ultravioletti (o sarebbe meglio dire ultraviolenti) del sole di luglio e agosto, per annichilire la loro attività cerebrale senza fare nulla dalla mattina alla sera, per lasciare che i suddetti raggi deteriorino lentamente la loro cute, favoriscano mutazioni incontrollate e potenzialmente cancerogene nel loro DNA e facciano bollire i neuroni superstiti.

Per fortuna esistono delle alternative, e una delle più spettacolari si chiama montagna. La montagna è un luogo splendido e in parte ancora incontaminato, tutto da esplorare e fotografare, talvolta ostile allo strapotere dell’uomo, affascinante in virtù della sua immensa varietà di scenari e perfetto per la contemplazione in solitudine - credo non sia un caso che essa sia fonte di ispirazione per così tante band Black Metal, e soprattutto credo che non sia un caso che tutto quello che il mare abbia ispirato è il latino americano - e con questo ho detto tutto. E quale posto potrebbe essere migliore dei grandi boschi sulle selvagge montagne per dedicarsi a svariate tecniche meditative e contemplative? Sembra che gli Arckanum siano nati proprio da siffatta attività di Shamatee, fondatore di questa one-man-band che negli anni ’90 pubblicò tre album uno più bello dell’altro, tre gemme dedite ad un Black Metal primordiale dalle squisite melodie sciamaniche e boschive. "Kampen" è il terzo dei tre, ultimo prima di una lunga pausa discografica che si romperà solo dieci anni più tardi, quando Shamatee sperimenterà un modo un po’ diverso di suonare black metal.

Ascoltando "Kampen" sembra di avvertire gli ampi respiri delle montagne, sembra di essere circondati da abeti fruscianti, in una visuale senza condomini e strade asfaltate; e sapere che si sta calpestando lo stesso terreno sul quale ogni giorno migliaia di creature allo stato brado lottano per sopravvivere è un’emozione unica. Numerosi intermezzi di puri suoni naturali si alternano a brani veloci, taglienti, gelidi come le notti sulle cime innevate ed evocativi quanto la visione di immensi paesaggi modellati da millenni di erosione e di stratificazione delle rocce sedimentarie. Le chitarre paiono animate di vita propria mentre suonano riff nervosi e tremanti, sostenuti da una voce assassina che passa dallo scream all'ossimorico clean "sporco", che però più che rabbia cieca esprime angoscia e feralità, così come la voce femminile di Lena Klarstrom, ospite fissa nei dischi degli Arckanum. "Kamps Tekn" è la canzone - paradigma del disco: un riffing così smembrante ed angoscioso non può lasciare indifferenti, mentre si contorce insieme alla superba batteria per immergerci in un mondo naturale che non conosce scappatoie, nel quale vige la legge del più forte. Il mondo pagano - gnostico degli Arckanum trova la sua perfetta espressione in questo disco, il quale contiene musica senza mezzi termini, diretta e scarna, tesa a colpire l'ascoltatore nella sua emotività più istintiva, senza la pretesa di ricreare altre sensazioni che non siano quelle primordiali e "arcane", appunto, derivanti dai contatti con l'elemento naturale. Non gli manca la melodia, seppur nascosta nel marasma di violenza (ottimo esempio l'assolo di "Skipu Vidit Dunkel", sapientemente messo in risalto); non gli manca un riffing ispirato e interessante, non gli mancano le atmosfere quasi sciamaniche e rituali che impreziosiscono la furia strumentale e vocale, non gli manca una buona tecnica esecutiva e nemmeno gli manca una produzione all'altezza, che sappia ricreare quel gustoso mix di grezzume e nitidezza sonora che permette di vivere al meglio l'esperienza del black metal. Sostanzialmente, non gli manca nulla, ed è probabilmente il miglior album del trio iniziale, quello dove gli Arckanum hanno dato sfogo alla loro arte nel modo più crudo e sincero che ci poteva essere (non che successivamente siano scaduti, anzi: ma come dicevo sopra, hanno cambiato il loro modo di suonare).

La durata complessiva è forse un po' elevata in relazione al tipo di musica proposta, ma non si può muovere alcuna critica agli Arckanum riguardo a questo "Kampen": nel suo genere, è un disco originale e convincente, dalla sicura personalità, che se anche non può essere considerato un capolavoro irrinunciabile, rappresenta un'espressione autentica e genuina di sensazioni ormai perdute e riscontrabili in casi circoscritti, come appunto una passeggiata in montagna attraverso luoghi solitari e impervi, senza nessuno ad accompagnarci, se non il cinguettio degli uccelli e il timido fischio delle marmotte che avvisano le loro compagne della presenza di un'aquila volteggiante e minacciosa sopra le loro teste.

01 - Intro (04:41)
02 - Kamps Tekn (05:59)
03 - Frana (06:50)
04 - Tronan Yvir þusand Landskaps Mark (04:17)
05 - Pa Gruvstiigher Vandrum (06:50)
06 - Minir Natz Fughlir (06:40)
07 - Trulfylket, Raþz Ok Os (08:42)
08 - þe Hæmpndlystnir Fran Dimban (04:15)
09 - Nær Ok Fiær (03:59)
10 - Skipu Vidit Dunkel (05:37)
11 - þær Vindanir Dvælies (05:50)
12 - Sangin Kaos (08:59)

Esoteric - "Subconscious Dissolution Into The Continuum"

Season Of Mist, 2004
Recensione scritta a quattro mani da Vanni e Daniele.
 
