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venerdì 30 settembre 2011

Cephalic Carnage - "Conforming To Abnormality"

Headfucker, 1998
Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiinnn...



Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiinnn...



...Hello?


TATATATATATATATAATATTATBWAAAAAAHHHHH!!!!dn#bi48ngh,it.èi7klòp%%
ààò§èòàoil##òàò.òòèik**oòèèè8j.0’tj87.0p’9kk0èl@àò’pòè’è’òàè’09.uè8o8i+
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9#pmè&%myè+9yoèo*py.o#,m+è,o,8tèn@@TATATATATATA..lbrvp°-rc+-x+-+x5d7g.v5-8jh-865-58j!!!

E’ così che esordirono i Cephalic Carnage col loro primo full-length Conforming To Abnormality, nel lontano 1998, è così che ci introdussero alla loro arte, che ai tempi non era che un vago schizzo confuso e approssimativo della genialità che avrebbe poi preso definitivamente forma in Anomalies (2005) e seguenti. Conforming To Abnormality è una manifestazione di quel Grindcore selvaggio pieno zeppo di spunti differenti accostati tra loro in modo frenetico e più o meno incoerente, come se improvvisamente il recensore, in preda ad un raptus, scrivesse feto ferromagnetico alba AAAAARGH! Tunz Tunz ieri YEAH popopopopopopo scataclunch, una bella giornata RATATATATATA BANG distrutto distrutTtTtTtTo ALT - una sorta di delirio futurista, per intenderci. Ecco, il Grindcore di Conforming To Abnormality ha grossomodo questa andatura futurista. Mi riesce molto difficile suddividerlo in otto brani come la tracklist si sforza di suggerire...preferisco pensarlo come una manciata di 25 minuti in cui la musica assume un andamento schizoide e si evolve in modo imprevedibile, quasi fossimo nella mente di un killer dal carattere bipolare che sta pianificando l’assassinio di sua sorella. Con queste parole non vorrei dare un’idea sbagliata o superficiale di questo disco: non sono un esperto di Grindcore e non è uno dei miei generi preferiti, ma non intendo dire che Conforming To Abnormality sia un disco scadente; anzi confesso che le sue violente virate disegnano angoli interessanti, spunti strumentali che meritano attenzione, dai riff agli arpeggi, dal sound alle ritmiche. Che dire ad esempio dell’ipnotica chitarra distorta di Wither, dei passaggi ritmici di Analytical, dell’arpeggio di Extreme Of Paranoia e dei riff di chitarra intorno al secondo minuto di Regalos De Mota? Già, decisamente superiori alla media, a testimonianza dell’eclettico talento di questa incredibile band che al giorno d’oggi è praticamente diventata un colosso dell’underground.

Una piccola nota finale: l’album è stato ristampato nel 2008 ad opera della fida Relapse Records, label con cui sono attualmente sotto contratto, e compare con una nuova copertina e con venti piccole tracce aggiuntive, tratte dal loro split con gli Anal Blast intitolato Perversion...And The Guilt After, uscito nel 2002. Troviamo così venti minuti in più di simpatia schizoide in cui la suddivisione in brani va perdendosi e il Grindcore esce vincitore.

01 - Anechoic Chamber (01:33)
02 - Jihad (04:13)
03 - Analytical (04:28)
04 - Wither (01:52)
05 - Regalos De Mota (05:12)
06 - Extreme Of Paranoia (04:50)
07 - A.Z.T. (00:47)
08 - Waiting For The Millennium (03:20)

Solefald - "Black For Death"

Season Of Mist, 2006
Ci sono album che a volte verrebbe quasi voglia di dire: ascoltateveli e giudicate voi. Ma questo atteggiamento anti-recensorio all’interno di una recensione non mi sembra essere molto fruttuoso, e così eccoci qui a parlare di Black For Death, secondo ed ultimo atteso episodio della minisaga An Icelandic Odyssey.

Cos’ha da offrirci questo disco nero come la morte? A dire il vero il primo impatto non è granché: l’inizio, stilisticamente molto simile a Red For Fire, promette bene specie con Queen In The Bay Of Smoke, ma già Silver Dwarf, un brano costruito su un solo riff di numero, sembra decisamente non brillare. Necrodyssey non migliora certo la situazione: a primo impatto sembra più uno scimmiottamento dei Manowar ad opera di quei geni di Elio e le Storie Tese che non una canzone seriamente inserita in un album dei Solefald. E se anche Allfathers e Dark Waves Dying sono due brani ottimi in perfetto stile Solefald, costruiti in modo minuzioso e originale, arrivando fino alla superba chiusura con Sagateller che rievoca emozioni simili a Sun I Call, gli intermezzi vari frammentano drammaticamente l’ascolto: le narrazioni apatiche e monocorde delle Lokasenna sgonfiano l’entusiasmo, e Spoken To The End Of All (Poem) sembra sovrabbondante se si tiene conto che, nelle ultime sei tracce, ben tre sono parlate. Senza contare Loki Trickster God, che con tutto l’ottimo materiale presente in Red For Fire va a riprendere proprio la stucchevole melodia in violino di White Frost Queen, fin troppo retorica ed esageratamente principesca - della serie “Sissi is alive”.

