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domenica 26 giugno 2011

Askival - "Eternity"

Darker Than Black, 2009
Dispiace sapere che gli Askival si sono sciolti subito dopo la pubblicazione di questo album: le premesse erano molto interessanti, ma purtroppo il disinteresse strisciante crea dei mostri, come questi musicisti tuttofare che producono un ottimo album e che poi abbandonano tutto, inspiegabilmente, lasciando i fan amareggiati e delusi. Nello specifico, gli Askival non hanno fatto in tempo nè a diventare famosi nè ad essere particolarmente apprezzati, ma è stato comunque spiacevole per me scoprire che "Eternity" sarebbe rimasto il loro primo e ultimo capitolo, in quanto vi ho trovato del materiale molto interessante.

In realtà, questa band era composta da un membro solo, Tuagh. Il monicker è poetico: si riferisce alla più alta montagna dell'isola di Rùm, in Scozia. La copertina del loro unico album è forse un po' scontata e pacchianotta, ma per fortuna nella musica non c'è quella pacchianeria fintamente pomposa in cui è facile cadere suonando epic / folk e tutti i sottogeneri che ne prendono spunto. Gli Askival suonano invece una calibrata mistura di tutti questi generi, e la cosa interessante è che riescono ad amalgamare benissimo le influenze più varie, riuscendo comunque a produrre una musica di semplice assimilazione, per nulla ostica. "Eternity" vi farà venire in mente un'infinità di nomi mentre lo ascolterete, nomi tra i quali potremmo citare Agalloch, Primordial, Moonsorrow, Opeth, Eluveitie, Ulver, Bathory, Amon Amarth, In The Woods...e tantissimi altri gruppi illustri. La domanda sorge spontanea: si tratta di una genuina ispirazione, oppure è tutto un collage furbescamente messo assieme?

No, non si tratta di un prodotto senza nervi. "Eternity" è un album dalla personalità tangibile, originale e coinvolgente, capace di ricreare atmosfere a metà tra il bucolico e l'epico - cavalleresco. Si sentono inequivocabilmente echi di Scozia: i tipici strumenti della tradizione scozzese si ritrovano tutti, amalgamati alla perfezione con una batteria sempre incalzante e con chitarre che non hanno paura di fare la voce grossa, quando serve. La voce di Tuagh è multiforme, capace di passare dal cantato pulito / corale (piuttosto raro), al growl, fino a vocalizzi black metal che non sono mai un vero e proprio screaming, ma un interessante ibrido tra quest'ultimo e una voce pulita. La struttura dell'album è molto eterogenea e per nulla prevedibile: lunghe cavalcate metallico - acustiche si alternano frequentemente ad episodi rilassanti e privi di distorsioni, brani aggressivi e potenti si esauriscono dopo tre minuti, altri si spingono oltre i dieci...con il risultato che non mancano mai le sorprese. L'album stupisce per la pulizia delle linee melodiche, come nella lunga "The Last March Of The White Wolves", nella quale, dopo un'introduzione marziale e trascinante, le chitarre acustiche iniziano a darsi battaglia con cascate di note passionali e dolci, dal timbro avvolgente e caldo, mentre un sottile sussurro di fondo ci fa sembrare di essere in un bosco, attorniati dalle voci degli gnomi che lavorano alacremente per preservare la natura. L'estasi acustica dura minuti e minuti, e si ripete con insistenza, senza mai annoiare: solo nel finale le chitarre riprendono vigore, affiancate da una batteria veloce e incessante. Una sottile malinconia di fondo è palpabile, unita allo spirito "contemplativo" e silvestre che anima ogni singola nota di questo full - length. Spettacolare è l'elegiaca parentesi ambient di "Elderpath", pura pace per i sensi, che fa volare con la mente fino a luoghi dove la mano dell'uomo non è ancora giunta per lordare, e dove acque limpide scorrono da millenni indisturbate. Si prosegue con episodi brevi ma incisivi, come "Forged In The Fires Of Alba", che sposa black metal con possenti linee corali, poi ancora un episodio di pura atmosfera come "Destiny", dunque un brano acustico intriso di densa malinconia e di lacrime come "Sorrow Of The Sun", fino ad arrivare ad altri due brani epocali, che rispondono al nome di "Legion Of Wotan" e "Whispers In The Breeze" (separati dalla piacevole e folkeggiante strumentale "Field Of Thistles & Ancient Echoes"): qui il gruppo ricomincia a fare sul serio, alzando il volume delle chitarre e ritornando di nuovo su ritmi elevati, con riff ora rocciosi ora tremuli, voci ora appena accennate, ora ululanti come per imitare i lupi, delicati stacchi acustici e lunghe cavalcate di pura melodia, di quella che arriva diritto al cuore e che cresce di tono in tono fino ad elevarsi a vette altissime. Chiude il cerchio la potente strumentale "Eternity", che riesce ad essere maestosa anche se gli archi e i flauti sono evidentemente campionati; se dovessi trovare un difetto a questo disco, lo troverei proprio nella scelta dei suoni, che a volte sono un po' troppo artefatti e puliti, quasi innaturali. Avrei preferito una produzione più "sporca" e meno patinata, che avrebbe valorizzato molto meglio la musica; sfortunatamente, gli Askival non sono durati abbastanza per poter porre rimedio a questo limite.