Quando si parla degli Esoteric, ogni persona che ama la musica estrema dovrebbe inchinarsi e mostrare rispetto; poche band sono state capaci di costruirsi un sound così personale e così efficace, ponendosi come pilastro assoluto di un genere musicale che sarà pure di nicchia, ma che ha un indiscutibile valore artistico al di là dei gusti personali. Tuttavia, qualsiasi gruppo musicale o comunque qualsiasi artista sforna dischi più o meno ispirati a seconda del momento, specialmente se la discografia è abbastanza nutrita: qualche volta capitano dischi ciofeca, mentre qualche volta capitano dischi sì buoni, ma che sono privi di quel "di più" che li renderebbe dei capolavori. Questo sembra proprio essere il caso di "Subconscious Dissolution": nonostante il disco in sè farebbe a pezzi il 90% delle doom band in circolazione, per essere un disco degli Esoteric è uno tra i meno elaborati e meno riusciti, seppure ripeto, è tale solo perchè soffre il confronto con gli altri mastodontici lavori della band medesima. Vediamo perché, immergendoci nell'ascolto e cercando di dare un senso compiuto a queste affermazioni.

Con questo nuovo, monolitico lavoro, la band britannica ripropone la soluzione a tre canzoni su disco unico, sperimentata cinque anni prima con "Metamorphogenesis". Non c'è nulla di nuovo rispetto a quello che la band suona da "The Pernicious Enigma", ma bisogna sottolineare che il mood maggiormente melodico di "Metamorphogenesis" è stato mantenuto e sviluppato. Se questo disco ha qualcosa di diverso dal solito, e in questo caso la "diversità" coincide con il difetto, è la produzione. Le idee gli Esoteric ce le hanno sempre, non si scappa; i riff vincenti li tirano fuori sempre dal loro cilindro magico, e a livello di songwriting non c'è nulla da eccepire. Brani costruiti perfettamente, inanellati uno dopo l'altro con grande sapienza a formare una trilogia in perfetto divenire, seppur al tempo stesso capaci di mantenere ciascuno una sua identità ben precisa. Della serie: tanta roba! Tuttavia stavolta a mio parere la produzione non è efficace: piatta, a tratti banale, inadatta allo spessore del loro funeral doom sperimentale, incapace di valorizzare al meglio le numerose idee che la band come al solito sa mettere nella propria musica. Sotto questo aspetto, Subconscious sembra quasi uno spreco di idee. Ed è un vero peccato, perché ad esempio "The Blood Of The Eyes" è un brano costruito magistralmente: un'intro spiccatamente melodica che pian piano si adagia, finché a metà brano c'è un cambio di scenario ed esplode una brillante sequenza di riff macignosi che conducono alla fine del brano. Uhm, esplode...si fa per dire, perché né chitarra né batteria hanno un sound realmente incisivo; si limitano a scivolare via, senza cattiveria né spessore. Si dissolvono inconsciamente senza graffiare l'animo dell'ascoltatore. Tra l'altro, stavolta nemmeno le numerose sfaccettature musicali che da sempre caratterizzano gli Esoteric – parlo dei loro proverbiali noise elettronici – riescono a fare la differenza: circoscritti a precise zone musicali, non inondano l'incedere musicale come accade invece in tutti gli altri album; rimangono invece quasi sempre quieti, circostanziali, sonnecchianti sullo sfondo. Prendete "Morphia" ad esempio: grande intro finemente miniata, di quelle che fanno venire l'acquolina in bocca, ma poi appena attaccano le chitarre pesanti si eclissa tutto: niente più chitarre melodiche, niente più noise elettronici, soltanto chitarra ritmica, basso e batteria che tirano avanti per la loro arida strada con il loro normalissimo sound senza lode e senza infamia.

Cosa si può dire di questo "Subconscious Dissolution Into The Continuum?" Cosa si può dire di questo disco sfornato da una band obiettivamente eccelsa, celato dietro un titolo accattivante ed accompagnato da un booklet fatto davvero bene? Posso dire che è un album scritto e costruito magistralmente, ma che purtroppo è frenato e dimezzato dalla produzione che lo riveste. Questa trascuratezza ne fa purtroppo l'episodio meno brillante della discografia degli Esoteric. Se solo potessero tornare indietro e registrarlo daccapo, sarebbe un capolavoro al livello di tutti gli altri; così invece diventa solo una buona prova. Ma a costo di essere ripetitivo, lo dico ancora una volta: si tratta di un gigante un po' meno gigante degli altri, e chi ha fame di musica estrema troverà comunque in "Subconscious..." tutto ciò di cui ha bisogno.

01 - Morphia (15:54)
02 - The Blood Of The Eyes (12:36)
03 - Grey Day (17:03)
04 - Arcane Dissolution (5:17)

Kathaarsys - "Anonymous Ballad"

Silent Tree Productions, 2009
Recensione scritta a quattro mani da Vanni e Daniele.

Un uomo che si rende conto del fatto che la sua vita non ha senso, è vuota, è vissuta senza uno scopo nè un perché; e che dopo questa presa di consapevolezza, decide di raggiungere la catarsi con la morte, unica possibile soluzione ad una tale inguaribile insensatezza esistenziale. Dopo il capolavoro "Verses In Vain" del 2007, gli eclettici Kathaarsys ci narrano un'altra storia di un suicidio, e stavolta lo fanno con un disco che dura meno della metà rispetto al suo ingombrante predecessore. Le premesse per tuffarsi a capofitto in questa nuova opera musicale ci sono tutte: non resta che trovare quaranta minuti della nostra giornata da dedicare unicamente alla scoperta di questo nuovo act della band spagnola.

