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domenica 16 giugno 2013

Blood Of The Black Owl - "A Banishing Ritual"

Bindrune Recordings, 2010
Siamo in Nord America, in territorio pellerossa. Una fitta nebbia di fumo e trucioli ardenti sale dal falò che illumina la notte, scoppiettando come un calderone demoniaco. Un'anima nera si è impossessata di un uomo, è giunta l'ora di iniziare il rituale per bandirlo dal suo corpo, per purificarlo dal Male. Lentamente il fumo invade l'aria, le forme da esso create turbinano intersecandosi l'una nell'altra, i demoni si nascondono tra esse sbeffeggiando gli esseri umani. Un ossessivo pizzicare di corde che piano piano cresce d'intensità, un mormorio di fondo che rappresenta l'inespressa voce del demonio; per minuti e minuti ha inizio la fase preparatoria, l'Intento, che trova il suo compimento con l'entrata della batteria e delle percussioni, quasi foriere di un'allucinata danza shuffle. Maracas e piatti scandiscono il ritmo, ancora nessun vero strumento è giunto a produrre una singola melodia, ma ecco che compare un flauto tribale, seguito da un primo canto sciamanico recitato a bassa voce, come un lamento. L'Intento è completato, è giunto il momento dell'Asserzione di Volontà.

Un pastoso riff di chitarra distorta di stampo Black si accompagna ad un lento ritmo Doom, sconfinando nell'opprimente lentezza del Funeral Doom, fino ad un fluttuante stacco atmosferico dove predominano suoni prolungati di corni, mentre in fondo al calderone una voce gracchia incantesimi ormai dimenticati e conosciuti solo ai vecchi saggi. Una melodia di chitarra dal sapore quasi sereno ci fa percorrere un temporaneo sentiero di beatitudine, affiancandosi alla rugosità della chitarra ritmica che in questo caso non graffia più; la Volontà di liberare l'uomo posseduto si mostra nella sua positività, e inizia ora la parte più difficile: la lotta tra bene e male, per convincere lo spirito maligno ad albergare nel corpo di un cinghiale, per poi gettarsi a precipizio in acqua. Il Canto dello Spirito Catturato mostra la sofferenza che lega l'esorcista al demonio, uno teso a cacciare l'altro in una danza strumentale che mantiene sempre lo stesso ritmo e gioca su una melodia stridula e fischiante, quasi insopportabile nella sua ossessività. Un sottofondo di suoni strappati, laceri, di cori profusi dagli uomini seduti in cerchio attorno al fuoco nel tentativo di aiutare l'esorcista a compiere il suo difficile lavoro; e infine armonie dissonanti e malvage, che guardano direttamente in faccia il mostro, che si è nascosto nelle profondità dell'animo del posseduto. Con l'Espulsione Finale la scena si acquieta: il posseduto ha smesso di contorcersi, è caduto in uno stato di trance mistica, ha gli occhi completamente sbarrati. La sua anima è persa in un limbo, espresso alla perfezione da accordi di chitarra acustica radi e opachi, isolati in un mondo che non appartiene nè a quello dei vivi nè a quello dei morti. Per lunghissimi minuti si prosegue così, immobili nel tempo e nello spazio, tra voci eteree e quasi ragionevoli che duellano con i deboli ruggiti sotterranei del demone, il quale tenta di seppellirsi sempre più a fondo nella mente del dannato. Ma ecco che con un improvviso sforzo di volontà, l'esorcista spalanca le porte degli abissi e scova il mostro, rannicchiato e pronto a colpire: la lotta è feroce, all'ultimo sangue. Una pesantissima chitarra ritorna a dettare il tempo, una melodia spaventosamente ferale squarcia l'etere, un'arpa elettronica compone un substrato di terrore, e la batteria scandisce questo duello finale con incredibile partecipazione, crescendo sempre più in volume ed intensità. Il sordo ruggito del demonio si fa sempre più forte, le grida si fanno sempre più lamentose, un assolo di chitarra quasi malinconico si inserisce di soppiatto nella trama strumentale per aumentare la tensione; mentre le percussioni raggiungono lentamente il parossismo, la voce del posseduto si libra sempre più forte, sovrastando gli strumenti e le grida infernali, rimanendo infine a duellare solo con queste ultime. Un ultimo grido, questa volta solitario, si spegne nel nero della notte; il demone è cacciato, il rituale è compiuto.

