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giovedì 31 marzo 2011

Fungoid Stream - "Oceanus"

Furias Records, 2010
Il mondo del metal non finisce mai di stupire. Puoi sentire tutto, ma proprio tutto, dal Black al Power, dall’Avantgarde all’Epic, puoi andare a spulciare nell’underground e scoprire un nugolo di band particolari che si inventano un proprio genere musicale. Puoi addirittura fare una ricerca mirata sull’Encyclopaedia Metallum facendoti una cultura sulle band che suonano i generi più strani...ma alla fine, dopo aver scoperto tutto ciò, salta fuori comunque qualcosa di nuovo e sbalorditivo. Stavolta questo qualcosa si chiama Oceanus.

Dopo un debutto magistrale tornano infatti sulla scena gli argentini Fungoid Stream con il loro secondo album, registrato nell’estate del 2007 ma - per motivi a me oscuri - uscito soltanto nel 2010. Nonostante i testi siano ancora frammenti dell’opera di Lovercraft, l’artwork e il booklet ci parlano di un viaggio nell’apparente tranquillità delle profondità oceaniche, un mondo suggestivo popolato da strane creature che per i profani come me costituisce il punto di incontro tra i piani astrali e lo spazio. E così, dopo il turbinio di bolle susseguente l’immersione, scivoliamo lentamente nell’oscurità più profonda dell’oceano, galleggiamo in questa vastità sconosciuta, e una volta giunti sul fondale marino ci imbattiamo in splendide creature: troviamo una fauna dalla strumentazione minimale, che è un lento rincorrersi di placidi e solitari arpeggi, canti di balene e tastiere che paiono imitare la loro solitudine, cori sirenici di ogni genere e brulicanti narrazioni. E i fondali marini da noi raggiunti, suolo su cui si svolgono questi inseguimenti, sono sofficemente rivestiti da chitarre e voci soffuse mai invadenti. I Fungoid Stream confermano dunque tutto ciò che di buono avevano fatto sentire in Celaenus Fragments, compreso il loro immenso range di suoni al quale vengono dedicate un’attenzione ed una ricercatezza maniacali - nonostante il minimalismo strumentale. Ma Oceanus non è solo una conferma, bensì un passo avanti: l’idea che esso dà dei Fungoid Stream è quella di una band che ha fatto tesoro delle proprie ottime idee e ha raggiunto una maggior sapienza compositiva, riuscendo a non concentrarsi unicamente sulle atmosfere in tastiera che tanto li caratterizzava, ma a comporre brani completi e raffinati sorretti da buone strutture. I più eccellenti mi sembrano Antarktos e Night-Gaunts: entrambi sono apparentemente dei crescendo, ma entrambi risprofondano improvvisamente in una calma strumentale che porta con sé una tempesta emotiva, dipinta da arpeggi e tastiere che rimangono soli a tingere il silenzio. Splendida poi anche The Gardens Of Yin, coi suoi toni opprimenti, per non parlare dell’intro di Oceanus e Nemesis: nella prima aprono dei sintetizzatori fantastici che accompagnano un canto di balena, mentre la seconda si produce subito in un assolo melodico di chitarra degno dei migliori elogi.

Oceanus ruberà tre quarti d’ora scarsi della vostra vita per darvi in cambio un’ampia gamma cromatica di emozioni e un vassoio di momenti irripetibili tutti da assaporare. Oceanus, l’icona di una band che ha il grande merito di essere essenziale: usa sempre il minimo indispensabile che le occorre per ottenere il risultato desiderato, evitando di aggiungere strumenti che altrimenti si limiterebbero ad accompagnare - minimalismo che mette in risalto la loro abilità compositiva e le loro precise idee musicali. I Fungoid Stream rappresentano secondo la mia personalissima opinione quanto di più interessante c’è attualmente sulla scena Funeral Doom, insieme ad Ahab, Ea, Arcana Coelestia e Urna. L’unica pecca di questo disco è che poi finisce...

01 - Star-Winds (05:52)
02 - Antarktos (07:31)
03 - The Gardens of Yin (06:52)
04 - Interlude - The Pnakotic Manuscripts (02:21)
05 - Night-Gaunts (05:18)
06 - Oceanus (07:36)
07 - Nemesis (06:48)

mercoledì 30 marzo 2011

Anaal Nathrakh - "Hell Is Empty, And All The Devils Are Here"

FETO, 2007
L’uomo è indubbiamente una specie forte e grandiosa, ma con le sue gesta si autoproclama anche imperatore della stupidità e della superstizione: dalla sua debole mente emotiva scaturiscono illusioni ultraterrene, dalle sue possenti mani scorrono fiumi di sangue e devastazione. Con le sue gesta l’uomo spalanca le porte dell’inferno da cui si sprigionano i demoni peggiori: l’inquinamento, la religione, le guerre. E così l’inferno è vuoto, e tutti i demoni sono qui. Non potrebbe esserci biglietto da visita migliore per gli annichilenti Anaal Nathrakh, l’artwork desolante e i titoli del cui nuovo album lasciano trasparire chiaramente.

Quel che invece non traspare ma è nitido e cristallino è che la colonna sonora che accompagna la fuoriuscita dei demoni dall’Ade è eccellente: il duo sembra in gran spolvero, con Irrumator che gioca come non mai sulla potenza travolgente di riffoni tutti Grindcore, e soprattutto con V.I.T.R.I.O.L. che si esibisce in una quantità notevole di soluzioni vocali distruttive, oltre naturalmente a sfoggiare le sue solite urla infestanti che lo rendono tanto glorioso. Hell Is Empty è un lavoro estremo ed esplosivo che continua in pieno la tradizione musicale della band, ed diviso in diversi momenti: dopo un’intro colossale i primi brani segnano la parte più melodica del disco con i classici ritornelli in clean che lacerano il frastuono circostante come un raggio di luce attraverso un cielo temporalesco - due su tutti: Virus Bomb e The Final Absolution. Segue una fase di transizione rappresentata da Shatter The Empyrean, ancora col ritornello clean, e dalla spettacolare Lama Sabachthani, brano dalla melodia molto Black in cui V.I.T.R.I.O.L. tuona può volte: “Eloi! Eloi! Lama Sabachthani!”; ciò significa “Dio! Dio! Perché ti sei dimenticato di me?”, e sarebbero le ultime parole di Cristo in croce secondo i Vangeli di Marco e Matteo. Questo tradimento di Dio verso il proprio pargolo non può fare altro che condurre ad un finale apocalittico: qui esplode il Grindcore più selvaggio, mettendo a nudo le influenze musicali della band e travolgendo ogni cosa. Splendide in particolare l’abominevole Genetic Noose, con un cantato grugnito semplicemente favoloso, e Sanction Extremis, caratterizzata dal giro di chitarra melodica che condisce il finale - l’unica uscita nettamente melodica nelle ultime quattro tracce. Il disco si chiude alla perfezione con Castigation And Betrayal, il brano più veloce, estremo, distruttivo che io abbia sentito in tutta la mia vita. Applausi, prego! Un lavoro che uccide e poi strazia i cadaveri, un’arma di sterminio di massa che suona più come un “best of” che non come un full-length qualsiasi: se Eschaton era un album che ruotava attorno a dei punti focali precisi, Hell Is Empty colpisce in pieno con ogni singolo brano - perfetto se preso nel complesso, perfetto anche se preso nei suoi singoli episodi.

Il clean di questo disco trascina. I riff Grindcore trascinano. Le melodie Black, l’impatto sonoro, il ritmo, tutto ciò trascina. Il disco intero trascina, è trascinante a livelli inverosimili, trascina via ogni corpo di ogni massa, in qualsiasi condizione. Se anche foste incatenati ad un muro vi trascinerebbe via ugualmente, a costo di far crollare il muro stesso o di far uscire le vostre articolazioni dalla loro sede originaria. Uno degli album più riusciti che io abbia mai sentito, Hell Is Empty rappresenta senza dubbio un punto d’arrivo per la band.

01 - Solifugae (Intro) (01:05)
02 - Der Hölle Rache Kocht in Meinem Herzen (03:39)
03 - Screaming Of The Unborn (02:46)
04 - Virus Bomb (03:35)
05 - The Final Absolution (03:55)
06 - Shatter The Empyrean (03:04)
07 - Lama Sabachthani (03:48)
08 - Until the World Stops Turning (02:53)
09 - Genetic Noose (03:34)
10 - Sanction Extremis (Kill Them All) (03:32)
11 - Castigation And Betrayal (04:02)

martedì 29 marzo 2011

Sigh - "Gallows Gallery"

Candlelight / Baphomet, 2005
L’antefatto. A quanto pare l’ultimo sperimentalissimo Imaginary Sonicscape non è piaciuto alla Century Media, nemmeno dopo essersi permessa di tagliare due brani dei dodici originali. Non contenta, la casa discografica non ha concesso ai Sigh di pubblicare Gallows Gallery perché richiedeva alla band qualcosa di più Black-oriented. Così i giapponesi, al termine di un irrisolvibile braccio di ferro, hanno dovuto cercarsi una nuova label trovandola nella Candlelight Records. Finalmente poterono pubblicare il nuovo album, ma sembra che sia apparso con un sound deplorevole e con un ordine diverso della tracklist. Così due anni dopo, accasatisi alla The End Records, è arrivata la ristampa rimasterizzata, con copertina azzurra invece che arancione e nuovo ordine della tracklist. Nella presente recensione faccio riferimento a questa seconda edizione dato che è quella in mio possesso, e dato che è quella che si trova sul mercato.

Le novità. Buone nuove dal fronte Sigh. Prima buona notizia: i Sigh hanno finalmente cambiato batterista! Il vecchio Satoshi Fujinami si defila al basso lasciando spazio al nuovo Junichi Harashima - che, sia chiaro, non è niente di eccezionale, ma se non altro è veloce e ogni tanto si ricorda che esiste la grancassa. Seconda buona notizia: il lucido delirio di grandezza di Mirai è andato scemando, e il leader della band ha optato per tornare a comporre musica con un indirizzo preciso. Terza buona notizia: i Sigh hanno cambiato batterista! Ah no, l’ho già detto...ma le ottime notizie si ripetono volentieri.

