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martedì 30 novembre 2010

Meshuggah - "Nothing"

Nuclear Blast, 2002
La parola "Meshuggah", in lingua ebraica, significa "pazzo". Di sicuro il nome non è casuale: questo "Nothing" è un album che non può essere partorito altrimenti che da menti pazze e sconclusionate, assolutamente malate.

Proseguendo un'evoluzione musicale che ha avuto inizio con "Destroy, Erase, Improve" e punto medio con "Chaosphere", arriva ora questo "Nothing" a spostare ancora più all'estremo le coordinate sonore della band. In questo album non troviamo più "musica" nel senso stretto della parola: la melodia è completamente vaporizzata, assente. Le armonie sono acide, fredde e meccaniche; i ritmi talmente destrutturati e mutevoli da far perdere l'orientamento. Una sorta di sperimentazione estrema nel portare la musica verso la non - musica, verso l'assenza voluta di emozioni, verso il totale appiattimento del fattore "umano". Chitarre a otto corde, appositamente costruite per la band, creano suoni mai sentiti prima; la voce è raschiata e costantemente immobile di tono, non si può mai parlare di canto in senso stretto, ma nemmeno di rap, non si può parlare di niente. Tutto l'album è un inno all'atonalità, alla destrutturazione e alla mancanza di regole, al caos primordiale trasposto nell'era della tecnologia. Il risultato è ambiguo: i pezzi sono tutti piuttosto lenti, ma pesantemente artefatti e raggelanti, ostili e privi di senso, se non quello di creare shock in chi ascolta. Il titolo dell'album recita bene: "Niente". Non c'è proprio nulla di musicale in quest'album, solo un'accozzaglia informe di riff privi di qualsiasi senso melodico e di inquietanti effetti elettronici che però fanno capolino solo di rado e rimanendo in secondo piano, come nella soffocante traccia conclusiva "Obsidian", mortalmente ripetitiva e schiacciante. A completare il tutto ci si mettono i testi, completamente alienati e schizoidi, da manicomio. Quasi del tutto inutile descrivere i brani, dato che bene o male si assomigliano tutti; perfettamente inutile cercare un senso alle canzoni (o meglio dire composizioni), e ancora più inutile cercare di rintracciare sentimenti o emozioni. Che dire in conclusione di "Nothing"? Un capolavoro o una mostruosa ciofeca? Spetta ai posteri dirlo, ma sicuramente consiglio di  non fidarsi di nessun entusiasta e di ascoltarlo prima di comprarlo. La delusione potrebbe essere davvero cocente.

Album disumano.

01 - Stengah (5:38)
02 - Rational Gaze (5:04)
03 - Perpetual Black Second (4:39)
04 - Closed Eye Visual (7:25)
05 - Glints Collide (4:55)
06 - Organic Shadows (5:08)
07 - Straws Pulled At Random (5:10)
08 - Spasm (4:14)
09 - Nebulous (6:33)
10 - Obsidian (4:20)

In The Woods... - "Omnio"

Misanthropy Records, 1997
Ci sono gruppi a cui la storia non rende giustizia. Spesso hanno queste caratteristiche: nascono, pubblicano pochi album e poi si sciolgono, e il pubblico semplicemente li ignora. Forse è proprio per questo che si sciolgono, in quanto non tutti riescono a vivere di musica e senza un buon responso di pubblico non si può tirare avanti a lungo, a meno di avere buone disponibilità economiche. Questo iter ha visto protagonisti anche i norvegesi In The Woods..., una delle band più sottovalutate ed inspiegabilmente ignorate dell'intero panorama metal. Sarà perchè troppo innovativi, o troppo coraggiosi, o semplicemente impossibili da incasellare in un unico sottogenere definito; oppure semplice sfortuna, che a volte ci mette lo zampino.

Fortunatamente, almeno in questo caso la carriera del gruppo ha potuto proseguire grazie ai Green Carnation, gruppo avantgarde - progressive metal dalla line - up molto instabile che ha visto entrare nelle sue fila moltissimi dei passati membri degli In The Woods..., garantendo così una sorta di continuità alla loro evoluzione musicale, seppur in forma trasfigurata. Sarebbe stato davvero un peccato limitare la carriera di questo interessantissimo gruppo ai tre studio - album che ha pubblicato nella sua breve carriera. Questo "Omnio" rappresenta il punto centrale, cioè il secondo album: già distanziato dalla matrice black metal del poliedrico debutto "Heart Of The Ages", ma ancora molto elaborato e lontano dal minimalismo che avrebbe successivamente contraddistinto "Strange In Stereo". Che musica si trova in questo disco? Dirlo è davvero difficile. Per chi ama etichettare i generi musicali, potrei definire la musica degli In The Woods... come un inusitato mix tra progressive metal, echi black, psichedelia settantiana di matrice pinkfloydiana, post - rock e qualche sprazzo di musica classica. Penso sia sufficiente per capire che si tratta di un gruppo davvero inclassificabile. L'album è molto eterogeneo e ricercato, non esiste la struttura facilmente memorizzabile che è già entrata in testa dopo due o tre ascolti, il mood passa continuamente dal malinconico all'epico, con qualche breve parentesi di aggressività che però non può lontanamente competere con quella che trovavamo sul loro album di debutto. Qui, infatti, lo screaming sparisce completamente e la voce è unicamente in pulito, e spesso troviamo duetti con una voce femminile, che talvolta si guadagna perfino il ruolo di protagonista.

L'opener "299.796 km/s" (che rappresenta, per i profani della fisica, la velocità della luce nel vuoto) è un mastodontico brano di quasi quindici minuti nel quale troviamo veramente di tutto: meravigliose sezione d'archi unite ad arpeggi dolci e sognanti, chitarre mai troppo distorte, improvvise accelerazioni dove riaffiora tenuemente il  carattere black metal, un'evocativa voce maschile che talvolta si perde in duetti da brivido con il soprano, cavalcate elettriche stupendamente arrangiate, un gran finale che chiude quasi un'odissea teatrale, nella quale non c'è un singolo passaggio ripetuto una volta di troppo. Per costruire un brano simile, tralaltro dal testo meraviglioso, servono le idee, e chiaramente a questa band non mancavano: anzi, direi che ne avevano anche troppe. Ci districhiamo poi tra un episodio aggressivo e spinto, "I Am Your Flesh", diviso tra velocità e stacchi ricchi di atmosfera, tesi e in perenne attesa di una risoluzione. Il breve intermezzo "Kairos!" ci porta alla struggente "Weeping Willow", dominata dalle chitarre, che danno il meglio di sè costruendo lunghe sezioni soliste di grande espressività e dolcezza. Infine giunge il momento della suite finale, la monumentale "Omnio" divisa in tre tracce, nella quale fanno capolino gli echi settantiani, molto cari ai Pink Floyd di "Ummagumma" e "Wish You Were Here" (evidentissimi nella strumentale centrale, "Bardo"), uniti a lunghe cavalcate tipicamente metal impreziosite da mille elementi diversi, che denotano una creatività e una profondità compositiva non comune, che purtroppo è stata fraintesa dal pubblico, condannando gli In The Woods... a rimanere nell'underground senza mai ricevere un vero consenso. Un vero peccato.

Sicuramente "Omnio" è un album di difficile comprensione, da ascoltare più volte e con attenzione, da accantonare e riprendere in mano dopo anni, per scoprire che non ha ancora finito di dire tutto quello che aveva da dire. La tipica descrizione di un classico, che continua a raccontare la sua storia nel corso degli anni, senza poter mai dire di averla realmente terminata. "Omnio" è caldamente consigliato a chi nella musica ricerca la sperimentazione e la libera espressione artistica, più che compartimenti stagni di categorie predefinite.

01 - 299.796 KM/S (14:48)
02 - I Am Your Flesh (7:09)
03 - Kairos! (3:36)
04 - Weeping Willow (11:41)
05 - Omnio (Pre) (12:00)
06 - Omnio (Bardo) (5:54)
07 - Omnio (Post) (8:09)

lunedì 29 novembre 2010

Necrodeath - "Black As Pitch"

Scarlet Records, 2001
Un album devastante questo "Black As Pitch", una di quelle mazzate che afferrano dritto alla giugulare e lasciano storditi per la violenza sonora che sprigionano nell'arco di meno di quaranta minuti.

Dopo l'ultimo album pubblicato nel 1999 intitolato "Fragments Of Sanity", la band è stata per ben dieci anni ferma, ritornando però improvvisamente sulle scene con "Mater Of All Evil", e successivamente con questo "Black As Pitch", probabilmente il lavoro più spinto ed estremo della carriera del gruppo. La cosa più interessante, se mi è permesso un piccolo moto di orgoglio, è che i Necrodeath sono italiani, e soprattutto che ormai sono stati presi come punto di riferimento da molte band del settore estremo in giro per il mondo, per loro stessa ammissione (ad esempio dagli At The Gates, padri costituenti del death scandinavo). In effetti, i nostri ci sanno fare quando si tratta di pestare duro, e negli anni hanno saputo ritagliarsi un'importante fetta nel panorama metal estremo. Quello che il gruppo propone in questo breve album è un assalto sonoro fatto di black - thrash metal, dalle forti tinte macabre e oscure e caratterizzato da tonnellate di violenza ragionata ed efficacissima. La parte thrash è per quanto riguarda le ritmiche e il riffing, la parte black per quanto riguarda le linee vocali: il risultato è una sfilza di brani logicamente brevi, che non dimenticano tecnica strumentale e perfino qualche sporadico accenno melodico, vaghi rallentamenti e stop and go, per poi tornare a picchiare senza remissione. Una sorta di "Reign In Blood" ancora più arrabbiato, estremo e nichilista: imperdibile per chi ama immergersi in un bagno sonoro rabbioso e devastante, da evitare per chi nella musica ricerca armonia e melodia più che ritmo martellante e feroce cattiveria.

Chi si lascerà esaltare dall'iniziare pugno nello stomaco di "Red As Blood", demoniaca e morbosa (la "Angel Of Death" del disco), arriverà alla fine dell'album assolutamente soddisfatto e desideroso di ricominciare da capo, in un'orgia di violenza spettacolare ed esaltante. Per gli altri, meglio esplorare altri territori, qui c'è spazio solo per i die hard della musica.