Dunque, per quale motivo bisognerebbe comprare questo album? Semplicemente perchè è un disco che pesca dai migliori aspetti di ciascuna band "maestra" e li fa propri in maniera personale e convincente, senza far gridare al capolavoro ma facendosi comunque ricordare come un prodotto pregno di qualità. "Eternity" è l'album perfetto da ascoltare camminando in mezzo alla natura (anche se so di essermi già espresso su questo tema, citando decine di altri dischi!), lasciandosi trasportare dalle sue melodie cristalline e dalle atmosfere pregne di odor di sottobosco: peccato solo per quei suoni così artificiali e artificiosi, altrimenti sarei qui a parlare di capolavoro.

01 - Gathering The Clans (1:26)
02 - The Last March Of The White Wolves (15:31)
03 - Elderpath (5:46)
04 - Forged In The Fires Of Alba (3:31)
05 - Destiny (3:00)
06 - Sorrow Of The Sun (4:53)
07 - Legions Of Wotan (10:09)
08 - Field Of Thistles & Ancient Echoes (3:20)
09 - Whispers In The Breeze (10:04)
10 - Eternity (5:05)

sabato 25 giugno 2011

Behemoth - "Sventevith"

Pagan, 1995
Le notti di Dicembre sono rigide, specie nel Nord della Polonia mentre le selvagge onde del Mar Baltico colpiscono le coste dorate di Gdansk. E’ questo il contesto estremo in cui i Behemoth registrarono il loro primo full-length nel Dicembre del 1994, Sventevith - Storming Near The Baltic, il quale sembra aver conservato incastonata in sé una piccola parte di queste condizioni climatiche.

Sventevith è una di quelle violente onde, uno di quei fulmini caduti nel mare, una di quelle manifestazioni della natura più selvaggia che viste superficialmente spaventano e ci spingono lontano, ma che se contemplate più da vicino dischiudono un mondo affascinante insospettabile - lo stesso mondo che racchiude Sventevith, nascosto tra le sue ruvide increspature che a prima vista per un fan dei Behemoth moderni può sembrare un insensato groviglio di rami di un abete colpito da un vento invernale, ma che ad un’analisi più approfondita dischiude un mondo incantato: ogni riff di ogni brano emana melodie perdute, melodie che si sporcano del suono gracchiante delle chitarre, che si imbevono di esso, e che suonando inebriate lo disperdono nell’atmosfera circostante. L’atmosfera...l’atmosfera incantata che sa creare questo disco, questo allora duo con Baal Ravenlock alle percussioni e Nergal che si occupava di tutto il resto, è semplicemente incredibile, e non pretendo di potervela spiegare a parole. Potrei parlarvi dei riff accennati che si scorgono tra le pieghe di una produzione pessima ma proprio per questo estremamente efficace, delle splendide tastiere che rendono più vivido il chiaroscuro delle chitarre, o degli intermezzi acustici semplicemente stupendi in pieno stile Pagan Black Metal...ma non lo farò perché si tratta di un’esperienza che ciascuno deve fare per conto proprio, esperienza che all’inizio sembra un po’ come camminare di notte a torso nudo contro una forte bora, contro lo scream sferzante di Nergal, contro le sgangherate sfuriate di Baal Ravenlock, contro un sound marcescente - ma se continuerete a camminare noncuranti del congelamento parziale dei vostri arti, della visuale svanente dei vostri occhi, del rallentamento delle vostre funzioni vitali, improvvisamente tutto questo finirà: l’insopportabile freddo nordico si trasformerà in un nostalgico tepore, il tagliente vento in un intimo respiro, il buio della notte in un debole lume soffuso: e allora sarete in grado di abbracciare la grandezza di quel sublime panorama naturale che è Sventevith.