Un disco da avere.

01 - Intent (Movement I) (13:12)
02 - The Statement Of Will (Movement II) (3:52)
03 - Chant Of The Captured Spirit (Movement III) (11:10)
04 - The Final Banishing (Movement IV) (13:10)

sabato 15 giugno 2013

Summoning - "Old Mornings Dawn"

Napalm Records, 2013
Sono passati ben sette anni da quando i Summoning pubblicarono il loro ultimo album, l'acclamato ed epico "Oath Bound" che venne presto considerato come uno dei massimi picchi artistici della band. Poi, più nulla: sembrava quasi che per il duo austriaco fosse arrivata l'ora di sparire dalle scene, forti di un sound ormai talmente consolidato da risultare quasi immodificabile, e di una discografia prolifica e di livello qualitativo sempre alto. Avrebbero potuto chiudere la loro parabola artistica senza rimorsi nè rimpianti, e il lungo periodo di silenzio lasciava sempre più dubbi sul fatto che prima o poi sarebbero effettivamente tornati: e invece eccoli qui, con un nuovo lavoro intitolato "Old Mornings Dawn", prodotto anche in edizione limitata a mille copie e contenente due tracce inedite in più. Il disco è nato già pronto per essere eviscerato e analizzato con particolare attenzione dai fan e dalla critica: la domanda non può essere che "sarà la stessa minestra riscaldata, oppure un inaspettato punto di svolta?"

Dopo averlo ascoltato bene, direi che propendo di più verso la prima ipotesi, ma con qualche riserva. "Old Mornings Dawn" si presenta infatti come il classico, classicissimo disco dei Summoning, un black metal epico e melodico, dai ritmi cadenzati e maestosi, ricolmo di tastiere ed effetti, capace di evocare alla perfezione le atmosfere descritte dai capolavori di Tolkien (scrittore al quale il gruppo si è sempre ispirato per la creazione della propria musica, e dal quale provengono anche buona parte dei testi). Rispetto agli ultimi lavori della band, anche se risalgono a molto tempo addietro, non è cambiato praticamente nulla: i più critici diranno, e a ragione, "sette anni di attesa per avere un disco uguale a tutti gli altri!". Certo, è vero che i Summoning non hanno mai fatto dell'evoluzione e della sperimentazione le loro principali bandiere: il loro manifesto ideologico è invece la coerenza, e i fan sanno bene che questo è ciò che possono aspettarsi da loro, nulla più e nulla meno. Con la parziale eccezione del primo album "Lugburz", ancora improntato al black metal diretto e scarno, e del breve extended play "Lost Tales" che aboliva le chitarre e le sostituiva unicamente con le tastiere, si può tranquillamente dire che i dischi dei Summoning sono tutti equivalenti, con variazioni non particolarmente significative tra uno e l'altro.

Clone senza idee, quindi, da bocciare senza appello? No, questo no. "Old Mornings Dawn", infatti, oltre ad essere un disco che ancora una volta fa sognare con la potenza delle sue atmosfere e delle sue evocative melodie, e che quindi sarebbe già un bel disco di per sè, mostra anche qualche minimo segno di cambiamento, qualche timida apertura verso sonorità diverse, qualche elemento di novità che lo distingue, seppur in minima parte, dai suoi predecessori. Si possono segnalare per esempio i respiri celtici di "Caradhras", nella quale compare un violino introduttivo che rappresenta una novità per la band; si fanno notare i cori di voci pulite, che acquistano uno spazio leggermente maggiore e che non vengono usati solamente per sottolineare la drammaticità del brano di chiusura, come accadeva nei precedenti lavori; inoltre, la vera star del disco è a mio parere la produzione. Più grezza, più sporca, più ruvida e approssimativa, con suoni di batteria più secchi e chitarre più abrasive (ascoltate per esempio il riffing di "The White Tower") rappresenta un'inversione di tendenza rispetto alla raffinatezza di "Oath Bound" e anche di "Let Mortal Heroes Sing Your Fame", preferendo invece un sound crudo e rugoso che esalta il sapore antico e leggendario delle composizioni dei Summoning. Con questi piccoli elementi in più, sommati alla consueta classe e maestria del duo austriaco, ecco che un nuovo disco è ampiamente giustificato ed è più difficile da considerare come un semplice disco fotocopia. Con questo non voglio dire che in "Old Mornings Dawn" si trovi materiale imperdibile, nè tantomeno innovativo: semplicemente, è un disco che potrà piacere sia ai fan storici (che sono sempre contenti di avere del nuovo materiale da parte della loro band preferita), sia a chi si avvicina per la prima volta a loro, essendo che comunque la coerenza stilistica è mantenuta e non ci sono stravolgimenti che possano ingannare un neofita.