01 - Red As Blood (3:57)
02 - Riot Of Stars (2:46)
03 - Burn And Deny (2:55)
04 - Mortal Consequence (2:56)
05 - Sacrifice 2K1 (3:34)
06 - Process Of Violation (3:20)
07 - Anagaton (2:44)
08 - Killing Time (2:20)
09 - Saviours Of Hate (3:24)
10 - Join The Pain (2:49)
11 - Church's Black Book (8:08)

Apocalyptica - "Apocalyptica"

Universal, 2005
Si può suonare Metal usando esclusivamente tre violoncelli e una batteria? Per quanto assurda possa sembrare la domanda, la risposta è sì. Gli Apocalyptica, trio finlandese composto per l'appunto da tre violoncellisti, ne sono la prova vivente. Essi sono nati come cover - band, dedita a riproporre i brani dei Metallica in chiave metal grazie all'uso di violoncelli elettrici e distorti, uniti a normalissimi violoncelli acustici. Essendo però tre musicisti diplomati con 110 e lode all'Accademia musicale di Helsinki, non potevano non sentire l'impulso di dedicarsi ad una produzione propria, e così hanno fatto, iniziando con quest'album omonimo.

Per chi l'ascoltasse senza sapere nulla di loro, nè aver visto la splendida copertina, sarebbe abbastanza difficile rendersi conto che quei suoni potenti e distorti sprigionati altro non sono che i suoni dei violoncelli, distorti e amplificati a mille fino a diventare quasi indistinguibili dalle chitarre elettriche. Gli Apocalyptica spaziano infatti, con un album quasi totalmente strumentale, tra canzoni dolcissime e malinconiche come la meravigliosa "Farewell" e la mestissima "Ruska", sfuriate devastanti come "Betrayal/Forgiveness" (nella quale fa capolino un certo Dave Lombardo...), ballate in pieno stile love - metal come "Bittersweet" (con Ville Valo degli HIM come ospite d'onore), cavalcate acustico - elettriche di gusto talvolta classico, talvolta estremamente moderno. I violoncelli si intrecciano tra loro in un connubio magistrale, con ottime dosi di melodia mai scontata,  velocità e irruenza quando serve, e soprattutto senza che mai una sola chitarra faccia capolino, per quanto ciò possa sembrare incredibile. La tecnica strumentale sopraffina si unisce ad una produzione semplicemente perfetta, regalando un disco che è quanto di più vicino possa esistere alla perfetta fusione tra Metal e musica classica, sbilanciandosi costantemente ora in un senso ora nell'altro. Unico neo è, curiosamente, la traccia di apertura "Life Burns!": un brano così banale e scontato, seppur piacevolmente orecchiabile, potrebbe fuorviare gli ascoltatori e convincerli che si tratta dell'ennesima release di un gruppo clone della scena punk rock. Ma basta arrivare alla seconda traccia "Quutamo" per rendersi conto che i nostri non mancano di idee proprie e originali: una cavalcata in doppia cassa tra suoni distorti e trascinanti uniti alle calde sonorità del violoncello acustico, che si perde in virtuosismi eccellenti. E con il passare delle tracce, la situazione non fa che migliorare, con brani spesso brevi, incisivi e coinvolgenti, alternati ad episodi lenti davvero memorabili come la sopracitata "Farewell", vero inno alla malinconia più profonda, ma con un fondo di speranza nascente che non può che commuovere.

"Apocalyptica" è un disco eccellente, fresco e piacevolissimo, sempreverde: un disco da ascoltare per rendersi conto che anche dopo 50 anni di storia del rock c'è ancora qualcuno che ha qualcosa da dire. Un album in grado di mettere d'accordo praticamente tutti su cosa sia la musica fatta bene. Consiglio: quando la musica finisce, non spegnete il lettore...

01 - Life Burns! (3:06)
02 - Quutamo (3:28)
03 - Distraction (3:56)
04 - Bittersweet (4:26)
05 - Missconstruction (3:56)
06 - Fisheye (4:09)
07 - Farewell (5:33)
08 - Fatal Error (3:00)
09 - Betrayal/Forgiveness (5:13)
10 - Ruska (4:39)
11 - Deathzone (10:15)

domenica 28 novembre 2010

Ea - "Au Ellai"

Solitude Productions, 2010
Con questo album si chiude la trilogia "ancestrale" inaugurata nel 2006 dagli Ea, misterioso gruppo russo dalle caratteristiche totalmente sconosciute. Di loro conosciamo la provenienza, ma non i nomi dei componenti, nè il loro numero, nè altre informazioni. Sappiamo solo che pubblicano per l'etichetta Solitude Productions, la quale ha avuto un fiuto davvero magistrale nell'individuarli (ammesso che il gruppo non rappresenti lo sfogo artistico di qualche membro della label...). Non abbiamo i loro testi, poichè sono scritti in quella che a detta loro è un'antica lingua morta riscoperta dopo ricerche archeologiche.

Con la pubblicazione di "Ea Taesse" e di "Ea II", rispettivamente nel 2006 e nel 2009, gli Ea sono riusciti a ritagliarsi  per sè un'importante fetta della scena Funeral Doom Metal underground, costruendo un sound estremamente elaborato e ricchissimo di atmosfere sepolcrali e antiche. Ecco che ora, con questo terzo album in studio, si conclude finalmente il trittico, tematizzato sulle civiltà antiche. Se i primi due album seguivano una linea comune, fatta di inusitata e monolitica pesantezza sonora unita ad orchestrazioni ferali e oscure dotate di una forza evocativa spaventosa, "Au Ellai" rappresenta un netto cambio di stile: già dalla prima traccia, la lunghissima "Aullu Eina", possiamo sentire come l'atmosfera si sia fatta meno pesante e meno opprimente, le chitarre soliste abbiano guadagnato un posto di rilievo e il suono appaia più luminoso e melodico, pur mantenendo sempre un carattere solenne e severo. Un'evoluzione musicale interessante, che rende il disco sicuramente più fruibile e meno ostico, senza che per questo si snaturi il carattere musicale degli Ea: a parte alcune eccezioni (come nella seconda parte di Taela Mu) i ritmi sono comunque molto lenti e l'alone "sacrale" che da sempre contraddistingue la band non è affatto stato abbandonato.

Le parti di chitarra sono diventate pregevolissime e in molti tratti protagoniste: lunghi e melodici assoli, ovviamente rallentati all'estremo, occupano buona parte delle canzoni. Se nel precedente "Ea II" le chitarre avevano il compito di creare muri sonori quasi impenetrabili tramite accordi prolungati quasi all'infinito e saturati di riverbero, qui invece le medesime si occupano di tessere melodie tristi e malinconiche, non dimenticando però un ottimo sottofondo orchestrale e tastieristico, alleggerito anch'esso e dal carattere più celestiale che infernale. Il mood malinconico è un qualcosa che gli Ea non avevano ancora esplorato, e rappresenta una piacevolissima variazione all'austerità del suono che contraddistingueva specialmente il roccioso "Ea Taesse". Un'altra novità è la presenza sempre più massiccia di parti cantate, anche se, come al solito, non si può capire assolutamente nulla dei testi, e il growling non è certo molto articolato a livello tonale, rimanendo sempre un sussurro rauco di sottofondo che accompagna la musica, più che guidarla. Meno importanza hanno i cori femminili, l'organo ecclesiale che non appare quasi più, il pianoforte che torna ad essere un fioco accompagnamento (ma dalla bellezza sconvolgente), la parte spiccatamente atmosferica ed eterea sulla quale il precedente full - length si era basato. Un pezzo come "Taela Mu", basato su un riffing di chitarra quasi "convenzionale" (in termini relativi!), non sarebbe mai potuto stare su nessuno degli album precedenti. A qualcuno questo album potrà far storcere il naso, e probabilmente i fan storici stenteranno a riconoscere la band che fino a qualche anno prima annichiliva le orecchie con chitarre mostruosamente potenti e atmosfere da messa nera, ma ciò non toglie che "Au Ellai" sia un album godibilissimo ed elaborato, melodico ma nello stesso tempo profondo e sentito. Difficile non riconoscere la qualità di questo lavoro, curato nei minimi dettagli e perfettamente bilanciato in ogni sua componente, con originalità e personalità da vendere.

Un ultimo plauso va all'artwork, semplicemente meraviglioso: al di là della solita frase che troviamo all'interno dei loro vuoti booklet, e che qui è peraltro quasi illeggibile, le splendide immagini di colate laviche sormontate da stormi di uccelli in volo non possono fare altro che confermare il carattere inusuale di questo album, una degnissima conclusione di una trilogia di capolavori. Per chi volesse farsi un'idea di come suonano gli Ea, consiglio di ascoltare l'ultima traccia "Nia Saeli A Taitalae", la più legata al passato della band, ideale ponte di collegamento tra i vari albumi. Non a caso rimane per ultima, come a simboleggiare la più perfetta conclusione che poteva esserci per questa storia, che merita davvero di essere raccontata. Anche questo è un album da avere, senza mezzi termini.

01 - Aullu Eina (23:47)
02 - Taela Mu (10:00)
03 - Nia Saeli A Taitalae (18:07)

sabato 27 novembre 2010

Agalloch - "The Mantle"

The End Records, 2002
Colline verdi e greggi di pecore, montagne innevate e profondi canyon, un pastore che cammina in solitaria reggendo il suo vecchio bastone. La potenza della natura che erode la roccia con forza spaventosa, facendo crollare su di essa tonnellate d'acqua ogni secondo. Sole, Luna, alberi e foreste, il tutto popolato da gnomi che lavorano alacremente per mantenere il delicato equilibrio della natura. Queste sono solo alcune delle immagini che possono venire in mente ascoltando il secondo full - lenght degli statunitensi Agalloch, che dall'Oregon ci regalano da anni dischi superlativi e profondamente ispirati dalla bellezza e dalla forza della natura. Dopo l'ottimo esordio di "Pale Folklore", che definiva il loro sound come un'interessante commistione di influenze gothic - doom, post - folk e qualche lieve spruzzata di black metal, il tutto amalgamato in maniera molto personale, questi quattro ragazzi si evolvono e vanno a produrre quello che è sicuramente l'album più bucolico e rilassato della loro carriera, il più vicino al concetto di "natura" in senso stretto, il più atmosferico ed evocativo.