Ma la grande musica non può essere apprezzata al primo impatto, giusto?

“Panta Rhei” diceva quello che è forse il più grande e arguto filosofo dell’Antica Grecia, e questo è vero anche per la capacità di apprezzamento del sottoscritto: man mano che il tempo scorreva la musica di Black For Death sembrava mutare, divenendo sempre più intrigante ed avvincente - Black For Death non sembrava mai essere lo stesso disco per due volte di fila. Laddove prima percepivo un unico noioso riff ecco spuntare invece un brano dal sapore tutto Black Sabbath che, pur usando davvero un solo riff, riesce a farlo rendere in tutte le salse senza mai essere ripetitivo: prima col basso, poi con la chitarra, ora del tutto solitario, ora infarcito di spettacolari tastiere settantiane. Per quanto riguarda i Manowar ed Elio è forse solo una questione di forma mentis dato che Necrodyssey sa ritagliarsi uno spazio curioso incastonandosi alla perfezione tra gli altri brani, mentre la stucchevolezza della vecchia White Frost Queen si alterna ad un’arcana melodia arabeggiante creando perlomeno un contrasto affascinante. La vergognosa apatia nella narrazione delle due Lokasenna a mio avviso permane, ma l’accompagnamento orchestrale non è niente male. E così quell’ammasso apparentemente incoerente di remake di Red For Fire e brani solo abbozzati riluce ora come la paraffina in una lava lamp, creando forme diverse che galleggiano come se fossero nel vuoto e si rimescolano e si compenetrano vicendevolmente, dove spunti squisitamente sabbathiani e saltuari richiami alla psichedelia settantina invadono deliziose sonorità avanguardistiche Post-Black e partiture sperimentali in violino e in sassofono. Applausi a scena aperta.

In questo album compare di tutto: brani semplici, brani molto complessi, sperimentazioni, narrazioni, interludi strumentali, parti lente e parti veloci. Sono riusciti i Solefald a mettere tutto insieme con genio e naturalezza, oppure il risultato è un circo disordinato? Si tratta di estro creativo oppure di pazzia dovuta alla mancanza di idee? Hanno completato in grande stile la loro minisaga riuscendo addirittura a superare il primo episodio, oppure avrebbero dovuto prendersi più tempo e contare fino a dieci? Io ho compiuto il mio emozionante percorso, e dopo aver ascoltato l’album a lungo ed essermi inizialmente schierato accanto alla seconda linea di pensiero, ora sono tendenzialmente vicino alla prima.

01 - Red For Fire + Black For Death (03:55)
02 - Queen In The Bay Of Smoke (05:34)
03 - Silver Dwarf (03:23)
04 - Underworld (01:15)
05 - Necrodyssey (03:47)
06 - Allfathers (05:56)
07 - Lokasenna Part 2 (04:29)
08 - Loki Trickster God (05:49)
09 - Spoken To The End Of All (Poem) (02:05)
10 - Dark Waves Dying (03:55)
11 - Lokasenna Part 3 (04:46)
12 - Sagateller (05:45)

Bluerose - "Fallen From Heaven"

Autoprodotto, 2011
I triestini Bluerose nascono nel 2006 grazie agli sforzi di Riccardo Scaramelli, e dopo un esordio da cover band, decidono di iniziare una propria carriera arrivando alla pubblicazione del loro primo album, che come ormai è consuetudine, viene totalmente autoprodotto. Il fatto di potersi incidere da sè gli album sta portando molte band emergenti ad avere la possibilità di esprimersi al meglio in un mercato discografico ormai saturo, ed è difficile pescare nella massa la band promettente: ma in questo caso, direi che i Bluerose, pur non essendo una band trascendentale, sono capaci di suonare un buon hard rock che tiene alta la bandiera del genere, anche dopo trent'anni di vita.

