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domenica 23 dicembre 2012

Negura Bunget - "'N Crugu Bradului"

Code666 Records, 2002
Se qualcuno mi facesse una domanda un po' insolita come "Qual è il disco più ostico, difficile e inafferrabile che conosci?", molto probabilmente dopo breve riflessione risponderei "'N Crugu Bradului" dei Negura Bunget.

All'alba della loro carriera, dopo aver pubblicato già due album di indubbio valore che avevano scosso la scena black metal mostrando un modo "diverso" di suonare questa musica, il gruppo rumeno crea quello che diventerà uno dei loro maggiori capolavori, uno status symbol della loro discografia che gli permetterà di ottenere buoni consensi di critica e pubblico, seppur nel proprio ridottissimo e settoriale ambito di ascolto. Il settorialismo è inevitabile per una band come i Negura Bunget, data la natura elitaria della loro proposta musicale: abbiamo infatti a che fare con un Black metal estremamente raffinato ed elaborato, dalle strutture complesse e talmente cangianti da perdere l'orientamento, con mille influenze differenti che vanno dal folklore tradizionale est - europeo (massicciamente presente) fino alla musica ambient (sporadica, ma importante nei suoi interventi), senza che si possa percepire il punto di giunzione tra le varie influenze: tutto è infatti compenetrato perfettamente, con eccellente maturità artistica. L'individualità di questo album, derivante in parti uguali dalla molteplicità di influenze e dal talento innovativo della band, è talmente spiccata che si fa fatica ad assimilarlo, sconfinando più volte in un territorio ammantato da nebbie eterne e nel quale oggetti e forme assumono nuove proporzioni, nuovi colori, nuovi riflessi. Più che un mero disco di black metal, "'N Crugu Bradului" è più simile ad una complessa esperienza di ricerca spirituale e di trascendenza ascetica.

Diviso in quattro tracce, ciascuna dalla durata superiore ai dodici minuti, il disco si presenta fin dai primi ascolti come una matassa inestricabile, e con il passare del tempo la sensazione migliora di poco: ci vuole un tempo molto lungo prima di poter dire di averci capito qualcosa. Io stesso, per quanto ci abbia provato, non sono ancora riuscito a scoprirne tutte le sfaccettature, e non riesco a memorizzarne i brani, che sfuggono dalla mia mente come anguille scivolose e mutaforma. Una produzione anch'essa indefinibile, che utilizza suoni secchi e crudi, sostiene composizioni dove succede di tutto: troviamo quattro inni sciamanici che virano e migrano come in un immenso caleidoscopio di forze arcane, che convergono e divergono senza sosta in spirali affascinanti e maestose. Non si tratta di sciamanismo riflessivo e solenne, ma piuttosto di tormentato spiritismo, un inquieto inseguire le vorticose evoluzioni del mondo spirituale. Le chitarre, spesso messe in secondo piano a favore delle ritmiche e degli arrangiamenti composti da strumenti tradizionali, tremolano e si contorcono in riff che sono l'antitesi dell'immediatezza, e che fanno una fatica estrema ad entrare in testa; rimarrà deluso chi volesse avvicinarsi ai Negura Bunget aspettandosi le consuete melodie irruente e immediate del classico black metal. Quella del combo rumeno è musica incorporea, fluttuante e in costante cambiamento, come un banco di nebbia che viene perturbato dalle correnti e sfuma costantemente in tutte le direzioni, a seconda di dove punta la nostra luce esplorativa. Perfino nelle sezioni più violente e veloci, che comunque non mancano, si fa fatica a ravvisare l'incisività che ci si aspetterebbe da una band black metal; aumenta la tensione, ma non si risolve mai, come un enigma lacerante che per essere risolto necessita di una chiave della quale nessuno conosce più l'ubicazione e la natura. Ciò è una dimostrazione di come il gruppo sappia rielaborare alla perfezione i canoni del genere, rendendoli incredibilmente personali ed efficaci.

Efficaci, perchè a dispetto di ciò che si potrebbe pensare da ciò che ho detto riguardo alla sua inafferrabile essenza, "'N Crugu Bradului" è tutt'altro che un disco inconsistente o artisticamente trascurabile. Non si riesce a coglierne la direzione, nè a carpirne i segreti, ma è proprio qui il suo fascino: la possibilità dell'ascoltatore di interpretarlo, mettendoci impegno e passione, senza che sia l'artista a fare tutto il lavoro di ideazione musicale e trasposizione in immagini. Con le loro melodie enigmatiche e nascoste, con le loro divagazioni ambient che disorientano i sensi, con le loro particolarissime dissonanze, con le loro armonie inusuali e i loro intrecci strumentali carichi di continua tensione, i Negura Bunget non creano nulla di definitivo: sta all'ascoltatore vivere la loro musica e darle un senso, sempre che si riesca a farlo. La genialità del disco sta proprio in questo, nel non voler imporre nulla, ma nel lasciarsi praticamente "attraversare" dalla sensibilità dell'ascoltatore, che potrà in questo modo adattare le impalpabili velleità del disco a proprio piacimento.

Tutto ciò, ovviamente, richiede un certo sforzo. "'N Crugu Bradului" non è un disco per tutti, così come i Negura Bunget non sono una band per tutti. Prendetevi il tempo necessario per fare vostro questo album, avvicinandovi ad esso con circospezione, tentando di capire da che parte prenderlo; e alla fine, senza che ve ne rendiate conto, esso entrerà a far parte di voi e si configurerà come uno dei più eclatanti e irripetibili esempi di musica moderna "colta". Per veri intenditori della musica, e non semplicemente per metallari appassionati di underground.

01 - I (12:11)
02 - II (13:21)
03 - III (15:12)
04 - IV (12:55)

giovedì 20 dicembre 2012

Officium Triste - "Reason"

Displeased Records, 2004
Dopo l'inascoltabile "The Pathway", gli olandesi Officium Triste ci riprovano con questo "Reason", cercando di alzare il livello qualitativo e di risultare un po' più interessanti nel panorama doom - death. Diciamolo subito: sicuramente l'obiettivo è centrato, anche perchè sarebbe stato difficile fare di peggio. Onore al merito, quindi: è giusto riconoscere che la band ha compiuto qualche passo avanti, componendo un disco che nella brevità dei suoi quarantadue minuti sa essere emozionante e sa accompagnare degnamente le vostre giornate più tristi. Peccato però che gli Officium Triste non riescano, nemmeno con questa release, ad elevarsi dal "senza infamia e senza lode" al quale sembrano condannati per l'eternità.

"Reason" mostra alcune novità rispetto agli album precedenti, e la maggior parte di esse sono novità positive. Una cosa che è stata abbandonata, e nessuno ne sente la mancanza, è l'uso della voce pulita da parte del vocalist Pim, che nonostante sia tutt'altro che eccelso pure nel growl, almeno qui si dedica solo a ciò che gli riesce meglio tra le due opzioni. Sono aumentate le parti sinfoniche, gli stacchi d'atmosfera, sono aumentate le parti spiccatamente melodiche e romantiche; i brani sono leggermente più vari, le melodie hanno acquistato un po' più di senso compiuto, ci sono alcuni passaggi d'autore che meritano davvero di essere vissuti e ascoltati più volte (il break centrale di "The Silent Witness" è probabilmente la cosa migliore che la band abbia mai composto nel corso della sua storia). In definitiva, lo stile del gruppo è sempre lo stesso (e con ciò voglio dire che continua a pescare a piene mani dai classici del genere), ma indubbiamente i musicisti si sono impegnati di più per costruire composizioni di maggiore spessore, cosa che sarebbe iniquo non riconoscere.

Il problema principale degli Officium Triste però rimane immutato, ed è l'annoso problema che mi impedisce di apprezzarli fino in fondo: una certa scontatezza di fondo, che li rende affascinanti ad un primo impatto, ma che li penalizza molto dal punto di vista della longevità e dell'incisività che hanno sulla scena doom death. Un brano come l'opener "In Pouring Rain" è indubbiamente molto bello, con le sue melodie melanconiche e i suoi arrangiamenti di tastiera che gli donano una quieta e triste solennità; ma perchè bisogna inserire passaggi del tutto inutili e fuori luogo come quello che troviamo poco prima dei quattro minuti, che è a dir poco orrendo? Perchè rovinare una canzone degna di nota con le solite sbrodolate figlie della fretta e della smania di riempire gli spazi vuoti a tutti i costi? Perchè l'impressione è proprio questa, che gli Officium Triste non sappiano bene come continuare i loro brani ad un certo punto, e ci mettano dentro la prima cosa che gli capita sottomano, giusto per non interromperli sul più bello. Un peccato, perchè il resto della canzone non difettava, con le sue ritmiche talvolta in doppia cassa, le melodie che si spengono lentamente in un bel diminuendo, gli stacchi di pianoforte che donano atmosfera e respiro. Lo stesso discorso si può fare per tutti i brani: anche "This Inner Twist" vive su una melodia molto sognante ed evocativa che si evolve e rende il brano probabilmente il migliore del disco, ma qualcosa tuttavia stenta a convincere l'ascoltatore, perchè c'è sempre quella sgradevole sensazione di incompiutezza, come se i brani non sapessero esattamente dove andare a parare. Questo in parte è imputabile anche alla produzione, come sempre non all'altezza e incapace di valorizzare gli elementi positivi delle canzoni, ma non può essere colpa solo della produzione. Il problema è proprio il songwriting, incapace di costruire brani che vadano oltre la sufficienza. Una piena sufficienza, certo, ma non si raggiunge mai il "buono", nè tantomeno l'"ottimo".