Chi ama farsi avvolgere dall'epos e dalla pomposità, lasciando che la musica pennelli liberamente paesaggi fantastici e viaggi interminabili attraverso terre mitiche, troverà un buon motivo per acquistare "Old Mornings Dawn", passando sopra al fatto che i Summoning avrebbero potuto anche impegnarsi un po' di più, considerato tutto il tempo che hanno avuto a disposizione. Ma ormai ci siamo affezionati a loro per quello che sono, perché chiedergli di cambiare? Squadra che vince non si cambia, anche se la vittoria a volte può essere un pelo ripetitiva. Questo i Summoning l'hanno capito bene, non c'è dubbio.

01 - Evernight (2:49)
02 - Flammifer (7:08)
03 - Old Mornings Dawn (9:30)
04 - The White Tower (9:36)
05 - Caradhras (9:32)
06 - Of Pale White Morns And Darkened Eyes (8:22)
07 - The Wandering Fire (8:02)
08 - Earthshine (9:33)

mercoledì 12 giugno 2013

Abstract Spirit - "Theomorphic Defectiveness"

Solitude Productions, 2013
Continua la carriera dei russi Abstract Spirit, uno dei gruppi più catacombali ed asfissianti che siano mai stati partoriti da mente umana, se non probabilmente il più estremo in questa categoria. "Theomorphic Defectiveness" è il loro quarto album in studio, ed è l'album della conferma, la dimostrazione di tutti quelli che sono i pregi e i difetti della band: dopo averlo ascoltato, infatti, sono sicuro di poter dire che la band ha raggiunto un proprio plateau artistico dal quale ormai difficilmente potrà staccarsi in modo significativo. Chi li apprezza così come sono, ne rimarrà soddisfatto come in passato, ma chi sperava in una qualche evoluzione della band così da poterla approfondire meglio in futuro, rimarrà un po' deluso.

Questo nuovo album del terzetto russo è un altro opprimente e macabro viaggio nelle profondità viscerali dell'inferno, un viaggio espresso da un funeral doom dalle forti tinte horror e dalle soluzioni stilistiche estremizzate. Tutto è rimasto più o meno come sempre, proseguendo la linea comune che ha caratterizzato i tre album precedenti: voce growl profonda e rauca che proviene direttamente da una fossa di dannati, batteria quadrata e possente, orchestrazioni decadenti e malate ad opera di pianoforte, archi e tromboni, accordi di chitarra giganteschi e pesantissimi che schiacciano l'anima e i sensi sotto un peso di tonnellate ... insomma, tutto ciò che si chiederebbe ad un disco che vuole trasporre in musica l'orrore e il marciume più puro, quella feralità estrema che mette i brividi. Il difetto più grosso degli Abstract Spirit, però, è rimasto tale e quale: l'incapacità di costruire brani realmente interessanti, brani che abbiano alle spalle un songwriting ispirato e uno sviluppo interno che si possa perlomeno definire minimo. Per quanto la compattezza e la produzione sonora siano assolutamente eccellenti, anzi addirittura superiori a quelli della maggior parte delle band funeral doom in circolazione, è nella pura sostanza che gli Abstract Spirit sono sempre stati, e sono tuttora, debolucci. Dietro la confezione di grande impatto, infatti, la musica assume un carattere piuttosto prevedibile e scontato, si mostra estremamente statica e poco coinvolgente sulla lunga distanza, e questo è un difetto non da poco considerato che tutti i dischi degli Abstract Spirit superano abbondantemente l'ora di durata. "Theomorphic Defectiveness" cerca in qualche modo di introdurre innovazioni nello stile della band, come una dinamicità leggermente più accentuata nello sviluppo interno di alcuni brani, o una varietà leggermente maggiore nel riffing, o un minimo alleggerimento delle atmosfere, o l'inserimento di saltuarie linee vocali corali (unico elemento veramente inedito), che riescono a creare un'atmosfera a tratti intrigante; tuttavia, nonostante questi piccoli e apprezzabili impreziosimenti, trovare differenze sostanziali rispetto a un "Tragedy And Weeds" o a un "Horror Vacui" è difficile, se consideriamo il contesto generale: mancano sempre le idee vere, quelle geniali intuizioni che fanno la differenza, quelle progressioni mozzafiato che gruppi come Esoteric e Ahab masticano con scioltezza. Manca una direzione alla musica, sostanzialmente.