Il disco. Credo si tratti del genere musicale più difficile da inquadrare che io abbia mai sentito: se infatti le strutture dei brani rimandano in parte all’Heavy Metal classico, e se la loro sostenuta andatura ricorda in alcuni istanti il Punk, dall’altro lato il sound della chitarra ritmica è molto sporco - ma è uno sporco strano, nulla a che vedere col Black Metal, il quale è qui presente solo sotto forma di lontana eco in una percentuale inferiore all’1%. In aggiunta a tutto ciò il disco è disseminato di euforici assoli in organo hammond in stile Deep Purple che fanno molto anni ’70, e di assoli di chitarra che invece coi Deep Purple non c’entrano niente. A tali irrefrenabili duetti si aggiunge di tanto in tanto un piacevole sax, e altre volte ancora sono gli inserti di musica elettronica a tener banco; ma una volta tanto abbiamo delle contaminazioni elettroniche fatte bene: molto defilate, relegate solo a qualche apparizione, e soprattutto prive di quell’insopportabile sound gommoso tipico dell’Industrial. E la voce? La voce...non saprei descriverla. Per la prima volta non c’è traccia del classico scream dei Sigh, qui trova spazio solo un clean mediamente alto spesso ricavato mediante la sovrapposizione di più voci - non so per quale assurdo motivo, ma mi fa pensare tanto agli Aristogatti! Al di là di questa breve divagazione, se questo disco non fosse Metal si potrebbe parlare addirittura di Art Rock. Brani forsennati costruiti su strutture semplici Heavy/Punk con un sound inqualificabile, parti soliste in organo, chitarra e sax, inserti di musica elettronica - una sorta di meeting tra l’avanguardia e il retrò: when Avantgarde and Classic unite. Cosa ci si potrebbe aspettare da un simile pazzesco guazzabuglio, soprattutto alla luce dell’ultimo Imaginary Sonicscape? Uno stile sonoro altrettanto ampio e sterminato che ci porta in crociera in ogni angolo della musica. E invece no! La cosa più straordinaria è proprio che lo stile musicale di Gallows Gallery è perfettamente lineare, in pieno contrasto con Imaginary Sonicscape. E non solo, è persino incredibilmente semplice e diretto! La naturalezza dei brani è così esagerata che questo disco sembra il risultato di parecchi anni di studio e tentativi, sembra il culmine di un’estenuante carriera spesa per conciliare l’inconciliabile...e invece è un fulmine a ciel sereno, un disco arrivato quasi per caso senza che nessuno potesse sospettarlo, oso addirittura azzardare che si tratti di un mero tentativo - del tutto riuscito.

Conclusione. Un po’ forse per l’andamento molto sostenuto, un po’ forse per l’euforia dei brani, un po’ sicuramente per la straordinaria abilità di Mirai nell’accostare l’inaccostabile - sta di fatto che Gallows Gallery colpisce in positivo, pur staccandosi decisamente da tutto quello che sono stati i Sigh in passato. Gallows Gallery è la dimostrazione definitiva che i Sigh sono una band alla costante ricerca delle novità, una band che dopo più di un decennio di sperimentazioni non ha ancora trovato - o non ha ancora voluto trovare - un proprio stile preciso. Insomma, i Sigh sono l’incarnazione musicale della filosofia di vita “vivere alla giornata”, e nella giornata odierna si vive di Gallows Gallery. Enjoy!

01 - Pale Monument (03:53)
02 - In A Drowse (03:27)
03 - The Enlightenment Day (03:33)
04 - Confession To Be Buried (06:21)
05 - The Tranquilizer Song (03:20)
06 - Midnight Sun (03:45)
07 - Silver Universe (03:51)
08 - Gavotte Grim (07:27)
09 - Messiahplan (03:47)

lunedì 28 marzo 2011

Dream Theater - "A Change Of Seasons"

EastWest Records America, 1995
"A Change Of Seasons" è un disco spesso sottovalutato nella discografia dei Dream Theater, autentici magnati del progressive metal: sarà perchè conta di una sola lunga traccia, dalla durata di ben ventitrè minuti, mentre il resto dell'album è composto unicamente da cover: sarà perchè si trova a metà tra due colossi come "Awake" e "Scenes From A Memory" (non contando il poco fortunato "Falling Into Infinity"), dischi sicuramente più conosciuti dalla maggior parte dei fan della band; sta di fatto che non tutti si ricordano di questo piccolo capolavoro, il primo dei due album in studio nel quale Derek Sherinian è stato ingaggiato alle tastiere.

Il gusto raffinato di "Images And Words" si sposa alla perfezione con le atmosfere dure ed oscure di "Awake", partorendo una lunga, intricatissima e variegata composizione, divisa in sette parti. La storia è quella di una vita intera: lo speranzoso inizio, la giovinezza nella quale il mondo sembra a portata di mano e la meraviglia per il mondo riempie il cuore; la corruzione, la consapevolezza che l'innocenza è finita; l'ineluttabile proseguire del tempo con tutte le conseguenze che ne derivano, e infine la presa di coscienza che la vita è finita e che è ora di tirare le somme.  Non a caso, al disco viene sempre associato il bellissimo film di Peter Weir, ossia "L'attimo fuggente", che compare nell'album con alcune citazioni, e del quale talvolta viene proiettato qualche spezzone dal vivo, come anticipazione del brano stesso. Una storia intensa, resa alla perfezione da una musica passionale, che sposa perfettamente melodia e virtuosismo tecnico, come da tradizione Dream Theater: in quest'unica composizione troviamo un po' di tutto, dagli arpeggi sognanti dell'introduzione a parti squisitamente aggressive e distorte, da lunghe parti cantate tendenti all'epico, fino a drammatici intermezzi suonati in sordina, in un quadro generale dominato da un senso di progressione, ma contemporaneamente di incertezza: quella che deriva dal timore di perdere la strada, come spesso può accadere nel corso di una vita. Gli intrecci strumentali sono sempre pregevoli, a parte alcune rare eccezioni (poco convincente l'inizio della sezione "Innocence", ad esempio): sull'implacabile chitarra di Petrucci e sulla virtuosa batteria di Portnoy si staglia fiera la voce di James LaBrie, dall'ugola acuta e capace di assumere mille sfumature timbriche diverse: una qualità non da poco per un cantante. A mano a mano che i minuti passano veniamo risucchiati via via in un turbine di assoli, riff contorti, parti di batteria sincopate e mai statiche, da un basso pulsante e vivo, da arrangiamenti di tastiera dal gusto talvolta sbarazzino, come si nota specialmente negli intermezzi strumentali. Il meglio si ha però quando gli strumenti rallentano, le fughe chitarristiche si fermano, e la musica diventa compatta, grandiosamente epica, dominata da masse strumentali che suonano all'unisono, o da solitari assoli di chitarra che paiono quasi parlare, tale è la loro espressività. Specialmente in questi intensi intermezzi, la prova vocale di James raggiunge il suo acme, con un cantato strepitoso che rende alla perfezione i sentimenti del protagonista, costretto a confrontarsi con una realtà difficile. Tutti quelli che ritengono che LaBrie abbia una gran voce ma sia inespressivo, dovrebbero perlomeno provare a ricredersi. Il brano si conclude, in perfetta tradizione Dream Theater, con un crescendo drammaticamente intenso, che cresce in velocità e potenza fino al parossismo, per poi esaurirsi quasi di colpo e tornare al triste arpeggio iniziale. Abbiamo effettuato un lungo viaggio, ma il punto di partenza e il punto di arrivo sono sempre gli stessi: una metafora del ciclo vitale?

"A Change Of Seasons" è un album maturo, ispirato e genuino, ingiustamente sottovalutato. Nella discografia di un gruppo colossale come i Dream Theater c'è stato spazio per qualche momento di incertezza, ma questo EP si colloca senza dubbio tra i migliori lavori della band. Consigliato a tutti gli amanti della buona musica in generale.

01 - A Change Of Seasons (23:10)
  • I) The Crimson Sunrise
    II) Innocence
    III) Carpe Diem
    IV) The Darkest Of Winters
    V) Another World
    VI) The Inevitable Summer
    VII) The Crimson Sunset
02 - Funeral for a Friend - Love Lies Bleeding (10:49)
03 - Perfect Strangers (5:33)
04 - The Rover - Achilles Last Stand - The Song Remains the Same (7:29)
05 - The Big Medley (10:33)

Draconian - "Arcane Rain Fell"

Napalm Records, 2005
I Draconian sono spesso considerati un gruppo di serie B nel panorama gothic - doom, accusati di essere troppo attaccati ai clichès del genere e di non essere capaci di mostrare alcuna personalità, nè alcuna idea realmente interessante. Non sono pienamente d'accordo: potrei dire che non lo sono affatto, ma preferisco mantenere qualche riserva, per motivi che spiegherò in seguito.

Inizio invece col dire che questo "Arcane Rain Fell" è senz'ombra di dubbio il miglior lavoro partorito in casa Draconian, e che si tratta di un disco di tutto rispetto, anche se può benissimo non piacere. Qualcuno potrebbe apprezzare a fatica la romantica voce di Lisa Johansson mentre duetta con il mostruoso growl di Anders Jacobsson: entrambi i cantanti hanno una timbrica e uno stile particolarmente "patetico" e teatrale, che potrà farli amare alla follia oppure farli detestare: questa band non accetta vie di mezzo, o li si apprezza o li si odia. Comincio a dire i motivi per cui apprezzo questo "Arcane Rain Fell": innanzitutto per un buon songwriting, per le ottime melodie, per le strutture dei brani di sufficiente complessità e varietà, per la capacità di alternare sapientemente dolcezza e rabbia; successivamente per l'ottima produzione, sempre pulita e potente. Infine, per la presenza di un capolavoro che si colloca immediatamente come momento più alto dell'intera discografia del gruppo, e cioè la lunghissima e altrettanto sofferta "Death, Come Near Me", teatro di un romanticismo disperato e intensissimo. Ma come non citare anche la durezza dell'opener "A Scenery Of Loss", che cresce lentamente aumentando il volume delle chitarre, fino ad arrivare a spunti quasi death metal? Oppure, come non stupirsi di fronte alle appassionate e contorte melodie di "Daylight Misery", o al vibrante tema centrale di "Heaven Laid In Tears"? Difficile rimanere insensibili a brani di tale intensità e bellezza, ma purtroppo non è tutto rose e fiori come sembra: ora devo spiegare il perchè delle mie riserve. Come mai non sono totalmente in disaccordo con chi considera quest'album un lavoro mediocre? Perchè in realtà contiene troppi riempitivi, che potrebbero tranquillamente non esserci. Se l'album fosse formato solamente dai brani che ho citato, starei probabilmente parlando di un EP - capolavoro, uno dei miei dischi preferiti: tuttavia non posso ignorare la prolissità di un brano come "The Apostasy Canticle", che pur sforzandosi di apparire grintoso e appassionato, in realtà risulta piatto e poco coinvolgente: stesso discorso per "The Abhorrent Rays" e per "The Everlasting Scar", brani assolutamente ordinari e privi di idee: il primo sembra quasi un pezzo rock commerciale, il secondo usa praticamente solo riff riciclati dai precedenti brani, e dunque non è nulla di realmente interessante, nonostante le variazioni ritmiche che potrebbero conferirgli un minimo di dinamismo. L'intermezzo recitato "Expostulation",  unico brano che ancora non ho citato, è sicuramente piacevole ma in fin dei conti piuttosto inutile.

Che dire in definitiva? I Draconian sono una band con buone potenzialità, ma che riescono a sfruttare le medesime solo a metà: questo album è un insieme di brani splendidi e brani di scarso valore, che uniti in un solo album lasciano un po' l'amaro in bocca, perchè ripeto, se ci fossero state solo le tracce 1, 2, 5 e 8, ora starei a parlare di uno dei più bei dischi gothic - doom di sempre. Ciò non toglie, tuttavia, che la metà "valida" dell'album valga di per sè l'acquisto. Per chi avesse dei dubbi, consiglio di ascoltare la sopracitata "Death, Come Near Me" per farsi un'idea: vedrete che la voglia di comprarlo vi verrà comunque, anche se solo metà disco è realmente valevole di essere ascoltato e vissuto.