Intendiamoci, non siamo di fronte a composizioni scandalose come quelle che furono nel precedente disco, anzi tutt'altro. I brani di "Reason" sono anche belli, basti prendere "The Sun Doesn't Shine Anymore", lunga e lamentevole cavalcata all'interno del sentimento della perdita (ma con il solito testo scontatissimo...), oppure anche "A Flower In Decay", con i suoi violoncelli in sottofondo che accompagnano una melodia mestissima, quasi piangente. Perchè allora gli Officium Triste non convincono fino in fondo, lasciando sempre quell'amaro in bocca? Sembra non essere un problema solo mio, ma abbastanza condiviso all'interno del mondo metal, quindi un motivo ci dovrà pur essere. Alla fine sono giunto alla conclusione che gli Officium Triste non convincono poiché non hanno una direzione ben definita, suonano un po' scolasticamente, eseguono bene il loro compito ma senza quel guizzo di vitalità e di novità che ti si imprime nella mente e la marchia a fuoco. Non basta concepire qualche bella melodia e arrangiarla discretamente con strumenti classici e chitarre distorte, per convincere gli ascoltatori che la propria musica è irrinunciabile. Perchè di dischi come "Reason" ce ne sono già in giro tanti, troppi, e ne sono già usciti a centinaia prima di questo, basta solo pensare alla discografia dei soliti mostri sacri come My Dying Bride e Anathema. Per convincere in questo genere serve freschezza e personalità, due cose che agli Officium Triste mancano, e mi dispiace dirlo perchè si sente che in questo album si sono impegnati, che hanno cercato di tirare fuori il loro potenziale inespresso. 

Per stavolta, un risultato solo discreto: rispetto agli obbrobri di "The Pathway" è già un deciso miglioramento, ma non è ancora sufficiente per collocare la band nell'Olimpo del genere. Prendete "Reason" per quello che è, un disco nella media, senza troppe pretese: allora potrete apprezzarlo per quello che ha da offrire. Ma non potete chiedere agli Officium Triste più di questo.

01 - In Pouring Rain (5:42)
02 - The Silent Witness (8:42)
03 - This Inner Twist (8:18)
04 - The Sun Doesn't Shine Anymore (10:34)
05 - A Flower In Decay (8:43)

mercoledì 19 dicembre 2012

Negura Bunget - "Virstele Pamintului"

Code666 Records, 2010
I Negura Bunget non sono certamente una band che le manda a dire: il loro black metal sfumato, complesso e dai risvolti esoterici ha incantato parecchie migliaia di ascoltatori nel corso della storia della band, iniziata nel lontano 1995. Come spesso succede alle band longeve, il gruppo è passato attraverso una costante evoluzione che ha progressivamente affinato e migliorato il suono e la raffinatezza dei dischi, parallelamente ai musicisti che via via sono stati persi per strada. Questo "Virstele Pamintului" si presenta come un disco estremamente cruciale per i Negura Bunget: dopo un solenne capolavoro come "Om", una fantastica riedizione del loro vecchio album "Maiastru Sfetnic" sotto il nome di "Maiestrit", e un cambio di line up così radicale da eliminare quasi tutti i membri della band ad eccezione del mastermind Negru, era lecito pensare che qualcosa sarebbe cambiato. Quando se ne vanno cinque musicisti su sei, è facile che il gruppo cambi faccia, a meno di non avere un leader particolarmente carismatico, che sappia tenere ancora le redini del gruppo. Probabilmente è proprio questa la caratteristica di Negru, in quanto il carattere musicale della band si è mantenuto pressochè intatto, ma senza dimenticarsi di migliorare ancora un po' il proprio livello qualitativo, che già era eccelso. Alla luce di un ascolto attento e reiterato nel tempo, infatti, posso affermare che "Virstele Pamintului" è probabilmente il lavoro più intenso e magistrale mai composto dalla band rumena.

Provate ad ascoltarlo mentre camminate in montagna, da soli, lungo una valle minacciosa che per tre quarti è coperta dalla nebbia. La pioggia si trattiene a fatica dal cadere, il vento ulula, le silenti pareti di roccia vi osservano malignamente, aspettando solo una vostra dimostrazione di debolezza per stritolarvi. Quest'esperienza, che io personalmente ho vissuto, è stata la scintilla che ha fatto scattare l'amore incondizionato verso questo album, così dannatamente perfetto da lasciare a bocca aperta. Dall'iniziale rituale messianico creato dai flauti di "Pamint", al malinconico epilogo della conclusiva "Intoarcerea Amurgului", i brividi freddi corrono sovente lungo la schiena, scatenati da atmosfere oscure e nebbiose, compenetrate da un carattere a metà tra il sacrale e il pagano, che richiama fortissimamente antichi rituali e terribili leggende ormai ricordate solo dagli spiriti del bosco. Come in ogni album dei Negura Bunget, l'ascolto non è semplice nè l'assimilazione è immediata: la grande varietà di strumenti, specialmente quelli estranei al metal (ad esempio i flauti di Pan, o gli strumenti a percussione tradizionali) e la complessità delle partiture sia a livello melodico / armonico sia a livello ritmico fanno sì che ad ogni nuovo ascolto si possa scoprire qualcosa di nuovo, qualcosa che è impossibile da cogliere inizialmente, ad un ascolto acerbo. Eppure, "Virstele Pamintului" affascina immediatamente con le sue melodie sempre inafferrabili ma contemporaneamente emozionanti, le sue progressioni mozzafiato (semplicemente incredibile ciò che accade dopo i primi minuti di "Arboree Lumi"), e soprattutto con i suoi break di pura atmosfera, dominati da fredde voci corali che declamano mantra oscuri nell'affascinante lingua rumena. Succede ad esempio nella breve "Umbra", che fa chiudere gli occhi e tremare le viscere, tanto intensa è la sua recitazione negromantica; ma anche nella visionaria introduzione di "Dacia Hiperboreana", con il suo ipnotismo di corde pizzicate e gelide tastiere che creano un nuovo substrato all'interno della coscienza, destinato a veicolare gli stati d'animo più nascosti e profondi. La stessa vibrante atmosfera di spiritualità occulta si respira nella strumentale "Jar", ancora più impalpabile ed eterea, anche se c'è da dire che rispetto ai dischi precedenti,  questo "Virstele Pamintului" è forse un po' meno criptico e si lascia comprendere più volentieri, a differenza di dischi quasi inafferrabili come "N Crugu Bradului" e lo stesso "Om". Lo dimostra ad esempio un brano come "Ochiul Inimii", che nella sua apparente severità è tuttavia capace di pennellare melodie quasi folkloristiche, che richiamano una festa popolare in uno sperduto paesino dell'Est europeo. Il caleidoscopio di sensazioni evocate da questo album è un qualcosa di incredibile, e buona parte del merito va anche alla splendida interpretazione vocale di Corb e Ageru, che tra la folkloristica teatralità della voce pulita e la ruggente asprezza del growl creano vere e proprie magie.

Ogni brano cela dietro di sè una storia, un'emozione, un racconto di qualcosa di antico che è stato perduto e che adesso può rivivere per mano di questi straordinari musicisti, i quali trasformano semplici note in un'esperienza onnicomprensiva e spiritualmente appagante. Alla pari dei Wolves In The Throne Room, che rappresentano il versante occidentale della nuova corrente di black metal "intelligente" e spiritistico, i Negura Bunget si confermano maestri ineguagliati nel loro genere, un esempio per tutte le giovani band che intendono avventurarsi su questi territori. Se il black metal ha raggiunto livelli qualitativi così eccelsi, confermandosi come uno dei generi più in voga attualmente, è grazie ai gruppi come i Negura Bunget, che hanno saputo costruirsi una personalità forte e immediatamente riconoscibile con una musica di incredibile spessore.

01 - Pamint (6:58)
02 - Dacia Hiperboreana (8:52)
03 - Umbra (3:32)
04 - Ohiul Inimii (8:04)
05 - Chei De Roua (5:51)
06 - Cara De Dincolo De Negura (5:54)
07 - Jar (4:29)
08 - Arboree Lumi (7:37)
09 - Intoarcerea Amurgului (8:21)

martedì 18 dicembre 2012

Arckanum - "Kostogher"

Necropolis Records, 1997
Avrebbero tutte le carte in regola per esserlo, ma gli Arckanum non sono una band di black metal pagano: essi abbracciano una fede diversa, gnosticista, come spiegano con un comunicato sul loro sito ufficiale (in realtà dovrei parlare al singolare, dato che si tratta di una one man band). Sarà, ma a me questo album sembra pagan black al 100%, per cui in questa recensione non posso fare a meno di considerarlo tale, viste le sue sonorità assolutamente caratteristiche e nondimeno le fotografie presenti nello splendido booklet.