Contrariamente alla linea "dura" che sarebbe seguita con la pubblicazione del roccioso "Ashes Against The Grain" e dell'ultimo nebuloso "Marrow Of The Spirit", in questo album gli Agalloch esplorano lidi di tranquillità e pace, grazie ad un massiccio uso delle chitarre acustiche e di sonorità calde e avvolgenti, sempre estremamente armoniche e mai dissonanti o stridenti. Brani lunghi, complessi, ricchi di sfumature dolcissime ma anche di parti ruvide e veloci, in costante incrocio tra una spiccata matrice folk e un gusto canoro black metal, espresso dal particolarissimo screaming sussurrato di John Haughm. Lungo l'intero album si respira una dolcezza soffusa, un senso di commistione con la natura nel suo significato più profondo, quello che si potrebbe provare ascoltando il ticchettio della pioggia che si infrange sul tetto di un rifugio montano. Ne è un ottimo esempio la lunghissima "In The Shadows Of Our Pale Companion": 14 minuti e 45 secondi di melodie malinconiche, lenti assoli di chitarra costantemente accompagnati dalla chitarra acustica, voce che passa dal sussurro rauco degli spiritelli del bosco fino alla voce pulita, limpida e solenne come l'acqua che sgorga da una cascata. Un tributo al muschio che cresce sugli alberi, alle foglie che cadono d'autunno, a qualsiasi cosa possiate immaginare riguardante la natura e la sua bellezza, poichè attraverso gli strumenti pare quasi di sentire il vero fruscio delle foglie, specialmente negli stacchi dove le due chitarre, acustica ed elettrica, suonano entrambe senza distorsioni e ammaliano irrimediabilmente. Ascoltare questo brano in cuffia, camminando per un bosco (come io ho fatto) è un'esperienza purificatrice, che porta quasi a voler abbracciare alberi e piante per dimostrargli il rispetto che meritano. Memorabile anche il testo, dove troviamo versi toccanti e poetici come "If this grand panorama before me is what you call God, then God is not dead". Pura introspezione, intrisa di una delicatezza illimitata e struggente.

I brani strumentali sono numerosi, ma non hanno una funzione riempitiva o preparatoria, bensì sono episodi a sé, perfettamente calati nel loro contesto. La psichedelica e sognante "Odal" è chiusa da un pianoforte malinconico e ammaliante; l'ipnotico interludio acustico "The Lodge", nella quale si sente una percussione che è prodotta da un vero cranio di cervo, è capace di far viaggiare con la mente grazie alla sua programmatica ripetitività; la ben ritmata e variegata "The Hawthorne Passage" potrebbe invece simboleggiare una corsa in un bosco popolato da alberi secolari. Chiudono il disco due semi - ballad quasi interamente acustiche: "And The Great Cold Death Of The Earth" è quasi un inno, da cantare attorno a un falò scoppiettante mentre la notte cala sulle montagne vicine, mentre "A Desolation Song", accompagnata da una dolce fisarmonica, ci saluta con le lacrime agli occhi, declamando una tristissima nenia di sfiducia verso l'uomo, incapace di amare come dovrebbe. "For love is the poison of life".

Più che un album, "The Mantle" è un vero e proprio inno alle potenze creatrici, al panteismo e all'adorazione verso la Terra, intesa come essere vivente e non solo come luogo dove la specie umana ha trovato riparo. La filosofia degli Agalloch è racchiusa perfettamente nella frase stampigliata sopra il CD, ed è la chiave di lettura per comprendere un disco tanto raffinato e poetico come questo:

"The happiest man is he who learns from nature the lesson of worship".

Da scoprire.

01 - A Celebration For The Death Of Man... (2:24)
02 - In The Shadows Of Our Pale Companion (14:45)
03 - Odal (7:39)
04 - I Am The Wooden Doors (6:11)
05 - The Lodge (4:40)
06 - You Were But A Ghost In My Arms (9:14)
07 - The Hawthorne Passage (11:18)
08 - ...And The Great Cold Death Of The Earth (7:14)
09 - A Desolation Song (5:07)

Ea - "Ea II"

Solitude Productions, 2009
Ci sono album che riescono veramente a trasportare chi li ascolta in un mondo diverso, nel quale le vicende terrene non hanno più alcuna importanza. Qualsiasi genere di musica può produrre questo effetto, ma certamente non ci riescono tutti i musicisti, consapevoli del fatto che la musica è un'arte troppo superiore per essere compresa dall'uomo, e che a volte non si può fare nulla se l'ispirazione non arriva. Nel momento in cui mi è arrivato tra le mani questo album, tuttavia, ho capito velocemente che questo è uno di quei dischi. La cosa strana è che della band in questione non si sa praticamente nulla: gli Ea dovrebbero essere russi e stando a quello che riporta il sito ufficiale dovrebbero essere in quattro, ma non si sa nient'altro. Non si conoscono i nomi dei componenti, non si conosce una localizzazione geografica precisa, non si conoscono i testi degli album. C'è perfino la possibilità che dietro questa band si nasconda una sola persona, dato che non c'è alcun genere di informazione certa. Quello che possiamo sapere degli Ea dobbiamo dedurlo dall'album stesso: così come era stato per il debutto "Ea Taesse", pubblicato nel 2006 dalla label russa Solitude Productions, c'è solamente una frase a spiegare chi siano questi misteriosi Ea. La frase recita, in maniera indubbiamente enigmatica, che i testi dell'album sono stati scritti e cantati in un'antica lingua morta, ricostruita sulla base di ricerche archeologiche. Ma non si sa quale lingua, e i testi non sono reperibili da nessuna parte. Aggiungono, poi, che gli Ea sono "la voce degli antichi", che ci ha raggiunto attraverso i secoli. Fine: questo è tutto quello che troviamo nei booklet dei loro album, dunque anche in questo anonimo "Ea II", che non reca nemmeno il logo della band sulla copertina, ma solo un'inquietante immagine radiografica. Anche il booklet riporta altre immagini simili, senza una parola di commento.

Una band che si presenta in un modo così insolito è indubbiamente interessante da approfondire. Non rimane dunque che lasciar parlare la musica, che è l'unica cosa su cui i misteriosi Ea hanno voluto concentrarsi. Chi li ha conosciuti grazie al debutto "Ea Taesse" sa già di che pasta è fatto il gruppo: esso propone infatti un'originale misto di Funeral Doom Metal e di musica d'atmosfera, dalle tinte fortemente sacrali ed epiche, quasi mai propriamente tristi e melanconiche come siamo abituati a sentire nel genere. "Ea Taesse" era un vero e proprio macigno sonoro, un monolite dalla potenza sonora devastante che esplorava con lentezza lidi oscuri e sepolcrali, con interessantissime soluzioni tecniche e l'uso di una vastissima gamma di effetti sonori. Ora, dopo tre anni di attesa, i nostri sono tornati con questo "Ea II", composto di due sole tracce senza titolo, dalla durata di ben ventidue e venticinque minuti. Va detto che la separazione delle tracce è di scarsa importanza, ascoltandolo tutto di fila non si riesce a capire il momento dello stacco, quindi possiamo dire che è un unico brano di 47 minuti. Anch'esso si muove sulle stesse coordinate del suo predecessore, ma con una nuova vena sperimentale che lo rende ancora più particolare. Definire in poche parole cosa sia questa musica è un'impresa assai difficile: ci troviamo di fronte ad un album particolarissimo, che unisce la lentezza e la pesantezza sonora tipiche del Funeral Doom con una venatura atmosferica da far paura, inserendo parti di tastiera, sezioni orchestrali e corali, sapiente e azzeccatissimo uso dell'organo ecclesiale (che acquista molto più valore rispetto all'album di debutto), e superbi inserti di pianoforte dalla timbrica spaventosamente oscura ed evocativa. La base del disco è un metal poderoso, ma essenzialmente molto scarno: le chitarre si fanno sempre più "muro" sonoro e non producono quasi mai dei veri e propri riff, limitandosi a lunghi e poderosi accordi più che accompagnano i rimanenti suoni e la voce. Quest'ultima, a parte i cori sintetizzati con il choir pad, non è altro che un profondissimo growl utilizzato come uno strumento musicale, in quanto produce suoni praticamente inarticolati: non aspettatevi di capire una sola parola, ammesso che le parole di questa lingua morta risultino comprensibili. Inoltre, la voce svolge un ruolo davvero gregario, in quanto le parti cantate sono davvero poche e il disco è quindi in gran parte strumentale. Mischiamo questi elementi tutti assieme, ed ecco che ne esce un capolavoro: le due composizioni, che in realtà sono fuse assieme a formare un unico lunghissimo brano, sono in continua evoluzione e avulse da qualsiasi struttura precostituita. Si alternano parti estremamente dure con momenti di quiete quasi assoluta, con il pianoforte e l'organo che sbucano quando meno li si aspetta, con i cori che donano una profondità eccezionale al suono, con le chitarre che raramente ho sentito suonare con tale potenza. Le parti orchestrali sono semplicemente meravigliose: basta ascoltare l'introduzione del primo brano, nella quale pianoforte e tappeti di violoncelli si uniscono per creare un'atmosfera cosmica e grandiosa, che è un po' quella che si riscontra in tutto l'album. Un lungo viaggio nelle profondità dello spazio, tra splendide e coloratissime nebulose, luce di stelle gigantesche e immense bolle di vuoto buissimo. Minuto dopo minuto, l'album trascina in un caleidoscopio di suoni e atmosfere diverse, pur rimanendo sempre molto semplice a livello strettamente compositivo - armonico, anche se abbastanza variegato a livello ritmico (la batteria compie molte interessanti evoluzioni, anche se molto meno rispetto ad "Ea Taesse", dove era intricatissima). E non c'è un momento che annoi: se si riesce ad entrare in sintonia con questo tipo di musica, che è obiettivamente molto difficile da assimilare, ogni minuto farà scoprire qualcosa di nuovo, in una progressione continua di epicità che porta ad uno spettacolare e tremendo finale d'organo, uno dei momenti più emozionanti di tutta la mia discografia.

Questo è ben più di un semplice album: lo considero come un regalo arrivato dall'alto, che grazie agli Ea ha potuto esprimersi ed essere immortalato nei solchi di un CD. Forse è per questo che gli Ea non rivelano la loro reale identità: forse non sono umani, ma divini. In definitiva, un capolavoro assoluto.