01 - A Scenery Of Loss (9:11)
02 - Daylight Misery (5:30)
03 - The Apostasy Canticle (9:51)
04 - Expostulation (2:05)
05 - Heaven Laid In Tears (Angel's Lament) (6:54)
06 - The Abhorrent Rays (5:32)
07 - The Everlasting Scar (6:00)
08 - Death Come Near Me (15:22)

venerdì 25 marzo 2011

Arcana Coelestia - "Le Mirage De L'Ideal"

ATMF, 2009
Non è certo per slancio patriottico se un antipatriottico come me afferma che negli ultimi dieci anni l’Italia ha raggiunto un’ottima situazione in ambito Metal, seconda solo ai fastosi panorami di Scandinavia e Stati Uniti, e forse a Germania e Gran Bretagna. E la situazione è ottima tanto come quantità quanto come qualità: basti pensare a band quali Forgotten Tomb, DoomSword, Sadist, Illogicist, DGM, per non parlare della nutritissima scena underground.

Il bello della varietà è che è come l’entropia: non può far altro che crescere, e mal che vada rimane costante. E se negli ultimi anni è cresciuta così tanto, una fetta consistente del merito va riconosciuta agli Arcana Coelestia, che con Le Mirage De L’Ideal danno un seguito a quel capitolo iniziale Ubi Secreta Colunt pubblicato nel 2007. Fin dall’inizio fu chiaro che si trattava di una proposta eterogenea molto interessante e difficile da inquadrare, ma che sostanzialmente può essere fatta rientrare nel girone Black/Doom. Ma una cosa è esordire con un buon disco che formula delle potenziali promesse, ben altra cosa è riuscire poi a mantenerle con il secondo full-length: Le Mirage De L’Ideal ci riesce nel più fantastico dei modi.

Le Mirage De L’Ideal si presenta come una personalissima rielaborazione dello stile degli Esoteric, e, sebbene il modo di suonare la chitarra ritmica sia il medesimo e le linee vocali si somiglino molto, gli Arcana Coelestia trasformano la paralizzante claustrofobia dei britannici in qualcosa di arioso ed etereo: le atmosfere opprimenti e psicopatiche sono qui sublimate in paesaggi onirici, mentre gli arpeggi oscuri cedono il passo al pianoforte - magistrale l’outro finale! Da sottolineare anche le leggiadre uscite in clean vocals, sicuro valore aggiunto che impreziosisce il tutto. Col senno di poi ci si rende conto che tutto ciò era già stato accennato in Ubi Secreta Colunt; ma se quella fu una speranzosa semina di idee ancora non del tutto delineate, è solo ora che dal terreno si ergono robusti alberi da frutto carichi di succulenti baccelli: gli Arcana Coelestia sfornano un lavoro dalle tinte celestiali - guarda a caso! -, un po’ onirico e un po’ allucinatorio, due concetti che sono molto più vicini di quanto non si possa pensare. Bisogna spendere parole d’elogio anche nei confronti della produzione: i suoni non sono mai netti, ma si sfumano piuttosto uno nell’altro creando un effetto galleggiante, fluttuante, semplicemente delizioso - l’effetto è davvero quello di “un mirage”! E’ possibile rendere musicalmente l’effetto di un miraggio? Impensabile, ma gli Arcana Coelestia ci riescono. Pazzesco...da notare in particolare la batteria: imponente e lontana, dà una profondità incredibile ai brani, come se rimbombassero da cieli lontani. Questo è un esempio clamoroso di come, qualora il materiale musicale composto sia già di per sé valido, una produzione particolare e ricercata - e soprattutto non necessariamente moderna e pulita! - possa fare di un ottimo album musicale un capolavoro unico e irripetibile.

E così la musica fila via sublime e tremendamente immaginifica, une opéra mélancolique in deux actes che viaggia leggera ma imponente come un’ampia nuvola irradiata dalla luce di un sole tramontante, sprofondando lentamente nella tragica narrazione baudelaireiana di Delirium per poi riemergere per il gran finale. Nel panorama Funeral Doom, composto ormai delle solite band Doom/Death tutte uguali, mancava una perla lucente come questo album, che più che un miraggio dell’ideale è una palpabile ideale realtà: maestoso.

Acte Premier:
01 - Duskfall (10:55)
02 - Requiem (For The Fathomless Void Of Redemption) (08:18)
03 - Le Mirage De L'Idéal (07:34)

Acte Deuxième:
04 - Tragedy & Delirium I - The Tragedy (05:33)
05 - Tragedy & Delirium II - The Delirium (06:45)
06 - ...Thus Fade In Nocturnal Deluge (10:27)

Incantation - "Blasphemy"

Candlelight Records, 2002
Come tutti ben sanno il Death Metal è nato dal Thrash, e non a caso i primi gruppi storici - ad es. Death, Possessed, Obituary, e persino i primi Morbid Angel - presentano una chiara matrice Thrash nelle strutture dei brani. Gli Incantation furono invece una delle primissime band, insieme a Immolation e Suffocation, a suonare un Death Metal violento per davvero: più veloce e oscuro, con un growl cavernoso e un ritmo pieno zeppo di blastbeats.

C’è però un mistero nel mondo del Death Metal: alcune band di vecchia data, magari anche con pochissimi dischi all’attivo, rimangono nella storia e vengono ricordate da tutti; altre parimenti valide e magari con più dischi pubblicati finiscono invece nel dimenticatoio perenne. Gli Incantation - come anche i Monstrosity e i The Chasm, tanto per citare due nomi eccellenti - appartengono al secondo gruppo, e il loro quinto album Blasphemy è forse il loro album meno acclamato. Inutile dire che è il mio preferito, ahahah! Gli Incantation vengono ricordati, da chi li ricorda, principalmente per il loro album d’esordio Onward To Golgotha (1992) che viene considerato come una colonna portante nel suo genere, ma le due vere gemme della loro discografia sono probabilmente Diabolical Conquest (1998) e The Infernal Storm (2000). Blasphemy è il loro immediato successore, e incorpora con personalità tutti quelli che sono i costituenti musicali tipici degli Incantation: velocità folli alternate a plumbei passaggi Doom-oriented, numerosi riff di grande impatto, growl crudo e oscuro. Gli Incantation sono questo, e questo ci ripropongono anche in Blasphemy: dalle violente Crown Of Decayed Salvation, Descend Seraphic Irreverence e la stessa titletrack alle gemme Rotting With Your Christ, His Weak Hand, passando per il riff nostalgico quasi commuovente di A Once Holy Throne, fino ad arrivare alla sperimentale Uprising Heresy, lenta e decadente. Finito qui? In realtà no, perché quando inserite il CD nel vano dell’apposito lettore il display vi segnala 13 invece che 11. Si scopre infatti che dopo le undici canzoni segnalate sulla tracklist segue una lunghissima traccia di quasi-silenzio da cui emergono in tutta calma una serie di rumorini molesti...il tutto si concretizza nella traccia numero 13, una parlata di una persona posseduta - suppongo - che sarebbe interessante decifrare per sviscerare eventuali messaggi subliminali. Nel complesso Blasphemy è un tripudio di riff su riff, tutti stupendi dai più veloci ai più lenti, rigorosamente accompagnati da una veste sonora tutta Old School; e gli Incantation sono un gruppo in piena tradizione Death che è capace di strafare solo per mezzo dei riff, senza mai annoiare. Qui non c’è virtuosismo, qui non c’è originalità: c’è solo uno dei migliori Death Metal datati che potrete mai sentire.

Questo disco non aggiunge nulla a quello che gli Incantation sono stati e sono tuttora, né tantomeno nulla gli toglie. Si potrebbe scrivere una recensione identica a questa per tutti gli altri loro album. Così, volendone scegliere uno, ho scelto quello che a pelle preferisco...sarà forse la disposizione dei brani, saranno forse i riff specifici, o forse semplicemente è un’irricostruibile scelta inconscia. Ma ciò che conta è che gli Incantation invece sono consci, e possono vantare una discografia invidiabile; questo Blasphemy non ne è che una dimostrazione impeccabile.

01 - Blasphemy (04:16)
02 - The Fallen (02:27)
03 - A Once Holy Throne (03:09)
04 - Crown Of Decayed Salvation (05:43)
05 - Rotting With Your Christ (03:38)
06 - His Weak Hand (05:04)
07 - The Sacrilegious Apocalypse Of Righteousness And Agonizing Dementia (The Final Defilement Of Your Lord) (02:06)
08 - Deceiver (Self-Righteous Betrayer) (04:18)
09 - Descend Seraphic Irreverence (02:53)
10 - Uprising Heresy (08:34)
11 - Misanthropic Indulgence (05:41)

Raventale - "On A Crystal Swing"

Backfire Productions, 2006
"On A Crystal Swing" è il primo suggestivo album di Astaroth, artista ucraino che rappresenta l'unico componente dei Raventale. Con questo disco, la band mette le proprie radici nel terreno ed esplora sonorità che pescano dal black metal ma si contaminano notevolmente con atmosfere doom, ma non di quelle angosciose e terrificanti, bensì calme e riflessive, ipnotiche, lontane anni luce dalla graniticità. Aggiungiamoci anche qualche riuscito inserto di elementi folk - classicheggianti - ambient, e il risultato finale sboccia in tutta la sua delicata bellezza, andando a formare un lavoro breve, molto scarno ed essenziale a livello melodico e strutturale, ma sempre dotato di una forte carica evocativa e di un'atmosfera che richiama freddi boschi invernali e paesaggi dimenticati e silenziosi, come nella migliore tradizione black metal. Nessuna aggressività e tanta dolcezza, superbamente camuffata dietro una voce sporca e chitarre deliziosamente ronzanti.

La voce in screaming, contrariamente a ciò che ci si aspetterebbe da un disco che affonda le proprie radici nel black, rimane piuttosto in sordina; nel suo timbro un po' gracchiante ma pulito risulta essere un elemento gregario, lievemente soffocato dagli strumenti e mai posto in primo piano: caratteristica che la rende affascinante, anche perchè i testi sono in lingua madre e conservano la spiccata musicalità dell'idioma ucraino, bellissimo come tutte le lingue slave. A livello puramente strumentale, le trame melodiche sono assai semplici e non si può mai parlare di linee melodiche vere e proprie, in quanto esse sono formate quasi sempre da lunghe successioni di accordi e note doppie, senza mai lasciare spazio al solismo chitarristico che comunque apparirebbe abbastanza fuori luogo in un disco come questo. I tappeti di archi in sottofondo, gentili e discreti, creano talvolta la linea melodica principale, lasciando alle chitarre un puro compito di accompagnamento. Il minimalismo che ne consegue diventerà marchio di fabbrica dei Raventale, capaci di incantare con pochissimi elementi, ma senza tralasciare la propria evoluzione musicale di album in album.

Da questo lavoro traspare la severità delle foreste nordiche e la loro raggelante bellezza, come possiamo sentire già nel primo vero brano "Shredding The Skies By Fire", debitore delle atmosfere dei Satyricon di "Mother North". Brano che si regge su una ritmica veloce e possente, su lunghe cavalcate di chitarra abbastanza statiche ma sempre coinvolgenti, che trasmettono un'idea di "viaggio", nella loro monotonia. Questo sarebbe un disco ideale da ascoltare durante un lungo viaggio in treno, mentre si superano foreste, fiumi, laghi e montagne innevate, senza mai fermarsi per giorni e giorni. L'album si muove quasi sempre sulle stesse coordinate: ripetitività, minimalismo, piccole dosi di atmosfera (come per esempio nel prologo, ma soprattutto nella breve ed intensa strumentale "The Cradle Of Rain", dove un pianoforte dolcissimo sposa il suono della pioggia), ritmiche mai troppo veloci o irruente, riusciti inserti di strumenti particolari come lo struggente flauto che ci accompagna per mano nel finale di "On A Crystal Swing" o le sognanti sezioni di archi di "Resinous Blackness Of The Sky", che aiutano le chitarre a trasformarsi da ruvide a malinconiche. Un lavoro grezzo e scarno, ma curatissimo nel suo contesto: la dimostrazione che la semplicità a volte è più efficace di tanta ricercatezza, che spesso diventa solo inutile pomposità. I Raventale sono così: semplici, crudi, diretti, totalmente sè stessi. Un disco che mi sento di consigliare vivamente, specialmente se dovete affrontare un viaggio avventuroso attraverso terre lontane e sconosciute: sarà la colonna sonora perfetta.