"Kostogher" è il secondo album di un'immaginaria trilogia cominciata con il primo e ottimo "Fran Marder" e proseguita poi con il terzo lavoro "Kampen", altra dimostrazione di classe sopraffina. Dopo questi tre dischi la band si prenderà una lunga pausa, facendo quasi credere di essere scomparsa dalla scena, mentre in realtà stava solo elaborando un nuovo modo di suonare, che troverà vita grazie ad altri numerosi album, sempre di buon livello. In questo "Kostogher", così come negli altri due dischi della primitiva trilogia, risulta evidente la volontà della band di trasporre in musica i temi classici dello spiritismo: temi che richiamano la natura, la furia degli elementi, l'abbandono dell'uomo all'interno di un ambiente ostile e crudele, la spietata lotta per la sopravvivenza, il gelo invernale, e così via. Ci riescono bene, su questo nulla da dire. Il disco è prodotto in maniera grezzissima, con chitarre che suonano riff a malapena distinguibili nel caos, una batteria costantemente sparata al massimo della velocità e una voce in screaming che latra parole incomprensibili con ben poca musicalità nel senso stretto del termine. Fin qui nulla di strano: la maggioranza dei dischi pagan black, quando non sono contaminati da altri generi, suona così, e gli Arckanum svolgono molto bene il loro compito, dimostrando una certa classe. Oltre a ciò, tuttavia, trovano spazio alcuni momenti di fattura davvero pregevole: ad esempio i leggiadri violini in "Skoghens Minnen Vækks", o la triste strumentale "Et Sorghetog" con le sue voci femminili e i canti di un gufo (!), le commoventi aperture melodiche in "Oþer Trulhøyghda", o le cantilenanti chitarre di "Græmelse ok Væ": tutti momenti che riescono ad impreziosire il disco quel tanto che basta per non renderlo solo un esercizio di furia elementale gratuita, per quanto comunque ciò non rappresenterebbe un problema per i fan del black metal più oltranzista. La maggior parte dell'album è infatti composta da brani che suonano abbastanza simili gli uni agli altri, brani che assaltano frontalmente con chitarre sporche e cattive, nei quali la gran parte delle strofe è a malapena intellegibile, le chitarre soliste non si sentono quasi mai, il tremolo picking è poco sfruttato... sappiamo che il black metal, nella sua accezione più pura e semplice, deve essere così, brutto, sporco e cattivo. Ma quando riesce anche ad accantonare la sua natura malvagia e assassina, producendo momenti di quiete nei quali riflettere e riposare dopo una tormenta di neve, il tutto acquista molta più efficacia. Ecco perchè "Kostogher" alla fine riesce a convincere, nonostante la sua fattura ostica e certamente non immediata, da calare in un contesto specifico per poterne trarre qualcosa di interessante.

"Kostogher" è un disco affascinante, che colpisce grazie alla sua indubbia genuinità. Nonostante il suo livello compositivo non sia obiettivamente niente di rilevante, riesce a convincere grazie ad un'attitudine perfettamente calata nel suo contesto e capace di trasmettere ciò che intendeva trasmettere: emozioni primitive, non mediate, ruvide e impetuose. Con qualche piccola, preziosa parentesi di introspezione, come quella che potrebbe provare un uomo primitivo che, dopo una giornata passata a procacciarsi il cibo tra pericoli di ogni sorta, alza gli occhi al cielo e lo vede illuminarsi di milioni di puntini luminosi, dei quali ignora la natura fisica ma conosce benissimo il significato arcano che vi si nasconde dietro. Non fatevelo scappare se siete degli appassionati del genere, ma in caso contrario valutate bene l'acquisto, perché questo è proprio uno di quei dischi che possono essere amati o odiati, senza vie di mezzo.

01 - Skoghens Minnen Vækks (7:07)

02 - Yvir Min Diupe Marder (4:43)

03 - Øþegarðr (4:08)

04  - Þæn Sum Fran Griften Gangar (3:59)

05 - Et Sorghetog (2:43)

06 - Gamall Uvermark (3:39)

07-   Oþer Trulhøyghda (8:08)

08 - Gangar For Raþan Vinder (4:00)

09 - Bedrøvelse (5:11)

10 - Ir Bister Ensaminhet Iagh Ugla (3:56)

11 - Græmelse ok Væ (3:55)

12 - Kri Til Dødha Daghi (6:22)

lunedì 17 dicembre 2012

Officium Triste - "The Pathway"

Displeased Records, 2001
Quando qualcuno afferma che "The Pathway" sia il miglior disco composto dagli Officium Triste, onestamente non posso fare a meno di chiedermi che cos'abbia fumato o cosa si sia sparato in vena nei minuti immediatamente antecedenti a tale dichiarazione. "The Pathway", infatti, è a mio avviso il primo e il più drammaticamente rovinoso scivolone compiuto dalla band olandese, un aborto musicale che ho deciso di recensire proprio per smentire una volta per tutte chi magari è davvero convinto della sua bontà artistica.

"Ne Vivam" era stato un esordio derivativo ma tutto sommato piacevole, con alcuni momenti degni di nota, e una qualità media accettabile. L'evoluzione del gruppo prosegue con questo album, che mostra fin da subito alcune novità nel sound: si alleggeriscono le atmosfere, gli arrangiamenti di tastiera e violino entrano a far parte dei brani in dosi più massicce, compare la voce pulita che inizialmente non aveva quasi mai trovato spazio. Purtroppo, il gruppo non ne ha indovinata nemmeno una: "The Pathway" mostra una composizione banalissima, scontata, strutture trite e ritrite, testi a dir poco insulsi (leggete l'ilare arringa contro una fantomatica donna infedele in "Foul Play", o le sbrodolate melensaggini di "Divinity", o peggio ancora le ridicole lamentele di "This Is Goodbye": non saprete se essere infastiditi o se mettervi a ridere a più non posso). I suoni dei flauti e degli archi sono così artefatti e irritanti da sembrare che siano prodotti da una tastiera giocattolo, per non parlare in generale della produzione e della qualità sonora, che appiattisce la musica rendendola ancora più insipida. Le canzoni si susseguono stancamente le une alle altre, tentando di apparire grintose ma riuscendo solo a far sbadigliare, a causa delle loro strutture sconclusionate, che sembrano incollate con il Super Attack. Il peggio del peggio viene raggiunto dagli interventi di voce pulita: se già Pim non è una cima nel growl, piatto e monocorde come pochi, la sua voce "normale" è imbarazzante, costantemente incerta e stonata. Ne è un buon esempio l'orrenda strofa portante di "Camouflage", o la già citata "This Is Goodbye", che pare cantata da un sedicenne al suo primo tentativo di serenata sotto le finestre della sua fidanzatina. Ma sono solo alcuni esempi, potrei citare molte altre parti in cui la voce è usata in maniera indecente. Anche dal punto di vista strumentale non andiamo molto lontano: ne è un esempio la scontatissima "Divinity", che non incanta proprio nessuno con le sue chitarrine da terza elementare, nè tantomeno con il clownesco assolo di chitarra finale, seriamente uno dei più brutti e demenziali che abbia mai avuto il dispiacere di ascoltare. Qualche momento decente forse c'è, come in alcuni passaggi di "Pathway (Of Broken Glass)" o di "Deep Down", ma assolutamente niente che si imprima nella mente e che vi resti sedimentato, niente che si abbia piacere di riascoltare una seconda volta, niente che si possa definire ispirato o ben concepito. O forse all'inizio sì, in quanto un disco come questo ha la strana capacità di affascinare ai primi ascolti (specialmente chi non è avvezzo al genere), ma in genere viene poi dimenticato e rivalutato negativamente con impressionante rapidità. Non è improbabile che ci si trovi a chiedere a sè stessi: "ma come mai prima mi piaceva così tanto, e ora invece non mi dice più nulla?".

La risposta è una sola: "The Pathway", a dispetto della fama che sembra essersi costruito nella scena, è uno dei dischi doom più brutti e scontati della storia. Ha esattamente tutto quello che un disco di questo genere non dovrebbe avere, e non ha niente di ciò che dovrebbe: per cui evitatelo come la peste. E pensare che stavo quasi per scrivere che forse l'unica traccia decente è, ironicamente, una bonus track esclusa dal conteggio principale e presente solo nella versione del CD in mio possesso. Ma mi sono trattenuto in tempo: ho appena scoperto che tale brano è una cover dei Chorus Of Ruin. Come volevasi dimostrare...

01 - Roses On My Grave (6:34)
02 - Pathway (Of Broken Glass) (6:17)
03 - Foul Play (4:43)
04 - Camouflage (4:27)
05 - Divinity (6:31)
06 - Deep Down (7:27)
07 - This Is Goodbye (5:58)

sabato 15 dicembre 2012

As Light Dies - "Ars Subtilior From Within The Cage"

BadMoodMan Music, 2010
Normalmente apprezzo gli album che hanno una direzione ben definita, abbastanza omogenei, comunque comprensibili nella loro interezza. Ci sono delle volte, però, in cui si incappa in dischi che sono totalmente l'opposto, vale a dire dei manifesti di totale incoerenza musicale. Come ci si può comportare di fronte a queste mosche bianche? O si respinge il tutto, con un'espressione di sufficienza stampata sul volto, oppure ci si appassiona e si impara a convivere col sincretismo musicale e l'ecletticità, che prima non si riuscivano ad apprezzare a causa dei propri pregiudizi. Sicuramente è quello che mi è capitato quando sono venuto in contatto con il secondo disco degli spagnoli As Light Dies, pubblicati dalla sempre formidabile BadMoodMan Music.