01 - Untitled (22:05)
02 - Untitled (25:22)

venerdì 26 novembre 2010

Fading Waves & Starchitect (Split Album)

Slow Burn Records, 2010
Debutto discografico sia per le due band Fading Waves e Starchitect sia per la casa discografica Slow Burn Records, nuovo interessante arrivo dalla Russia. Questo split album, insolitamente lungo per questa tipologia di uscita discografica, vede riunite due band che inaugurano la linea tenuta dalla label, ossia il cosiddetto post - metal, etichetta che a dire il vero non significa molto ma che tutti ormai più o meno sanno cosa sia. Per chi non lo sapesse, si tratta di sonorità sperimentali applicate al metal, con l'uso di atmosfere spesso oniriche e psichedeliche, lunghi "fiumi" strumentali apparentemente infiniti, ampio uso di dissonanze ed effetti. Un mix molto interessante, iniziato da band del calibro di Neurosis, Isis e Cult Of Luna, mostri sacri del genere che non tardano a fare capolino come influenze tra le note delle due band. Cominciamo subito con i Fading Waves: in realtà si tratta di una one man band, proveniente anch'essa dalla Russia. L'EP che qui propongono (le prime sette tracce) cattura subito l'attenzione con un sound pulito, dominato in eguale parte da tutti gli strumenti (in particolare da un basso onnipresente e molto protagonista), che progredisce in lunghissime sezioni strumentali di buon gusto e che solo raramente lascia spazio ad una voce, dal volume talmente basso da renderla quasi indistinguibile in mezzo agli strumenti. Non so se sia una scelta voluta o un errore di mixaggio, ma a mio parere la voce qui è anche inutile: per immergersi nell'universo sonoro dei Fading Waves sarebbero sufficienti solo gli strumenti, che tessono trame ricercate e sempre in evoluzione. Dunque, ottima scelta, se scelta è stata. A parte l'intro e l'outro, più la breve strumentale "Forever Closed", i brani sono tutti molto omogenei tra loro, ogni tanto impreziositi da qualche riuscitissima soluzione melodica che rompe il muro di pesantezza creato dai muri di chitarre (ad esempio la seconda parte di "Lights On Water). Episodio migliore a mio parere è la superba "Flows", meravigliosamente potente ed espressiva, dolce e ruvida nello stesso tempo. Per quanto riguarda i Fading Waves, direi che sono assolutamente promossi: il loro sound non sarà il più originale del mondo, ma è ben suonato e riesce a tenere incollati alle casse dello stereo per mezz'ora, e ciò è già un pregio non indifferente.

Passiamo agli ucraini Starchitect, che sono solo in due. Quando arriviamo all'ottava traccia capiamo subito che il sound è cambiato: maggiore aggressività, una voce finalmente in primo piano, lamentosa e rauca.  Le influenze dei grandi nomi del post - metal qui sono ancora più marcate (in certi momenti sembra proprio di sentire suonare i Cult Of Luna in persona). Soluzioni ritmiche più esasperate, una certa attitudine hardcore che però, a differenza del primo gruppo, non riesce a colpire particolarmente, rivelando un sound un pò immaturo. Ciò non toglie che ci siano dei buoni momenti, come "No It", il brano più lungo e atmosferico anche se in fondo è il più derivativo, e "Beauty Of Sin", che pur acerba riesce perlomeno a risultare aggressiva e potente, specialmente nella parte finale. Il gruppo ha alcune soluzioni interessanti, ma deve ancora lavorare parecchio ed eliminare certe imperfezioni e ingenuità che lo penalizzano. Ad esempio, è piuttosto irritante la voce femminile all'inizio di Triumph (The Right Way): sembra di sentire i Pink Floyd di "The Great Gig In The Sky", ma in una versione assolutamente non paragonabile all'originale. Anche la voce principale a volte mostra delle debacle, scadendo nel banale. Non all'altezza di chi li precede in questo disco, ma non del tutto da buttare via. Di certo, però, consiglierei di procurarsi questo album principalmente per ascoltare l'ottimo lavoro dei Fading Waves, gruppo davvero promettente che si spera potrà entrare presto a far parte dei grandi del cosiddetto post - metal. 

Fading Waves
01 - Rush Hour (1:28)
02 - Megapolis Depression (5:12)
03 - Lights On Water (7:01)
04 - Forever Closed (1:22)
05 - No Way Home (7:43)
06 - Flows (6:03)
07 - Waiting For End (2:08)

Starchitect
08 - Beauty Of Sin (5:39)
09 - No It (8:05)
10 - Home (1:41)
11 - Triumph (The Right Way) (4:07)
12 - Things, Happenings, People, Sadness (5:41)

giovedì 25 novembre 2010

Anathema - "The Silent Enigma"

Peaceville Records, 1995
Siamo nel 1995, la scena gothic - doom è nascente e inizia ad essere presa in considerazione. Quattro giovanissimi ragazzi britannici, dopo aver rilasciato alcuni album promettenti (in particolare l'ottimo Pentecost III), arrivano al compimento di quello che probabilmente è il capitolo migliore della loro discografia, e contemporaneamente un'icona del gothic - doom metal inglese, quella che li vedrà entrare come mostri sacri alla pari di gruppi come Paradise Lost e My Dying Bride.

"The Silent Enigma" è un album malato, oscuro, aggressivo e rabbioso in ogni nota, che trascina inesorabilmente in un vortice di nero pessimismo. Non si può definire altrimenti la musica degli Anathema (almeno quella che suonavano in quel periodo, avendo poi cambiato totalmente genere). La musica del gruppo è piena di dolore, sia fisico sia esistenziale, spoglia e cruda come poche. Ce ne accorgiamo subito dall'opener "Restless Oblivion", un'icona del doom metal nonchè uno dei migliori pezzi mai partoriti dal gruppo. Chitarre potentissime e un basso prepotente si fanno strada lentamente ma inesorabilmente macinando riff dalla pesantezza e cattiveria inaudite, mentre la voce dell'ottimo Vincent Cavanagh urla tutta la sua sofferenza animica con un timbro a metà tra il pulito e il growl. Timbri pesanti, dissonanti, incapaci di mediazione. "A bleak garden to cry, when my inamorato die". Questa frase potrebbe ben riassumere quello che si trova in questo "The Silent Enigma": un giardino spoglio nel quale disperarsi e dal quale assistere alla rovina del mondo e delle aspirazioni mortali, destinate allo sfacelo più totale. Un inquietante stacco, che vede protagonista un basso davvero malefico, non fa che aumentare la tensione, già palpabile, finchè uno straziante grido ci riporta in un marasma sonoro terrificante, che prosegue per la sua strada imperterrito e non lascia scampo. La disperata rabbia esistenziale è trasmessa dal giovanissimo cantante Vincent in una maniera straordinamente espressiva e genuina, senza inutili forzature o effetti. Il brano si conclude con un crescendo parossistico dell'ormai celebre ritornello, e finalmente gli strumenti e la voce tacciono, lasciandoci storditi da una tanto ragionata violenza. Restless Oblivion Forever. Non abbiamo molto tempo per riposarci, tuttavia: "Shroud Of Frost" ci porta in un mondo onirico e vacuo, sebbene espresso da altre chitarre pesantemente distorte. "Help me to escape from this existence". Quasi un universo lovecraftiano, a metà tra il reale e l'irreale, e ciò si nota anche dai testi, estremamente visionari. Assolutamente mirabile il finale, nel quale un muro chitarristico freddo e impenetrabile è accompagnato da cori angelici ed effetti elettronici pregevoli. Chiudete gli occhi mentre lo ascoltate, e vi sembrerà di fluttuare in un'altra dimensione spazio - temporale.

L'intenso finale sfuma introducendoci senza soluzione di continuità alla triste "Alone", brano acustico perduto in un abisso nero senza ritorno, dal quale giungono solo poche e deboli note più un'evanescente voce femminile, anch'essa smarrita irrimediabilmente. Un intermezzo inquietante che porta ad un altro dei cavalli di battaglia della band, "Sunset Of Age": arpeggi sognanti si uniscono ad una pesantezza ritmica e chitarristica invidiabile, che continuamente si azzittisce e riprende vigore, alternata a sezioni atmosferiche inquietanti. Con il duo "Nocturnal Emission" e "Cerulean Twilight" esploriamo lidi ancora più malati e stranianti, lisergici e altamente instabili. Grida di terrore, voci ansimanti, lunghe sezioni in contrattempo che non lasciano mai risolvere la tensione. La dolce "The Silent Enigma" interrompe il cortocircuito regalandoci un brano estremamente malinconico, dalle note vibranti, nel quale Vincent dà il meglio di sè con un cantato stanco e rassegnato, quasi piangente. Nella parte centrale di nuovo si ingrossano voce e strumenti, per poi allontanarsi progressivamente in modo incerto e confuso, come vagabondi. La magistrale "A Dying Wish" tinge la musica di grandeur epica, con la musica che parte in sordina e cresce sempre di più tra intrecci di arpeggi sempre più vicini ad esplodere in una cavalcata elettrica eccezionale, che travolge tutto. Una colonna sonora perfetta per annunciare la fine del mondo e il ritorno all'età della pietra, come declamato tristemente dallo stesso Vincent. Chiude l'album la nerissima strumentale "Black Orchid", funerea e straziante, la massima espressione musicale di angoscia e disperazione.

Quando l'ultima traccia smette di scorrere e sentiamo il rumore del lettore cd appena spento, non può non rimanerci addosso una sensazione di malessere generale, la sensazione che la musica abbia toccato le corde più profonde della nostra anima e ci abbia resi consapevoli del lato oscuro di ogni cosa. Disco semplicemente superlativo, che può piacere alla follia oppure essere odiato per la sua natura sfibrante e negativa, ma che indiscutibilmente trasmette emozioni vere in ogni singola nota.

01 - Restless Oblivion (8:01)
02 - Shroud Of Frost (7:31)
03 - Alone (4:24)
04 - Sunset Of Age (6:55)
05 - Nocturnal Emission (4:20)
06 - Cerulean Twilight (7:05)
07 - The Silent Enigma (4:25)
08 - A Dying Wish (8:11)
09 - Black Orchid (3:40)

mercoledì 24 novembre 2010

Agalloch - "Marrow Of The Spirit"

Profund Lore Records, 2010
Con questo nuovo album in studio si rifanno vivi i sempreverdi Agalloch, a due anni di distanza dalla pubblicazione dell'acclamato EP "The White" e a ben quattro anni dall'ultimo album vero e proprio (il metallico e psichedelico "Ashes Against The Grain"). Nel corso degli anni il gruppo ha sviluppato una personalità e uno stile invidiabile, che li ha portati ormai ad essere una band conosciuta e apprezzata da gran parte del pubblico metal. Non a caso, sono rarissimi i momenti di debolezza nella loro discografia, e questo nuovo "Marrow Of The Spirit" riesce ad essere ancora una volta un disco ispirato, ricco e mai banale. Questo soprattutto perchè è un disco diverso, che sicuramente ha l'effetto di spiazzare i vecchi fan, nel bene o nel male. Vediamo perchè.