Alcuni conoscono i Behemoth solo per il loro Death epico molto personale, e snobbano i primi lavori come Sventevith e Grom; altri invece ritengono che l’era Pagan dei Behemoth sia stato il loro momento migliore, e non sono entusiasti del loro Death epico moderno. Che volete che vi dica? Si tratta di due cose molto diverse tra loro, e non credo abbia senso paragonarle. Una cosa però è certa: i Behemoth hanno dimostrato di eccellere sia nell’una che nell’altra, e Sventevith ne è una suggestiva testimonianza.

01 - Chant Of The Eastern Lands (05:43)
02 - The Touch Of Nya (00:57)
03 - From The Pagan Vastlands (04:30)
04 - Hidden In The Fog (06:50)
05 - Ancient (02:02)
06 - Entering The Faustian Soul (05:36)
07 - Forgotten Cult Of Aldaron (04:35)
08 - Wolves Guard My Coffin (04:29)
09 - Hell Dwells In Ice (05:51)
10 - Transylvanian Forest (04:53)

venerdì 24 giugno 2011

Morbid Angel - "Illud Divinum Insanus"

Season of Mist, 2011
E’ toccato agli Aborted nel 2005, ai Disillusion nel 2006, ai Cryptopsy nel 2008, ed ora è la volta dei Morbid Angel: brusca sterzata nella propria direzione musicale, e i fan che vanno su tutte le furie sbraitando istericamente ed invocando a gran voce la ghigliottina: tagliamogli la testa! E’ inutile star qui a raccontare cos’hanno combinato Trey e soci, perché lo sanno tutti: nel nuovo album ci sono dei brani Industrial, quattro su dieci per la precisione (escludendo l’intro). Preferisco quindi buttarla sul concettuale.