"Awaken interests and expires clumsily amid grins". Questa frase cantata con costernazione su un triste arpeggio apre il disco, e basta poco per rendersi conto che lo stile musicale non è cambiato granchè da "Verses In Vain": lo stesso progressive metal, estremo e un po' grezzo, che si snoda tra arpeggi melodici e blast beats, tra voce clean e scream, e che raggiunge ampie vallate melodiche così come alte vette di violenza e velocità. Il progredire della musica è addirittura più coerente che in "Verses In Vain", e invece di proporre una serie infinita di momenti dalle emozioni contrastanti, segue un'evoluzione ben precisa: cinque sono i brani, ma in realtà una sola è la canzone, un tutt'uno inscindibile che mostra un solo momento di interruzione, tra "No Guide" e "Darkness".

Se c'è qualcosa che adoro di questo album, è che la musica descrive sorprendentemente bene il contenuto dei testi, cosa che non è poi così scontata e facile da riscontrare. Quando le parole descrivono rabbia, la musica si fa più serrata e aggressiva; quando le parole ritraggono momenti di tristezza, ecco che la musica diventa lenta e sopita, mentre quando si parla di pazzia, le note si increspano e diventano aspramente dissonanti (magistrale in questo senso è la terza traccia, "The Advent Of Madness"). Quando infine il fato oscuro sta per compiersi, dopo l'angosciosa introduzione di "No Guide", una melodia docile e rassegnata ci culla lentamente fino al minuto 6:15, nel punto in cui inizia qualcosa di indescrivibile a parole, qualcosa che va compreso ascoltandolo e vivendolo, e che si protrae per i successivi cinque minuti e mezzo ... nei quali si compie la catarsi all'incontrario. Non una serena ascesa verso la beatitudine, ma una mesta discesa verso la morte, unica risolutrice della pochezza umana. Solo quando la musica si ferma, lasciando che un freddo vento riempia il silenzio, si riprende coscienza e si torna nel mondo reale. Questi cinque minuti e mezzo sono il momento in cui si realizza appieno di essere piccoli ed impotenti, un granello insignificante nella grandezza dell’universo, ci si sente spogliati di tutto ciò che fino a pochi istanti prima ci pareva così importante e degno di considerazione. In questi cinque minuti e mezzo ha luogo una trance estatica, in cui l’abbandono alle proprie immagini ipnagogiche prende il sopravvento, in cui la realtà circostante non ha più importanza, in cui tutti i grandiosi millenari sforzi compiuti dall’umanità nel corso della sua storia evaporano dinnanzi alla sterminata grandezza dell’immenso che abbiamo dentro di noi e che ci circonda. Soltanto i due minuti seguenti di vento permettono di ritornare alla propria coscienza, di sintonizzarsi nuovamente col proprio ego. Volete davvero sapere cosa succede durante questi cinque minuti e mezzo? Allora ascoltate il brano. Io posso solo dirvi che è uno dei pezzi musicali più eccellenti che io abbia mai avuto la delizia di assaporare.

La quinta ed ultima traccia è una sorta di “after”, una sorta di aldilà, una vita dopo la morte che potrebbe quasi essere omessa se non fosse che è probabilmente il brano migliore del lotto. Qui la lucidità dei primi due brani è recuperata, ma si tratta della lucidità irreversibile di un uomo che ormai ha deciso: non c’è più nulla per lui in questo mondo, è giunta l’ora di farla finita. Gli arpeggi corsari che fanno incursione nel mondo dell’oscurità e dell’incertezza, tramutandosi poi in riff senza sosta, si prestano bene a supportare l’epilogo di questa fantastica ballata anonima. In definitiva, un altro suicidio, un altro capolavoro: se possibile i Kathaarsys riescono addirittura a superarsi, sia per la precisa, coerente evoluzione musicale del disco dal primo all'ultimo secondo, sia per la stupefacente ispirazione del songwriting. "Anonymous Ballad" è un grande, grandissimo album che dovrebbe ascoltare chiunque adori il prog nella sua accezione più estrema e generale, nonché una delle dimostrazioni più eloquenti del fatto che oggigiorno la musica è grande come non lo è stata mai.

Una curiosità: esiste un video ufficiale montato su un estratto dei primi cinque minuti di "Darkness", in cui i toni vividi e oscuri del brano vengono associati alla costrizione distruttiva dei tentacoli di una piovra, e alle affascinanti nere volute che il suo inchiostro crea nell'acqua circostante. Da vedere anche questo.

01 - Part One – Thoughts About Worthless Things And The Future (06:05)
02 - Part Two – Sadness And Hopelessness (05:37)
03 - Part Three – The Advent Of Madness (05:04)
04 - Part Four – No Guide (13:49)
05 - Part Five – Darkness (09:52)

My Dying Bride - "34.788%...Complete"

Peaceville Records, 1998
Il quinto album in studio dei britannici My Dying Bride è una perfetta dimostrazione di come a volte il coraggio, seppur osteggiato e deriso dalla maggioranza delle persone, paghi.