Sulla base di questo, sostengo quindi che "Theomorphic Defectiveness" sia un disco che mostra tutti i limiti artistici della band, limiti che molto difficilmente potranno essere valicati in futuro. Se al quarto disco una band suona ancora quasi uguale a ciò che suonava non solo nel primo, ma anche nel secondo e nel terzo, può significare due cose: o la band ha deciso di fare della coerenza il suo manifesto ideologico, oppure la band è effettivamente incapace di andare oltre. Per quanto io rispetti gli Abstract Spirit, in quanto la potenza delle loro atmosfere e della loro maniacale dedizione all'oscurità è indubbiamente notevole, devo però includerli nella seconda categoria. La loro musica è buona, di sicuro impatto ed effetto, e questo emerge anche dalla loro odierna fatica discografica; ma per quanto si possano sforzare, tale musica non raggiungerà mai i livelli di eccellenza e di longevità di cui gode la musica di altre band, come per esempio gli Skepticism. La cover di "March October" posta in chiusura è infatti una perfetta dimostrazione di come dovrebbero suonare gli Abstract Spirit, facendo leva sulla loro attitudine e sui devastanti mezzi tecnici messi a loro disposizione, per essere definiti davvero ispirati. Confrontate lo storico brano degli Skepticism con tutti gli altri brani di "Theomorphic Defectiveness": la differenza vi apparirà lampante, e non stupitevi se considererete questa cover come l'episodio migliore di tutto l'album.

A mio parere, gli Abstract Spirit stanno rapidamente raggiungendo il limite oltre il quale ad una band non viene più perdonata la carenza di idee nuove: adesso sta a loro dimostrare che sono capaci di osare anche oltre, in caso contrario si perderanno progressivamente nel nulla, rimanendo uno tra i tanti gruppi funeral doom che negli ultimi anni hanno affollato la scena musicale. "Theomorphic Defectiveness", comunque, non è affatto un disco da buttare: semplicemente, non aggiunge pressoché nulla di nuovo a quanto è già stato detto dalla band, la quale a sua volta non aggiungeva pressoché nulla di nuovo a quanto era già stato detto da altri. Rimane quindi un prodotto per soli doomsters sfegatati, di quelli che apprezzano qualsiasi cosa che viaggi su ritmi da carenza d'ossigeno e che suoni accordi il più ribassati e funerei possibile. Perchè in questo, bisogna dirlo, gli Abstract Spirit non hanno davvero rivali: la loro terrificante musica saprà certamente ghermirvi e trascinarvi in un antro talmente buio che nessuna luce potrebbe mai raggiungerlo, nemmeno dopo milioni di anni di viaggio nelle profondità buie del cosmo ...

01 - Theomorphic Defectiveness (12:45)
02 - For The Hosts Of Colored Dreams (12:30)
03 - Leaden Dysthymia (5:52)
04 - Prism Of Muteness (10:29)
05 - Under Narcoleptic Delusions (11:17)
06 - March October (Skepticism cover) (11:42)

lunedì 10 giugno 2013

October Falls - "A Collapse Of Faith"