Una copertina così splendidamente poetica potrebbe richiamare alla mente atmosfere gothic - dark, ma nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. O forse no: probabilmente c'è anche il gothic - dark all'interno di questo album, dato che i quattro musicisti sembrano averci messo dentro di tutto, apparentemente senza alcuna coesione logica nè tantomeno un proprio stile definito. Provate ad ascoltarlo tutto di fila, non riuscirete a trovare un filo conduttore nemmeno a pagarlo: si comincia con un'emozionante introduzione orchestrale e pianistica, dal sapore drammatico, per poi passare ad un brano di progressive metal estremo, nel quale chitarre frastagliate, una batteria mitragliante su ritmiche alla Meshuggah e violini ferocemente psicotici violentano le nostre orecchie senza pietà alcuna, come in una manifestazione musicale dell'agitazione psicomotoria più violenta e incontenibile. Potrebbe anche essere che si tratti di un disco del genere, violento e paranoide, che ci ha ingannato con un'inizio ammaliante ma poi rivela la sua vera natura tritaossa; potrebbe essere, se non fosse che il terzo brano ci spiazza ulteriormente con il suo andamento spiccatamente melodico, vagamente orientaleggiante (anche se è cantato in francese) e con una voce pulita profonda e teatrale che si alterna al growl. Le melodie a tratti assumono un carattere tzigano, per via dell'onnipresente violino che lungo tutto il disco svolge un lavoro magistrale, anche se ogni volta differente a seconda del contesto. Forse adesso riusciamo a capirci qualcosa di più? Nemmeno per sogno, poichè il brano successivo è una messa per organo, in tutto e per tutto simile ad una delle magistrali composizioni del maestro Bach. Molto bella e formalmente perfetta, rimane da capire il suo ruolo all'interno del contesto, ma questo forse lo capiremo più avanti, per ora la scena rimane molto nebulosa e apparentemente priva di senso. Arriva quindi un brano che mischia death, black, thrash e progressive in un colpo solo, senza sbilanciarsi mai troppo verso nessuno di essi; poi un intermezzo pianistico d'atmosfera, che ricorda le moderne composizioni minimaliste; poi un brano di undici minuti cantato in spagnolo da una voce femminile accorata e carica di vibrante sentimento, mentre la base strumentale si evolve in modo imprevedibile con le sue melodie violinistiche e le sfuriate di una batteria a tratti in blast beat; arriva poi un altro brano di undici minuti dedito alla schizofrenia musicale più completa, tra tecnicismi death e ritmi complicati che reggono dissonanze marcatissime e suoni elettronici, nonchè interessanti librazioni di voce pulita. Infine il disco si chiude con una strumentale inquietante, dove un pianoforte senza direzione sembra suonare quasi a caso, come un malato psichiatrico rinchiuso nella sua cella che medita vendetta ma senza sapere da che parte iniziare.

Ho semplificato molto l'eviscerazione dei brani, per non risultare tedioso: ma una descrizione come questa è più che sufficiente per capire che non siamo di fronte ad un disco comune, nè tantomeno semplice. I dettagli li scoprirete con l'ascolto, io qui vi ho dato solo un'infarinatura per farvi capire anche solo vagamente con cosa avete a che fare. Se cercate di classificarlo in un genere preciso, o anche solo in un genere non troppo preciso, fallirete miseramente: questo disco è costruito apposta per stupire, per mischiare generi diversi in un pastone nel quale si sentono tutti ma non si riesce più a distinguerli l'uno dall'altro, per spaziare da un estremo all'altro e per ritornare al punto di partenza dopo aver compiuto mille giravolte per depistare l'ascoltatore, che potrà rimanere totalmente indifferente oppure irrimediabilmente affascinato da tale dimostrazione di schizoide genialità. A dispetto della sua natura meravigliosamente sconclusionata, che potrebbe far domandare per quale motivo un disco del genere debba esistere, bisogna però notare come la tecnica strumentale sia eccellente, come la bravura compositiva dei musicisti coinvolti non si venda certo a poco prezzo, e come il gruppo riesce a creare un tale caleidoscopio di suoni e colori senza che la spiacevole sensazione del "collage" si faccia sentire. "Ars Subtilior" è così ben fatto, talmente ben prodotto e soprattutto così bello e vario che il problema non si pone: si tratta di pura e semplice espressione artistica. Come accennavo prima, il contesto in cui bisogna collocare questo disco è il disco stesso: non c'è altro modo per capirlo e per lasciarsi appassionare. Potrà sembrare pretenzioso, esagerato, spocchioso come la frase riportata in fondo al booklet: ma onestamente non mi interessa se il gruppo si ritiene appartenente ad un elite illuminata, a me interessa solo la musica, che è tanta e ha gli attributi. Considerate dunque tale disco come una rappresentazione dell'incredibile varietà della vita e dell'essere umano, e gustatevelo fino in fondo, perchè non troverete molti dischi come questo in giro.

01 - The Very End (2:31)
02 - The Disinherited (8:07)
03 - Le Nebuleux Sentier (5:10)
04 - Die Letze Fuge Vor Der Flucht (4:43)
05 - Trapped In Flesh (8:51)
06 - Yearning For Blissful Moments While Standing Upon The Ruins (2:56)
07 - Sombra Y Silencio (11:40)
08 - Insignificant Among Insignificance (11:07)
09 - When Everything Fades Away (1:53)

Officium Triste - "Ne Vivam"

Teutonic Existence Records, 1997
Avete ragione: forse non vale nemmeno la pena di spendere troppe parole sugli sfortunati Officium Triste. Sono già stati sufficientemente massacrati da critica e pubblico, perchè scriverne ancora? Forse per infierire, calcando la mano sulla loro pochezza artistica? Non esattamente, non è questo il mio intento. Il problema di fondo di questi musicisti olandesi non è che siano malvagi o terribilmente scarsi, è che semplicemente non riescono ad andare oltre un certo livello, e questo difetto, per una band che suona un genere così inflazionato e saturato da cloni, è imperdonabile: si finisce inevitabilmente per rendersi conto che non c'è alcun bisogno di band riempitive, quando ci sono già i maestri del genere che ci emozionano a sufficienza. Eppure, anche negli Officium Triste non è tutto da buttare: spesso, a torto, ci si dimentica del loro primo album, "Ne Vivam".

Siamo agli esordi, quindi siamo ancora pesantemente influenzati dai primi Anathema e soprattutto dai My Dying Bride: le reminescenze del loro sound si sentono in ogni singola nota e in ogni singolo riff degli olandesi, con quel suono di chitarra piacevolmente sporco, che viene reso in questo modo proprio per ampliare la sensazione di grezzume tipico del doom death d'autore. La scarsa personalità di questo lavoro, ancora molto derivativo e incapace di portare qualsivoglia novità alla scena doom, è però compensata da brani che obiettivamente non sono niente male: l'opener "Frozen Tears" annovera dei momenti davvero emozionanti (a fianco di altri tranquillamente evitabili, altro grave problema che da sempre inficia le produzioni di questa band) e non è da meno la successiva "Lonesome", una piccola perla malinconica che potrebbe addirittura commuovere i cuori più sensibili. Melodie delicate e tempi lenti, talvolta controbilanciati da leggere accelerazioni, sono ciò in cui il gruppo riesce bene, mentre risulta meno convincente nelle parti vocali in growl, un po' troppo sterotipate, e nei testi, drammaticamente banali e sconteti. I testi potrebbero anche essere ignorati, a dire il vero: di solito, con il growl si capisce poco o niente, e si tende a concentrarsi solo sulla musica per formulare un giudizio artistico. Ma gli Officium Triste sono olandesi e cantano in un inglese fin troppo riconoscibile, così che non si può notare la bruttezza delle parole. Concentriamoci quindi sulla musica, che è meglio: ed ecco che con le maestose melodie di "A Journey Through Lowlands" ci fanno dimenticare della pochezza lirica e ci avvinghiano nuovamente all'ascolto, rimuginando sulla nostra interiorità e rimescolando le emozioni in un piacevole calderone ribollente. Si prosegue tra episodi più lenti ("One With The Sea", che sembra una pallida copia di "Edenbeast") e momenti dinamici come in "Stardust", con i suoi interessanti saliscendi melodici. Da segnalare anche la divertente "The Happy Forest", che se da un lato è un pochettino scontata e quasi pop con il suo riff scherzoso e la voce pulita, dall'altro ha un andamento accattivante che ancora una volta fa scorrere piacevolmente il disco nel lettore fino alla fine. 

Non ci sono episodi di spicco, a parte forse la sopracitata "Lonesome", ma nemmeno momenti terribili come invece sentiremo nei successivi album, nei quali il gruppo, alla ricerca disperata di una personalità propria, sperimenterà soluzioni che avranno risultati controproducenti. Ma lasciando perdere ciò che verrà dopo, rimane il fatto che "Ne Vivam" è un buon disco di doom death melodico, suonato e prodotto con onestà e impegno, con tutta la passione di cui la band è capace. Questo ci può bastare. Nessuno si sognerà mai di dire che questo album è un capolavoro, ma mi pareva giusto ricordare che anche gli Officium Triste, nella loro travagliata carriera artistica, hanno saputo comporre musica degna perlomeno di un ascolto e di un brivido lungo la schiena.

01 - Frozen Tears (6:06)
02 - Lonesome (7:22)
03 - A Journey Through Lowlands (5:12)
04 - One With The Sea (9:22)
05 - Dreams Of Sorrow (5:33)
06 - Stardust (5:04)
07 - Psyche Nullification (8:04)
08 - The Happy Forest (4:35)
09 - Mountains Of Depressiveness (Bonus Track) (6:30)

Austere - "Withering Illusions And Desolation"

Winterreich Productions, 2007
Può un disco reggersi unicamente sull'emozione che le sue note suscitano, quell'emozione impossibile da spiegare razionalmente, ma che si può solo vivere sulla propria pelle? Può un disco prescindere completamente dagli aspetti tecnici e sonori, facendo valere solo quella che è la sua anima istintiva? Dopo aver ascoltato a fondo il primo album degli Austere, la risposta non può essere che sì.