L'ultima fatica del quartetto statunitense, infatti, sposta ancora un pò le coordinate della band, arrivando ormai lontanissimo dalle atmosfere soffuse di "The Mantle" che tanto avevano impressionato critica e pubblico. La musica si sposta verso atmosfere più dure e severe, mantenendo comunque la componente naturalistica con la quale abbiamo sempre identificato gli Agalloch. La novità più importante è un notevole appesantimento del sound, che ora si fa veloce e aggressivo, sostenuto da una batteria finalmente non più solo accompagnatrice ma anche protagonista di poderose cavalcate e irruente sfuriate. Il cambio di batterista infatti ha influito notevolmente sull'aspetto ritmico. Basta ascoltare l'inizio dell'album: dopo una breve introduzione, nella quale un triste e spaesato violoncello suona mestamente accompagnato solo dal suono della pioggia, la prima traccia "Into The Painted Grey" ci accoglie con una scarica di violenza che mai si è sentita nella musica del gruppo. Compaiono addittura i blast - beat, novità assoluta. Lo screaming di John Haughm abbandona i suoi peculiari sussurri e diventa un vero grido rauco, rabbioso e incalzante. I dodici minuti abbondanti di questa prima straordinaria traccia rimangono impressi fin da subito per via del loro forte impatto, e non di meno per la presenza di un lavoro solistico di chitarra davvero superbo: nel momento in cui la cattiveria sembra giunta al culmine, ecco sopraggiungere melodie avvolgenti che fanno rimanere col fiato sospeso.

Potremmo addirittura pensare che gli Agalloch abbiano deciso di darsi al black metal melodico, se la dolce introduzione acustica - elettrica di "The Watcher's Monolith" non ci riportasse agli Agalloch che già conosciamo, solo in versione più malinconica e introspettiva. I ritmi rallentano, le apparentemente dimenticate chitarre acustiche riprendono possesso della scena, ricompaiono gli evocativi cori che trasportano direttamente in una foresta autunnale attraversata da un profondo canyon, la cui sponda opposta è totalmente irraggiungibile. Anche se i nostri si sono incattiviti, non hanno certo perso la capacità di evocare scenari naturali con il solo uso della voce e delle chitarre, nè hanno perso la capacità di creare melodie splendide e ricche. Un vortice di riff, accelerazioni, rallentamenti e intrecci strumentali sfuma lentamente e il brano si chiude con alcune tristi note di pianoforte che suonano accompagnate dai suoni dei grilli la sera. Inizia quindi la lunghissima "Black Lake Nidstang", brano atipico, impalpabile e ricco di sperimentazione sonora. Qui la psichedelia di "Ashes Against The Grain" è perfettamente riconoscibile, e direi anche molto più intensa. Come non ricollegare gli stridenti suoni dei sintetizzatori all'acido epilogo di "The Grain" e di "Scars Of The Shattered Sky", che mostravano un mondo ormai rovinato da guerre e distruzioni tramite un suggestivo suono minimalista ed elettronico? Percussioni ipnotiche e voci sussurrate ci accompagnano per i primi minuti, poi si aggiunge una chitarra che pare non sapere esattamente dove andare, persa in un mare di incertezza. Finalmente il brano recupera una direzione e si sviluppa come una triste nenia, cupa e rassegnata, che trasmette una sensazione di smarrimento e incerto vagabondaggio. John passa da un sussurro appena accennato ad un cantato "lanciato nel vuoto", che non avevamo mai sentito da parte sua: grande l'espressività di questo poliedrico vocalist, che in questa occasione mi ha perfino ricordato Alan Nemtheanga, vocalist degli epici Primordial. Questo per far capire come il gruppo abbia effettivamente affrontato un'evoluzione musicale e sia riuscito ad incorporare elementi nuovi nel proprio sound, senza per questo snaturarsi. Il brano prosegue con un lungo intermezzo ambient e si conclude con un'inaspettata ed entusiasmante accelerazione, che finalmente risolve la tensione del brano e la scioglie come neve al sole. Arriviamo quindi a "Ghost Of The Midwinter Fires", il brano più legato al passato degli Agalloch, il più melodico e "leggero", che finalmente esplora tonalità positive e solari. Una spettacolare progressione chitarristica di svariati minuti, che porta soluzioni tecniche mai adottate ed interessanti effetti sonori, ci porta ad una parte centrale appassionata e violenta, dove ritroviamo i blast - beat e la rabbia tipicamente black metal, ma ecco che il suono si raddolcisce nuovamente e gli Agalloch ci regalano un finale mozzafiato, nel quale l'intesa tra le quattro chitarre usate in registrazione raggiunge la perfezione, tramite un intreccio magistrale. Ancora piacevolmente sconvolti da tutti questi episodi così coinvolgenti e così diversi tra loro, arriviamo all'ultimo brano, "To Drown", che ha il compito di chiudere il disco nella maniera più inconsueta. Si tratta di un altro pezzo soffuso ed evanescente, in totale contrasto con l'irruenza del brano precedente e nel quale ricompaiono il violoncello, la voce pulita e sussurrata, la chitarra acustica perduta nel suo mondo, la chitarra elettrica che si libra nell'aria con note acute e prolungate, come se volesse effettivamente spiccare il volo. Brano di una malinconia devastante, che si chiude con una dissonante abiura suonata da un violoncello ribelle, che riprende il tema dellla prima traccia. Questa conclusione non può non lasciare l'ascoltatore con un forte senso di smarrimento, come se non sapesse più dove girarsi.

Fedeli alla loro tradizione, che li ha sempre portati a riflettere bene prima di pubblicare un disco e a non lavorare mai di fretta, gli Agalloch sono nuovamente riusciti a crescere e a stupirci, partorendo un disco di tutto rispetto. Per i fan del gruppo, l'acquisto è ad occhi chiusi, anche se non tutti forse apprezzeranno questo cambio di stile così netto: ma sarà solo una questione di tempo. Per tutti gli altri, mi sentirei di consigliare la stessa cosa: procuratevelo senza remore. Se ancora non conoscete gli Agalloch, cosa a mio avviso deprecabile, è ora di cominciare: "Marrow Of The Spirit" potrebbe essere la vostra migliore sorpresa.


"They escaped the weight of darkness...to drown into another..."

01 - They Escaped The Weight Of Darkness (3:41)
02 - Into The Painted Grey (12:25)
03 - The Watcher's Monolith (11:46)
04 - Black Lake Nidstang (17:34)
05 - Ghost Of The Midwinter Fires (9:39)
06 - To Drown (10:27)

martedì 23 novembre 2010

Dropshard - "DSII"

Autoprodotto, 2009
Ecco una band tutta italiana che sa davvero di promettente. Dopo aver casualmente assistito ad un loro concerto in un pub, non ho potuto fare a meno di informarmi su chi fossero quei cinque ragazzi, che pur ancora tutti giovanissimi riuscivano a suonare con una tecnica e una passione che è raro trovare in un gruppo emergente. Dopo qualche ricerca ho trovato online i loro due demo, e ora mi appresto a dire due parole del secondo dei due, intitolato semplicemente "DSII". Se questa è la musica che andremo a trovare sul loro primo album, attualmente in corso di lavorazione, sarà il caso di tenerli d'occhio.

I nostri si muovono con leggerezza a cavallo tra un progressive rock di stampo Jethro Tull e sonorità metal, amalgamando i due generi con abilità e notevole perizia tecnica, indispensabile in un genere come il progressive, ma non così facile da ottenere quando si suona da relativamente pochi anni. Vediamo subito cosa si trova in questo breve demo, che contiene quattro canzoni per 23 minuti totali di musica. La prima traccia "Portrait" inizia rilassata e serafica per poi crescere lentamente e diventare un brano potente e ritmato, ricco di cambi di tempo e di lunghe sezioni strumentali sincopate e assolutamente trascinanti. Le parti vocali sono ottimamente modulate, dolci quando serve e altrettanto potenti quando gli strumenti iniziano a fare sul serio. Ottimo il lavoro di tastiere, che in certi punti diventano addirittura protagoniste della scena, prodigandosi in assoli. Non c'è tuttavia uno strumento che predomini troppo sugli altri: tutti si amalgamano bene gli uni con gli altri, andando a formare un mix davvero interessante. Mirabile il finale, con una cavalcata di chitarra in stop and go che ricorda moltissimo gli ultimi Dream Theater. Come primo pezzo è davvero un ottimo biglietto da visita. La successiva "Awake" è un brano molto più irruento e frenetico, dal ritmo costantemente spezzato e in alcuni tratti molto jazz. Da sottolineare anche l'ottima produzione, per essere un demo: tutti gli strumenti si sentono perfettamente, perfino il basso, dal suono pulitissimo. Dopo averci piacevolmente stordito con un marasma strumentale e vocale intricatissimo, il brano è perfino capace di regalarci un breve finale di pianoforte lento e triste, accompagnato da una voce sussurrata e malinconica. Arriviamo quindi a "The Savior", una ballad lenta e melodica, anch'essa impreziosita da inusuali arrangiamenti tastieristici dalle stranissime timbriche. Il pezzo potrebbe benissimo ricordare "Forsaker" dei già citati Dream Theater, specialmente per quanto riguarda le linee vocali. La conclusiva "P.O.W.A." è invece un brano strumentale nuovamente potente e irruento, nel quale affiorano altre influenze jazz e perfino passaggi aggressivi e quasi rumoristi.

Pur nella sua brevità, il demo dimostra già una band sulla via della maturazione definitiva, ottimamente salda e ispirata, che strizza l'occhio ai grandi del progressive ma rielaborando tutto con una vena molto personale. Vale la pena dargli un ascolto e tenerli d'occhio, in attesa che esca finalmente il loro primo vero album.

01 - Portrait (8:23)
02 - Awake (5:22)
03 - The Savior (5:49)
04 - P.O.W.A. (4:09)

lunedì 22 novembre 2010

Ikuinen Kaamos - "Closure"

Autodistribuito gratis in Rete, 2008
"Closure" (originariamente chiamato "Epilogue") sarebbe dovuto diventare il secondo album dei finlandesi Ikuinen Kaamos, ma per via di alcune infauste incomprensioni con la casa discografica, la band si è praticamente vista annullare la pubblicazione del disco. Mancanza di soldi, la motivazione ufficiale. Con un atto di grande altruismo e gentilezza, la band ha deciso di prendere le prime tre tracce (delle sei originarie) e farne un EP liberamente scaricabile da Internet. Quante band lo hanno fatto? Non molte. A bruciapelo mi vengono in mente gli Esoteric, che hanno deciso di rilasciare quasi tutta la loro discografia in formato Mp3 sul loro sito, suscitando l'ammirazione e la gioia di tutti i fan. Ma per ora non sono a conoscenza di altri casi simili (ovviamente escludendo gli esordienti totali che non hanno ancora pubblicato il loro primo album).