Debemur Morti Productions, 2010
Non sono un fan appassionato degli October Falls: la loro proposta musicale mi affascina e mi ascolto sempre volentieri i loro album, ma la loro musica soffre di alcuni difetti di fondo che mi impediscono di considerarla eccellente. Sappiamo che la band ha una doppia anima, che si è manifestata negli anni con due tendenze musicali precise: da una parte gli album totalmente acustici, dall'altra quelli elettrici e propriamente metal. I capitoli acustici, pur essendo indubbiamente piacevoli e ben costruiti, hanno il difetto di essere eccessivamente prolissi e statici, due difetti che ne riducono la longevità; i dischi elettrici, invece, hanno la stessa piacevolezza melodica e le stesse atmosfere boschive e naturalistiche, pregne di malinconia e di introspezione, ma a volte non sanno bene che direzione prendere, sembrano perdersi in inconcludenze. Tuttavia, a parte il deludente "The Womb Of Primordial Nature", i dischi venuti dopo sono abbastanza belli da meritarsi una recensione: oggi è il turno di "A Collapse Of Faith".

Terzo album in studio della band se escludiamo i numerosi extended play, il disco si presenta come un brano unico, suddiviso in tre parti per pura formalità, in quanto la separazione è del tutto ininfluente sul risultato musicale. Facile da inquadrare fin dal primo ascolto, si presenta con una musica che intreccia chitarre elettriche e acustiche in un black metal melodico debitore delle atmosfere naturalistiche degli Agalloch così come delle ruvide sonorità dei primi Ulver, senza dimenticare consistenti dosi di melodia che invece potrebbero essere fatte risalire agli Empyrium, come stile. Un collage di influenze che la band, stavolta, riesce ad amalgamare in un disco passionale, intensamente introspettivo e a tratti anche rabbioso, un disco che sbatte in faccia all'ascoltatore melodie appassionate e ritmi violentemente travolgenti, nei quali la batteria pesta con una rabbia carica di malinconia, più che di pulsioni distruttive fini a sè stesse. Basta ascoltare i primissimi minuti del disco per avere una chiara idea di cosa si troverà in questi quaranta minuti: un delicato arpeggio acustico introduttivo che lascia quasi subito il posto ad un assalto di batteria, condito da un'espressiva voce a metà tra il growl e lo scream, mentre le chitarre tessono trame molto semplici e dirette e pennellano temi trasudanti pura emozionalità, cosa che spesso va di pari passo con l'assoluta elementarietà delle armonie e dei giri melodici. Mentre il protagonista ci avvolge con il suo canto aspro ma ricolmo di nostalgia, che talvolta è controbilanciato da evocativi accompagnamenti corali, le melodie piano piano si evolvono, si aggiungono nuove trame alle precedenti, per poi tornare di nuovo a pause acustiche, a riprese dei temi precedenti, e così via, in un continuo andirivieni di linee melodiche che ha comunque un andamento tendenzialmente ciclico. Ripetitivo, forse, e anche un po' ridondante: i brani avrebbero potuto essere snelliti di qualche minuto, evitando di ritornare sui propri passi più volte, ma sta di fatto che ogni secondo di questa composizione è intriso di quel mood che ti lascia subito sulla pelle una sensazione forte, di quelle che non vanno via facilmente, una sensazione di dolorosa mancanza di qualcosa, di atroce sofferenza per la perdita di qualcosa di amato, di comunione con una natura che rappresenta l'ultimo baluardo in cui rifugiarsi per trovare un po' di pace esistenziale.

A mano a mano che i minuti proseguono, la triste storia di questo "crollo di una fede" prosegue sugli stessi toni, aggiungendo un po' di varietà melodica ma senza cambiare di una virgola la natura emotiva della propria proposta. Le chitarre seguitano a pennellare soffici arabeschi di melodie tristi e sconsolate, basso e batteria (specialmente la seconda) si impegnano a trasmettere con i loro colpi frenetici l'ineluttabilità di questa condizione dolorosa, che si dibatte per tentare di liberarsi ma senza successo; la voce del protagonista non conosce pace, e dall'inizio alla fine ci dilania l'anima con la sua inguaribile tristezza. "A Collapse Of Faith" è tutto qui, dal primo all'ultimo secondo non c'è altro. Tuttavia ha un'anima, quell'indefinibile entità che fa sì che il cuore batta più forte mentre ascolta certe note, mentre rimanga indifferente per altre note simili ma prive di tale elemento magico. Ecco perchè "A Collapse Of Faith" riceve il mio apprezzamento, al di là di tutti i suoi limiti tecnici e compositivi: lo apprezzo perchè ha saputo sublimare un'emozione, un insieme di sentimenti e stati d'animo reali, trasponendoli in musica con passione e onestà. Non c'è nulla di più che possano offrirvi gli October Falls: ma tanto vi basti.