Il disco è una sorta di concept album, che narra la storia di un angelo (Bluerose, appunto) caduto sul nostro pianeta e che ripercorre così tutti gli stati d'animo vissuti dagli esseri umani, come in un viaggio. I brani dunque sono piuttosto vari, sia dal punto di vista tematico sia musicale,andando dalle ballate agli episodi più aggressivi o tecnici, ma mantengono tutti un'elevata melodiosità e un'attitudine che li porta ad essere facilmente assimilabili. Un moderato uso delle tastiere (specialmente nei numerosi interludi senza titolo, che separano i brani principali) e di qualche saltuario inserto di pianoforte dona anche quel tocco di varietà in più che rende il disco più gustoso ed elaborato. Come da perfetta tradizione hard rock derivata da mostri sacri quali Whitesnake, AC/DC, W.A.S.P, e per certi versi anche i Guns 'N Roses, troviamo dunque pezzi molto piacevoli, ben strutturati e ben suonati, in cui la limpida voce di Riccardo riesce sempre a mantenere una buona espressività e duttilità, adattandosi bene a tutte le situazioni. Più spesso allegro e scanzonato, il disco tocca talvolta qualche punta di sottile malinconia e perfino di drammaticità, ma si tratta di ombre che vengono nascoste da una generale positività del sound, certamente nè pesante nè difficile da digerire. In sostanza si tratta di un album piacevolissimo, che scorre senza fatica nel lettore ed è l'ideale colonna sonora di un viaggio in automobile, magari in compagnia di amici, per ripercorrere assieme le vicissitudini di una vita. Niente di eccezionale, quindi, ma un album rispettabile e che ha tutte le carte in regola per piacere agli amanti dell'hard rock vecchio stile, che non è affatto morto come si crede...

01 - Fallen From Heaven (3:37)
02 - Eyes To Eyes (3:40)
03 - Wasted (3:35)
04 - Lonely Days (4:12)
05 - Rock On (4:27)
06 - Power (3:29)
07 - On Through The Night (2:24)
08 - Born To Be In Love (4:28)
09 - No More Lies (3:36)
10 - No One But You (3:39)

mercoledì 21 settembre 2011

The Howling Void - "Megaliths Of The Abyss"

Black Plague, 2009
"Megaliths Of The Abyss" è il primo album del progetto The Howling Void, monicker dietro il quale si cela la presenza di una sola persona, il tuttofare Ryan. Direttamente dal Texas, questo polistrumentista aggiunge un altro tassello alla propria discografia, che lo vede protagonista in numerose band, anche molto diverse tra loro in quanto a sonorità. Nel caso di questo nuovo progetto, Ryan decide di dedicarsi al funeral doom metal, che riesce a rielaborare in maniera sufficientemente personale, assorbendo la lezione dei grandi maestri del genere e producendo un disco che fa dell'atmosfera il proprio punto di forza, esaltandola a tal punto che le note quasi perdono di importanza. Andiamo a scoprire nel dettaglio cos'ha da offrirci questo "Megaliths Of The Abyss".

A livello compositivo, è difficile immaginarsi un album più semplice e diretto di questo, e ciò potrebbe inizialmente apparire in contrasto con la natura del Funeral Doom, genere piuttosto difficile da digerire a primo impatto. Come ogni album Funeral, infatti, questo "Megaliths Of The Abyss" si basa su tempi lenti, voce growl profonda e gutturale, atmosfere maledette e criptiche, suoni bassi e profondi. Tuttavia, l'estrema semplicità melodica delle composizioni  rende possibile fruire immediatamente del disco, anche se non si è avvezzi al genere. Contribuisce all'assimilazione precoce anche una generale ridondanza delle tracce, che presentano poche (anzi, pochissime) variazioni al loro interno e una struttura ben definita e ripetitiva. Questa potrebbe essere scambiata per banalità, ma io penso che sia semplicemente una scelta: Ryan ha voluto ipnotizzare con motivi oscuri e atmosfere lugubri, che si ripetono instancabilmente nel tentativo di soggiogare l'ascoltatore e fargli vivere un incubo. Nello specifico, Ryan vuole renderci partecipi di un oscuro rituale perpetrato nelle profondità degli abissi marini: il sound infatti richiama spesso l'acqua e l'oceano, in certi casi avvicinandosi perfino alle sonorità dei Fungoid Stream, altro gruppo funeral doom che ha molto a cuore le tematiche "acquatiche".