Anzitutto non vedo perché il fatto che un gruppo come i Morbid Angel inizi a provare soluzioni Industrial debba indignare tanto: qual è il problema? Il fatto che si chiamino Morbid Angel li deve confinare per sempre entro strette mura musicali? La loro fama deve essere per loro un’etichetta così pesante e stringente? Devono essere schiavizzati da ciò che li ha resi noti? Affermare una simile assurdità mi sembra un po’ come dire che un ateo non può trovare Dio, o che un cristiano non può perdere la sua fede per nessun motivo. Una cosa è la coerenza, un’altra è il cambiamento; le due non si escludono a vicenda, e il fatto che una band cambi stile non significa necessariamente che sia incoerente. La realtà è mutevole ed in perpetuo cambiamento, bisogna convincersi di ciò, bisogna farsene una ragione; l’assenza di cambiamento è la morte, specialmente per quanto riguarda la creatività artistica. E i Morbid Angel sono degli artisti, oltre che degli esseri umani: ed è aberrante pensare che un essere umano non possa evolvere i propri gusti. Inoltre accade una cosa singolare: gli Akercocke, ad esempio, iniziano a contaminare la propria musica con elementi Industrial e quasi tutti apprezzano parecchio. I Blut Aus Nord si dedicano ad un Post-Black molto Industrial e molto d’atmosfera e addirittura vengono declamati come geniali. Poi lo fanno i Morbid Angel e si scatena la rivoluzione. Ma allora il problema è davvero che si chiamano “Morbid Angel”? Della serie “Se si chiamano Akercocke o Blut Aus Nord chi se ne frega, tanto non li conosce nessuno”? E’ questo il motivo? Non ha senso.
Ma in fondo quel che conta davvero non è tanto il cambiare il proprio stile, ma è il come lo si fa; non è così? Giusto, ed in effetti io per primo l’ho sempre sostenuto. Bene, allora analizziamo come i Morbid Angel hanno mutato il loro stile. Già dal primo impatto risulta evidente che la band non si è data al country, né tantomeno se n’è uscita con un album 100% elettronico senza chitarre. Ma entriamo più nello specifico:
* Il songwriting di Illud è banale? No, né nelle canzoni classiche né in quelle Industrial, e anzi i riff sono molto belli, gli assoli sono spettacolari, e le strutture dei brani non sono mai scontate.
* Allora è un album privo di ispirazione? Assolutamente no, e la testimonianza di ciò è costituita proprio da brani come Too Extreme! e Radikult: si può dire quello che si vuole su questi brani, si può andare a gusto, si può dire che l’Industrial non ci piace, ma è innegabile che si tratti di idee precise che la band ha avuto e ha saputo tradurre in musica. Quindi l’ispirazione c’è tutta.
* Ma forse è la resa sonora ad essere inadeguata? No, e anzi sa valorizzare e fondere insieme entrambi gli stili musicali: oscura, non smodatamente moderna, compatta. Inoltre le parti elettroniche sono molto spinte e hanno il grande pregio di non staccarsi in modo netto dai brani Death, quindi il continuum sonoro è perfetto.

E allora che ne è delle critiche alla band? La risposta è semplice: aspettativa e frustrazione. Si tratta di un album lungamente atteso, che inizialmente se non erro era addirittura previsto per il 2007, e quindi le aspettative dei fan nel frattempo sono cresciute vertiginosamente producendosi in chissà quali fantasie di Death Metal ancora più pesante ed eccellente che in passato. Quando il disco è uscito davvero e questi fan l’hanno ascoltato, improvvisamente, in pochi istanti, tutte le loro aspettative maturate nel corso degli ultimi anni, le loro fantasie cresciute come piante in serra, i loro desideri gelosamente covati, si sono volatilizzati. Puff, svaniti nel nulla, anni ed anni di speranza e impazienza distrutti in pochi minuti. Questo ha scatenato una dose inaudita di frustrazione. Ed eccoci al varco, aspettativa e frustrazione: gli ingredienti dell’insuccesso. Ed è da questo mix distruttivo che nascono le improbabili critiche di molti, tra le quali vorrei esaminare brevemente le due più ridicole:
* Si è sostenuto che, a prescindere dal nome “Morbid Angel”, le sperimentazioni elettroniche di Illud non siano vere sperimentazioni ma soltanto abbozzi incoerenti. Molti l’hanno detto, ma guarda caso nessuno ha spiegato come mai non lo siano; e mi permetto di aggiungere che mi sembrano molto più riuscite di quelle, ad esempio, di band come i The Monolith Deathcult.
* Altri hanno gridato a gran voce che la band ha deciso di commercializzarsi. Ahahah! Questa è buona! Se la band avesse davvero voluto vendere tanto non sarebbe stato più conveniente fare un album scopiazzato da Altars Of Madness e Covenant, in modo che piacesse ai loro molti fan? Già, lo sarebbe stato, ma non l’hanno fatto: quindi quella della commercializzazione è una scusa bella e buona che rivela inequivocabilmente la gigantesca frustrazione incontrollata di chi l’ha propugnata.