01 - A Collapse Of Faith Part I (18:49)
02 - A Collapse Of Faith Part II (17:42)
03 - A Collapse Of Faith Part III (5:28)

venerdì 7 giugno 2013

Bluerose - "Darkness And Light"

AreaSonica Records, 2013
Avevo già avuto modo di conoscere la musica dei triestini Bluerose e di recensire il loro primo album, che nella sua semplice fattura rock mi aveva in qualche modo preso, nonostante la musica non aggiungesse nulla a tutto ciò che avevo già ascoltato nei miei acerbi anni di peregrinazioni all'interno del rock e dell'hard rock. Accolgo quindi con piacere l'invio di questo secondo album, "Darkness And Light", che mi trovo gentilmente recapitato a casa in un pacco postale, e che questa volta mi sorprende un po' di più grazie ad un suono che tende ad avvicinarsi maggiormente al metal, pur mantenendo inalterato l'impianto rock di fondo, l'orecchiabilità di ogni canzone e la facilità di ascolto che lo rende un piacevole diversivo quando la musica troppo complessa e articolata non riesce a fare breccia.

Otto brani, ben bilanciati tra irruenza e melodia, sono pronti per accompagnare un viaggio in automobile assieme ad amici, o per animare una festa dove non è escluso che qualcuno si metta anche ad improvvisare un ballo su queste note; la maggiore pesantezza chitarristica e ritmica rispetto all'esordio è un elemento che si fa sentire con discrezione, quasi come se non volesse tradire la natura comunque "leggera" dei Bluerose, cercando contemporaneamente di differenziare un po' il sound. Un ruolo fondamentale è svolto dalla voce di Riccardo Scaramelli, dotato di un timbro limpido ma anche leggermente graffiante, e di una tecnica comunque di tutto rispetto, evidenziata da poderosi acuti in crescendo e da interessanti sfumature espressive che compaiono qua e là tra i brani. Il resto è puro, semplice e sano rock / metal di presa immediata, a tratti leggermente oscuro quasi a richiamare certe produzioni dei Metallica, meno spiccatamente romantico rispetto al precedente "Fallen From Heaven" ma per la maggior parte del tempo abbastanza scanzonato e richiamante passioni elementari e genuine, così come dovrebbe fare ogni buon disco rock che si rispetti. Mi risulta difficile indicare un brano particolarmente significativo, vista l'omogeneità della proposta, così mi risulta difficile trovare un tratto che distingua i Bluerose da tutte le altre band che suonano questo genere: ciò non significa però che questo prodotto non contenga materiale valido, a cominciare dai turbinosi assoli di chitarra di Giuliano Soranno, difficili da seguire nella loro intricata matrice ma assolutamente godibili. Tutto è comunque ben costruito ed efficace, con quel pizzico di aggressività in più che mancava nel debutto e che qui pone una buona base per un'evoluzione futura del sound del gruppo. 

Se ancora qualcosa manca ai Bluerose è la capacità di farsi riconoscere subito per il fatto che sono loro, e non solo per il seppur apprezzabile fatto di essere una rock band interessante e capace; una volta che anche questo aspetto sarà stato affrontato e superato, potremo dire ancora una volta che l'Italia non smette di sfornare band interessanti, le quali non per forza devono essersi inventate un genere musicale per meritarsi gli ascolti da parte della gente. Una buona conferma, ora aspettiamo l'album della maturazione definitiva: per adesso godiamoci questa carrellata di elettricità carica di groove.