Utilizzando in maniera massiccia gli arrangiamenti di tastiera (in particolare i cori e il pianoforte, che è usato quasi sempre nel registro acuto e con note singole), Ryan tralascia lo sviluppo melodico / armonico e si concentra sull'impatto sonoro e sulle immagini evocate dalla musica, riuscendo comunque a risultare convincente grazie ad un'ottima produzione, ad un buon gusto per le atmosfere a metà tra il macabro e il sognante, e per la presenza di alcune parti melodiche degne di essere ricordate, per la loro suadente bellezza che si sposa alla perfezione con la semplicità (penso che tutto l'album sia basato al massimo su due, tre accordi, non di più). Ecco che quindi i brani riescono ad ammaliarci, uno per uno. La title track, asfissiante nel suo lento incedere, si risolleva nel drammatico e pomposo finale, accompagnata da lugubri rintocchi di campane che ci fanno sentire nel bel mezzo di un funerale. "Mollusk", il brano più "marino" del lotto, risulta perfino commovente grazie a melodie malinconiche, cori celestiali e ad un bellissimo tema portante, che ricorre con insistenza e che nel finale sfuma lentamente accompagnato dal suono di una pioggia torrenziale. "Ouroboros" vede il pianoforte assumere un ruolo maggiore, che rende il brano particolarmente sognante ed etereo, che ci regala alcuni momenti arpeggiati che ci fanno sentire al buio completo, sul fondo del mare. La conclusiva "A Name Writ In Water" è il brano più solenne del lotto, che vive su melodie lente e maestose, ai quali si aggiungono ancora una volta i rintocchi delle campane, tappeti di tastiere e sezioni corali che non abbandonano mai la scena. Anche qui, brevi sezioni arpeggiate hanno il compito di spezzare la tensione del brano e di prepararci ad un finale nel quale la chitarra solista prende finalmente possesso della melodia portante e chiude nel migliore dei modi l'album, lasciandoci la netta sensazione di aver viaggiato attraverso l'acqua profonda di un oceano sconosciuto. La durata complessiva non raggiunge i tre quarti d'ora, e a volte i riff vengono riciclati tra un brano e l'altro: qualsiasi cosa abbia voluto farci vivere Ryan, non ha scelto un'agonia lenta, ma piuttosto rapida in confonto a quella che troviamo sulla maggior parte dei dischi funeral doom.

Cosa dire, infine? Se cercate una band dal songwriting vario e sorprendente, o dalle capacità tecniche importanti, o ancora dall'originalità spiccata, non potrete trovare nulla di interessante nei The Howling Void. Noterete subito un livello compositivo elementare, una ripetitività accentuata e in sostanza non vi sembreranno nulla di particolare. I The Howling Void piaceranno invece a chi vuole perdersi nella musica, immaginando scenari fantastici e immedesimandosi totalmente nelle atmosfere, sospendendo il giudizio critico. L'album va considerato come un unico lungo brano, da ascoltare tutto d'un fiato con le luci spente e la mente pronta a viaggiare, e solo così il disco riuscirà a prendervi. In definitiva si tratta di un album controverso ma interessante, da vagliare bene prima di acquistare, ma che sa regalare soddisfazioni agli amanti di un certo tipo di musica.

Sostanzialmente promosso.

01 - Megaliths Of The Abyss (10:08)
02 - Mollusk (11:35)
03 - Ouroboros (9:12)
04 - A Name Writ In Water (12:58)

martedì 20 settembre 2011

Oskoreien - "Oskoreien"

Pest Productions, 2011
Si può suonare un black metal intimista, decadente e autunnale proveniendo dagli assolati reami della California? Ebbene sì: come fanno altre band dell'area Cascadiana, nella quale è nata una buona scena di black metal atmosferico, anche gli Oskoreien riescono a guadagnarsi un posto di tutto rispetto all'interno del genere, mostrando un grandissimo potenziale. Il gruppo è una one man band che si regge sulla figura di Jay Valena, giovanissimo nel momento della pubblicazione (solo 21 anni), e prende il nome da un luogo mitico della mitologia norrena, vale a dire il punto di collegamento tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Nonostante la provenienza geografica, infatti, è facile assimilare la musica degli Oskoreien ai grandi paesaggi scandinavi e alle atmosfere epiche che ivi si respirano.

Dopo un paio di demo usciti nel 2006 e nel 2009, il nostro Jay Valena riesce a pubblicare il primo album ufficiale, che conta cinque tracce per tre quarti d'ora di durata, ed è distribuito dalla misconosciuta Pest Productions (per quanto riguarda il CD) e dalla Seventh Seal (per quanto riguarda la musicassetta). La matrice di questo album è  un black metal dalle tinte solenni e drammatiche, ricco di melodia e di atmosfera, che si uniscono in modo riuscitissimo ad un'attitudine "brutale" e a suoni sufficientemente grezzi da rientrare all'interno del black metal, ma non abbastanza da risultare inintellegibili. Questo disco colpisce particolarmente per la naturalezza con cui sforna splendide linee melodiche e con cui le unisce alla potenza oscura del black metal, non tralasciando di inserire nel sound numerosi elementi di musica folk e talvolta perfino classica. Non è un black metal crudo e freddo alla Burzum, di quelli che fanno gelare il sangue nelle vene; non è nemmeno un black ruvido e "nevoso" alla Immortal, nè animalesco e rabbioso alla Darkthrone. Siamo piuttosto di fronte ad un lavoro quasi romantico, meditativo, dai testi profondi e interessanti. Una musica che evoca grandi paesaggi ed epici racconti, unendo il tutto con melodie struggenti e appassionate.