Conosciamo la band per il fondamentale contributo che ha dato alla creazione del doom metal, partendo da sonorità grevi e oscure per poi raffinarsi sempre di più, acquisendo uno stile personalissimo che verrà imitato da innumerevoli giovani band alle prime armi. Melodie decadenti e romantiche, ritmiche e chitarre quasi mai aggressive nonostante i loro suoni sempre cupi e spessi, atmosfere depressive e brani di pianoforte e violino dalla dolcezza estrema; è sufficiente ascoltare un qualsiasi disco dei My Dying Bride per riconoscere subito il loro inconfondibile marchio di fabbrica. Qualche disco è più improntato sull'uso del growl, altri invece usano solo la voce pulita (come il loro capolavoro "The Angel And The Dark River"); qualche disco è votato al romanticismo più spinto, altri hanno percorso strade più consone al doom death ruvido e crudo. Ma per quanto vi possiate sforzare, non riuscirete a trovare alcuna collocazione conosciuta a questo "34.788%...Complete".

Diverso, sperimentale, ardito, da sempre la pecora nera della discografia della Sposa Morente. Cos'ha questo disco che non va? A mio parere, proprio nulla: è un disco nel quale la band ha osato ampliare i propri orizzonti musicali in maniera che definirei quasi geniale, ma che purtroppo non è mai stata recepita granchè dal pubblico, abituato a sentire la band misurarsi con brani intensi e passionali come "The Cry Of Mankind" o "The Crown Of Sympathy", veri manifesti del doom metal d'autore. Questo disco stravolge ogni punto di vista, come possiamo sentire subito dall'opener "The Whore, The Cook And The Mother": un riff nauseabondo e impetuoso sotteso da una ritmica incalzante ci travolge fin da subito come un fiume in piena, mentre la voce filtrata (!) di Aaron Stainthorpe si presenta lasciva, tentatrice, declamando un testo che incita alla perversione, all'abbandono più totale ai propri istinti lussuriosi. Momenti di melodia sublime, poi una nuova discesa verso la perdizione, amplificata dagli inserti di musica elettronica (!!) che fanno capolino qua e là nel brano, specialmente nell'inquietante ma bellissimo break centrale. Che è successo ai My Dying Bride? Dopo un brano così, già le strade dei fan si potrebbero dividere in due: o li si ama, o li si odia. Ci pensano i brani successivi ad aumentare il divario tra il vecchio e il nuovo corso della band: "The Stance Of Evander Sinque" ha un mood quasi delirante, schizoide, con scale dissonanti di archi che confondono mente e corpo, assieme a riff granitici e incisivi che hanno ben poco a che fare con la suadente raffinatezza che da sempre caratterizza la band. La voce del singer, ritornata pulita, gira intorno al bersaglio come se fosse indecisa se colpirlo o meno, esattamente come un gatto gioca col topo per lunghe ore prima di decidersi a farlo fuori. La successiva "Der Ubelebende" si basa su un riff ossessivo che rischia di mandare a male i nostri sentimenti, mentre "Heroin Chic" è probabilmente il brano più assurdo e controverso mai scritto dai My Dying Bride: otto minuti di elettronica, puro trip hop che racconta la dissoluta vita di una consumatrice di stupefacenti, e la sua personalissima visione del mondo. Consiglio vivamente di leggere i testi, se proprio la musica non vi piacesse: per quanto estremi e provocatori, sono tra i migliori testi mai scritto dalla band. Dopo questo esperimento folle e totalmente fuori dagli schemi, arriviamo alla rocciosa tensione di "Apocalypse Woman", altro inno alla capacità delle donne di soggiogare l'uomo con facilità ("I am a victim of this endless faith..."). Brano dinamico, convincente, che ci mostra ancora una volta come i My Dying Bride abbiano compiuto un cambiamento stupefacente, che solo una certa ottusità da parte del pubblico non ha permesso si sviluppasse su terreni ancora più interessanti. Solo la successiva "Base Level Erotica", infatti, ritorna su territori già battuti in precedenza, grazie a partiture più classiche e a melodie colme di suadente rassegnazione, nonchè di bruciante malinconia. Episodio stupendo, l'unico che potrà piacere ai fan storici, ma la vera chicca arriva con la conclusiva "Under Your Wings And Into Your Arms", l'unico brano di questo album che viene tutt'oggi riproposto dal vivo (ma nemmeno sempre): una cavalcata metallica di grande impatto, veloce e irruenta, dal sapore leggermente thrash. Anche stavolta, c'è ben poco dei My Dying Bride originari, e anche di quelli che seguiranno.

Sì, perchè dopo le feroci critiche ricevute dal pubblico affezionato ai vecchi My Dying Bride, questo album si è come ripiegato su se stesso, dimenticato perfino dalla band, che ritornò subito sui suoi passi abbandonando gran parte delle proprie velleità sperimentali. Nessuno ne parla, sembra quasi che band e pubblico abbiano voluto dimenticare questo esperimento, che tuttavia io ritengo come eccezionalmente riuscito e ispirato: che fine farà la musica, se nessuno avrà più il coraggio di osare e di uscire dai propri rassicuranti confini? Un disco come questo è indubbiamente coraggioso in quanto rompe uno schema ormai consolidato e lo travalica nettamente, ma è in questo che sta il suo bello, ed è per questo che lo ritengo uno dei migliori dischi dei My Dying Bride, uno dei più interessanti, coinvolgenti e riusciti. Non abbiate paura, quindi: se i pregiudizi non sono il vostro forte, e siete disposti ad ascoltare musica un po' diversa, questo "34.788%...Complete" rappresenterà un disco succulento, che per la sua natura tentatrice e altamente erotica è da godersi pienamente nel momento in cui sarete in camera d'albergo insieme alla vostra ragazza (o al vostro ragazzo), con luci basse e profumi inebrianti, pronti per una notte di passione. Non riuscirei ad immaginare una colonna sonora più perfetta per un tale momento.