Magico.

01 - Prologue (2:00)
02 - Shredding The Skies By Fire (6:26)
03 - The Forest Spread Out In The Grey Melancholy (13:40)
04 - Resinous Blackness Of The Skies (7:12)
05 - The Cradle Of Rain (2:08)
06 - On A Crystal Swing (9:34)

giovedì 24 marzo 2011

Into Eternity - "The Scattering Of Ashes"

Century Media, 2006
Ognuno ha le sue band preferite, e la sorpresa di ognuno viene catturata da soluzioni musicali diverse. Capita però poche volte di restare letteralmente a bocca aperta nel sentire una nuova band...a me stesso è successo ad oggi solo due volte, la prima delle quali fu proprio ascoltando The Scattering Of Ashes degli Into Eternity.

Non ricordo nemmeno come scoprii questa band, ricordo soltanto che i primi brani che ascoltai furono Severe Emotional Distress e Nothing. E ricordo che durante l’ascolto quasi non ci credevo. La sensazione è quella del tipo: ma è vero per davvero? Come ci sono riusciti? Infatti quello che subito colpisce è che gli Into Eternity sono riusciti a comprimere ed amalgamare in poco spazio attitudini favolose come forti tendenze tecniche, batteria veloce con grande uso della grancassa e dei crush, repentini cambi di ritmo, assoli dal sapore neoclassico e scale di vario tipo, e una voce spettacolare che fa growl, scream e clean - e che clean! Ritornelli in falsetto atomico, grande esordio di Stu Block! Anche il sound è una specie di ibrido: è una via di mezzo tra Melodic Death e Metalcore, senza sbilanciarsi nettamente a favore di nessuno dei due, e mantiene tinte sempre molto pulite. Insomma, non è Metalcore, ma è decisamente troppo pulito per essere Melodeath - forse è per questo che la band viene fantasiosamente classificata come Progressive Melodic Death...sorvoliamo. Ma è merito soprattutto della struttura dei brani se questo album colpisce subito al primo impatto: ognuno infatti è caratterizzato da un proprio ritornello in clean - in falsetto atomico! - che rimane in testa facilmente, mentre nelle strofe e nei ponti sono fortemente compressi con maestria tutti i vari elementi di cui sopra, con tanto di cambi di ritmo e variazione nel cantato. La musica che ne viene partorita è veloce e mitragliante, eterogenea ma unitaria, estremamente dinamica, esplosiva ma sempre melodica: Out e Nothing sono forse gli esempi migliori di ciò.
Purtroppo però l’uso sconsiderato e ripetuto di una struttura fissa è spesso una letale arma a doppio taglio: e infatti a lungo andare quest’album un po’ annoia. Intendo dire che i primi quattro brani sono spettacolari; già A Past Beyond Memory inizia un po’ a suonare come “riciclata”, ma fortunatamente per lei è seguita da Surrounded By Night, un brano molto melodico che coi suoi arpeggi introduce qualcosa di nuovo; in questo modo anche la successiva micidiale Eternal fa la sua bella figura. Ma ahimè ora della fine si è già sentito tutto quello che c’era da sentire, si è già apprezzato tutto quello che c’era da apprezzare, e gli ultimi tre brani - che se presi singolarmente sono fantastici - risultano un po’ di troppo, dato che la soluzione è sempre la stessa: ritmo veloce, scale e assoli, ritornelli in clean. In sintesi: un album strepitoso sulla singola canzone, un po’ noioso però sull’intera lunghezza - anche se parliamo di appena quaranta minuti.

In principio era lo stupore: le strofe rapide e dinamiche rendevano ancor più stupefacenti i ritornelli clean, così melodici e fruibili, e gli assoli di chitarra erano sempre accolti con la ola. Ma poi a lungo andare la soluzione è sempre la stessa, la struttura dei brani è sempre la stessa, e l’incantesimo è rotto. E’ così soddisfatta la legge (quasi) universale della ripetitività: la ripetitività è inversamente proporzionale alla durata della passione. Sia ben chiaro: The Scattering Of Ashes è un pezzo unico e sensazionale di musica estrema melodica che si lascia ascoltare con estrema goduria; semplicemente non è in grado di tener banco in modo eccellente dall’inizio alla fine della sua durata, nonostante il valore di ciascun brano. Del resto undici perle da sole non fanno una collana...

01 - Novus Inceptum (Intro) (01:40)
02 - Severe Emotional Distress (03:55)
03 - Nothing (03:56)
04 - Timeless Winter (03:25)
05 - Out (04:55)
06 - A Past Beyond Memory (03:38)
07 - Surrounded By Night (05:08)
08 - Eternal (03:13)
09 - Pain Through Breathing (03:52)
10 - Suspension Of Disbelief (04:28)
11 - Paralyzed (03:11)

martedì 22 marzo 2011

Anaal Nathrakh - "Eschaton"

Season of Mist, 2006
A tutti prima o poi nella vita capitano esperienze a cui inizialmente si stenta a credere, esperienze che cambiano il nostro modo di concepire le cose, esperienze che rendono reale ciò che pensavamo fosse impossibile, o meglio di cui non sospettavamo nemmeno l’esistenza. Una di quelle capitate a me si chiama Eschaton: quest’album è un’esperienza sonora devastante.

Si tratta del terzo album degli Anaal Nathrakh, e se il loro precedente Domine Non Es Dignus già fu una mazzata di velocità ed estremismo variegata da sperimentazioni di vario tipo, questo Eschaton è completamente a senso unico: qualsiasi vago spiraglio di riflessività o sperimentazione è stato completamente abbandonato per concentrarsi su quello che è forse il loro migliore marchio di fabbrica: l’esplosività sonora. Sonorità nucleari, velocità spaziale, totale assenza di spazi vuoti nel sound se non tra un brano e l’altro: in altre parole, frastuono assordante. Eschaton suona come un cocktail di vitriolo e nitroglicerina, come una maratona olimpionica corsa su un campo minato. Riff esasperanti velocissimi, batteria spesso spianata in lunghi blastbeats, urla lancinanti e prolungate, voce incomprensibile, ma nonostante tutto ciò ogni brano è perfettamente fruibile grazie alla sua semplicità strutturale. Emergono inoltre con facilità alcuni giri di chitarra, come in The Yellow King, e imperano sovrani gli strabilianti ritornelli in clean di Between Shit And Piss..., When The Lion..., Timewave Zero che dimostrano come alla band debbano essere piaciuti i precedenti esperimenti della splendida Do Not Speak e di This Cannot Be The End. Questi punti di riferimento rappresentano i fuochi attorno a cui tutto il resto ruota, i soli di una virulenta galassia: aiutano a non essere inghiottiti nei buchi neri del grande chaos generale, e permettono così di padroneggiarlo piacevolmente. Questo aiuta a fare di Eschaton un corpo unico, di grande impatto e di fluido scorrimento, senza però renderlo troppo unitario: i brani di punta sono infatti in grado di fare una figura da Hit Parade anche se presi singolarmente. In una parola, quest’album è devastante. Solo nell’ultimo brano Regression To The Mean si ha un po’ di “riposo”, efficace mastodontica outro dai toni snervanti.

L’unico rammarico è non avere a disposizione i testi - da sempre la band non li rende noti, e le parole sono indecifrabili a orecchio - che a giudicare dai titoli profilano un’escatologia della distruzione e dell’oblio. E così, non potendo vivere quest’esperienza escatologica dal sapore nichilista, quest’album rimane una colossale esperienza sonora. Esperienza che dovrebbe fare chiunque è convinto di aver già raggiunto i massimi livelli di violenza musicale, sicuramente non ne resterà deluso.

01 - Bellum Omnium Contra Omnes (03:16)
02 - Between Shit And Piss We Are Born (03:54)
03 - Timewave Zero (03:01)
04 - The Destroying Angel (03:11)
05 - Waiting For The Barbarians (04:46)
06 - The Yellow King (04:54)
07 - When The Lion Devours Both Dragon And Child (04:57)
08 - The Necrogeddon (04:11)
09 - Regression To The Mean (03:12)

domenica 20 marzo 2011

Frozenthia Depresis - "Margot"

Label sconosciuta, 2007
Dolce delizia sprofondare il proprio Io nella fredda malinconia, nel sentirsi a terra e nel provare un intimo desiderio di non volersi rialzare, nel sentirsi confinati dietro un vetro solcato dalle tante piccole gocce d’acqua che ti raggiungono al suolo, bagnandolo e facendoti sprofondare nel fango. “La malinconia è la felicità di essere tristi” [cit. Victor Hugo], e la felicità è ciò che ogni essere umano a suo modo insegue...

...come nella vita, così in musica: sicché, vagando a caso su Youtube alla ricerca di nuove band, mi capita di imbattermi nella demo di questi Frozenthia Depresis, band esordiente francese che cattura l’attenzione per il nome molto evocativo e per la cover fortemente empatica. Quando però do il via al primo brano, Introversion, nome e cover passano subito in secondo piano: le immagini che mi circondano escono lentamente dal mio cono visivo, svaniscono poco a poco come se divergessero all’infinito, l’atmosfera intorno a me si fa via via più spessa e intensa, la mia attenzione è completamente risucchiata da qualcosa che si percepisce ma che non si vede con gli occhi, né col cuore. La musica dei Frozenthia Depresis mi ha ormai fatto prigioniero, e mi fa galleggiare mandandomi alla deriva nelle profondità più recondite del mio inconscio. Depressive Black Metal? Ambient Black Metal? Depressive/Ambient e basta? Non ha importanza. Si tratta di una musica minimale ai massimi livelli, completamente priva di basso e batteria, dove solo una chitarra graffiante usata sapientemente raschia contro uno scream freddo come lo zero assoluto. Le atmosfere che ne scaturiscono sono stupefacenti - in entrambi i sensi - grazie anche all’assenza delle inutili odiose contaminazioni elettroniche. Margot non è un album musicale, Margot è un viaggio, ma non tanto per dire come si usa ormai fare un po’ con tutti i dischi...Margot è un viaggio per davvero, e come tale è composto da momenti diversi: Introversion e Azacachia Tepiseuth sono l’incarnazione musicale della copertina, piovose e tutte all’insegna della solitudine, interamente giocate sulla dualità scream/chitarra. Con Abstract cala il gelo: se prima piovigginava ora nevica leggero, la voce si fa più rarefatta e la chitarra si limita a pungolare il silenzio con note acute, leggeri fiocchi di neve. Verloren invece si concentra sulla voce, ed è un lento sfumare in un amplesso di soli scream, una versione sublimata dei Neri per caso. Poi l’amplesso ha fine e il sogno svanisce, e dopo quaranta minuti intensissimi torno nel mondo reale.