Nome già conosciuto nella scena depressive black australiana, gli Austere hanno sempre suonato in maniera totalmente onesta, proponendo ciò che sanno fare senza la pretesa di essere innovativi o di riscrivere la storia della musica. Le loro partiture elementarmente semplici e ripetitive, i loro suoni approssimativi e confusi, la loro sgraziata e stridula voce in screaming che squarcia l'aria con latrati strazianti, le loro melodie dal respiro triste e disperato: tutto ciò che sono gli Austere è immediatamente riconoscibile per ciò che è, e non gli si può chiedere di più. Tuttavia, per le anime tormentate che riescono ad entrare in sintonia con una musica tanto crepuscolare e sofferta, un disco come "Withering Illusions And Desolation" rappresenta la catarsi perfetta, una manna dal cielo: essi non stenteranno a perdersi nelle loro trame nebbiose e grondanti dolore, espresso da chitarre zanzarose e povere che affascinano proprio in virtù dei loro suoni imprecisi, storti, confusamente accavallati su sè stessi così come succede con i sentimenti, che nei momenti più critici si accumulano gli uni sugli altri portando confusione e smarrimento. Un brano come "Unending Night" è la perfetta rappresentazione di una persona che cammina lentamente da sola, in un bosco invernale, tra rami secchi e neve appena caduta; l'inquietudine di vivere, il desiderio di trovare pace nella solitudine, l'inesprimibile angoscia di essere al mondo senza sapere il perchè. Non pensate che con il procedere del disco la situazione migliori: gli episodi successivi confermano la direzione triste e desolata intrapresa dagli Austere nella loro carriera artistica, purtroppo breve dato che il gruppo si è ormai sciolto. A tratti i brani provano ad accelerare, a rivelare un volto più speranzoso e lieto, come accade in "Memories": ma si tratta di brevi stralci di felicità malinconica, piazzati quasi per caso nell'esistenza di un'anima inquieta e dilaniata interiormente. La staticità compositiva è evidente, La somma dell'insensatezza e dell'inutilità del vivere si ha con la conclusiva strumentale "Coma", un brano di diciotto minuti e mezzo che ripete sempre la stessa ipnotica sequenza di accordi lenti e fruscianti, senza una variazione, senza un'evoluzione, senza un perchè. E così come è cominciata finisce, sempre senza spiegarci nulla, lasciandoci immobili e silenziosi mentre il disco produce il suo ultimo gemito e smette di girare nel lettore. Ed è solo allora che ci si rende conto dell'assordante silenzio esistenziale che regna attorno a noi.

"Withering Illusions And Desolation" è un disco che non ha obiettivamente nulla di interessante a livello musicale: chitarre sempre uguali, suoni sempre uguali, strutture semplici, batteria monotona, nessun elemento che impreziosisca i brani. Tuttavia, se lo ascolterete con la giusta disposizione d'animo, vi trascinerà nel suo decadente vortice emotivo senza possibilità di una fuga indolore. Ascoltatelo in un noioso pomeriggio domenicale, mentre la pioggia cade lentamente e piano piano scioglie i cumuli di neve lungo le strade, esattamente come la vita di ognuno si spegne poco a poco, giorno dopo giorno: il risultato, prettamente depressivo, è assicurato.

01 - Unending Night (8:45)
02 - Memories (9:40)
03 - The Dawn Remains Silent (8:42)
04 - Withering Illusions And Desolation (10:53)
05 - Coma (18:38)

giovedì 13 dicembre 2012

Year Of No Light - "Ausserwelt"

Conspiracy Records, 2010
La line up di questa band francese è abbastanza insolita: conta tre chitarristi, un bassista, due batteristi che contemporaneamente sono anche due tastieristi, ma nessun cantante. Già si intuisce che con una costruzione così particolare, la loro musica dovrà essere altrettanto particolare, e che di sicuro riserverà qualche sorpresa. Anche la copertina è affascinante: in bianco e nero, con quest'isola minacciosa al centro che ricorda il quadro "L'Isola dei Morti" di Arnold Böcklin, e quel pallido sole in lontananza che sembra sul punto di sparire dietro un'impenetrabile muraglia di nuvole e cenere. L'evocativo monicker  ricorda infatti gli anni oscuri conseguenti alle tremende eruzioni vulcaniche del passato, quelle in cui migliaia di tonnellate di ceneri e polveri in sospensione oscuravano l'atmosfera, a volte per lunghissimi periodi. Successe con l'eruzione del Tambora, nel 1815, che creò quello che venne chiamato "un anno senza estate": la band transalpina sfrutta quest'affascinante concetto e lo traspone in musica con questo affascinante "Ausserwelt", un vero e proprio monumento strumentale.

Spaziando con maestria tra varie correnti sonore, che toccano lo sludge, il post metal e perfino qualche sprazzo di black atmosferico, la band propone quarantasette minuti di epopea strumentale da brivido, magnificata da una produzione semplicemente eccelsa che lascia compenetrare gli strumenti l'uno dentro l'altro senza che nessuno venga inghiottito da un mixaggio decisamente ardito. Chitarre mastodontiche e percussioni sempre dense, saturate di effetti tastieristici e da inserti quasi rumoristi che ispessiscono il suono, lavorano su composizioni grandiose, intrise di pathos strisciante che non può non lasciare un vago senso di angoscia e di malattia, nonostante la presenza di numerosi momenti melodici da lacrime. Originali e coinvolgenti, i sei francesi sanno infatti spaziare da una meravigliosa solennità melodica (l'iniziale duetto della doppia "Persephone") fino alla marzialità più severa e soffocante, espressa alla perfezione dai due mastodonti "Hierophante" e "Abbesse". Sia negli episodi più celestiali e commoventi, sia in quelli più tremebondi e dissonanti, le linee melodiche sono volutamente sepolte sotto tonnellate di suoni fruscianti e di piatti percossi con estremo vigore, ottenendo un effetto di pienezza davvero notevole, che controbilancia al meglio la relativa semplicità delle partiture. Ce ne accorgiamo soprattutto nella meraviglia delle meraviglie che risponde al nome di "Persephone I": c'è solo da rimanere ammaliati, mentre la linea melodica portante sembra spiccare il volo verso l'infinito, evolvendosi sempre di più verso sensazioni paradisiache. La seconda incarnazione del brano ci riporta poi sulla Terra con un nauseabondo riff che fa emergere prepotentemente il lato "sludge", la vena meno immediata e più ostica del disco. Per qualche minuto sperimentiamo la discesa al Purgatorio, per poi ritornare alla sublime ode panteistica che toglie il fiato non solo per la sua intrinseca bellezza, ma soprattutto per la ricercatezza e la perfezione dei suoni, che riescono ad essere contemporaneamente nitidi e confusi, costantemente intrecciati ma sempre pienamente riconoscibili.

Una volta terminata la gigantesca epopea mitologica, le due successive "Hierophante" e "Abbesse" esplorano invece il lato più cupo e introspettivo della band, il momento in cui invece di tendere al cosmo si cerca di insinuarsi nelle viscere del pianeta, scoprendo antichi mostri e cunicoli dimenticati che conducono a immense cattedrali sotterranee. "Hierophante" parte subito schiacciante, austera: la sensazione di pressione negativa che infonde è palpabile, e si mantiene costante per tutto il brano, toccando l'apice negli inserti noise - ambient che contribuiscono ad aumentare ancora di più la tensione emotiva, già mantenuta elevata dall'assenza di vocals "risolutrici" e dalla costante invadenza delle percussioni e delle linee sonore secondarie. "Abbesse" è ancora più monolitica e inquietante, quasi come se fosse la colonna sonora di un film apocalittico: la sua introduzione lenta e cadenzata, seguita da un'impressionante accelerazione in blast beat, trasmette ancora la freddezza degli spazi siderali, fino ad una conclusione ambigua, aperta: "Ausserwelt" non dà risposte e non rassicura nessuno, si limita a farci vivere una condizione di perenne sogno, nella quale tutto è il contrario di tutto, e nella quale alla fine tutto ritornerà alle origini, senza che niente si sia concluso. Ma non commettete l'errore di credere che questo disco sia inconsistente: al suo interno troverete infatti una vera opera metal raffinata e intensa, un manifesto di geniale psichedelia moderna, un'orgia sonora dalle proporzioni potenzialmente spaventose. Ci vuole un po' di tempo per comprenderlo appieno, ma una volta che è entrato sottopelle, non se ne va più.  

Per chi vuole ascoltare della musica che riempia tutti gli spazi vuoti dell'esistenza, gli Year Of No Light e il loro "Ausserwelt" sono la scelta giusta.

01 - Persephone I (11:56)
02 - Persephone II (9:37)
03 - Hierophante (13:17)
04 - Abbesse (13:12)

lunedì 10 dicembre 2012

Until Death Overtakes Me - "Prelude To Monolith"

Firebox Records, 2003
Stijn van Cauter è il musicista che sta dietro il progetto Until Death Overtakes Me, nonchè a numerosissimi altri progetti musicali, ed è l'unico a cui dobbiamo fare riferimento per valutare un disco come "Prelude To Monolith". A metà tra funeral doom e drone ambient, il disco assembla oltre un'ora di musica immobile, pesante, senza compromessi: o si entra in sintonia con una modalità tanto estrema di comporre musica, oppure ci si ritrae indietro schifati, pensando che il musicista in questione dovrebbe semplicemente stare un po' di più alla luce del sole.