01 - The Whore, The Cook And The Mother (11:57)
02 - The Stance Of Evander Sinque (5:30)
03 - Der Ubelebende (7:37)
04 - Heroin Chic (8:02)
05 - Apocalypse Woman (7:36)
06 - Base Level Erotica (9:52)
07 - Under Your Wings And Into Your Arms (5:56)

lunedì 7 gennaio 2013

Officium Triste - "Giving Yourself Away"

Displeased Records, 2007
Dopo diverse produzioni che spaziavano dal meritevolmente discreto all'abominevolmente vergognoso, i doomster Officium Triste all'alba del loro quarto album in studio e del tredicesimo anno di attività musicale riescono finalmente a produrre un album davvero degno di nota, uscendo dal triste limbo di mediocrità nel quale sembravano dover versare per il resto dei loro giorni. Sembrava impossibile, eppure ci sono riusciti: "Giving Yourself Away" è un album che, se non può essere certamente definito innovativo nè tantomeno irrinunciabile, è però riuscito a scrollarsi di dosso la pesante eredità di dischi scialbi e inutili come "The Pathway", migliorando in molti degli aspetti nei quali il gruppo è sempre stato deficitario. Finalmente troviamo una produzione e una resa sonora decente, un songwriting un po' più vario e ispirato, una maggiore attenzione ai dettagli e una minore presenza di brani riempitivi. Non sono stati abbandonati gli echi dei My Dying Bride, degli Anathema e di tutte quelle band che ormai vengono citate quasi di routine, quando si parla di doom metal; tuttavia, è innegabile come gli Officium Triste in questo album siano riusciti ad acquisire maggiore personalità, facendo sì che questo sia considerabile come un disco "degli Officium Triste" e non come una brutta copia dei peggiori dischi dei My Dying Bride.

A dire il vero, l'opener "Your Eyes" è forse l'episodio meno riuscito del disco, e cominciare proprio con questo brano è un rischio, per coloro che non hanno mai sopportato gli Officium Triste; per quanto infatti la linea melodica sia carina, è un po' troppo prevedibile e soprattutto ripetitiva, insomma non giustifica la durata di quasi dieci minuti, nonostante la presenza di alcune variazioni aggressive che salvano un po' il brano dal naufragio. Da segnalare invece che la voce pulita di Pim è notevolmente migliorata, acquisendo maggiore sicurezza e personalità, nonostante non sia certo arrivata a livelli eccelsi. Tuttavia, per chi si ricorda come quella voce figurava in "The Pathway", si potrebbe quasi gridare al miracolo. Se però superiamo questo primo episodio senza farci troppo prendere dalla tentazione di criticare, scopriamo che la successiva "My Charcoal Heart" è un vero colpo al cuore. Una melodia splendida e gioiosa fa dipingere un sorriso sul nostro volto, mentre il growling (anch'esso molto migliorato) e la voce pulita riescono a creare un'atmosfera sognante e quasi celestiale, la quale raggiunge il culmine con il lacrimevole stacco strumentale posto al centro. La successiva "Signals", pur nella sua semplicità, colpisce per la severità delle sue note di pianoforte "martellate" (il pianoforte è forse la vera carta vincente di questo album) e per le sue atmosfere quasi sacrali, che assieme al cantato recitato ricordano un po' le gesta di gruppi colossali come i Pantheist (un brano come questo potrebbe tranquillamente stare su "Amartia" senza sfigurare). Con "On The Crossroad Of Souls", poi, il gruppo tocca una delle sue vette più alte in assoluto, confezionando un brano misterioso, solenne, tutto da scoprire dall'inizio alla fine con il suo lento crescendo che simboleggia alla perfezione un'infinita processione di anime, lentamente condotte verso il luogo del loro riposo. Memorabile è la catarsi strumentale e vocale raggiunta tra il quinto e il sesto minuto, un momento che da solo vale tutto il prezzo del CD, e dove finalmente Pim si riscatta come vocalist "pulito", cancellando gli orrori che furono in passato. Gli ultimi due brani, per fortuna, si rivelano anch'essi all'altezza e non fanno scadere il disco nel banale, dimostrando che il gruppo sa anche imparare dai propri errori; "Inside The Mind" è infatti un brano dal ritmo più veloce e spigliato, con dei momenti melodici piacevolmente orecchiabili ma non per questo eccessivamente banali, mentre la quasi - strumentale "Master Of Your Own Demise" gioca su un unico tema piuttosto malinconico, condito via via da più strumenti che gli danno una minima varietà, e sfumando di nuovo nella solitudine di un pianoforte che ci abbandona sconsolato e triste.

Che dire, quindi? Hanno fatto il botto, o c'è ancora da lavorare? Io direi che sono vere entrambe le ipotesi. Certamente sono migliorati molto dal loro debutto (che comunque assieme a questo album è sicuramente il loro lavoro migliore), e hanno dimostrato di non essere più un gruppo di serie C, costruendo un disco che sa emozionare e che passerà più volte negli stereo degli appassionati, senza essere gettato via dopo tre ascolti; tuttavia, ci sono dei margini di miglioramento, e ho l'impressione che la band si debba sforzare ancora un pochettino per emergere definitivamente dalla spiacevole nomea che negli anni si è fatta. Una buonissima prova, ma attendiamo ancora la vera conferma delle loro capacità: per adesso godiamoci questo lavoro e rivolgiamo al futuro uno sguardo speranzoso, chissà che gli Officium Triste non sbalordiranno tutti con il loro prossimo album.