Non ha senso chiedersi cosa si sta ascoltando, non ha nemmeno senso cercare di riportarlo ai canoni del Black Metal o della musica in generale. Margot è una donna platonica, iperuranica, che vi conduce impreteribilmente al mondo delle idee pure in cui siete liberi di riabbracciare voi stessi: tristezza dalla malinconia, malinconia nella tristezza. Ma, come ho sentito dire, la tristezza è un sentimento necessario per godere della felicità...e i Frozenthia Depresis dimostrano quanto questo sia vero. Band da tenere d’occhio, può creare dipendenza.

01 - Introversion (05:41)
02 - Azacachia Tepiseuth (13:43)
03 - Abstract (10:01)
04 - Verloren (09:39)

Deeds Of Flesh - "Of What's To Come"

Unique Leader Records, 2008
Tempo fa lessi una recensione di Crown Of Souls, l’album dei Deeds Of Flesh immediatamente precedente a questo (2005). La recensione, mediamente positiva, terminava dicendo: “I fan più accaniti difficilmente rimarranno delusi, chi è in cerca di novità sicuramente sì...ma questi sono i Deeds Of Flesh, prendere o lasciare. Dopo dodici anni di carriera e sei full-length uno più intransigente dell'altro c'è ancora qualcuno che si aspetta un qualche tipo di evoluzione?”. Ebbene, Of What’s To Come è l’evoluzione!

I Deeds Of Flesh hanno sempre suonato un Brutal Death Metal abbastanza tecnico - ma non troppo - tutto imperniato sulla sezione ritmica: numerosissimi riff veloci e taglienti, batteria costantemente spianata in blastbeats e ricchissima di cambi di tempo. Il loro stile ha subito poche variazioni nell’arco dei loro sei album...ma ecco che improvvisamente se ne escono con questo Of What’s To Come, un disco che abbraccia la concezione moderna del Brutal/Technical Death Metal: entra in formazione l’ottimo Erlend Caspersen (Blood Red Throne), e non a caso il basso esce fuori molto più spesso in primo piano producendosi in giri strabilianti e in effetti curiosi. Entra in formazione pure Sean Southern, ed ecco comparire numerosi assoli e scale di chitarra veloci, trasportanti e talvolta dissonanti. Inoltre la sezione ritmica dell’ormai consolidata coppia Lindmark/Hamilton in alcuni momenti assume sapori dal retrogusto Math, e in generale il sound è più moderno che in passato. I brani sono tutti abbastanza simili, e per farsi un’idea più o meno esauriente di cosa si ha di fronte è sufficiente ascoltare l’opener Waters Of Space, che mette in risalto un po’ tutti questi aspetti. Voglio ugualmente segnalare due pezzi su tutti: Unearthly Invent, forse quello che meglio mette in luce l’abilità di Caspersen e le sporadiche influenze Math, e la tonante titletrack Of What’s To Come. A questo punto potrebbe sorgere un dubbio: i Deeds Of Flesh sono diventati null’altro che una delle tantissime Brutal/Technical band presenti sulla scena oggigiorno? Neanche per sogno: sono infatti riusciti a reinterpretare con un’attitudine pienamente moderna il loro riconoscibile leggendario stile, senza che nessuna delle due cose risulti sacrificata - il che è qualcosa di grande, se si pensa che molte delle pur ottime band Brutal/Technical di oggi appaiono simili ad un’accozzaglia di riff casuali. Tanta roba. A testimoniare questa comunione del presente col passato fa capolino come ultima traccia la loro classica Infecting Them With Falsehood, ri-registrata senza venir affatto snaturata.

“Now we are basing content on the future of human’s existence, concentrating on a new concept of mankind’s place in the universe and the challenges faced. […] From now on each Deeds Of Flesh release will be the next chapter in the big picture of the new concept”. Questo è quanto si può leggere sul loro MySpace. Siamo dunque all’inizio di una nuova era per i Deeds Of Flesh, una band che ha dimostrato di avere ancora tanto da dare al mondo del Death, che non avverte minimamente il peso della vecchiaia e che anzi ha saputo sfruttare il suo immenso bagaglio di esperienze per produrre qualcosa di moderno che emerge di gran carriera dall’oceano di nuove band. Quando il maestro è ancora più bravo degli allievi...

01 - Waters Of Space (05:30)
02 - Eradication Pods (03:34)
03 - Unearthly Invent (03:32)
04 - Of What's To Come (05:56)
05 - Virvum (03:16)
06 - Century Of The Vital (05:00)
07 - Harvest Temples (04:05)
08 - Dawn Of The Next (04:04)
09 - Infecting Them With Falsehood (04:26)

venerdì 18 marzo 2011

Cryptopsy - "The Unspoken King"

Century Media, 2008
Quando Copernico propose il modello eliocentrico dell’universo gli piovvero addosso critiche e reazioni come frecce infuocate durante l’assedio di una città. Quando Darwin disse che l’uomo discende da un antenato dalle forme scimmiesche la terra tremò, talmente furono forti le opposizioni che ricevette. Quando Freud ebbe il coraggio di trattare apertamente la sessualità umana rimase pressoché solo contro tutti. Tutto ciò accadde anche ai Cryptopsy quando pubblicarono The Unspoken King.

Cos’hanno combinato Flo Mounier e i Cryptopsy di così grave e appariscente? Hanno abbracciato delle sonorità per loro del tutto nuove, nettamente più moderne e abbastanza lontane dai canoni del Death Metal; hanno un po’ semplificato le loro strutture complesse e labirintiche, senza per questo cadere nella banalità; hanno reclutato un cantante che si esibisce anche in clean; e di tanto in tanto hanno dato qualche leggera spruzzata di tastiere. Il tutto suona come una sorta di Deathcore, nonostante Flo Mounier nelle interviste abbia minimizzato questa sterzata stilistica. In pratica, data la storicità dei Cryptopsy come band Brutal Technical Death Metal, il loro gesto è grave almeno quanto quelli di Copernico, Darwin e Freud. Naturale che gli sia toccata la stessa sorte, dato che al mondo ad essere in maggioranza sono sempre le persone che non sono pronte all’evoluzione: e così ecco scatenato un tornado di critiche e insulti da parte di quei metallari tradizionalisti conservatori che hanno una visione troppo ristretta per poter apprezzare qualsiasi cosa esca dagli standard più classici. Nulla di nuovo nemmeno in ambito Metal, se si pensa a quali assurde critiche sono soggetti gruppi quali Cradle Of Filth, Dimmu Borgir, Dream Theater, Meshuggah; semplicemente ora c’è una band in più da criticare, e questa band sono i Crytopsy. In realtà, se si avesse la capacità di ascoltare anche ciò che a primo impatto non corrisponde esattamente a quello che si vorrebbe sentire, si scoprirebbe che The Unspoken King è un ottimo disco di Metal estremo che sa unire la furia cieca e ribollente ad una melodia mai banale, caratterizzato dalle continue sciabolate ritmiche e melodiche delle due chitarre, dalla mitragliante batteria di Flo Mounier, e dalla prova canora sensazionale di Matt McGachy - a proposito! Quale piacevole novità! Nonostante i Cryptopsy siano sempre stati poco fortunati coi cantanti abbiamo qui un vero gioiellino, capace di spaziare in modo eccellente ed esplosivo dal growl allo scream, armonizzando tutto con ottime linee pulite. Mi spingo addirittura ad asserire che, considerando questo apparente “nuovo inizio” per i Cryptopsy, Matt può costituire una delle fondamenta su cui costruire il futuro.

Questa scelta stilistica modern-oriented non è piaciuta ai più conservatori, ma i conservatori sono fatti così, e non solo in musica; non ci si può fare niente, meglio limitarsi a compatirli. Io credo che nel valutare un disco Metal non si debba badare agli eventuali cambi di genere che un gruppo per forza di cose prima o poi compie, credo piuttosto che le cose importanti siano l’ispirazione e l’emancipazione dalla banalità - la personalità, insomma. I Cryptopsy hanno dimostrato di averne: disco riuscito sebbene diverso dai precedenti, scorrevole e piacevole, sicuramente migliore dell’ultimo claudicante e mal prodotto Once Was Not che camminava con un piede in due scarpe.

01 - Worship Your Demons (02:12)
02 - The Headsmen (05:14)
03 - Silence The Tyrants (04:09)
04 - Bemoan The Martyr (04:10)
05 - Leach (04:48)
06 - The Plagued (04:09)
07 - Resurgence Of An Empire (04:40)
08 - Anoint The Dead (03:19)
09 - Contemplate Regicide (05:29)
10 - Bound Dead (06:26)
11 - (Exit) The Few (02:31)

Unleashed - "Shadows In The Deep"

Century Media, 1992
Attenzione: questa è una recensione retrospettiva che vale per l’intera carriera della band.

L’insalata è un rebus al quale non riuscirò mai a venire a capo. Io amo la verdura di ogni tipo, potrei definirmi un quasi-vegetariano, e credo che non esista ortaggio che non apprezzi; tranne l’insalata. Che poi il punto è che non si può dire che l’insalata non mi piaccia, perché il problema è proprio che non sa di niente: la metti in bocca e sembra di masticare il nulla. Mastichi, mastichi e mastichi...ma nulla, non ne esce neppure il più vago sapore. L’insalata è erba.

Gli Unleashed sono esattamente come l’insalata: freschi e genuini? No, insapori e insignificanti. Per chi non lo sapesse stiamo parlando di una band venuta fuori nel momento di piena esplosione del Death Metal, che ha esordito nel 1991 e che a un anno di distanza si ripresenta sulla scena con Shadows In The Deep, da alcuni considerato un capolavoro. Io lo considero esattamente l’opposto: un disco-spazzatura. Ci troviamo davanti ad una band che suona in modo privo di qualsivoglia ispirazione, inventiva, ferocia o cattiveria, che costruisce un album di nove canzoni usando sì e no una dozzina di riff, e per di più rimanendo drammaticamente inchiodata allo schema strofa-ritornello. Il tutto intrappolato in un sound piatto, sottile e superficiale che riesce nella proibitiva impresa di rendere ancora più banale un disco completamente banale. Ci sono altre band che suonano con questo schema, ad esempio i Grave; e anche lasciando la cerchia Old School Death Metal troviamo nomi illustri come Candlemass, In Flames, Hypocrisy, Kataklysm. Ma nessuno di questi lo fa in modo così blando e scontato! E dire che l’esordio Where No Life Dwells non era così malvagio...disco discreto, ma se non altro manifestava un minimo di ferocia e inventiva nelle strutture. Invece qui non c’è niente...niente di niente, e più la carriera della band si allungava più si assisteva al nulla più totale: miriadi di canzoni mono-riff clonate una dall’altra sul modello di Shadows In The Deep. E non sto parlando di due o tre album...no, perché ridendo e scherzando gli Unleashed hanno trascinato la loro carcassa fino al presente - cioè per ben vent’anni! - arrivando addirittura a firmare per la Nucelar Blast. Un successo costruito sul nulla. Riassumere la storia degli Unleashed è semplice: la parte brillante della loro carriera inizia con Where No Life Dwells, la triste e bellissima intro in arpeggio del loro omonimo primo disco, e si chiude esattamente 46 secondi dopo, con la fine della stessa. Segue la parte mediocre della loro carriera, che coincide coi restanti 36 minuti dello stesso disco. Tutto ciò che viene dopo, dal 1992 fino ad oggi, è il nulla più profondo e vorace. WOW, ben 46 secondi di gloria e 36 minuti di mediocrità! Una band che ascoltata da CD non comunica proprio nulla, proprio come se lasciaste spento lo stereo. E non credo nemmeno che una simile musica spenta e disinteressata sia utilizzabile per pogare, quindi a conti fatti degli Unleashed non si salva niente. Oppure no, forse si salva il logo. Ahah.