Il disco è molto vario, e nelle sue cinque tracce esplora cinque stati emozionali differenti. Si comincia con la  furia elementale di "Illusions Perish", veloce e martellante, dotata di un feeling severo e marziale che si rispecchia particolarmente nella voce, un aspro screaming che non risulta però troppo lancinante, ma quasi sussurrato. Notevole anche il testo: leggete ad esempio questo scorcio e ditemi se non è significativo.

"Abandon the future
Abandon the past
Learn to accept
That nothing will last
The life that you love
The life that you cherish
Vanishes as your illusion perish"

Dopo un opener così esaltante, si passa ad un brano più ragionato come "Entropic Collapse", maggiormente lento e melodioso, nel quale compaiono delle sorprendenti linee vocali pulite (di stampo baritonale, quasi "lirico") e alcune pregevoli parti di chitarra solista. Per quanto riguarda i brani principali, la perla del disco è però la lunghissima "Transcendence", tredici minuti di pura commozione che si sviluppano progressivamente in un crescendo magistrale: partendo da mesti arpeggi acustici e passando per arie drammatiche cantate da numerosi voci all'unisono, si giunge ad un lungo intermezzo nuovamente acustico, che non mancherà di far sognare ad occhi aperti con le sue sonorità celestiali e cristalline, prima di arrivare ad un meraviglioso finale che incastra sempre più linee melodiche l'una sull'altra, facendole intersecare e rincorrere fino al raggiungimento della vetta dell'emozione. Non sono da meno le due strumentali "River Of Eternity" e "Ashen Remains", poste rispettivamente in terza e in quinta posizione; la prima è un brano di chitarra acustica, che pare quasi uscire da quel meraviglioso capolavoro folk che è "Kveldssanger", e che cela antichi racconti e leggende dietro le sue note quasi sbarazzine e giocherellone; la seconda è un sorprendente brano di solo pianoforte, che ci mostra un altro lato della bravura di Valena, il quale suona tutti gli strumenti e non si avvale di collaborazioni. Il brano è molto malinconico e carico di rassegnazione, espressa pestando ripetutamente sui tasti come per richiamare l'attenzione verso qualcosa che non c'è più e che mai tornerà. In alcuni punti pare risollevarsi e volersi riscattare, per poi semplicemente sfumare e ritornare ad essere una outro sconsolata, degnissima chiusura di un disco davvero sorprendente, emozionante e perfettamente assemblato.

Nel momento in cui gli Oskoreien approderanno ad un contratto discografico di un certo prestigio, non potranno che imporsi sulla scena black come uno dei gruppi di punta. Ne sono certo. Spero davvero che questa band verrà notata, poichè non è facile trovare qualcuno che suoni con tale intensità e che soprattutto lo faccia già al disco di esordio. "Oskoreien" è un disco intenso, carico di immagini e di simboli, di una tristezza inguaribile e vigoroso come pochi altri. Merita di essere vissuto. 

P.S: Colgo l'occasione di segnalare la presenza di un brano degli Oskoreien nella compilation "Wanderer Uber Dem Nebelmeer", denominato "Ode To Arinbjorn": probabilmente uno dei più bei brani acustici che io ricordi di aver mai ascoltato. Se volete farvi un'idea delle potenzialità di questa band, cominciate magari da qui.

01 - Illusions Perish (11:10)
02 - Entropic Collapse (9:33)
03 - River Of Eternity (5:46)
04 - Transcendence (13:15)
05 - Ashen Remains (6:01)

Secret Towers - "Insanity Fair"

Autoprodotto, 2010
I romani Secret Towers nascono nel 2004 iniziando da subito a scrivere pezzi propri. Numerosi cambi di line up rendono gli anni successivi un po' travagliati, finchè nel 2007 l'arrivo di Claudio Sciascera porta la necessaria stabilità alla band e permette ad essa di incidere il primo album, "Insanity Fair".

La loro proposta musicale sta a metà tra heavy metal di stampo classico, power - progressive e qualche spruzzata di thrash metal, appena accennata. L'album è piuttosto breve, ma ben costruito: i pezzi riescono tutti a risultare in qualche modo interessanti, sufficientemente vari e coinvolgenti da mantenere alta l'attenzione. Un'ottima produzione, perizia tecnica indiscussa e cura per i dettagli, oltre che ad una certa ricercatezza compositiva, rendono questo debutto un piatto interessante, seppur non sia particolarmente originale. Si spera che esso potrà dare seguito ad una carriera promettente.