01 - Your Eyes (9:48)
02 - My Charcoal Heart (5:27)
03 - Signals (7:25)
04 - On The Crossroad Of Souls (8:04)
05 - Inside The Mind (8:48)
06 - Master Of Your Own Demise (8:13)

domenica 6 gennaio 2013

Winterblood - "Le Fredde Ali Dell'Inverno"

Frozen Landscapes, 2009
L'animo umano è piuttosto complicato, si sa. Anche nella musica, che è la più complessa e sfuggente delle arti, emergono le continue contraddizioni che animano l'uomo: a volte infatti si vuole ascoltare qualcosa di felice, altre volte qualcosa di triste, a volte si è affascinati dai brani complessi e con mille note, altre volte invece quegli stessi brani possono infastidirci, se non siamo nello stato d'animo adatto per recepirne il contenuto. Se la musica si adatta alle emozioni che proviamo, può magnificare la nostra giornata; ma la stessa musica, calata in un altro contesto, può non comunicare assolutamente niente. Questo è un aspetto dal quale non si può prescindere se si vuole comprendere un disco come "Le Fredde Ali Dell'Inverno", creato dai toscani Winterblood; il risultato e il giudizio dell'ascoltatore dipenderanno in massima parte, oltre che dai suoi gusti, dallo specifico contesto nel quale è stato ascoltato.

Provate a vivere i suoi quarantasette minuti in un momento qualsiasi, magari mentre state scrivendo una lettera, o mentre controllate la posta elettronica, o mentre siete intenti in un qualche lavoro manuale. Le note dilatatissime e ripetitive dei Winterblood vi scorreranno addosso come l'acqua sul ghiaccio, perfettamente incapaci di comunicare alcunché. Sarà come ascoltare il silenzio, non vi accorgerete nemmeno che il disco è terminato. In effetti, la musica racchiusa in questo disco è talmente eterea, rarefatta, incorporea da risultare quasi inascoltabile. Il dark ambient non è per tutti, specie quando è estremizzato nella sua forma e perde quasi il senso del brano musicale, andandosi più che altro a configurare come pura atmosfera, slegata dalla ritmicità dei suoni e priva di qualsivoglia sviluppo: in sostanza, immobile come una nevicata che ha già smesso di cadere. Maestro è in questo senso il tedesco Vinterriket, dal quale i Winterblood prendono sicura ispirazione, dato che sembra di ascoltare uno dei suoi dischi. Come i cugini toscani, anche Vinterriket può essere insopportabile in condizioni normali, ma se calato nel contesto giusto diventa letteralmente magico. Provate infatti ad immaginare che state camminando sul ghiaccio che ricopre un golfo finlandese, nel cuore dell'inverno. Le foreste di conifere attorno a voi sono silenziose, addormentate; qualche ciocca di neve cade ogni tanto dai rami più alti, incapaci di sostenerne il peso, e si unisce alla coltre sottostante producendo un suono appena percettibile. Il sole splende immobile, l'acqua scorre invisibile sotto lo strato di ghiaccio che la ricopre, gli animali dormono il loro sonno profondo e imperturbabile. Ecco che in questo contesto, "Le Fredde Ali Dell'Inverno" acquista la sua personale magia.

Esso vi condurrà per mano in questo scenario paradisiaco, insinuandosi dentro di voi in maniera irresistibile, così come l'aria gelida che nonostante il disagio continua a invadere i vostri bronchioli. Le semplici, anzi elementari armonie di sintetizzatori, accompagnate da melodie ipnotiche e talvolta da cori e leggere variazioni sui temi vi porteranno ad un livello diverso di coscienza, mettendovi in contatto con l'elemento naturale in modo da diventare una cosa sola con esso. A questo disco non bisogna chiedere nulla, in quanto il suo spessore artistico e compositivo è praticamente nullo: bisogna soltanto coglierne la capacità di accompagnarvi in questi momenti di beatitudine, sia che possiate viverli in prima persona con questa musica nelle orecchie, sia che siate costretti ad immaginarveli soltanto, sdraiati nella vostra oscura camera da letto. Perchè ciascuno deve fare il suo mestiere, e i Winterblood sono nati per fare questo, nulla più e nulla meno.

01 - La Monotonia Della Neve (15:51)
02 - Nel Cuore Del Bosco (15:19)
03 - Le Fredde Ali Dell'Inverno (16:19)

Autumn People - "Vosstanie"

Stygian Crypt Productions, 2012
Ultimamente, le metal band in Russia sono nate come funghi, spinte dall'emancipazione sociale che piano piano sta invadendo la più vasta nazione del mondo, emancipazione che porta ad aprirsi verso i nuovi orizzonti e ad abbracciare nuove tendenze, soprattutto quelle del cosiddetto mondo occidentale. La Russia è una terra che suggerisce malinconia e depressione, più che gioia; l'anima stessa del popolo russo è un po' sbandata, rude, tendenzialmente insoddisfatta. Ecco che questo aspetto socioculturale si concretizza ancora una volta in un album musicale, nello specifico questo "Vosstanie", partorito da ciò che sono i rimasugli della band Autumn.