Shadows In The Deep potrebbe essere usato come il manifesto della banalità musicale, e tutti gli album successivi della band continuano questa tradizione. Pessimi, senza dubbio la band peggiore che io abbia mai sentito. Da evitare come la peste. Se però doveste mai ritrovarvi tra le mani un disco degli Unleashed non disperatevi del tutto: potete sempre utilizzarlo come sottobicchiere per una buona birra, oppure come frisbee per far correre un po' il vostro cane.

01 - The Final Silence (02:55)
02 - The Immortals (04:23)
03 - A Life Beyond (04:49)
04 - Shadows In The Deep (05:02)
05 - Never Ending Hate (02:33)
06 - Onward Into Countless Battles (04:15)
07 - Crush The Skull (03:36)
08 - Bloodbath (04:09)
09 - Land Of Ice (04:32)

Behemoth - "Pandemonic Incantations"

Novum Vox Mortis/Solistitium, 1998
Se esistesse la top 10 degli album metal più sottovalutati della storia sicuramente Pandemonic Incantations figurerebbe nella lista. Tutti conoscono la doppia faccia dei Behemoth: hanno iniziato suonando Pagan Black con un EP e due splendidi full-length, ma nel 1999 grazie a Satanica sono esplosi in un Death Metal epico personalissimo che li ha portati a tanto meritato successo. Ma cosa c’è tra il Pagan Black e il Death Metal epico? C’è questo Pandemonic Incantations, un disco dimenticato da tutti e trattato con sufficienza da quei pochi che lo ricordano.

La sfortuna di questo disco è di essere l’ibrido di turno, il classico “album di transizione” che in quanto tale viene considerato solo come qualcosa di provvisorio. Musicalmente non è semplicissimo definirlo: si tratta di un Black Metal sinfonico con però una base ritmica solidissima, forse riconducibile a un Blackened Death Metal; non a caso questo è l’album che vede l’arrivo del leggendario Inferno alla batteria, un Inferno che fin da subito dà sfoggio delle sue abilità nel mescolare velocità e brutalità senza risultare noioso. Per quanto riguarda gli altri strumenti ci sono delle reminescenze del precedente Grom, ma nel complesso è un lavoro forse più vicino a Satanica, non fosse per la presenza abbondante di sintetizzatori che non sono certo un marchio di fabbrica dei Behemoth. Forse la colpa dell’insuccesso di quest’album è anche da imputare ai sintetizzatori stessi, una soluzione mediamente poco apprezzata che lo fa suonare così diverso da tutti gli altri lavori della band polacca...eppure così simile, dato che la furia cieca e l’abilità compositiva proprie dei Behemoth sono presenti anche qui: dopo una breve intro vibrante come una provetta di nitroglicerina che sta per esplodere si è investiti da una musica potente che asfalta tutto quello che si trova dinnanzi, una musica dal sound piacevolmente caotico e dall’energia travolgente, ma che nonostante ciò riesce ad essere sempre melodica. E cosa importa se la discografia dei Behemoth è così impeccabile e annovera così tanti capolavori da far passare questo vecchio album inosservato? Esso merita comunque attenzione, è pregevole e perfettamente riuscito, nonostante Nergal ai tempi non avesse ancora le idee ben chiare sul futuro della band.

Col senno di poi sappiamo che una delle caratteristiche migliori dei Behemoth odierni è la loro ineguagliata capacità di fondere la più violenta brutalità con una melodia epica costantemente fruibile, senza che nessuno dei due aspetti ne risulti minimamente scalfito...e in Pandemonic Incantations troviamo i germi primordiali di tutto ciò, di questa stratosferica attitudine musicale che si concretizzerà definitivamente con quella mostruosità devastante che è Demigod.

01 - Diableria (The Great Introduction) (00:49)
02 - The Thousand Plagues I Witness (05:16)
03 - Satan's Sword (I Have Become) (04:17)
04 - In Thy Pandemaeternum (04:50)
05 - Driven by the Five-Winged Star (05:05)
06 - The Past Is Like A Funeral (06:41)
07 - The Entrance To The Spheres Of Mars (04:45)
08 - Chwała Mordercom Wojciecha (997-1997 Dziesięć Wieków Hańby) (04:48)
09 - Outro (00:57)

Remembrance - "Fall, Obsidian Night"

Firedoom Records, 2010
Copertina dai colori scuri e tristi, titolo poetico: sarà la solita band doom metal? Questa volta si può dire di si: nonostante questo lavoro non sia malissimo, è fin troppo ricco di clichès per guadagnarsi un posto d'onore nel panorama doom.

I Remembrance provengono dalla Francia, questo è il loro terzo album in studio, che come i precedenti è un album doom dalle spiccate tinte funeral, ossia lente e depressive, ma contaminato da melodie quasi easy - listening e popolato da due voci, una maschile (growl profondissimo, forse fin troppo, in relazione alla relativa "leggerezza" della musica) e una femminile (carina, ma forse un po' troppo forzata nei suoi gorgheggi). Un pastone amalgamato piuttosto malamente, piazzandoci sopra qualche prolungato accordo di chitarra (che suona pochissimi riff degni di essere chiamati in questo modo, limitandosi a potenti pennate che si perdono nel vuoto) e qualche giro di tastiera indubbiamente suggestivo, ma insufficiente a giustificare un album intero basato su questi canoni. A peggiorare le cose ci si mette la voce maschile, un growl piuttosto pigro e volendo anche inespressivo, davvero monocorde e incapace di reggere il gioco per tutti i numerosi minuti che compongono l'album.

Intendiamoci, non c'è nulla di particolarmente sbagliato nella musica dei Remembrance: alcuni brani sono ben riusciti, come Stone Mirrors,  che è una canzone orecchiabile, a tratti perfino veloce e dotata di un certo feeling malinconico che la rende abbastanza convincente; oppure l'emozionante "The Omen", sicuramente il miglior brano dell'album, che potrebbe addirittura commuovere per la bellezza delle sue scarne ma intense linee melodiche. Purtroppo, nel disco non c'è molto altro di entusiasmante: i brani sono fin troppo simili gli uni agli altri, generalmente privi di idee brillanti, e si riducono purtroppo ai soliti tre accordi, a qualche raro arpeggio, al solito giro di tastiere e al solito growlare, mischiato a qualche vocalizzo femminile in stile "la bella e la bestia". L'idea non è malvagia, ma è sfruttata male, senza quella personalità che distinguerebbe i Remembrance dalla massa di gruppi doom metal, ormai davvero nutrita. Quei guizzi di interessanti soluzioni compositive del debutto "Frail Visions" (basta ricordare la spettacolare "Your Insignificance", dove davvero sembrava che la band avesse qualcosa di personale da esprimere) si sono appiattiti e sono diventati tristemente normali.

In sostanza, "Fall, Obsidian Night" è un album discreto, a tratti noioso e a tratti piacevole, con qualche breve parentesi di reale ispirazione, che non raggiunge mai livelli sufficienti da rendere questo disco un ascolto obbligato nè tantomeno indimenticabile. Provateci ancora, ragazzi, e chissà che finalmente non riusciate a sfondare davvero.

01 - Ageless Fever (7:05)
02 - Stone Mirrors (9:25)
03 - The Omen (7:06)
04 - Our Memories Are Made Of Stone (4:33)
05 - Ice Cold Conscience (8:31)
06 - Winter Tides (7:52)
07 - Obsidian (6:50)

giovedì 17 marzo 2011

Opeth - "Damnation"

Music For Nations, 2003
Una bambola in copertina, artwork quasi completamente bianco, toni delle parole appena accennati e malapena visibili: forse per una similitudine cromatica, questo album è la vera e propria mosca bianca nella discografia degli Opeth.

Idealmente, "Damnation" costituisce la controparte ideale di "Deliverance", il precedente full - length che faceva della durezza e delle atmosfere oscure il suo punto di forza, pur senza dimenticare le consuete e variegate melodie Made in Opeth. "Damnation" è invece un album suonato totalmente senza distorsioni, delicato ed etereo, un pò settantiano e un pò Porcupine Tree, un po' Pink Floyd e un po' progressive, un po' new age e un po' country. Nessun suono terrificante, nessuna voce in growl: la band svedese ha proprio cambiato faccia, seppure per un solo album. I nostri amici svedesi hanno sempre amato sperimentare, e lo hanno fatto cambiando praticamente ogni album, seppur mantenendo sempre inalterato il loro marchio di fabbrica. Qui la sperimentazione tocca lidi completamente differenti, come capiamo subito ascoltando le prime due tracce, probabilmente le più esemplificative dell'album. "Windowpane" è sostenuta da una batteria incalzante, ma la trama strumentale e soprattutto la linea vocale rimane sempre leggera, non propriamente malinconica, ma più che altro pacata e "narrante". L'uso dell'organo Hammond e alcuni caratteristici assoli di chitarra elettrica contribuiscono non poco a rendere l'atmosfera molto anni '70, un periodo che ha avuto molte rivisitazioni, non tutte propriamente convincenti. "In My Time Of Need" è invece più spinta dal lato emotivo, più intricata dal lato ritmico e più tirata dal lato vocale, ma non manca mai di ritornare alla quiete, dopo aver alzato un po' la testa. Ma gli Opeth non si sono rammolliti: hanno solo deciso, per una volta, di suonare una musica rilassante e piacevole, sotto la costante regia di Steven Wilson che anche stavolta si occupa della produzione e del mixaggio, con ottimi risultati. La suadente e melliflua "Death Whispered A Lullaby" non deve tuttavia ingannare: con la sorprendente "Closure" i nostri confezionano una mosca bianca all'interno della mosca bianca, grazie alla presenza dell'unico riff distorto di tutto l'album nonchè di un'atmosfera insolitamente tesa, ed infine uno splendido finale dal sapore arabeggiante, condito da percussioni indiavolate che si interrompono di colpo (non è un difetto del CD) per passare a "Hope Leaves", diametralmente opposta nella sua tranquillità, e poi a "To Rid The Disease", nella quale il basso fa sentire la sua presenza non come semplice accompagnatore, ma come elemento importante. Chiudiamo il cerchio con la strumentale "Ending Credits", questa volta realmente malinconica e carica di emotività grazie soprattutto ai toccanti assoli di chitarra elettrica. Una vera perla che probabilmente rappresenta il punto più alto dell'album insieme alla sopracitata "Closure".

Manca solo "Weakness", riempitivo finale che non mi sento di citare come reale conclusione, perchè praticamente non esiste nè lato strumentale nè dal lato vocale: un pò di mellotron e voci filtrate, come per chiudere l'album nella maniera più sconsolata possibile, dopo tre quarti d'ora di beatitudine mista ad una leggera venatura di irrequietezza. Già, gli Opeth non hanno perso la capacità di suonare musica sconsolata eppur tremendamente coinvolgente: e questo "Damnation" non è un passo falso, ma solo una riuscita incursione in lidi che la band ha sempre incluso nella propria musica, ma ai quali non ha mai assegnato un ruolo centrale, lasciandoli sempre come validissimi gregari. Tanto di cappello a Mikael e soci.