"Insanity Fair" è un'opener che si regge su linee vocali sincopate e ottimi contrappunti chitarristici, ricordando molto i Lost Horizon (impressionante è la somiglianza dei timbri vocali dei rispettivi cantanti!). L'attitudine melodica è però molto più vicina al classico heavy metal anni 80, piuttosto che al power anni 90. Mai troppo veloce e mai troppo spinta, la musica è capace di catturare con strutture varie, interessanti intermezzi d'atmosfera e un'attitudine teatrale perfettamente espressa dalle impegnative parti cantate. "Recall The Truth" è un altro brano piuttosto complesso, dalle ritmiche "alla Maiden" e punteggiato di stacchi che ricordano un po' il progressive rock anni 70. "Minds Of Death" invece è un brano più granitico e aggressivo, dove le influenze thrash metal si fanno più evidenti e l'ugola acuta e rabbiosa di Luca Bellincioni si fa sentire in tutta la sua potenza. Di tutt'altra natura è la seguente "Through The Consciousness", più lenta e alternata tra distorsioni e suoni puliti, la quale inizia con un cantato mellifluo e languido per poi evolversi ancora in una volta in una cavalcata metallica dove gli assoli di chitarra viaggiano appaiati e spiccano per la pulizia cristallina. La chiusura è affidata a The Legion, brano teso e rabbioso, dissonante e acido, ma non per questo poco melodico: come tutti gli altri, possiede quella carica catchy che risulta convincente fin dai primi ascolti.

In definitiva, una prova interessante, anche se così breve da essere assimilabile ad un EP: aspettiamo dunque di sentire altro materiale e di veder crescere quest'ottima band emergente.

Pagina Myspace della band

01 - Insanity Fair (7:22)
02 - Recall The Truth (6:58)
03 - Minds Of Death (4:21)
04 - Through The Consciousness (4:19)
05 - The Legion (6:20)

lunedì 19 settembre 2011

Eyeconoclast - "Sharpening Our Blades On The Mainstream"

Downfall, 2011
Che bella sorpresa che ci riservano gli Eyeconoclast!

Chi ha avuto modo di ascoltare il loro full-length di debutto Unassigned Death Chapter, pubblicato nel 2008, probabilmente li ricorda per il loro tiratissimo Melodic Death/Thrash di stampo esageratamente moderno, un disco piacevole che fortunatamente grazie a dei buoni cambi di tempo e ad una batteria sostenuta non scadeva mai nelle banalità tipiche del Melodeath dei giorni nostri. Ma ora ecco il “colpo gobbo!”, come direbbe con enfasi un euforico Bonolis: il Thrash è completamente scomparso, lasciando spazio a una musica adrenalinica che si colloca in quella corrente moderna del Death Metal che combina ritmiche vicine al Brutal con elementi più fruibili di chiara matrice Melodeath, strada già intrapresa da alcune band eccellenti come Aborted e Monstrosity, e più recentemente, anche se a modo tutto loro, dagli italiani Fleshgod Apocalypse. Grazie a questa scelta la personalità che il gruppo possiede, e che già si intuiva nel capitolo precedente, esce bene allo scoperto: songwriting brillante, sound decisamente meno monotono e cambi di ritmo ancora più efficaci.

Non vorrei frenare troppo presto gli entusiasmi, ma per chi non lo sapesse non stiamo parlando del secondo full-length della band: questo Sharpening Our Blades On The Mainstream è un EP, e a meno di interpretazioni errate sembra avere la funzione che ha mediamente un EP: sperimentare un certo cambio di stile e vedere la risposta di fan e critica. Sotto quest’ottica si afferra la struttura dell’opera: un inizio decisamente più duro che cede a poco a poco - e mai del tutto - il passo a momenti più melodici, ma pur sempre al fulmicotone. Io non sono certo un critico, mi limito ad esprimere la mia opinione; ma nel mio piccolo, per quel poco che può valere, apprezzo questo cambiamento della band verso sonorità più spesse e corpose rispetto a quelle del disco precedente. Se vi piace il Melodic Death mettete su questo piccolo EP piuttosto che sorbirvi il solito polpettone mid-tempo mediocre dell’ennesimo clone dei Children Of Bodom o degli In Flames, e vedrete che non ve ne pentirete: infinitamente migliore.