Non nascondo che mi sono avvicinato a questo disco per via del più banale motivo che esista al mondo, vale a dire che mi piaceva la copertina. Ma per fortuna non sono rimasto deluso nemmeno dalla musica, come a volte succede quando si compra un disco sull'impulso del momento, affidandosi alle sensazioni che le belle immagini provocano. Gli Autumn People propongono infatti un folk - doom metal molto intimista ed emozionale, nel quale le chitarre distorte costituiscono più che altro un tenue e limitato contorno all'onnipresente tappeto di viola e chitarra acustica che ha il compito di guidare il mesto viaggio dell'ascoltatore attraverso le immense foreste russe. Melodie struggenti e litanie meravigliose ci prendono per mano dal primo all'ultimo secondo, mentre una voce bassa e profonda in stile Mournful Congregation (quasi sempre pulita, raramente in growl) declama solennemente versi poetici e incomprensibili, in quanto cantati interamente in russo. Rarissimi sono i momenti veloci o aggressivi, nei quali gli strumenti si risvegliano un po' dalla loro caduca lentezza e rassegnazione; in questo modo, nel momento in cui tali momenti prendono vita, acquistano un effetto molto più potente, come se rappresentassero una rivalsa nei confronti di una vita ingiusta e costellata di sofferenza. Niente di particolare si può dire sulla tecnica strumentale e sulla produzione, entrambe piuttosto imprecise (specie per quanto riguarda la parte ritmica), ma non è certamente l'aspetto cardine di un disco come questo: conta unicamente l'atmosfera, la bellezza e la commovente poeticità delle linee melodiche, l'esplorazione dell'interiorità e dei sentimenti ad opera degli strumenti acustici, che non hanno timore di scavare in profondità nell'anima come forse le chitarre distorte non sarebbero in grado di fare. Romanticismo, poesia e solitudine esistenziale, ma anche scenari naturali e ameni: questo si trova in "Vosstanie", niente più e niente meno.

Le ritmiche lente e l'attitudine spiccatamente melodrammatica suggeriscono un lavoro concettuale, da assaporare unicamente in un momento adatto, altrimenti rischia di risultare del tutto insapore o addirittura noioso. Non si può avvicinarsi a questo disco se non si ha prima di tutto un'anima melanconica e tendenzialmente depressa; per chi invece è affine a tali modus vivendi, gli Autumn People rappresenteranno una band di tutto rispetto, che con pochi elementi riesce a creare un disco vibrante e ricco di significato, semplice ma non banale, toccante ma non scontato. Un'esperienza da provare, senza ombra di dubbio, magari camminando in un bosco quando i fiori sono già tutti sbocciati.

01 - Intro (2:32
02 - Vosstanem (8:31)
03 - Temnaya Reka (7:00)
04 - Seroe More Vechno (6:57)
05 - Vecher (2:05)
06 - Sogrey (7:21)
07 - Belizna (8:27)

venerdì 4 gennaio 2013

Moonsorrow - "Verisakeet"

Spikefarm Records, 2005
Fino alla pubblicazione di "Verisakeet", i finnici Moonsorrow erano semplicemente una band additata come la degna erede dei compianti Bathory, la band che avrebbe portato il folk - viking metal alla ribalta, che avrebbe fatto rivivere al pubblico le inenarrabili emozioni che il polistrumentista svedese infondeva nei suoi vibranti album. Dalla pubblicazione di questo disco in poi, i Moonsorrow hanno compiuto un salto da gigante, un balzo incomparabile: da ottima promessa e band ricca di idee e di personalità, sono diventati delle autentiche leggende viventi, raccogliendo consensi sempre più vasti e sbalordendo critica e pubblico in maniera sempre maggiore, nonchè affermandosi come band praticamente unica e inimitabile.

Per capire cosa renda così speciali i Moonsorrow, facciamo un passo indietro, fino al precedente album "Kivenkantaja". Quel disco aveva fatto fortuna per via delle sue atmosfere operistiche, per i suoi suoni potenti e roboanti, per la bruciante drammaticità delle sue composizioni, e per una scelta particolare dei suoni utilizzati, che univano la ricercatezza con la facilità di ascolto, la rocciosità con la gaiezza, la potenza di fuoco con la solarità e l'immediatezza. Un cocktail variegato ed esplosivo che aveva fatto gridare al miracolo, e dopo il quale ci si aspettava moltissimo, vista l'evoluzione che aveva portato la band verso territori sempre più arditi e qualitativamente eccellenti. Ma all'arrivo di "Verisakeet", nel 2005, i fan di vecchia data si trovarono come minimo spiazzati. La potenza epica e pomposa, ma allo stesso tempo malinconica e drammatica di "Kivenkantaja" era sparita, lasciando il posto a sonorità che ricordavano da vicino il black metal, quello marcio, che affondava le sue radici addirittura in dischi come "Blood Fire Death" dei già citati Bathory. Le atmosfere cariche di pomposità venivano sostituite da brani ruvidi, veloci, talvolta oscuri e sanguinolenti, ma sempre dotati della carica maestosa ed epica dei Moonsorrow, quella carica unica e inconfondibile che li ha resi i più grandi tra i grandi. Logico che qualcuno si trovasse a chiedersi il motivo di un tale cambiamento di rotta: ma non passò molto tempo prima che i fan si innamorassero perdutamente della nuova corrente, e ad oggi non sono pochi a considerare "Verisakeet" come il disco più completo, ispirato e massimamente evocativo partorito dai cugini Sorvali.