Non è facile descrivere un disco simile senza metterci dentro opinioni personali, dato che un genere come questo basa la propria fortuna principalmente sullo stato d'animo e sulla predisposizione dei suoi ascoltatori. Anche io, che sono un fan del funeral doom e di tutte le sue sfaccettature, trovo difficile digerire questo disco per via dei suoi tempi lenti come il passare delle ere geologiche, per l'atroce staticità dei power chords stratificati e abbassati di svariati toni, per la monoliticità delle tastiere che si lamentano come prigionieri in un carcere sotterraneo, unendosi all'organo ecclesiale per creare atmosfere spiccatamente macabre e catacombali. Brani di quindici, diciotto, venti minuti che non scorrono, che non progrediscono mai, rimanendo di una pesantezza inestinguibile, che fa mancare il fiato già dopo qualche minuto di ascolto continuativo: cosa c'è di meglio per accompagnare una giornata grigia e spenta, nella quale la depressione avanza inesorabilmente e si insinua sottopelle? La musica sembra fatta apposta per questo, per ipnotizzare e ammaliare lentamente l'ascoltatore trascinandolo in un limbo dove i pensieri razionali non servono più, e dove si respirano solamente emozioni nere, svuotate di qualsiasi barlume di umanità e solarità. Buio totale. Inoltre, dopo che i primi quattro brani hanno compiuto la loro devastante opera di alienazione psichica, arriva un'incredibile cover della Marcia Funebre di Chopin, una versione semplificata dell'originale ma carica di pathos, nonché arricchita dalla strumentazione tipica del drone doom, che si aggiunge alla maestosità delle pesanti note di pianoforte. Il vibrante organo che chiude il pezzo, e con sè il disco, contiene tutta l'emozione del pezzo originale, condensata in pochi secondi nei quali i brividi lungo la schiena saranno assicurati.

Certo, non è tutto perfetto in questo album, nonostante il suo intento di trascinarci nelle profondità degli abissi insondati sia lodevole. Perfino nel funeral doom più annichilente, infatti, solitamente c'è sempre una struttura che si sviluppa, un saliscendi di sonorità, una progressione di emozioni, anche se attuata con tempi biblici: qui pare non esserci niente di tutto questo, solo un continuo ripetersi di suoni decadenti e atmosfere lugubri, tastiere eteree e sognanti che però rimangono sempre statiche e immodificabili, mentre le percussioni assomigliano a rintocchi di campane che scandiscono un rituale mortifero, e non aggiungono assolutamente nulla al contesto generale, in termini di varietà e sviluppo. Quasi si abbandonano i ritmi, l'attenzione si sposta solo sui suoni, peraltro di qualità piuttosto mediocre: le chitarre, per esempio, hanno un suono molto povero, di scarsa profondità. Vanno un po' meglio i suoni delle percussioni, che però sono rare; il suono delle tastiere invece è così evidentemente sintetizzato che a tratti sembra uscire da Guitar Pro. Una scelta più accurata dei suoni e una produzione migliore avrebbe dato una spinta notevole ad un album come questo, nel quale manca del tutto un songwriting vario e ispirato, che deve appunto essere compensato da altro, per catturare l'attenzione. Ecco che i brani rischiano di diventare veramente troppo pesanti, addirittura noiosi, viste anche le loro durate spropositate (per un paio di brani siamo attorno ai venti minuti). Per sopportare un disco come questo bisogna estraniarsi, è praticamente impossibile ascoltarlo con totale attenzione e partecipazione, altrimenti si rischia di impazzire. Ci saranno sicuramente ascoltatori che troveranno "Prelude To Monolith" affascinante, ma mai come in questi casi bisogna dire che Stijn ha prodotto un disco di nicchia, destinato a dividere i fan anche all'interno dello stesso filone funeral - drone. Senza rivali dal punto di vista del livello di distacco dalla realtà che garantisce, ma ampiamente superato sotto tutti gli altri punti di vista da altre formazioni che hanno saputo sfruttare molto meglio i mezzi a loro disposizione per produrre dei veri capolavori. Pertanto, consiglio questo disco solo ai più irriducibili e accaniti fan del genere, con il monito di ascoltarlo prima di comprarlo: potreste rimanere delusi.

01 - Prelude To Monolith (2:23)
02 - Missing (21:43)
03 - Absence Of Life (15:19)
04 - Slip Away (19:42)
05 - Marche Funebre (8:45)

Tsubo - "Con Cognizione Di Causa"

Eclectic Productions, 2012
"Saturo i dettagli, focalizzo i colpevoli,
l'odio il mio movente,
ingestibile come qualsiasi sentimento".

Questa frase, tratta dal testo di "L'odio", quarta traccia di questo parossistico lavoro, mostra alla perfezione il sentimento che anima questa release degli italiani Tsubo, formazione animata dalla passione per il death - grind più feroce e aggressivo, di quelli che ti sparano venti brani in una manciata di minuti e che ti lasciano storditi per l'efficacia con cui riescono a ricreare un'atmosfera di violenza e terrore. A differenza però di altre formazioni grind, nelle quali la volontà di apparire scioccanti ed esagerati a volte è causa di pacchianeria, posso affermare con certezza che gli Tsubo sanno esattamente dove andare a colpire e con quale intensità, per esprimere i loro sentimenti negativi senza risultare artificiosi o, peggio, banali. Già, perchè anche se le soluzioni adottate dai sei elementi non sono certamente innovative, è innegabile come l'attitudine ci sia ed emerga da ciascun brano, da ogni spataffiata di violenza che viene vomitata dalle casse dello stereo con veemenza. Difficile distinguere un brano dall'altro, ma questa non è una novità in ambito grindcore: gli Tsubo puntano tutto su elementi come il riffing di chitarra nervoso e sempre perfettamente riconoscibile nelle sue malate evoluzioni, la voce non troppo monocorde nelle sue visionarie arringhe contro la vita, il drumming forsennato ma al contempo estremamente tecnico e imprevedibile, le strutture compresse ma che non perdono mai quel minimo di senso musicale necessario per non far scadere il grind in un insulso pastone di suoni distorti e rutilanti. 

L'ottima produzione, a dir la verità, si addice di più ad un album technical death schizoide in stile Psyopus o Psycroptic, come traspare anche da episodi abbastanza vicini al genere come "Non trovo pace (Sessossessione)", o anche "Terapia d'Urto", con le sue sonorità che a tratti ricordano quasi gli ultimi dischi dei compianti Death: forse è questo il principale punto interessante di "Con cognizione di causa". La contaminazione stilistica e sonora tra la follia assassina del grind e la ragionata violenza chirurgica del technical death è infatti molto riuscita e rivela le buone capacità della band, se non altro a livello esecutivo, dato che la tecnica strumentale è davvero notevole. Ciò fa sì che il disco sia scorrevole, coinvolgente, sufficientemente vario (se di varietà si può parlare in un genere come questo) e ben costruito, al punto da piacere perfino a me, che normalmente non mastico questo sottogenere metallico con facilità. Dovendo però scrivere una recensione il più possibile precisa, senza tirare in ballo le mie personali preferenze, non posso fare altro che promuovere gli Tsubo e la loro micidiale mistura di deathgrind intelligente ed efficace, uno di quei dischi che possono sì accompagnare un momento di rabbia in cui si prende il muro a testate, ma che non richiede necessariamente questo stato d'animo per essere ascoltato, in quanto è sufficientemente interessante anche in condizioni normali. Un brano come la conclusiva "Colto da disperazione", che va a sfiorare quasi territori doom, lo dimostra. E per un disco di questo genere, si tratta davvero un punto a favore.

01 - Matricidio (1:27)
02 - Cicatrici (1:27)
03 - Vermi (1:24)
04 - L'odio (1:34)
05 - Nel bene e nel male (1:42)
06 - Come pensi così sarai (2:11)
07 - A-narcogrind (0:16)
08 - Non trovo pace (Sessossessione) (1:16)
09 - Terapia d'urto (1:33)
10 - Reminescenza (2:27)
11 - Fellatiocrazia (1:23)
12 - La quiete e la tempesta (2:27)
13 - Salt mine (Assuck cover) (1:06)
14 - TV (Tara Volontà) (0:49)
15 - Un nuovo taglio (0:14)
16 - Avvezzamento ciclico (3:08)
17 - Storm of stress (Terrorizer cover) (1:23)
18 - Furia procace (0:42)
19 - Riflessi d'evidenza (2:10)
20 - Colto da disperazione (6:40)

venerdì 7 dicembre 2012

Blut Aus Nord - "Memoria Vetusta I: Fathers Of The Icy Age"

Impure Creations Records, 1996
Le immagini del booklet in mio possesso, spostate sulle tonalità verdi e con un aspetto lievemente anticato, non lasciano dubbi sulla natura di quest'album: si tratta di una perfetta rappresentazione della natura più grezza e selvaggia, degli istinti primordiali di animali e spiriti arcani, del gelo invernale e di lande desolate spazzate da tormente di neve. Lo si può dire ancora prima di aver ascoltato il cd. Quando poi si inserisce il disco nel lettore e si preme il tasto play, arriva la conferma definitiva: raramente ho trovato un album la cui potenza evocativa è così forte e ha una direzione perfettamente definita e precisa.