01 - Windowpane (7:44)
02 - In My Time Of Need (5:49)
03 - Death Whispered A Lullaby (5:49)
04 - Closure (5:15)
05 - Hope Leaves (4:30)
06 - To Rid The Disease (6:21)
07 - Ending Credits (3:39)
08 - Weakness (4:08)

Metallica - "Ride The Lightning"

Elektra Records, 1984
Una domanda che prima o poi si sono fatti tutti i fan dei Metallica (perlomeno dei Metallica che furono) è la seguente: è più bello Master Of Puppets, oppure Ride The Lightning? Deciderlo in modo univoco è forse impossibile: per quanto mi riguarda, considero Master Of Puppets un capolavoro dall'enorme importanza storica, ma anche Ride The Lightning, secondo album della band statunitense, contiene alcuni tra i massimi capolavori dei Metallica e che rappresenta un perfetto album di transizione tra la grezza irruenza del primo Kill'Em All e la conquistata maturità tecnico - compositiva del sopracitato terzo masterpiece.

"Ride The Lightning" è un album acido, pesante, ma non più così spiccatamente veloce e cattivo come il suo predecessore: iniziano infatti a trovare posto alcune sezioni acustiche, break di apparente tranquillità, una sorprendente e meravigliosa ballad come "Fade To Black" (se non la migliore, sicuramente una delle più toccanti di tutto il genere metal), brani melodici e quasi easy - listening come "Escape" e perfino un brano strumentale lungo e articolato, il lovecraftiano "The Call Of Ktulu". Ma andiamo con ordine, poichè ogni brano ha il suo punto di forza. L'iniziale "Fight Fire With Fire" si apre con una chitarra acustica solare e positiva, salvo poi trasformarsi in un brano quasi grindcore, teatro di un riffing serrato e cupissimo, sul quale la voce di James Hetfield, posseduta e demoniaca, declama strofe di odio e di violenza, delle quali lui stesso poi si stupirà (ha poi dichiarato di aver scritto la maggior parte dei testi sotto l'effetto dell'alcol, e di essersi sorpreso della violenza che riusciva a imprimergli). Anche la title track "Ride The Lightning", oltre ad essere un brano dal ritmo trascinante e dal riffing stridente e aspro che invoglia subito all'air guitar, ha un testo visionario e paranoico, come non potrebbe essere altrimenti per un condannato alla sedia elettrica, che descrive il momento in cui scopre di stare realmente per morire, e che gli mancano solo pochi minuti per salutare il mondo che lo circonda. Notevole anche l'assolo centrale suonato dal buon Kirk Hammett, vera colonna portante della sezione chitarristica del gruppo. "For Whom The Bell Tolls", dal titolo programmatico, è una cadenzata ed inquietante marcia, che procede con lentezza ma in maniera inarrestabile. (curiosità: notate la somiglianza con "Angel Of Death" degli Angel Witch!). Si arriva dunque a "Fade To Black", dal testo disperato oltre ogni limite, probabile testamento morale di un suicida. Musicalmente, quale fan dei Metallica ai tempi si sarebbe aspettato un brano così sofferto, melodico, popolato da duetti tra chitarra acustica e chitarra elettrica che suona assoli commoventi, nonchè dalla triste cantilena di James, che qui abbandona la durezza del cantato ma non manca di lasciar trasparire una rabbia esistenziale che pare sconfinata? Probabilmente nessuno. Un brano che rimarrà per sempre nel cuore di tutti i fan dei Metallica, per non dire dei metallari in generale. Non ci credete? Ascoltate l'assolo finale. Dopo questa meraviglia è il turno di due brani veloci e più orecchiabili come "Trapped Under Ice" ed "Escape", meno caratteristici e più semplici da assimilare, ma non per questo meno validi: il germe della commercialità non aveva ancora contagiato la band, che qui suonava ancora in maniera completamente spontanea e genuina, quella maniera di suonare che quando viene persa è il disastro. Si torna a pestare duro con la frenetica "Creeping Death", dal ritmo incalzante e distruttivo: anche questo è un grande classico della discografia dei Metallica, riproposta praticamente sempre in sede live, e non potrebbe essere altrimenti vista la devastante carica che sprigiona. Ascoltate anche la versione suonata live dagli Apocalyptica, con i loro violoncelli distorti, e capirete bene cosa intendo. Chiude l'atipica strumentale "The Call Of Ktulu", che si sviluppa lentamente su un tema oscuro ed inquietante, fino ad arrivare al parossismo della tensione che si risolve solo dopo un lungo e sfiancante finale, nel quale lentamente il mostro di Lovecraft si spegne e ci lascia tornare alla vita di sempre.

Che altro dire? Importanza storica indiscutibile, qualità eccelsa per essere solo al secondo disco, violenza perfettamente calibrata e ricca di significato, capacità di songwriting e ispirazione quasi ai massimi livelli. Non è perfetto, ma poco ci manca. Per la cronaca: alla luce di tutto, la mia risposta alla domanda che ho posto all'inizio non può che essere "Ride The Lightning".

01 - Fight Fire With Fire (4:45)
02 - Ride The Lightning (6:37)
03 - For Whom The Bell Tolls (5:11)
04 - Fade To Black (6:55)
05 - Trapped Under Ice (4:04)
06 - Escape (4:24)
07 - Creeping Death (6:36)
08 - The Call Of Ktulu (8:53)

Ikuinen Kaamos - "The Lands Of The Plague"

Autoprodotto, 2004
Prima di approdare al death metal melodico con qualche spruzzata di black e progressive, che è la musica degli Ikuinen Kaamos di oggi, questa interessante band finlandese ha avuto un passato decisamente più oltranzista e dedito ad un vero e proprio black metal feroce e tagliente, come testimoniano i loro primi demotape autoprodotti e mai rilasciati da nessuna etichetta discografica. Eppure, nonostante si tratti di nastri promozionali, con i loro primi passi mostravano già una maturità e un'abilità tecnica molto interessante, che poi sarebbe sfociata nella produzione di dischi di alto livello come "The Forlorn", il loro disperato, malinconico e travolgente album di debutto.

Le influenze degli Opeth, che nella carriera della band diventeranno via via sempre più marcate, sono ancora assenti: ai suoi albori, il gruppo attinge da mostri sacri del black metal come gli Emperor, e cioè una voce screaming particolarmente tagliente, ritmi veloci ma non monocordi e capaci di giocare su diversi tempi, il tutto conditio con melodie che già presagiscono ad uno spostamento verso il death metal melodico (ma non troppo). "The Lands Of The Plague" è l'ultimo dei quattro demo prodotti dagli Ikuinen Kaamos, è il meno aggressivo e tuttavia da ogni sua nota traspare una cattiveria e una rabbia genuina, sincera e senza compromessi. Solo tre brani per un totale di quindici minuti di musica, ma assicuro che si tratta di quindici minuti molto intensi: dal cantato estremo dell'opener "Forever Doomed" ai blast beat e alle tristi parti strumentali di "Lost Within Time", fino alla conclusiva e violentissima "Nothing Remains", che più che mai mi ha ricordato i primi Satyricon ed Emperor, e che si conclude con una dolce virata verso la tristezza, resa da due chitarre già espressive e intense, che nei lavori successivi raggiungeranno una qualità e un'intesa eccellente.

Ovviamente introvabile, ma ricco di significato e di emozioni, nonostante la sua brevissima durata. Vale la pena di conoscerlo, specialmente se apprezzate già le uscite ufficiali degli Ikuinen Kaamos: esso completerà il quadro e mosterà la genesi di una band ispirata e capace, e oserei dire anche ampiamente sottovalutata.

01 - Forever Doomed (5:05)
02 - Lost Within Time (4:15)
03 - Nothing Remains (5:47)

martedì 15 marzo 2011

Gorguts - "Considered Dead"

Roadrunner Records, 1991
Ci sono diversi tipi di bomba, il Death Metal è una bomba a orologeria che esplose all’inizio degli anni ’90 dopo che sul finire degli ’80 band come Possessed, Death, Morbid Angel etc. avevano provveduto a caricarla. L’impatto fu devastante: nel giro di pochissimi anni si assistette ad un’ondata di band da ogni parte d’Europa e d’America, alcune scioltesi pochi anni più tardi dopo aver rilasciato solo un paio di demo, altre vive e vegete - e alcune anche in salute! - ancora oggi.

Non fece eccezione il Canada, paese sempre molto interessante dal punto di vista del Metal, che prima di proiettare sulla scena i leggendari Cryptopsy sfornò i Gorguts. In realtà non c’è molto da dire su questo disco: si tratta in tutto e per tutto di un classico dell’Old School Death Metal, dalla musica all’artwork, dai titoli delle canzoni al look dei musicisti. Tuttavia ho deciso di recensirlo comunque per due motivi: primo, perché i Gorguts hanno in seguito sviluppato un genere musicale del tutto personale, quindi è bene conoscere anche le loro radici; secondo, perché si tratta di un album di ottima fattura all’interno della cerchia Old School ma purtroppo poco conosciuto rispetto ad altri colossi dello stesso genere. Ma non pensate che da parte mia si tratti di un atteggiamento di pietà o compatimento: Considered Dead non ne ha proprio bisogno, e se amate l’Old School i suoi riff memorabili e i suoi assoli mozzafiato sapranno conquistarvi. Il disco si apre alla grande con Stiff And Cold, il quale spiana la strada a quella che è forse la migliore traccia, Disincarnated, caratterizzata da un giro di note pregevole. Da segnalare anche l’anomala strumentale Waste Of Mortality, aperta da una chitarra acustica, un brano che per struttura e riff sembra una canzone come tutte le altre, ma semplicemente non è cantata; e la traccia di chiusura Inoculated Life, che si produce in un assolo di chitarra davvero notevole. Una nota di forza anche alla registrazione dei brani di qualità decisamente migliore di molti altri lavori di quegli anni, abbastanza buona da permettere agli stessi di avere una certa profondità sonora ma non così ottima da snaturare le atmosfere del genere - in una sola parola: ottimale.

Cos’ha questo disco di particolare? Nulla. Ha qualcosa che lo renda meritevole di essere distinto dalla massa di album Old School dei primi anni ’90? No. Semplicemente si tratta di uno dei tanti lavori ben fatti di quell’epoca, e come tale merita la stessa attenzione di tutti gli altri. Caldamente consigliato a tutti i cultori del genere e agli amanti del Death suonato alla vecchia maniera.