Considerando la grande qualità di questi 27 minuti di musica, la scelta di diffonderlo gratuitamente appare ancora più coraggiosa: "Closure" è infatti un degnissimo seguito dell'ispirato e sofferto debutto "The Forlorn", e ne prosegue le coordinate introducendo però alcuni elementi nuovi: per la prima volta nella storia della band fa capolino la voce in clean, usata in modo anche massiccio, la produzione migliora e le composizioni si distaccano sempre più dalla matrice black metal che contaminava pesantemente il loro album di debutto, avvicinandosi maggiormente al death metal progressivo di stampo Opeth. Anche qui gli echi di Akerfeldt e compagni sono molto forti, non si può negare che gli Ikuinen Kaamos abbiano preso molta ispirazione dagli Opeth. Come ho già detto per "The Forlorn", tuttavia, il gruppo non manca di personalità e di idee validissime, che bastano per promuoverlo a pieni voti. Solo tre tracce per questo piccolo gioiello che non ha visto la luce nel modo che avrebbe dovuto. L'opener "Closure" sorprende subito per il cantato pulito, alternato al growl che alterna tra profondo e lancinante. La struttura del brano è piuttosto ripetitiva se rapportata alla durata di nove minuti, ma la tecnica è come sempre sopraffina, le melodie interessanti e gli assoli e fraseggi di chitarra superlativi. Ottimo il finale dissonante e insistente, che per certi versi mi ha ricordato la bellissima parte conclusiva di "April Ethereal" degli Opeth. La seguente "Your Gallows" è un pezzo più tecnico ed elaborato, ricchissimo di riff di chitarra e tecnicismi ritmici, mentre è con la conclusiva "The Absence" che il disco raggiunge il suo culmine: un epico viaggio di oltre dodici minuti nella malinconia più spinta, interpretato magistralmente da un cantante ora capace di passare dalla dolcezza del clean allo screaming più rabbioso. La progressione è un crescendo di emozioni, partendo dagli arpeggi ascendenti dell'introduzione, continuando con un breve break acustico dalla tristezza disarmante, che poi riesplode in una cavalcata chitarristica da togliere il fiato. Un magistrale assolo di chitarra finale chiude con un'odissea di terzine un album breve ma intenso, che solo per una serie di sfortunate coincidenze non ha ricevuto gli onori e la promozione che avrebbe meritato. Onore agli Ikuinen Kaamos, che oltre ad aver prodotto un dischetto di altissima qualità, hanno pure deciso di rilasciarlo gratis. Complimenti vivissimi a questa talentuosa e onesta band.

NOTA. Un aggiornamento è doveroso: sul sito www.last.fm è ora possibile trovare anche "The Art Of Letting Go", una delle tre tracce escluse dalla pubblicazione di questo EP. Mi sento di dire, senza timore di smentita, che è forse il miglior pezzo mai scritto dagli Ikuinen Kaamos: un riff iniziale in 10/4, così nervoso e violento da far incattivire, un proseguimento ricco di assoli, linee melodiche malinconiche e sprazzi di rabbia, un emozionante break cantato da una voce femminile profonda e tonante, un finale parossistico che ci lascia storditi e ammaliati da tanta potenza. Rimane da spiegare come mai non sia stato reso disponibile prima, così come non sono stati resi disponibili "For I Fell" (un altro ottimo pezzo che sono riuscito a reperire con fatica) e la versione originale di "Statues", poi ripubblicata sul seguente "Fall Of Icons" e del tutto introvabile nella sua versione originale. Ma non facciamoci troppe domande: in qualche modo abbiamo recuperato l'80% di questo splendido album, per non dire quasi il 100%, e questo non può essere interpretato altrimenti che un regalo dal cielo, vista l'eccelsa qualità della musica in questione.

01 - Closure (8:58)
02 - Your Gallows (6:20)
03 - The Absence (12:30)

domenica 21 novembre 2010

Void Of Silence - "Human Antithesis"

Code666, 2004
Negatività, dissonanza, senso di vuoto esistenziale, continua tensione malefica, aggressività repressa. Questo è il superbo cocktail di elementi che si possono trovare in questa formidabile release dei romani Void Of Silence, dopo due ottimi dischi che avevano fatto conoscere la band al pubblico come fautrice di un doom metal apocalittico e pesantemente contaminato dalle sonorità industrial. "Human Antithesis" è un concentrato di rabbia e sfiducia totale nel genere umano, un concept album sulla distruzione dell'umanità (con un occhio di riguardo per il secondo conflitto mondiale: basta ascoltare l'intro del primo lunghissimo brano, consistente in undici messaggi in codice rilasciati ai partigiani tramite Radio Bari nel 1943). Le sonorità sono diventate meno furiose e più ragionate, le atmosfere si sono ulteriormente appesantite e si sono fatte davvero soffocanti, e non meno importante in questo album abbiamo il contributo di Alan Nemtheanga, cantante degli irlandesi Primordial. Cosa ci fa l'evocativa voce di un gruppo black - epic metal in un disco di doom metal freddo e cerebrale come questo? La contraddizione può apparire molto stridente, ma in realtà il nostro Alan rivela di trovarsi perfettamente a suo agio anche in questo contesto, regalando una prova vocale davvero notevole (sia nel clean, stranamente molto frequente, che nel meno usato growl e scream). La musica è come al solito apocalittica, generalmente lenta ma ricca di variazioni e cambi di tempo, ripiena di una grande quantità di campionature e sovraincisioni rumoristiche. Le chitarre, pur potenti e distorte che siano, non sono quasi mai le protagoniste del sound. In primo piano ci sono proprio le campionature e la voce del singer, che declama sfiducia e odio completo verso qualunque forma di vita e in particolare verso Dio, a volte sussurrando così sinistramente da far venire i brividi. Basta ascoltare le prime parole dell'interminabile "Human Antithesis":

This is where the dream ends 
where the soul of every man and woman is broken
where you carry your crippled children in hope of salvation
and you will lay them down to die
for salvation does not come
And the worth you have placed upon your life is finally revealed as nothing

Non traspare nemmeno una traccia di speranza nella musica del gruppo, e come si può facilmente evincere dalla lettura di quanto sopra, i testi non fanno che confermare questa loro attitudine. L'atmosfera è sempre gelida e nichilista, talvolta arricchita sapientemente da qualche nota di pianoforte, cori ecclesiali, serie di arpeggi acustici "metallici" o rintocchi di campane: piccoli ma costanti elementi di abbellimento che fanno la differenza tra un buon disco ed un capolavoro, in quanto un disco come questo non può definirsi altrimenti, se non altro solo per l'eccezionale cura dei dettagli e delle sfumature, che non avrei saputo immaginare in veste più perfetta. A tutto ciò si aggiungono strutture sempre progressive e mutevoli, nelle quali raramente c'è un passaggio ripetuto: i brani rappresentano veri e propri viaggi allucinati all'intero degli orrori umani, sterminati e potenzialmente infiniti, proprio come appaiono le varie tracce

Non voglio citare un brano piuttosto che un altro, vista l'eccelsa qualità di ciascuno di essi: tuttavia merita una citazione la conclusiva "CXVII". Una voce posseduta declama una versione modificata del canto numero 118 di Baudelaire ne "I Fiori Del Male", riguardante il tradimento di San Pietro nei confronti di Gesù. Gelide chitarre acustiche duettano con tastiere distanti e severe, regalandoci una perla di folk apocalittico di notevole spessore, una perfetta dimostrazione conclusiva delle capacità di questa band. Lode agli italiani Void Of Silence!

01 - Human Antithesis (20:15)
02 - Grey Horizon (7:20)
03 - Untitled (1:09)
04 - To A Slicky Child (11:54)
05 - Dark Static Moments (15:36)
06 - CXVIII (4:50)

sabato 20 novembre 2010

Agalloch - "Of Stone, Wind And Pillor"

The End Records, 2001
Un cervo si abbevera in uno scenario dalla tonalità completamente marrone, in mezzo ad alberi e arbusti fittamente intrecciati. Questa è l'immagine che gli Agalloch hanno scelto per la loro prima release in edizione limitata, immediatamente successiva allo stratosferico debutto "Pale Folklore", che con il suo suono acerbo e grezzo mostrava tuttavia una band piena di idee e di passione, tale da far sembrare che suonassero da chissà quanti anni. Non era passata inosservata l'ottima capacità degli Agalloch di combinare attitudine gothic metal, melodie inesauribili, un'evidente propensione verso le atmosfere dark e "naturalistiche",  e infine un particolarissimo growl - scream sussurrato che ogni tanto si trasforma anche in un splendido clean. 

Questo "Of Stone, Wind And Pillor" è un EP limitato a 2500 copie, quindi oggi non è facile da trovare, come spesso succede alle cose più interessanti. Il disco raggruppa, in poco più di venti minuti, cinque tracce (alcune provenienti da vecchi demo) di cui due strumentali e una cover dei Sol Invictus, la cantilenante "Kneel To The Cross". Questo dischetto rappresenta l'ideale ponte di collegamento tra il debutto "Pale Folklore" e il disco che sarebbe uscito di lì a breve, l'acclamato "The Mantle", nel quale i ragazzi dell'Oregon avrebbero dato più spazio alle parti acustiche ed atmosferiche rispetto a quelle elettriche. Qui troviamo alcune gustose anticipazioni del sound che verrà: escludendo la buona title track, un pezzo in pieno stile Agalloch che avrebbe potuto benissimo stare su "Pale Folklore", le novità sono le tracce strumentali e introspettive, piuttosto che la violenza sonora (che comunque su "Pale Folklore" era sempre ben calibrata e ragionata). Andiamo dunque a scoprire maggiormente il lato "tranquillo" degli Agalloch. La breve "Foliorum Viridum" si regge su un meraviglioso connubio tra archi, pianoforte e fiati, mentre "Haunting Birds" è un pezzo per due chitarre acustiche, malinconiche e ripetitive, nel quale fanno capolino anche i rumori di uno scoppiettante falò. Non si può concepire la musica degli Agalloch senza continui rimandi alla natura, agli spiriti del bosco, alla bellezza di paesaggi dimenticati. Dopo l'interessante cover, dalla bellissima introduzione che ripete con insistenza "Summer is a coming - in: Arise! Arise!", facendolo sembrare proprio un rituale religioso pagano), chiudiamo il cerchio con "A Poem By Yeats", una poesia dell'omonimo autore recitata da una voce profonda e ispirata, a metà tra un canto religioso e una recitazione vera e propria. Il tappeto strumentale in sottofondo, anch'esso ricco di strumenti classici, ha un sapore epico e come carattere potrebbe ricordare una colonna sonora di un grande kolossal cinematografico. Forse una produzione più appropriata avrebbe giovato agli strumenti, facendoli risaltare maggiormente, ma la musica non perde il suo fascino anche se leggermente in sordina.

Un pianoforte quasi impercettibile chiude questo piccolo ma significativo EP e dimostra l'eccellente livello artistico e compositivo degli Agalloch, una band che in un modo o nell'altro riesce sempre a fare breccia nei cuori dei suoi ascoltatori. Un pezzo da collezione, da custodire gelosamente.

