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sabato 27 novembre 2010

Agalloch - "The Mantle"

The End Records, 2002
Colline verdi e greggi di pecore, montagne innevate e profondi canyon, un pastore che cammina in solitaria reggendo il suo vecchio bastone. La potenza della natura che erode la roccia con forza spaventosa, facendo crollare su di essa tonnellate d'acqua ogni secondo. Sole, Luna, alberi e foreste, il tutto popolato da gnomi che lavorano alacremente per mantenere il delicato equilibrio della natura. Queste sono solo alcune delle immagini che possono venire in mente ascoltando il secondo full - lenght degli statunitensi Agalloch, che dall'Oregon ci regalano da anni dischi superlativi e profondamente ispirati dalla bellezza e dalla forza della natura. Dopo l'ottimo esordio di "Pale Folklore", che definiva il loro sound come un'interessante commistione di influenze gothic - doom, post - folk e qualche lieve spruzzata di black metal, il tutto amalgamato in maniera molto personale, questi quattro ragazzi si evolvono e vanno a produrre quello che è sicuramente l'album più bucolico e rilassato della loro carriera, il più vicino al concetto di "natura" in senso stretto, il più atmosferico ed evocativo.

Contrariamente alla linea "dura" che sarebbe seguita con la pubblicazione del roccioso "Ashes Against The Grain" e dell'ultimo nebuloso "Marrow Of The Spirit", in questo album gli Agalloch esplorano lidi di tranquillità e pace, grazie ad un massiccio uso delle chitarre acustiche e di sonorità calde e avvolgenti, sempre estremamente armoniche e mai dissonanti o stridenti. Brani lunghi, complessi, ricchi di sfumature dolcissime ma anche di parti ruvide e veloci, in costante incrocio tra una spiccata matrice folk e un gusto canoro black metal, espresso dal particolarissimo screaming sussurrato di John Haughm. Lungo l'intero album si respira una dolcezza soffusa, un senso di commistione con la natura nel suo significato più profondo, quello che si potrebbe provare ascoltando il ticchettio della pioggia che si infrange sul tetto di un rifugio montano. Ne è un ottimo esempio la lunghissima "In The Shadows Of Our Pale Companion": 14 minuti e 45 secondi di melodie malinconiche, lenti assoli di chitarra costantemente accompagnati dalla chitarra acustica, voce che passa dal sussurro rauco degli spiritelli del bosco fino alla voce pulita, limpida e solenne come l'acqua che sgorga da una cascata. Un tributo al muschio che cresce sugli alberi, alle foglie che cadono d'autunno, a qualsiasi cosa possiate immaginare riguardante la natura e la sua bellezza, poichè attraverso gli strumenti pare quasi di sentire il vero fruscio delle foglie, specialmente negli stacchi dove le due chitarre, acustica ed elettrica, suonano entrambe senza distorsioni e ammaliano irrimediabilmente. Ascoltare questo brano in cuffia, camminando per un bosco (come io ho fatto) è un'esperienza purificatrice, che porta quasi a voler abbracciare alberi e piante per dimostrargli il rispetto che meritano. Memorabile anche il testo, dove troviamo versi toccanti e poetici come "If this grand panorama before me is what you call God, then God is not dead". Pura introspezione, intrisa di una delicatezza illimitata e struggente.

I brani strumentali sono numerosi, ma non hanno una funzione riempitiva o preparatoria, bensì sono episodi a sé, perfettamente calati nel loro contesto. La psichedelica e sognante "Odal" è chiusa da un pianoforte malinconico e ammaliante; l'ipnotico interludio acustico "The Lodge", nella quale si sente una percussione che è prodotta da un vero cranio di cervo, è capace di far viaggiare con la mente grazie alla sua programmatica ripetitività; la ben ritmata e variegata "The Hawthorne Passage" potrebbe invece simboleggiare una corsa in un bosco popolato da alberi secolari. Chiudono il disco due semi - ballad quasi interamente acustiche: "And The Great Cold Death Of The Earth" è quasi un inno, da cantare attorno a un falò scoppiettante mentre la notte cala sulle montagne vicine, mentre "A Desolation Song", accompagnata da una dolce fisarmonica, ci saluta con le lacrime agli occhi, declamando una tristissima nenia di sfiducia verso l'uomo, incapace di amare come dovrebbe. "For love is the poison of life".

Più che un album, "The Mantle" è un vero e proprio inno alle potenze creatrici, al panteismo e all'adorazione verso la Terra, intesa come essere vivente e non solo come luogo dove la specie umana ha trovato riparo. La filosofia degli Agalloch è racchiusa perfettamente nella frase stampigliata sopra il CD, ed è la chiave di lettura per comprendere un disco tanto raffinato e poetico come questo:

"The happiest man is he who learns from nature the lesson of worship".

Da scoprire.

01 - A Celebration For The Death Of Man... (2:24)
02 - In The Shadows Of Our Pale Companion (14:45)
03 - Odal (7:39)
04 - I Am The Wooden Doors (6:11)
05 - The Lodge (4:40)
06 - You Were But A Ghost In My Arms (9:14)
07 - The Hawthorne Passage (11:18)
08 - ...And The Great Cold Death Of The Earth (7:14)
09 - A Desolation Song (5:07)