Quanto agli Eyeconoclast resta una sola, grossa incognita: la band sarà in grado di rendere anche nel suo prossimo full-length? Inutile dire che non lo so, ma una cosa è certa: se questo EP fosse stato un full-length e i brani fossero stati tutti simili ai tre qui proposti, avremmo avuto grossomodo gli stessi problemi del disco di debutto: poche soluzioni ripetute molte volte. Ma questo è un caspita di ragionamento ipotetico, solo il futuro ci dirà la verità, quindi non ci resta che attendere e vedere cosa ci riserverà il combo di Roma. Per ora bene così.

01 - Sharpening Our Blades On The Mainstream (03:21)
02 - Anoxic Waters (04:49)
03 - XXX - Manifest Of Involution (04:18)

domenica 18 settembre 2011

Gallowbraid - "Ashen Eidolon"

Northern Silence Productions, 2010
Ancora una volta, è successo. Conosco per caso una band quasi sconosciuta e mi trovo di fronte ad un lavoro speciale, che mi rapisce immediatamente con una musica appassionata, ricca di sentimento e di vibrante passione. Niente di particolarmente originale, ma ciò non ha alcuna importanza: una musica fatta bene colpisce comunque, anche se prende in prestito alcune idee da chi è arrivato prima.

I Gallowbraid sono composti da un uomo solo, proveniente da Salt Lake City, e sono un progetto che a primo impatto potrebbe sembrare la naturale continuazione del suono degli Agalloch, tante sono le similitudine che si trovano con questa rinomata band. Come spesso accade, tuttavia, gli allievi uniscono degli elementi propri alla lezione impartita dai maestri, e così è anche per i Gallowbraid. Questo loro primo EP spicca per quel suono malinconico e introspettivo, e contemporaneamente roccioso e potente, tipico degli ultimi Agalloch: ma tutto viene personalizzato con ritmiche decisamente più sostenute, toni più aggressivi, linee melodiche se possibile ancora più incisive ed incalzanti, come dimostra perfettamente la chilometrica opener "Ashen Eidolon": un inizio veloce, con quella batteria  martellante "alla Satyricon" e un muro di chitarre che sposta le montagne, fa pari con una voce growl che ricorda molto i sussurri di Haughm, ma un Haughm decisamente più prorompente, che non lascia spazio ai momenti quieti e melanconici. Le linee melodiche che appaiono successivamente si susseguono l'una dopo l'altra con una naturalezza disarmante, giocando sempre sulle stesse poche note (che in certi tratti mi hanno ricordato moltissimo "Hallways Of Enchanted Ebony, provare per credere), ma rigirandole efficacemente per creare un bombardamento di riff davvero notevole, uno più bello dell'altro. Il brano dura quattordici minuti e mezzo, ma passa in frettissima, forte di un'energia davvero impressionante e delle numerosi variazioni melodiche che rendono il tutto mai noioso, seppur qualche sezione sia un po' ripetitiva. Bellissimo poi il break di chitarra acustica: non un arpeggio mesto come ci si potrebbe aspettare, bensì una poderosa cavalcata sulle corde di nylon, che ricalca l'irruenza delle chitarre elettriche trasfigurandole in qualcos'altro.

Dopo un quarto d'ora così avvolgente ed entusiasmante, è il momento di un po' di quiete: "Autumn I" è un brano interamente acustico e giostrato su arpeggi stavolta molto tristi e sconsolati, sui quali si stagliano dei cori solenni e tristi, toccanti nella loro semplicità. Ritorniamo su terreni metal con "Oaken Halls Of Sorrow", in cui la chitarra acustica acquista un ruolo maggiore e pennella scenari sognanti e melodiosi, suonando ad un volume praticamente pari a quello della chitarra elettrica. Anche qui, cascate di note ascendenti e discendenti ci trascinano con la forza di un torrente in piena, caricandosi talvolta di una tensione rabbiosa che non può fare a meno di esaltare. Non c'è nulla di complesso nella musica dei Gallowbraid, la loro forza è nell'immediatezza delle linee melodiche, irresistibili senza per questo essere troppo scontate. Memorabile l'accelerazione che troviamo intorno ai cinque minuti e mezzo, dove un blast beat furioso si alterna con una melodia spaccacuore, che poi si evolve, lascia spazio alla voce pulita e infine ritorna uguale all'inizio, concludendo quest'altro splendido brano. La breve coda acustica di "Autumn II", dove fa capolino anche un flauto, lascia l'amaro in bocca: non perchè sia brutto o insignificante, ma perchè subito dopo il disco è già finito. O meglio, se avete la fortuna di possedere la versione recentemente rilasciata su vinile, è il momento di "Stone Of Remembrance", dai toni decisamente felici, debitori dei folk metallers Eluveitie; tuttavia, questa canzone non è un mero scopiazzamento dello stile della band svizzera, bensì un netto miglioramento. Se gli Eluveitie infatti si liberassero della loro indubbia vena ruffiana e commercialotta, il risultato sarebbe molto simile a quest'esaltante brano, che tra vocals insolitamente acute, cori folkloristici e inserti di cornamuse ci fa vivere una vera esperienza silvestre, come se camminassimo veramente dentro un bosco popolato da fauni che suonano flauti magici. Il tutto senza la minima vena pacchiana, spettro che in questi casi si affaccia sempre alla porta, ma che qui viene brutalmente respinto.