01 - Of Stone, Wind And Pillor (7:00)
02 - Foliorum Viridum (2:42)
03 - Haunting Birds (3:44)
04 - Kneel To The Cross (Sol Invictus cover) (5:54)
05 - A Poem By Yeats (4:06)

venerdì 19 novembre 2010

Shape Of Despair - "Angels Of Distress"

Spikefarm Records, 2001
C'è una storia particolare dietro questo album, una storia che non posso esimermi dal raccontare mentre mi accingo a recensirlo. Ovviamente parlo a livello personale: ricordo ancora quando, da giovane metallaro imberbe e inesperto, mi affacciai timidamente al negozio di dischi e chiesi di quello che sarebbe poi diventato il mio album preferito, la colonna sonora della mia vita. Era il 2002, e gli Shape Of Despair, capitanati da Jarno Salomaa, avevano finora pubblicato solo un disco, il crepuscolare "Shades Of...": esso era programmaticamente ripetitivo e freddo, ma terribilmente affascinante nel ricreare atmosfere nebbiose e desolate. Con quell'album, i finlandesi si erano già ritagliati un posto di rilievo nella scena funeral doom, ormai affermata da qualche anno e in continua crescita, ma ancora bisognosa di evocare tutto il suo potenziale. Tuttavia, non ero a conoscenza dell'esistenza di quell'album, per me esisteva solo "Angels Of Distress", che volevo assolutamente procurarmi poiché ero rimasto incuriosito da una recensione che lo dipingeva come capolavoro del genere.

E così, spendendo un quantitativo di denaro irrisorio se paragonato a ciò che avrei poi guadagnato in termini personali dall'ascolto di tale album, me lo sono ritrovato tra le mani. L'emozione che provo oggi quando ascolto le prime note di tastiera in "Fallen" è ancora la stessa di quella che provai la prima volta: un senso di vaga angoscia, di oppressione che tuttora non riesco a mitigare, anche dopo mille ascolti. Bastano poche decine di secondi prima che un urlo disumano apra le danze, ma si parla di danze lente, molto lente, consumate senza fretta tra rintocchi di batteria lugubri e accordi riversati da una chitarra distortissima. L'eterea voce di Natalie Safrosskin, utilizzata come un mero strumento musicale poiché non pronuncia alcuna parola di senso compiuto, cerca di contrastare l'infernale incedere di questo brano introduttivo, ma l'effetto è contemporaneamente quello di rendere l'atmosfera ancora più fredda, in cui le emozioni sono distanti, ovattate, senza respiro. Lentamente il brano prosegue sui suoi binari, variando di poco, fino all'epilogo nel quale una voce pesantemente distorta declama versi emblematici:

"I've lost my strenght
I've lost my sanity
I've seen myself falling
And I'm tired to stand"

Rabbrividendo, le ultime note di tastiera sfumano e ci lasciano un breve attimo di silenzio, ma non abbiamo il tempo di rimuginare su quanto ascoltato, poiché parte subito la devastante "Angels Of Distress", vero colpo al cuore per gli amanti delle sonorità sontuose e malinconiche. Una melodia elementare ma vibrante è ripetuta diverse volte in un crescendo magistrale di strumenti: prima solo i violini, il basso e la batteria: poi si aggiungono le chitarre, poi un coro femminile intenso ed elegiaco, fino all'entrata del mostruoso growl di Pasi Koskinen, vero lamento di dolore dagli Inferi, che squarcia la bellezza della trama strumentale come una mano armata di pugnale maledetto. L'infinita tristezza del brano viene così amplificata nettamente, evolvendosi e turbinando con variazioni piccole ma significative, tra cui uno stacco di sole tastiere che pare un volo sull'oceano, con un cielo rosato e l'acqua perfettamente immobile. Gli angeli ci stanno incoraggiando a lasciarci cullare da loro, nell'ultimo addio: ed è ciò che saremmo tentati di fare, se non fosse che il brano sfuma tremolando, e questa sublime possibilità ci è negata.

Giungiamo quindi, sempre più abbattuti emotivamente, ad un lento pachiderma dalla durata di quasi quindici minuti, "Quiet These Paintings Are". Impossibile rimanere indifferenti alla delicatissima introduzione ad opera di pianoforte ed oboe, che improvvisamente aumenta di volume e tesse una melodia incantevole, come una dolce nenia che precede il trapasso. Ma prima di giungere alla liberazione finale, dobbiamo ancora soffrire per lunghi minuti, agonizzando. Ma è un'agonia piacevole quella che il brano ci costringe a subire, mentre veniamo avvolti da trame di archi in vibrato, intrecci vocali sublimi e ritmiche dalla pesantezza granitica, sempre lentissime e disperate. Più volte sembra che l'agonia sia terminata, in un'apparente morte del brano, ma altrettante volte veniamo ingannati, risvegliandoci dal torpore proprio nel momento in cui pensavamo di aver terminato la triste odissea. Una lieve accelerazione finale è come il canto del cigno per questa mastodontica opera d'arte, che non è da tutti riuscire a sopportare per la sua intera durata.

Ma chi pensa di aver dato tutto ciò che aveva da dare con l'ascolto del brano appena passato, deve ricredersi. I diciassette minuti e mezzo di "...To Live For My Death..." rappresentano un altro cimento. Questa volta veniamo salutati da suoni di tastiera prolungati ed eterei, quasi ultraterreni, che giostrano tra le note Do e Si con insistenza, lasciandoci fluttuare nel vuoto interstellare. Talmente bello è questo vagare nell'etere, che quasi ci dimentichiamo di aspettare uno sviluppo: ma dopo qualche minuto ecco che le note si abbassano di tono e ci avvolgono con un maestoso trionfo, da ascoltare con gli occhi chiusi e la mente proiettata verso l'infinito. La voce maschile pulita, novità assoluta per la band, si sposa ora con la voce femminile che finalmente scandisce il testo, in un momento magico che viene rotto come di consueto dall'entrata del growl, ferale e demoniaco. Per lunghi minuti il tema portante ci ammalia lentamente, penetrando in noi senza fretta, ma ecco che a metà brano c'è un cambio improvviso, con una melodia più acida e dissonante, dal sapore solenne e celebrativo. Non è finita, tuttavia: dopo averci sfiancato con la sua ragionata prolissità, il pezzo si chiude con tristissimo e solitario violino che giunge del tutto inaspettato, commuovendo immediatamente anche gli animi più insensibili. Cosa aspettarci dopo una tale smisurata prova di forza, che ci ha ormai schiacciati sotto tonnellate di lacrime e dolore?

Miracolosamente, in chiusura riusciamo a godere di un po' di luce, dopo un tale viaggio nel buio più desolante. La conclusiva "Night's Dew" è una strumentale che tiene ritmi più veloci, come un'ultima corsa nella quale ridere e piangere contemporaneamente, fermandosi ogni tanto ad osservare la bellezza di un paesaggio innevato all'alba: ciò è simboleggiato alla perfezione dai mirabili intrecci di tastiere ascendenti e discendenti che sapranno far sognare a lungo l'indomito ascoltatore che sarà riuscito ad arrivare fino in fondo. Con un ultimo richiamo di questa stupenda melodia, lentamente tutti gli strumenti sfumano e ritorniamo nel mondo vero, sconsolati ma stranamente felici.

"Così tra questa immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare."


01 - Fallen (6:09)
02 - Angels Of Distress (9:43)
03 - Quiet These Paintings Are (14:40)
04 - ...To Live For My Death... (17:21)
05 - Night's Dew (7:00)

Dead Wish - "From The Land Of Forgotten Graves"

Autoprodotto, 2004
Una bella sorpresa questi Dead Wish, band turca (!) esordiente, che già all'inizio della propria carriera discografica mostra ottime potenzialità e un gusto melodico a dir poco sopraffino. Questa demo release, risalente all'ormai lontano 2004, contiene solo dodici minuti di musica, ma come si suol dire "la qualità vale più della quantità": si tratta infatti di dodici minuti intensi, ricchi di contenuti e di sentimento, spontanei e commoventi. Non sappiamo ancora se e quando uscirà un album di questi quattro ragazzi di Ankara, che erano partiti come one man band e poi si sono progressivamente allargati, ma se le premesse sono queste c'è da aspettarsi un ottimo lavoro.

"From The Land Of Forgotten Graves" contiene cinque brevi pezzi, tutti interamente strumentali, intrisi di malinconia profonda e di melodie ficcanti, esaltate dall'uso di una vasta timbrica chitarristica. La matrice appartiene al doom metal, ma di natura "leggera" e non aggressiva, piuttosto introspettiva e lontana dalla negatività angosciosa che spesso caratterizza il doom moderno. Si notano anche chiaramente echi di musica mediorientale, e non potrebbe essere altrimenti vista la provenienza della band: una dimostrazione che il metal è veramente una musica trasversale, che può essere applicata a qualsiasi filone e a qualsiasi influenza, senza sfigurare praticamente mai.

I trentatrè secondi acustici di "In The Mist" portano alle due tracce cardine, "Pale Rose Serenade" e "A Kiss For The Dead", sapientemente alternate tra tristi e sconsolati passaggi acustici e ragionate esplosioni di chitarra elettrica, che non stordiscono nè pestano duro, ma ammaliano solamente. Melodie semplici e dirette che arrivano dritto al cuore, questo è quello che troviamo nella musica dei Dead Wish. Pur nella loro brevità, le due canzoni sono molto varie e crescono costantemente, denotando un'ottima capacità di songwriting che si spera verrà sfruttata in futuro per l'uscita del primo full - length. Segue l'interessante "Same Dream", se possibile ancora più sconsolata e malinconica con il suo andamento cantilenante, e la breve outro acustica "Speculum Amoris", che lascia una netta sensazione di incompiutezza e di vacuità, non della musica ma della vita stessa. Speriamo che finalmente esca il loro primo album, perchè il talento c'è. Sarebbe un peccato che si fermasse tutto a questa piccola gemma dimenticata nell'immenso panorama dell'underground.

01 - Into The Mist (0:33)
02 - Pale Rose Serenade (3:43)
03 - A Kiss For The Dead (4:03)
04 - Same Dream (2:11)
05 - Speculum Amoris (1:25)

giovedì 18 novembre 2010

Pain Of Salvation - "BE"

InsideOut Music, 2004
Non si sa mai cosa aspettarsi dai Pain Of Salvation. Nel corso di una carriera ormai lunga e ricca di soddisfazioni, costellata di ottimi dischi e perfino qualche vero e proprio album - icona del progressive metal, gli svedesi hanno cambiato costantemente direzione, evolvendo il loro sound e talvolta arrivando perfino a stravolgerlo, come abbiamo potuto notare specialmente negli ultimi anni. Questo "BE", datato 2004, è un concept album che segna una nettissima svolta stilistica da parte della band, dopo che aveva partorito due eccellenti dischi progressive metal vario, elaborato ed emozionale come "The Perfect Element pt.1" e "Remedy Lane". Dopo quest'ultimo era logico aspettarsi una continuazione della serie, ma il mastermind Daniel Gildenlow ha optato per un cambiamento radicale, che ha fatto storcere il naso a non pochi fan storici. Vediamo perchè e vediamo innanzitutto di che cosa tratta questo "BE", dato che nella musica dei Pain Of Salvation non si può mai scindere il contesto dalla musica (praticamente ogni loro disco è un concept album, ossia un album con un filo conduttore comune).