01 - Darkness And Light (4:40)
02 - Reloaded (4:04)
03 - Run (4:22)
04 - On My Way (3:54)
05 - I Know (3:51)
06 - Leaving You (4:00)
07 - Rock Your Soul! (4:46)
08 - The Land Of The Light (5:27)

giovedì 6 giugno 2013

The Ocean - "Pelagial"

Metal Blade Records, 2013
Da certe band puoi aspettarti solo il meglio. Sai che non ti deluderanno, che qualsiasi cosa suoneranno sarà sempre una botta al cuore e ai sensi: i The Ocean sono una di queste band, da sempre infallibili e sempre pronti a sfornare dischi di altissimo livello. Dopo una sequenza impressionante di dischi enormi come "Precambrian", "Heliocentric" e "Anthropocentric", ritornano questa volta con un disco che per la prima volta è coerente col nome che la superband tedesca si è affibbiata: "Pelagial", infatti, si propone di esplorare finalmente le insondabili profondità oceaniche, partendo dal pelo dell'acqua fino ad arrivare alle paurose fosse che toccano gli undicimila metri di profondità, dove giacciono segreti imperscrutabili e dove vivono creature al confine tra la realtà e l'immaginazione.

"Pelagial" si presenta con un artwork curatissimo e con un formato doppio CD, per un totale di quasi due ore di musica che può essere descritta in poche parole come la somma perfetta di tutte le migliori caratteristiche dei The Ocean, i quali ormai hanno raggiunto una maturità artistica e compositiva da capogiro. Il disco è molto progressivo e si sviluppa proprio come se fosse una lenta discesa verso i fondali oceanici, resa alla perfezione da un impianto evolutivo che privilegia inizialmente i brani più diretti e semplici, per poi intensificare e complicare la musica fino a renderla pesante, greve, lenta e opprimente come l'immenso peso della massa oceanica. L'impianto sonoro non si è modificato particolarmente rispetto ai precedenti album: siamo quindi di fronte ad una nuova tempesta di post - sludge metal, dalle chitarre abrasive ma calde, e scandita da una sezione ritmica semplicemente distruttiva, che mai come in questo caso svolge un lavoro assolutamente chirurgico e sopraffino, nonchè estremamente fantasioso e tecnico. Riffing in continuo mutamento come se fosse un intersecarsi di correnti sottomarine, voce che spazia dal growl al pulito simboleggiando le correnti fredde piuttosto che quelle calde, intuizioni melodiche geniali che si associano a groove presi direttamente dal rock più diretto, mentre d'altro canto compaiono influenze doom metal e incupimenti atmosferici; "Pelagial" si mostra quindi come un prodotto eterogeneo, ottimamente sviluppato e concepito per non annoiare mai, in quanto il progresso è conosciuto per essere il più acerrimo nemico della noia. 

Ci rendiamo conto alla perfezione del concetto di progressività in "Pelagial" se lo ascoltiamo tutto di fila, unico modo per poterlo comprendere appieno. Le liquide note di pianoforte di "Epipelagic", accompagnate dal quieto sciabordio dell'acqua e dai riflessi del sole sulle creste d'onda, conduce presto alle esplosioni melodiche e trascinanti di "Mesopelagic" e delle due "Bathyapelagic", nelle quali oltre a ritornelli irrestibili e a fraseggi di chitarra esaltanti compaiono anche delle emozionanti fughe di pianoforte così come arpeggi di chitarra pulita dall'aria serena e distensiva, esattamente come potrebbe essere una nuotata in immersione a pochi metri di profondità, dove la luce penetra senza alcuna difficoltà e i pesci sono ancora di dimensioni piccole e familiari. Il consueto ottimo lavoro svolto dagli arrangiamenti di archi si sposa alla perfezione con questi primi brani solari, tutto sommato semplici da assimilare ma tutt'altro che banali. Perfetto è il bilanciamento tra la voce pulita e quella ruvida, mentre il basso pulsa rabbioso e la batteria si conferma come una protagonista assoluta delle trame strumentali e si merita le dovute attenzioni grazie a evoluzioni pregevoli e mai troppo esibizioniste (niente tecnicismi esasperati alla Portnoy, ma solo tanto buon gusto e tanta musicalità).