Registrato in maniera più grezza, dalle tonalità scure e cupe, con sonorità nettamente spostate sulle chitarre piuttosto che sulle tastiere che avevano spadroneggiato in "Kivenkantaja" e nondimeno in "Voimasta Ja Kunniasta", questo pilastro insanguinato colpisce prima di tutto per la sua struttura, vale a dire cinque brani per settanta minuti tondi di musica. Inutile dire che ciascuno dei brani è un'interminabile narrazione di battaglia, nata per catapultare l'ascoltatore direttamente in un inferno di mazze ferrate e sangue, mentre eserciti bardati di pelli d'orso e scudi di quercia si fronteggiano a colpi mortali, scendendo dalle montagne come fiumi in piena inarrestabili. Basta ascoltare il terribile riff iniziale di "Karhunkynsi" ("Artiglio dell'Orso") per rendersi conto della rinnovata fame battagliera del gruppo; i cugini Sorvali non si sono dimenticati degli strumenti folk che tanto li hanno resi famosi, ma li hanno relegati a contorno, lasciando che a parlare siano quasi solo le irruente chitarre e la lancinante voce del frontman, che nella sua monotonia tonale riesce sempre ad evocare con assoluta nitidezza e precisione le emozioni che prova un combattente durante la sua battaglia. Scacciapensieri, chitarra acustica, fisarmonica e flauti diventano un tenue contorno (ma tutt'altro che trascurabile) che sostiene la furia delle distorsioni e delle ritmiche, notevolmente più violente e rabbiose rispetto a ciò a cui eravamo abituati, come appare chiaramente dal finale del primo brano, tiratissimo e lacerante nella sua immane drammaticità. Perchè alla fine questi "Versi di Sangue" sono un gigantesco dramma, nel quale il sangue scorre a fiotti inarrestabili, senza che nessuno possa far niente per fermarlo. Un dramma carico di pathos, di minacciosi assedi e di uomini rudi ma onesti, che sono pronti a tutto pur di difendere quel poco che possiedono.

I riff sono uno più bello dell'altro, in un crescendo che non conosce confini: già solo nel primo brano troviamo tante di quelle idee melodiche e di quell'ardore che potremmo ritenerci miracolati per aver sentito almeno una volta nella vita un brano simile. Ma non abbiamo ancora visto, o meglio, sentito niente: "Haaska" ("Carogna") vive su melodie ancora più commoventi, sempre compenetrate da una tensione indicibile che non riesce mai a trovare una via di sfogo efficace, mantenendo la musica costantemente sull'orlo di un'esplosione che non avviene mai, se non per mettere ancora più carne al fuoco. Memorabili sono i break di pura melodia, così come il finale di fisarmonica e flauto, nel quale si concentra un dolore inesprimibile, una tristezza inconsolabile per la perdita di un compagno d'armi con il quale si è condiviso tutto fin dall'infanzia, crescendo assieme in un villaggio semplice e onesto. Un epitaffio che conduce alla traccia centrale "Pimea" ("Oscuro"), episodio più simile all'opener che mescola sapientemente aggressività e malinconia, ricreata da linee corali pulite di sconvolgente vigore espressivo. Non sarà difficile ritrovarsi con gli occhi lucidi, immaginando maestose scene di sovrumana potenza, nelle quali fare conoscenza con i tremendi spiriti della Terra e del cielo, chiamati ad assistere alla guerra fra gli umani e a dirimere le loro sorti, mentre i meri umani si affannano a menare le loro spade insanguinate.

Superato anche questo macigno, giungiamo a "Jotunheim", traccia chilometrica che può essere considerata come l'apice del disco, il momento più spiccatamente emozionale e cruciale, nel quale viene fuori al 100% l'anima dei Moonsorrow. Una lunga introduzione acustica, nella quale una chitarra strappalacrime viene affiancata da linee di basso dolcissime e da un flauto altrettanto magico, si interrompe improvvisamente con un urlo disumano: ecco che si materializza davanti ai nostri occhi la tremenda Terra dei Giganti, con i suoi canyon ghiacciati e austeri, percorsi dagli uomini nel tentativo di sfuggire a quei mostri crudeli, con risultati non sempre felici. Cori maestosi e sublimi, insieme a chitarre enormi e a melodie eroiche rendono alla perfezione l'idea della cattiveria dei Giganti, mentre riff dopo riff e colpo dopo colpo si arriva ad una conclusione dominata unicamente dai fruscii del vento e dal canto degli uccellini, che ignari del sangue versato continuano la loro vita in piena tranquillità. Sembrerebbe che il disco stia finendo, quando in realtà dopo pochi minuti ricomincia "Kaiku" (Eco): ed è qui che "Verisakeet" acquista finalmente il suo senso più compiuto, in un'ultima purificazione spirituale da cantare attorno ad un falò, narrando le antiche gesta dei propri avi e commemorando i propri amici caduti in battaglia per difendere la propria patria dagli invasori. L'epopea è terminata, la devastazione ha avuto compimenti, i suoni della natura si spengono lentamente per i successivi quattro minuti, facendoci accarezzare il vento per l'ultima volta prima di riportarci nel mondo reale.

La nuova corrente musicale dei Moonsorrow, che non è improprio chiamare come il periodo "black - oriented", segna la definitiva maturazione artistica di questa incredibile band, che a cominciare da questo mastodonte produrrà dischi sempre più intensi e colossali, in un'ascesa inarrestabile ed esaltante. Mi riesce difficile dire quale sia il migliore album partorito dalla band, ma il candidato più probabile è proprio questo "Verisakeet": un capolavoro di intensità e passione sfolgorante, costruito con una maturità e una consapevolezza dei propri mezzi che ha del pazzesco. Non pensate di poter ignorare per sempre un disco come questo, perchè commettereste uno dei più grossi sbagli della vostra vita.

01 - Karhunkynsi (14:00)
02 - Haaska (14:42)
03 - Pimea (14:08)
04 - Jotunheim (19:28)
05 - Kaiku (8:19)