"BE" si presenta come album che vuole indagare le profondità della vita, del rapporto dell'uomo con Dio o più in generale con la divinità, e lo fa presentando una storia piuttosto semplice ma di grande effetto: una nuova divinità scopre di essere venuta al mondo, non riesce a ricordarsi di non essere mai esistita, quindi deve esserci sempre stata. Ma cosa fare ora? Semplice: passare tutto il resto della vita a scoprire chi è. Per farlo crea gli uomini, a sua immagine e somiglianza, sperando che essi possano aiutarla a capire meglio, ma gli uomini non faranno che distruggersi a vicenda e rovinare il pianeta in cui vivono, fino al completo annichilimento dell'umanità, che rinascerà poi per effetto di un altro Dio, in un ciclo apparentemente senza fine. Questo a grandi linee: il concept è vasto, in alcuni punti molto nebuloso, e questa è solo una delle interpretazioni che si possono dare. Numerosi personaggi si susseguono nell'album: Animae, la divinità neoformata; Imago, la personificazione dell'anima di gruppo terrestre; Mr. Money e Dea Pecunia, che incarnano il lato più materialistico e spregevole dell'umanità; Nauticus, satellite artificiale superintelligente che cerca di salvare l'umanità da se stessa. Un concept in ogni caso molto ambizioso e profondo. E la musica com'è, visto che ha fatto tanto discutere?

Bisogna dire subito che con "BE" i Pain Of Salvation si distaccano quasi totalmente dal metal propriamente detto. Le chitarre distorte e i pesanti riff che contraddistinguevano "One Hour By The Concrete Lake", ad esempio, sono ancora presenti ma occupano solo una piccola parte della totalità del disco. In questo album ci sono influenze da quasi ogni genere musicale esistente: dal gospel al folk, dalla musica sacra al rock, dal blues al musical in stile hollywoodiano. C'è il rischio di perdere un pò la bussola, essendo costretti a destreggiarsi tra così tanti generi diversi, ma gli svedesi sanno fare bene il loro lavoro e confezionano un album curatissimo, di livello qualitativo eccelso, vario come pochi e mai pacchiano. Vediamo di analizzare traccia per traccia l'album, così da rendere meglio l'idea. "Animae Partus" (belli i titoli in latino!) è un semplice preludio parlato dove Animae spiega all'ascoltatore le sue origini divine e ciò che ha cercato di fare creando l'umanità. "Io sono!" afferma con protervia. Presto gli strumenti iniziano a parlare in "Deus Nova", accompagnati dai musicisti dell' "Orchestra Of Eternity" che per buona parte dell'album suonano insieme alla band. Un intro epico, potente e ben ritmato, con una voce in sottofondo che declama l'evoluzione della popolazione mondiale nel corso dei secoli. Quando arriviamo ai sei miliardi e ottocento milioni di persone odierni, la musica improvvisamente tace e riprende la parola Animae, per poi introdurci nella splendida ballata folk "Imago", dove protagonista è il mandolino. Una vera sorpresa per chi si aspettava un'altra "Inside". Daniel canta con voce allegra e giocosa, presentandoci le quattro stagioni dell'anno su una base ritmica ricchissima e sincopata. "Pluvius Aestivus" è invece un brano di solo pianoforte, dolce e sognante, perfettamente adatto ad interpretare la pioggia che cade incessantemente e piano piano forma oceani, laghi e fiumi in una Terra ancora primordiale. Dopo questo intermezzo pianistico, superbamente accompagnato da sezioni di archi, arriviamo alla prima vera canzone "metal" dell'album, "Lilium Cruentus". Gli uomini iniziano a rendersi conto che non è tutto rose e fiori, ma esiste anche la morte. "La vita pare sempre troppo breve quando la Morte richiede il suo obolo". Ciò viene espresso da un riffing piuttosto appesantito, mentre Daniel regala un'ottima prova vocale (come è suo solito) dimostrando grande espressività e perfino un certo gusto "rap" e crossover. Il finale accelera e diventa roboante, ma ciò che ci aspetta dopo è invece mesto e cantilenante: "Nauticus" è infatti un brano per sola chitarra acustica, volutamente sgraziata e approssimativa, accompagnata da cori gospel distorti. Sia la musica che la voce comunicano un grande senso di precarietà e incertezza: "Oh Signore, ascolterai la preghiera di un peccatore?". Non è dato sapere. Dopo una breve parte recitata, inizia il brano più lungo dell'album "Dea Pecuniae". Un brano gospel di dieci minuti, riccamente elaborato e diviso in tre parti, nel quale Daniel si prodiga in un'interpretazione superba del ricco e spocchioso Mr. Money, convinto di poter dominare il mondo intero grazie ai suoi soldi e all'ibernazione, per cui spende e spande sperando di diventare un giorno immortale. Nessuna chitarra distorta, ma tantissimi strumenti e voci che si intersecano uno sull'altro in un crescendo magistrale, dal sapore apparentemente scherzoso ma in realtà drammatico. "Ho un team vincente: Me, Me Stesso ed Io". Simbolo del materialismo odierno. Il breve intermezzo interno "Permanere" introduce al finale, talmente esagerato e funambolico da far quasi perdere la bussola all'ascoltatore. E improvvisamente...la calma. "Vocari Dei" è un dolcissimo brano per pianoforte, chitarra classica e batteria, che in sottofondo reca numerose telefonate di persone che cercano di parlare con Dio (nella fase di preparazione del disco, infatti, i fan sono stati invitati a telefonare ad un numero e dire tutto quello che avrebbero voluto dire a Dio. I risultati sono stati poi incisi su "BE"). C'è chi piange, chi ride, chi si lamenta, chi fa domande esistenziali. Notevole idea e notevole anche il brano, che pur nella sua semplicità risulta molto toccante. Cambiamo decisamente registro con "Diffidentia", toccando il lato più oscuro dell'umanità: ecco, Dio, come hai ridotto il mondo! Un riff pesantissimo e dissonante, accompagnato da archi inquietanti, esprime rabbia e sfiducia da ogni poro. "Se mi vuoi morto, sono qui, Dio!". L'uomo ha perso la strada, ha abbandonato il contesto della vita, riducendosi ad un insieme di "pezzi di pezzi, impossibili da rimettere assieme". Canzone non particolarmente varia, ma di grande impatto. La seguente e metallica "Nihil Morari", che vive su uno spettacolare riff di basso e sullo stesso tema di "Deus Nova", rappresenta invece l'inizio della consapevolezza che il mondo sta per finire, che di questo passo "non rimarrà nulla". Brano potente, giostrato tra accelerazioni parossistiche e momenti più riflessivi. Si giunge quindi a due tracce quasi strumentali, "Latericius Valete" e "Omni": la prima basata su un piacevole riff acustico, la seconda su un eccezionale organo ecclesiale (vero!) accompagnato da un breve ma intensissimo canto di Daniel, che spera che almeno il satellite artificiale Nauticus possa salvare l'umanità dalla deriva in cui si è cacciata. La storia sta per concludersi e arriviamo al capolavoro "Iter Impius", una semi - ballad per pianoforte e chitarra elettrica, nella quale Daniel realmente supera se stesso interpretando Mr. Money, che si sveglia dopo il coma criogenico e si accorge di essere diventato sì immortale, ma anche di essere rimasto da solo sulla Terra a governare polvere e rovine. "Ruler of Ruin". Incredibile il sentimento che Daniel mette nella voce, ora esprimendo tristezza, ora disperazione, ora rabbia impotente "Non attraverserò mai quella linea, rimarrò qui, da solo, a governare queste rovine". Il brano cresce lentamente nella sua drammaticità, fino ad esplodere in una parte elettrica memorabile e in un finale in crescendo che assicura numerosi brividi lungo la schiena. Uno dei migliori pezzi, se non il migliore, partoriti dai Pain Of Salvation. E dopo quest'epopea cosa arriva? Difficile dirlo. "Martius Nauticus II" riprende i temi di "Imago" e "Pluvius Aestivus" su una base fortemente ritmica e folkloristica, declamando la nascita di un nuovo Dio, che ora vede tutto, è ogni cosa, è tutta la viva ESSENZA. L'umanità che rinasce dalla sue ceneri. Dopo un brano così drammatico come "Iter Impius", questo appare quasi come uno scherzo. Ma non c'è trucco: una volta dato l'ultimo battito sui tamburi, Animae declama nuovamente "Io Sono!". E si riparte da capo...

Che dire in estrema sintesi? Sicuramente "BE" è un album complesso, controverso, molto difficile da capire e da assimilare, che rompe qualsiasi schema precostituito e riporta la musica sui binari dell'espressione artistica libera. Mischiare così tanti generi musicali diversi, abbandonando in gran parte il metal, è una scelta sicuramente coraggiosa, che ha esposto il gruppo a numerose critiche ma che gli ha anche permesso di esprimere al meglio la loro vena sperimentale e innovativa. Un album da vivere e da scoprire, meditando sui testi (cosa assolutamente indispensabile se si vuole capirlo) e assaporando ogni suono, gustandone l'incredibile qualità e ricercatezza. Per farla breve, non posso fare altro che etichettarlo come Capolavoro con la C maiuscola. E per chi non ne fosse convinto, consiglio di guardarsi il DVD, registrato dal vivo insieme all'orchestra. Le sorprese non mancheranno...

01 - Animae Partus (I Am) (1:48)
02 - Deus Nova (3:18)
03 - Imago (Homines Partus) (5:11)
04 - Pluvius Aestivus (5:00)
05 - Lilium Cruentus (Deus Nova) (5:28)
06 - Nauticus (Drifting) (4:59)   
07 - Dea Pecuniae (10:10)   
08 - Vocari Dei (3:50)
09 - Diffidentia (Breaching the Core) (7:37)
10 - Nihil Morari (6:21)
11 - Latericius Valete (2:28)
12 - Omni (2:37)
13 - Iter Impius (6:21)
14 - Martius Nauticus II (6:41)
15 - Animae Partus II (4:09)