Perfetto seguito del già clamoroso debutto "Ultima Thulee", i francesi Blut Aus Nord proseguono la loro evoluzione artistica con un album forse un pochino meno ispirato del suo predecessore, ma comunque estremamente valido e capace di pennellare vividi scenari nell'immaginazione di chi si immerge nelle sue note gelide e riverberanti. Per quarantacinque minuti, la band ci sottopone ad un black metal sporco, grezzo e rugginoso, nel quale le chitarre sono spade di ghiaccio affilatissimo, la batteria è il suono delle valanghe che rotolano a valle travolgendo tutto, e la voce in screaming (stupendamente messa in secondo piano) è il lamento di un solitario viandante che si è perso nella tormenta e lotta disperatamente per sopravvivere al turbine di gelo che lo avvolge. Ritmi quasi sempre sostenuti e violenti (ma mai esagerati al punto di rendere inintellegibili i brani), poche pause di respiro, sprazzi melodici di una bellezza sconvolgente incastonati come gemme rare all'interno di un panorama di roccia e ghiaccio; è tutto qui, ma non c'è bisogno di altro per passare tre quarti d'ora con la mente altrove, osservando quei paesaggi remoti scintillare sotto la fredda luce di un sole invernale che non riscalda. Il songwriting è difficile da afferrare, così come sono difficili da afferrare le direzioni che prendono i brani, talvolta confusionari e poco organici: ma ho la netta impressione che ciò non sia dovuto ad un limite della band, bensì alla precisa volontà di ricreare determinate atmosfere, esattamente come succedeva nel precedente album. Un'evoluzione comunque c'è stata: se "Ultima Thulee" dava più spazio a momenti atmosferici e riflessivi, nei quali contemplare in silenzio la bellezza di un panorama gelato e solitario, "Memoria Vetusta I" incarna maggiormente il lato crudo e misantropico della natura, mostrandola come spietata e azzannatrice, se non appunto in quei brevi momenti nei quali la tormenta di neve molla la presa, lasciando che il vento cessi per un istante in modo da farci percepire di nuovo il nostro stesso viso intirizzito.  La produzione approssimativa e ovattata, tipica di questo genere di musica, è ancora una volta il biglietto da visita dell'album, un elemento fondamentale senza il quale la musica non avrebbe nemmeno un centesimo dell'intensità che invece possiede.

Il songwriting inizialmente sfugge, ma con il passare degli ascolti si acquista consapevolezza che ogni brano è al suo posto e che il disco ha una durata perfetta, non poteva essere concepito meglio di così. Forse non sarà un campione di varietà e tecnica strumentale, ma è un disco assolutamente vero, evocativo e passionale, creato per trasportare la mente ed evocare immagini nitide e precise: in questo, la maestria del gruppo è evidente. I Blut Aus Nord si evolveranno molto, dopo questo album, arrivando a massimizzare la loro componente industrial e creando dischi veramente importanti nel panorama del genere: questa è l'ultima testimonianza della loro fase "primordiale", ribollente di tetra oscurità venata da qualche pallido raggio di luce. Se dunque vivete a pane e black metal, non fatevi scappare questo splendido e paganissimo disco!

01 - Slaughterday (The Heathen Blood of Ours) (6:49)
02 - On the Path of Wolf... Towards Dwarfhill (5:46)
03 - Sons of Wisdom, Master of Elements (6:07)
04 - The Forsaken Voices Of The Ghostwood's Shadowy Realm (6:01)
05 - The Territory of Witches/Guardians of the Dark Lake (8:12)
06 - Day of Revenge (The Impure Blood of Theirs) (5:16)
07 - Fathers of the Icy Age (7:01)

Ne Obliviscaris - "Portal Of I"

Code666 Records, 2012
Questa atipica band australiana si era fatta notare moltissimo nell'underground con un mini album intitolato "The Aurora Veil", dove suonavano praticamente di tutto. L'inarrestabile irruenza del black metal si fondeva con raffinate orchestrazioni, le intricate strutture progressive si intrecciavano a vocals estreme e a momenti di panico strumentale puro, melodie di violino tzigano si accoppiavano con chitarre acustiche e assoli melodici di stampo sentimentale: cosa pensare di un album così poliedrico e in apparenza sconclusionato, adesso che è uscita la sua versione definitiva, vale a dire questo "Portal Of I" ? Le impressioni per forza di cose sono contrastanti, ma ciò non rappresenta un problema. I Ne Obliviscaris basano la loro musica sui contrasti e sul sincretismo più libero, lasciando all'ascoltatore l'onere di apprezzarlo oppure di detestarlo, in quanto le vie di mezzo sono piuttosto difficili.

"Portal Of I" contiene sette tracce, tre delle quali sono le stesse che comparivano sul demo, registrate nuovamente e con una produzione indubbiamente migliore. Il problema più grosso, per chi si approccia a questo album, è scovare un filo conduttore: l'emozionante e tumultuosa introduzione di "Tapestry Of The Starless Abstract" fa subito pensare ad un album di black metal melodico, di stampo pagano e naturalistico: i riff ombrosi e l'alternanza tra growl e voce pulita sembrano indirizzarci subito verso un certo tipo di atmosfere, fino a quando non parte un'accelerazione di stampo prog, che ci disorienta come le fughe strumentali dei Dream Theater e compagnia. Il brano poi si perde in un lungo intermezzo acustico d'atmosfera, che ricorda quasi le interminabili esibizioni di chitarra classica in quei concerti ai quali non va mai nessuno. Ma non è finita qui: al settimo minuto riprende un ritmo stoppato, con intrecci di violini giocosi e un assolo di chitarra vorticoso, su una ritmica in doppia cassa che si mantiene costante per minuti. La voce pulita nel finale sembra quella di un gruppo emocore, spiccatamente melodica e ruffiana, mentre il termine ultimo sembra la chiusura di una ballad sentimentale. Un brano del genere, dalla durata di dodici minuti, lascia spiazzato anche il più navigato degli ascoltatori. Questo nuovo filone musicale del "mischiare tutto" si sta affermando, in tempi recenti, grazie a band come Between The Buried And Me, As Light Dies, Unexpect; è evidente la volontà dei Ne Obliviscaris di dare il loro personale contributo a questa corrente musicale così ostica ma allo stesso tempo così affascinante.

Il disco prosegue nella sua frastorante opera regalandoci brani di livello notevole come "Forget Not" e soprattutto "And Plague Flowers The Kaleidoscope". La prima è un lungo e progressivo viaggio attraverso campi di grano assolati, con una chitarra acustica prepotente e un violino protagonista assoluto, che per minuti e minuti preparano il terreno crescendo sempre più fino ad un'esplosione di chitarra e batteria memorabile. Con il secondo brano, introdotto da superbi ghirigori violinistici, si vanno ad esplorare territori più malinconici, grazie a cavalcate di chitarre ruggenti e a ritmiche pompate, quasi parossistiche in certi tratti. Il violino folk non smette mai di accompagnare il brano, talvolta assumendo un ruolo importante, talvolta ritirandosi nelle retrovie lasciando che siano la voce e il riffing ad impattare sulle orecchie dello sballottato ascoltatore. Basterebbero questi due brani per farsi un'idea sufficiente dell'assoluta perizia tecnica e compositiva di questa band, ma perchè non citare anche i rimanenti brani? Ognuno ha qualcosa di diverso da comunicare, come la speranzosa "As Icicles Fall", che dopo averci ammaliato con una partenza bucolica, esplora un riffing che ricorda molto da vicino il melodic death svedese (alcune produzioni dei Dark Tranquillity, specialmente le più datate), e si perde successivamente in un oceano di tensioni e suoni stridenti di violino e chitarra elettrica, entrambi tesi ad una catarsi che non arriva mai, con il risultato di calamitare l'attenzione e di moltiplicare il trasporto emotivo. Sprazzi di tremenda tristezza emergono tra le sincopi ritmiche, mentre un assolo drammatico conclude il pezzo e ci porta al brano conclusivo, "Of Petrichor Weaves Black Noise": un arpeggio lacrimevole e delicatissimo, un gigantesco sfoggio di tecnica melodica e armonica nel mezzo, e un finale corale assolutamente meraviglioso, che ricorda quasi l'elegiaca pace evocata dai contemporanei artisti new age. Arrivare ad ascoltare di fila tutti i settanta minuti di questa release non è impresa facile, perché si rischia di perdere la bussola e di impazzire, se non debitamente preparati ad una tale poliedricità sonora e stilistica.

Contrasti, ho detto inizialmente. Questo album è un continuo contrasto: tra velocità e lentezza, tra emozione allo stato puro e piacere intellettuale, tra virtuosismo e attacchi frontali, tra violenza e ragione. Tecnica sopraffina, estrema varietà compositiva e sonora, organicità, impatto, fantasia e inventiva: che altro manca a questo disco e a questa band così inclassificabile e affascinante? A qualcuno potrà forse apparire un po' freddo e cervellotico, ma concedendo più tempo e attenzione all'ascolto si noterà come ogni nota di "Portal Of I" è perfetta, non c'è veramente nulla che si possa eccepire ad un lavoro camaleontico e ricchissimo come questo. Forse il suo unico difetto sta proprio nell'eccessiva perfezione formale, se di difetto si può parlare. Procuratevelo a scatola chiusa se amate la musica complessa ma che al contempo non sia una mera trasposizione di una jam session in studio.
Vorrei essere in grado di consigliarlo ad una fascia specifica di ascoltatori, ma mai come nel caso dei Ne Obliviscaris mi trovo in difficoltà: a questo punto, la classica scappatoia del "un ascolto comunque non guasta" è quanto mai appropriata. Secondo me è un capolavoro di proporzioni epiche, ma non posso garantirvi che penserete la stessa cosa, dipende tutto da voi, dai vostri gusti e dalla vostra sensibilità artistica.

01 - Tapestry Of The Starless Abstract (12:00)
02 - Xenoflux (9:58)
03 - Of The Leper Butterflies (5:53)
04 - Forget Not (12:00)
05 - And Plague Flowers The Kaleidoscope (11:32)
06 - As Icicles Fall (9:24)
07 - Of Petrichor Weaves Black Noise (10:42)

giovedì 6 dicembre 2012

Evadne - "The Shortest Way"

Solitude Productions, 2012
La provenienza geografica potrebbe ingannare: può un freddo e spietato disco di doom death arrivare da una terra tradizionalmente calda e festosa come la Spagna? Certo che sì: non è che tutti gli spagnoli debbano per forza essere allegri tutto il giorno, e il metal ormai ha raggiunto una copertura planetaria in tutti i suoi sottogeneri, quindi non c'è niente di cui stupirsi se il doom death comincia a far presa e a trovare esponenti di rilievo anche tra le popolazioni latine.