In definitiva, un lavoro che è sicuramente debitore degli Agalloch per molti aspetti, ma che si colloca con assoluta personalità nelle uscite più interessanti di questi ultimi anni in ambito neofolk - black.  Non manca nulla: qualità sonora, passione, compattezza, coerenza stilistica, gusto melodico, nemmeno una certa attitudine scanzonata che rende il tutto estremamente fruibile sin dai primi ascolti. Al momento la band sembra essersi fermata nella sua produzione discografica, e questo è un vero peccato: tuttavia, voglio credere che prima o poi il frontman si accorgerà della moltitudine di persone che invece gli chiedono di continuare a comporre, e deciderà infine di dedicarsi ai Gallowbraid con l'attenzione che meritano. Un'ultima chicca: i Gallowbraid hanno partecipato anche alla compilation "Wanderer Uber Dem Nebelmeer", con il brano inedito "Earthen Throne". Non dico nulla per non rovinare la sorpresa: dico solo che il suo ascolto è vivamente consigliato, in quanto è un'altra spettacolare dimostrazione del talento di questa giovane one man band.

01 - Ashen Eidolon (14:38)
02 - Autumn I (4:23)
03 - Oaken Halls Of Sorrow (11:23)
04 - Autumn II (1:18)
05 - Stone Of Remembrance (Bonus Track) (8:31)

giovedì 15 settembre 2011

Midnight Madness - "From Ashes To Madness"

Autoprodotto, 2010
Cinque ragazzi provenienti da Napoli, alle prese con un sano e bastardo Heavy Metal, memore di vecchie glorie come Judas Priest e Saxon. Niente di più e niente di meno che una dose di  buon vecchio metallo che non guasta mai, quando si è stufi di ascoltare musica troppo malinconica o troppo elaborata.

Dopo una storia un po' travagliata, costellata da numerosi cambi di line - up, i nostri sono riusciti a trovare una formazione stabile e a firmare il primo contratto discografico con la Toxic Sound Records, con il quale inizierà la distribuzione di "From Ashes To Madness", il loro primo album in studio completamente autoprodotto. L'entusiasmo e la tecnica non mancano a questi nuovi alfieri del metallo, che in un album piuttosto omogeneo concentrano  undici tracce di metal scanzonato, irruento e carico di energia, uno di quei dischi che sicuramente rende molto bene dal vivo, tra sudore e pogo. Alcune contaminazioni hard rock alla W.A.S.P (si sentono talvolta echi di "Helldorado") rendono il disco fruibile anche a chi non mastica sonorità prettamente metalliche, e le buone dosi di melodia fanno il resto per rendere il disco godibile. Certo, l'originalità non è di casa: fin troppo evidente è l'ispirazione N.W.O.B.H.M, i brani sono più o meno tutti impostati sullo schema strofa - ritornello che ben conosciamo, tuttavia la perizia tecnica, il buon lavoro della funambolica chitarra solista e la particolare voce del cantante Mick Colangelo, acuta ma roca e ruvida come nella migliore tradizione hard rock anni 80, riescono a convincere e, se non altro, a regalare cinquanta minuti di spensieratezza, da gustare con una birra in mano e una compagnia di amici con cui fare casino. Si va dalle classiche cavalcate metalliche ("Midnight Madness", "Proud To Be Alive") a brani più lenti e talvolta un pelino malinconici, quasi blues ("Something Left Me", "East Wind"), fino ad un brano di nove minuti che rappresenta un po' il riassunto di tutto quello che si può trovare nell'album.

Niente di nuovo sotto il sole, quindi, ma comunque siamo di fronte ad una buona prova, che saprà far muovere le teste a ritmo di musica. In fondo, talvolta un po' di semplicità e di immediatezza è proprio quel che serve, senza andarsi a cercare chissà quale stranezza musicale.


01 - Intro (1:06)
02 - Midnight Madness (4:50)
03 - Secret Of Life (3:43)
04 - Something Left Me (5:46)
05 - East Wind (5:57)
06 - Proud To Be Alive (4:32)
07 - The Phoenix (4:32)
08 - Back To Origins (5:08)
09 - Requiem Aeternam (9:08)
10 - Bar Joe (Outro) (1:04)
11 - G.M.B. (Gimme More Beer) (2:56)