01 - ...And Then Comes Lividity (00:43)
02 - Stiff And Cold (04:26)
03 - Disincarnated (04:29)
04 - Considered Dead (03:33)
05 - Rottenatomy (04:47)
06 - Bodily Corrupted (03:41)
07 - Waste Of Mortality (04:39)
08 - Drifting Remains (03:44)
09 - Hematological Allergy (04:10)
10 - Inoculated Life (03:53)

Candlemass - "Dactylis Glomerata"

Music For Nations, 1998
Dopo il primo scioglimento dei Candlemass nel 1994 il loro ex-leader Leif Edling si dedicò ad un progetto chiamato Abstrakt Algebra, che vide la pubblicazione di un ottimo album omonimo nel 1995, soltanto un anno più tardi. Ma questa sua nuova band venne accolta in maniera molto fredda...e le case discografiche di punta non se ne interessarono. Così, nell’impossibilità di pubblicare come previsto un secondo album chiamato Abstrakt Algebra II, Leif decise nel 1997 di riunire i Candlemass – una riunione di nome, ma non di fatto: infatti Leif reclutò dei nuovi musicisti che nulla avevano a che vedere coi precedenti gloriosi Candlemass, musicisti tra cui figurava anche Michael Amott, ai tempi da poco uscente dai defunti Carcass e ancora alle prime armi coi suoi Arch Enemy. Il tutto si concretizzò nell’album Dactylis Glomerata, uscito un anno più tardi, in cui venne fatto uso parziale del materiale che avrebbe dovuto comporre Abstrakt Algebra II (nella fattispecie i brani Dustflow, Cylinder, Abstrakt Sun, Lidocain God).

Anzitutto lasciatemi dire che questa reunion puzza tanto di non saper accettare la sconfitta: io sono sovente in malafede, e a mia detta pur di rilanciare il suo nuovo materiale Leif ha deciso di sfruttare il sacro nome dei Candlemass. Ma va beh, poco male, dato che l’album sembra suonare davvero bene: Wiz è un ottimo brano di apertura, cupo e opprimente, e le successive I Still See The Black e Dustflow sono due piccole perle: tetre, avvolte nell’ombra, ma comunque sognanti e sperimentali, grazie all’ottima prova canora di Bjorn Flodkvist e a delle tastiere gestite magistralmente. Il disco prosegue bene con il curioso intermezzo Cylinder e Karthago, un altro buon brano. Fino qui fila via tutto liscio, e, se non a gonfie vele, quasi: abbiamo di fronte una versione “Matrix” dei vecchi Candlemass, una versione che ha sostituito l’epicità e la teatralità con un che di astratto in giacca lunga di pelle e occhiali neri a specchio. Ma qualcosa si inceppa. Apathy sembra un brano rimasto in fase di bozza, mentre Abstrakt Sun e Lidocain God - entrambe provenienti dal materiale di Abstrakt Algebra II - sono semplicemente orribili: suonano come due brani Hard Rock caduti in quest’album per caso, probabilmente al contrario di Dustflow non sono state rimodellate coerentemente col resto del materiale; sembrano un errore di stampa. Niente contro l’Hard Rock, per carità, il fatto è che in questo contesto è come un broccolo nel caffelatte. L’outro Molotov non può nemmeno essere valutata, sarebbe stata al posto giusto se avesse chiuso un finale degno, ma messa lì così dopo due fallimenti e un brano insapore non ha proprio alcun senso. Male, molto male...ma la cosa brutta non è tanto il fallimento in sé, quanto ciò che ci sta dietro: l’impressione è infatti che questo disco sia un lavoro sbrigativo e arraffazzonato, come se Leif si fosse stancato di lavorarci su dopo essere arrivato a metà e avesse deciso di completarlo con le prime idee venutegli in mente, col primo materiale capitatogli in mano. Oltretutto questo materiale non sarebbe stato all’altezza nemmeno del progetto Abstrakt Algebra, dato che il primo ed unico album dato alle stampe è decisamente migliore. E’ tutto questo che fa più rabbia, è questo ad essere intollerabile.

Dactylis Glomerata è un album concepito bene ma portato a termine da cani, un album che non aveva nessunissimo motivo di uscire sotto il nome dei Candlemass. Forse sarebbe bastato che Leif si fosse accontentato di qualche label di fama minore...non l’ha fatto, e il risultato è fango gettato sulla storia del Doom Metal.

01 - Wiz (04:05)
02 - I Still See The Black (06:19)
03 - Dustflow (09:24)
04 - Cylinder (01:23)
05 - Karthago (06:38)
06 - Abstrakt Sun (06:40)
07 - Apathy (04:07)
08 - Lidocain God (03:31)
09 - Molotov (01:30)

Sigh - "Imaginary Sonicscape"

Century Media, 2001
Premessa: la presente recensione è riferita alla ristampa del disco ad opera della The End Records (2009), che riproduce la tracklist completa così come la band l’aveva concepita, ma che la Century Media purtroppo non le permise di realizzare. In questa nuova tracklist figurano i brani aggiuntivi Voices e Born Condemned Criminal, assenti nella versione originale del disco.

I giapponesi Sigh, guidati dal vulcanico Mirai Kawashima, sono una band che contrariamente a quanto si dice talvolta non ha mai realmente suonato Black Metal. Questo è sì sempre stato al centro delle loro influenze, ma più che altro a livello sonoro; dal punto di vista compositivo troviamo da sempre delle contaminazioni con vari generi, provenienti anche da oltre il mondo del Metal. Ma fu in particolare quell’EP del 1997, Ghastly Funeral Theatre, che inaugurò l’era espressamente Avantgarde della band: il qui presente Imaginary Sonicscape non è altro che la continuazione di Scenario IV: Dread Dreams nonché di questa era, sebbene si tratti di una continuazione che era del tutto imprevedibile, una continuazione che ha un che di visionario.

Imaginary Sonicscape è un vortice sonoro dove incredibilmente compare ogni genere musicale possibile immaginabile: oltre al solito Metal, che di Black qui ha conservato solo lo scream, troviamo musica classica, accenni di musica sinfonica, blues, rock anni ’70, spunti jazz, reggae, elettronica, caraibica, mid-tempo in stile pop, toni epici oscuri - giusto per citare solo quelli che ho riconosciuto io. La cosa interessante però non è tanto questa pantagruelica abbondanza, quanto il fatto che siffatti generi vengono accostati in modo così spontaneo che sembra quasi che siano nati apposta per essere posti vicini. Tanto per fare qualche esempio: Dreamsphere ed Ecstatic Transformation sono due brani tutti all’insegna dei Deep Purple, ma nel primo si stagliano alla perfezione passaggi dai toni oscuri su un arpeggio reggae (!!) - la stessa soluzione che si ritrova anche in Scarlet Dream. Nietzschean Conspiracy e Voices ci mostrano invece quanto possa essere feconda la musica elettronica se usata con giudizio e creatività: nella prima emerge all’improvviso un assolo magnifico in organo hammond (!) che pur non c’entrando nulla con l’elettronica vi si sposa benissimo, e nella seconda si passa da placidi gorgheggi digitali a terrificanti apprensioni che sembrano tratte da un incubo, fino ad erompere all’improvviso in un assolo di chitarra mozzafiato (!). Oppure potremmo parlare del riff melodico molto pop (!) di A Sunset Song, un brano che colpisce anche per i suoi momenti ora blues e ora caraibici (!!), o ancora dell’intermezzo in stile far west (!!) di Bring Back The Dead. Anche la musica classica si ritaglia un buono spazio: basti citare il brillante Impromptu in pianoforte, oppure il Requiem conclusivo. In mezzo a questo caos fanno capolino Born Condemned Criminal, una specie di ballad dal sapore tipicamente ottanti ano (!), e Slaughtergarden Suite, un brano progressivo dalle tinte molteplici che non saprei catalogare. L’artwork e il booklet sembrano riflettere questa attitudine inqualificabile: da un lato abbiamo degli accostamenti cromatici ilari ed acidi come verde chiaro, bianco e arancione, con delle foto ridicole dei componenti della band vestiti con camicie colorate e circondati da enormi fiori variopinti - della serie: abbiamo bisogno di una vacanza alle Hawaii, comprate questo disco affinché possiamo permettercela. D’altro canto compaiono numerose immagini inquietanti tratte - suppongo - da qualche periodo storico dell’affascinante arte giapponese, raffigurazioni di draghi nauseabondi, uomini dai volti distorti, scimmie che divorano le budella di una donna, e una serie di altre immagini minuziosamente ermetiche dai tratti grafici tipicamente nipponici.

In altre parole non possiamo nemmeno parlare di Metal a tutti gli effetti, il quale qui è solo una base sonora comune: qui c’è tutto, questo disco abbatte le differenze musicali unificando tutto ciò che c’è tra il lontano ‘800 fino all’elettronica più moderna. Il modo migliore per descrivere questo album è interpretarne il titolo: Imaginary Sonicscape, un paesaggio sonoro immaginario, e ascoltarlo è un po’ come spalancare una finestra, appoggiarsi assopiti sul davanzale e da lì ammirare l’intero panorama musicale. Esso pare irreale, come se vedessimo la neve che cade su una spiaggia soleggiata, è come la realtà vista però nel mondo dei sogni: scene così reali e impossibili al tempo stesso, collegamenti insensati che nondimeno ci fanno star bene oppure ci suscitano angoscia, accostamento spontaneo di particolari presi da contesti tra loro lontanissimi. Ecco, Imaginary Sonicscape è questo: non è musica, è l’attività onirica della musica stessa, e Mirai è riuscito a strapparla al mondo della visionaria fantasticheria facendone un oggetto reale, ben delineato, immanente.

Alla luce di quanto detto rimane un solo dubbio: ma Imaginary Sonicscape è un bel disco? Quando lo ascoltai per la prima volta rimpiansi fortemente di averlo acquistato, e così fu per parecchio tempo; oggi posso invece dire che è uno dei dischi più strabilianti della mia collezione. Sicuramente soffre di alcuni difetti, come il ritmo eccessivamente banale e ripetitivo - a furia di mid-tempo la batteria pare più un metronomo - o la struttura dei brani, a tratti fin troppo semplicistica. Ci si potrebbe chiedere come mai con questa mirabolante messe di influenze diverse i Sigh abbiano deciso di impostare buona parte del loro lavoro su banali mid-tempo in strofa e ritornello, ma si può anche obiettare che simili punti di riferimento aiutano ad apprezzare la sterminatezza musicale del disco. Tuttavia, prescindendo da queste considerazioni stilistiche, dal punto di vista della coerenza musicale e dell’abilità compositiva Imaginary Sonicscape è un capolavoro colossale: Mirai ci mostra la sua strabiliante padronanza di tutti i generi musicali nonché delle tastiere di ogni tipo, ostentando una naturalezza compositiva nel mescolare i generi più disparati che ha dell’incredibile. Mirai compone la musica con la facilità con cui Ronaldinho calcia il pallone. Quindi in conclusione la bellezza di questo disco dipende dalla vostra capacità di tollerare una simile mole di diversi generi musicali: se il vostro gusto artistico non è limitato da angusti limiti, se amate la musica a 360 gradi nel vero senso della parola e se godete nell’apprezzare l’abilità compositiva dei musicisti, allora Imaginary Sonicscape diventerà il vostro disco preferito che custodirete gelosamente e nel quale vi tufferete ogni volta che avrete voglia di contemplare la grandezza delle capacità artistiche umane.

01 - Corpsecry - Angelfall (06:42)
02 - Scarlet Dream (05:11)
03 - Nietzschean Conspiracy (05:24)
04 - A Sunset Song (06:49)
05 - Impromptu (Allegro Maestoso) (01:24)
06 - Dreamsphere (Return To The Chaos) (06:51)
07 - Voices (07:03)
08 - Ecstatic Transformation (05:35)
09 - Born Condemned Criminal (05:43)
10 - Slaughtergarden Suite(10:57)
11 - Bring Back The Dead (06:40)
12 - Requiem - Nostalgia (07:58)