Gli Evadne, alfieri di questa nuova corrente musicale, suonano questo genere con passione, e lo si capisce fin dalle prime note dell'opener "No Place For Hope": un arpeggio triste di vaga matrice My Dying Bride, poi l'esplosione di un riff squarciante sotteso da un growl poderoso, ed ecco che già qualcosa ci si muove dentro, irresistibile: musica che ti annienta emotivamente, che fa salire immediatamente un brivido freddo lungo la schiena. Sarà l'eccellente produzione e la resa sonora impeccabile, sarà l'impatto devastante del bellissimo growl di Albert, sarà quel che volete, ma si sente subito quando una band ha qualcosa da comunicare. I brani variano molto al loro interno, inserendo spesso quelle sezioni arpeggiate oscure che ricordano i primi Mar de Grises, basando l'impatto ritmico sulle stoppatone e sui ritmi sincopati, macinando riff sempre molto tenebrosi e possenti di matrice Swallow The Sun (è ormai inevitabile che chi suona doom death si debba rifare ai maestri del genere!), andando a creare brani dinamici e vari, brani che rendono al massimo se sputati dalle casse di uno stereo a tutto volume: se ascoltato così, "The Shortest Way" sarà un'esperienza travolgente, nonostante la durata sia di sessantacinque minuti, che ritengo sempre piuttosto pesante da digerire anche per un fan accanito del doom death. Tastiere soffuse, note dolenti di pianoforte, riflessione e raccoglimento interiore, sprazzi di rabbia incontrollabile: in questo cocktail di suoni e sensazioni non mancano gli episodi memorabili, come la lunghissima "And I Will Leave Behind", che ci ammalia con una riuscita alternanza tra growl e voce femminile, salvo poi sorprenderci con accelerazioni improvvise e poderose, di quelle che hanno la forza di polverizzare il granito; anche "One Last Dress For One Last Journey" brilla di luce propria, con le sue ritmiche veloci in doppia cassa che si alternano a riflessivi momenti di quiete dominati dal pianoforte, mentre la voce pulita maschile (anche qui molto Swallow The Sun) fa da ponte tra i due modi diversi di impattare contro l'emotività. Niente male anche la disperazione esistenziale di "Complete Solitude", che pare non sapere dove andare, rassegnata ad eterne peregrinazioni tra la vita e la "morte in vita"; notevole inoltre la breve strumentale "The Wanderer", nella quale la protagonista diventa una lancinante e sofferta chitarra solista in doppia linea, accompagnata da un tappeto di strumenti mesto e delicato. Logicamente, in un disco di tale durata è difficile che la qualità sia sempre la stessa e che l'attenzione rimanga sempre costante, ma devo dire che comunque la qualità media rimane sempre buona, senza particolari cali di tono.

Non troverete niente di nuovo in questo album, ma troverete quella scintilla vitale che fa vibrare le corde dell'anima, quel "non so che" di particolare che trasforma un album manieristico in un buon album, certamente senza troppe pretese ma al tempo stesso onesto e sincero. Se dunque siete fan di band come My Dying Bride, Swallow The Sun e November's Doom, potreste dare una possibilità anche a questi atipici spagnoli, alle prese con un genere che tradizionalmente non è il loro ma che qui hanno dimostrato di saper suonare in maniera convincente.

01 - No Place For Hope (6:51)
02 - Dreams In Monochrome (7:49)
03 - Complete Solitude (9:08)
04 - One Last Dress For One Last Journey (8:20)
05 - All I Will Leave Behind (10:53)
06 - The Wanderer (4:26)
07 - Further Away The Light (8:01)
08 - Gloomy Garden (9:27)

domenica 2 dicembre 2012

Saturnus - "Saturn In Ascension"

Cyclone Empire, 2012
Indubbiamente, nel panorama doom - death i Saturnus sono una tra le band più capaci e interessanti, se non in assoluto la più capace e interessante; sono una di quelle band sulle quali si può sempre contare sapendo che non deluderanno mai, poiché è molto difficile che musicisti di affermata qualità si mettano a suonare musica scadente. Dopo l'ottimo "Veronika Decides To Die", manifesto del filone doom death più spiccatamente romantico e suadente, la band danese ritorna con questo "Saturn In Ascension" per dimostrare di essere ancora all'altezza della situazione. Verrebbe da dire "finalmente!", dato che sono trascorsi ben sei anni di completo silenzio: ma anche stavolta l'attesa è stata ripagata da una sfornata di assoluta qualità, grondante sentimento e passione da ogni poro.

Non troviamo grandi innovazioni in questo album, se lo confrontiamo con il precedente: troviamo semplicemente un nuovo, emozionante lavoro dei Saturnus, sempre con le sue melodie soliste da brivido, con la sua carica di tristezza lancinante e carica di pianti trattenuti, con la sua rocciosa voce in growl che squarcia il velo della dannazione, declamando versi poetici e sofferti. La sontuosa apertura ecclesiale di "Litany Of Rain" ci trasporta subito all'interno di una cattedrale maledetta, dove si prega non per la salvezza e la redenzione ultraterrena, ma per sfogare il proprio dolore inconsolabile, perfettamente simboleggiato da accordi possenti e una linea melodica che lascia una lenta scia di fiamme dietro di sè. Ricalcando un po' quella che fu la magnifica "I Long", il quintetto assembla fin da subito un brano magistrale, che si fa spazio tra esplosioni sentimentali e momenti preparatori, riflessivi, a volte permeati da una sottile tensione di fondo: ed è subito magia, di quella che scioglie il cuore in mille flutti roventi. La lead guitar, sempre riconoscibile e sostenuta dal consueto tappeto di strumenti radi e discreti, ha il compito di guidarci in mezzo a quest'odissea dolorosa, fino alla catarsi finale che ci conduce per mano a "Wind Torn", altro esempio di come le ficcanti melodie dei Saturnus siano capaci di tagliare in due le nostre difese emotive, insinuandosi nel cuore come delle lame magiche.

"A Lonely Passage" è un episodio acustico di notevole effetto che ha il compito di calmare le acque, inducendo profonde riflessioni e contatto col proprio sè spirituale, in modo da sopportare meglio l'irruenza di  "A Father's Providence", unico episodio dinamico e ritmato del lotto. Pescando ancora una volta dalle strutture del precedente album, essa va a ricalcare l'irruenza e la volitiva rabbia di "Pretend", costituendo però un unicum nel corso del disco. La successiva "Mourning Sun", che riporta le coordinate sulla consueta lentezza, è un normale brano in stile Saturnus che però non aggiunge nulla al disco, e che rappresenta forse l'unico momento debole dell'album, per quanto se fosse stato scritto da una qualsiasi doom band emergente sarebbe stato additato subito come capolavoro. Decisamente meglio il secondo episodio acustico che arriva subito dopo, e che risponde al nome di "Call Of The Raven Moon": la delicatezza degli strumenti, in particolare della chitarra classica, raggiunge qui dei livelli mirabili, con melodie commoventi che si insinuano nell'anima con una forza gentile ma al contempo impossibile da fermare. E siamo giunti agli ultimi due brani, che racchiudono il meglio che questo "Saturn In Ascension" ha da offrire: mentre "Forest Of Insomnia" si muove per lunghi minuti su sonorità preparatorie per poi esplodere in momenti melodici da crepacuore e in un lungo assolo finale tra i più emozionanti che io abbia mai sentito, "Between" porta alle estreme conseguenze il romanticismo disperato della band, condensandolo in un'accoppiata violino - chitarra da lacrime, che chiude il disco come una scia di luce ondeggiante tra un mare di ciliegi fioriti. Del tutto fuori luogo, invece, la bonus track inclusa nell'edizione digipak: grezza e acerba, risalente ai primissimi demo della band, non trova nè il contesto nè tantomeno la posizione adatta per farsi apprezzare, per cui consiglio vivamente di interrompere l'ascolto al termine della sofferta epopea di "Between".

Date a questa band il tempo sufficiente per scrivere la musica che vogliono, e vi restituiranno sempre album intensi e ispirati come questo: per cui perdoniamoli se sono stati lontani dalle scene per così tanto tempo, e perdoniamogli anche l'indiscutibile fatto che "Saturn In Ascension" è un "Veronika Decides To Die II" e niente più. Come si fa ad avercela con i Saturnus, anche se hanno un po' ricalcato quello che fu il loro precedente e acclamatissimo album? La qualità e la bellezza della musica sono a livelli così alti che l'acclamazione diventa l'unica accoglienza possibile. "Saturn In Ascension" è un nuovo grande album, forse un po' prolisso e limabile in alcuni punti, ma indiscutibilmente in grado di polverizzare la quasi totalità delle produzioni doom death odierne e di riconfermare i Saturnus come il meglio del meglio nel loro campo.

Amabile, elegante, sconsolato: la colonna sonora perfetta per le vostre sofferenze di tutti i giorni.

01 - Litany Of Rain (10:03)
02 - Wind Torn (8:49)
03 - A Lonely Passage (5:28)
04 - A Fathers Providence (5:09)
05 - Mourning Sun (10:26)
06 - Call Of The Raven Moon (7:30)
07 - Forest Of Insomnia (10:11)
08 - Between (11:11)