Fin qui, tutto bene: siamo ancora piuttosto vicini alla superficie, dove tutto sommato è facile tornare a prendere una boccata d'aria. Ma arriva il terzo capitolo di "Bathyapelagic" e la musica inizia a cambiare: i riff diventano più lenti e pesanti, la luminosità inizia a diminuire, vaghi dubbi di inquietudine vengono alla mente, sobillati da accelerazioni che stavolta hanno un sapore teso, invece che liberatorio come prima. "Abyssopelagic" riprende i temi delle precedenti canzoni illudendoci per un attimo che stiamo tornando verso l'alto, ma è un inganno: si continua ad andare in giù con "Hadopelagic", austera e nauseabonda, nella quale inizia a sentirsi l'immensa pressione della massa d'acqua che tenta di stritolarci; tuttavia, il nostro organismo si adatta alle condizioni estreme e qualche momento di tranquillità è concesso, come per esempio nel secondo capitolo della medesima "Hadopelagic". Ma con il raggiungimento dei novemila e rotti metri di profondità, non si ha più scampo: "Demersal" e soprattutto la conclusiva "Benthic" fanno emergere la nuova vena doom dei The Ocean, proponendoci quindici minuti di netti rallentamenti e di atmosfere plumbee, in un luogo dove la luce è completamente abolita e le forme di vita sono quasi totalmente sconosciute, e quel poco che ne sappiamo ci fa paura. Tocchiamo il fondo dell'oceano con un finale dai vaghi toni noise, e siamo arrivati alla fine del nostro viaggio oceanico, raggiungendo "l'origine dei nostri desideri" sugli impenetrabili fondali che costituiscono le fondamenta del mondo.

Tocca al secondo disco, ora, il compito di ruotare nel nostro stereo. Sorpresa! Tale disco non è altro che una versione interamente strumentale dell'album che abbiamo appena ascoltato. Registrato inizialmente solo in questa versione, a causa di problemi di salute del vocalist Rossetti, è stato poi integrato dalla versione cantata solo grazie al fatto che il cantante è riuscito a guarire in tempo per le registrazioni, e ha quindi potuto prestare la sua voce all'opera. Il risultato di questa disavventura è un disco che va ben oltre la versione bonus di un originale: la versione strumentale di "Pelagial" è infatti un disco che pur essendo formalmente identico al precedente, solo privato della voce, appare molto diverso, quasi più autentico e concettualmente più interessante. Lasciando concentrare maggiormente l'ascoltatore sugli intrecci strumentali e sulla raffinatezza di trame e arrangiamenti, la sensazione di vorticare nelle correnti oceaniche di profondità è ancora più forte, e non stupitevi se arrivati alla fine del primo disco vi ascolterete anche il secondo con la stessa meraviglia se non di più.

"Pelagial" è in definitiva un disco che ha dalla sua parte un'ottima capacità evocativa e una concettualità sviluppata nel migliore dei modi. Non tragga in inganno il fatto che i testi non parlano di acqua e balene, bensì dell'essere umano e della sua natura; sarebbe stato semplice narrare di argomenti inerenti l'oceano in sè, ma come sempre i The Ocean sono una band originale e preferiscono non essere banali, andando in questo caso a sublimare un elemento naturale trasformandolo in una discesa verso le profondità dell'animo umano, e non solo del mare. A livello musicale, non trovo assolutamente difetti: la produzione dà risalto ad ogni strumento ed è pulita e possente, il songwriting è eccellente e farebbe vergognare il 90% delle band attualmente in circolazione, se solo sentissero con quale naturalezza questi tedeschi sfornano trame musicali così affascinanti. Ancora una volta mi trovo a doverlo dire, la classe non è acqua e i The Ocean sono un gruppo che spero non smetterà mai di suonare musica di qualità così eccellente. Per chi già li conosceva, una stupenda conferma della loro arte; per chi ancora non è entrato in contatto con l'abissale realtà di questa band, consiglio vivamente un tuffo nei vorticosi meandri di "Pelagial", senza paura di annegare nè di rimanere schiacciati da quei miliardi di tonnellate di acqua fredda e inquieta.

01 - Epipelagic (1:12)
02 - Mesopelagic: The Uncanny (5:56)
03 - Bathyapelagic I: Impasses (4:24)
04 - Bathyapelagic II: The Wish In Dreams (3:18)
05 - Bathyapelagic III: Disequilibrated (4:27)
06 - Abyssopelagic I: Boundless Vasts (3:27)
07 - Abyssopelagic II: Signals Of Anxiety (5:05)
08 - Hadopelagic I: Omen Of The Deep (1:07)
09 - Hadopelagic II: Let Them Believe (9:17)
10 - Demersal: Cognitive Dissonance (9:05)
11 - Benthic: The Origin Of Our Wishes (5:55)