Questi sono i fatti, e nulla di tutto ciò potrà cambiare la realtà: Illud Divinum Insanus non è quello che ci si aspettava di sentire. Ma ciò non significa che i Morbid Angel siano da colpevolizzare, criticare, deplorare: semplicemente si sono resi conto che col loro stile classico avevano ormai detto tutto ciò che si poteva dire - e forse anche di più - avevano esplorato ogni anfratto che si potesse esplorare scalando le vette con Domination e Formulas Fatal To The Flesh, per poi arrivare sulla più alta grazie al capolavoro Gateways To Annihilation. Dopo tutto questo non è forse il caso di intraprendere una nuova avventura? O avreste preferito un altro album indeciso e senza senso come Heretic? No grazie, molto meglio un album che ha una propria direzione precisa. Secondo la mia personale opinione, che ovviamente non mira ad essere universale ma che perlomeno è scevra da frustrazione e preconcetti, Illud Divinum Insanus è uno degli album migliori dei Morbid Angel al pari dei tre titoli citati qui sopra.

01 - Omni Potens (02:28)
02 - Too Extreme! (06:13)
03 - Existo Vulgoré (03:59)
04 - Blades For Baal (04:52)
05 - I Am Morbid (05:17)
06 - 10 More Dead (04:51)
07 - Destructos Vs. The Earth/Attack (07:15)
08 - Nevermore (05:08)
09 - Beauty Meets Beast (04:57)
10 - Radikult (07:37)
11 - Profundis - Mea Culpa (04:06)

Dropshard - "Anywhere But Home"

Sonic Vista, 2011
Ed eccolo qua, finalmente, il debutto discografico ufficiale dei brianzoli Dropshard. Avevo già avuto modo di restare ben impressionato dalla band, dopo averli casualmente visti dal vivo e dopo aver ascoltato i loro due demo, "DSI" e "DSII", che mostravano una band già in possesso di mezzi tecnici ed espressivi notevoli. Date queste premesse, è ovvio che aspettavo questo lavoro con una certa sollecitudine, ed ecco che finalmente me lo ritrovo tra le mani, nuovo fiammante. I Dropshard hanno centrato l'obiettivo: questo "Anywhere But Home", detto così su due piedi, è un album notevole, piacevolissimo, sinceramente emozionante, largamente impreziosito da tanti piccoli dettagli, e nonostante la proposta musicale sia debitrice del progressive rock settantiano (in particolare dei Jethro Tull, band che è sempre stata amata dai brianzoli) e del progressive metal moderno (Pain Of Salvation, Dream Theater), essa mostra una decisa personalità, che le permette di emergere dalla massa con sana prepotenza e sicurezza di sè. Sebastiano Benatti alla chitarra, Alex Stucchi al basso, Tommaso Mangione alla batteria, Marco Zago alle tastiere, Enrico Scanu alla voce: ricordiamoci questi nomi, è probabile che questi ragazzi faranno carriera.

Non è solo la giovanissima età dei componenti della band a stupirmi (la quale è già un motivo di plauso data l'ottima tecnica strumentale e non di meno vocale), ma la generale freschezza compositiva, l'energia sprigionata da ogni composizione, sia essa veloce e ritmata oppure lenta e melodiosa. Concepito per essere una lunga suite divisa in tante parti, "Anywhere But Home" è un disco che si presenta fin da subito molto fruibile e diretto, ma che sa sfruttare tutti gli elementi a sua disposizione per creare un sound dinamico, ricco di sfumature, sempre pronto a trasformarsi in qualcos'altro e ad aggiungere sorprese inaspettate. Prendiamo per esempio l'opener "Anywhere But Home", dove la voce di Enrico Scanu non teme confronti con nessuno in quanto a tecnica e capacità espressiva, mentre il tappeto strumentale riesce a passare da un semplice accompagnamento al ruolo di assoluto protagonista, in un funambolico ed emozionante finale che ricorda non poco i fasti di una dreamtheateriana "The Dance Of Eternity". Meraviglioso il momento in cui la chitarra, nervosa e aggressiva, sottende l'intervento di un organo che sa emozionare con due note, tanto è ben incastrato. Dopo un brano così potente ci si aspetta che l'attenzione cali, e invece no: "Images Of Mind" è un vero pezzo forte, interpretato da una voce ancora più drammatica e solenne, da chitarre che non esitano ad incattivirsi quando serve, da una sezione ritmica che viaggia su sincopi e contrattempi di grande effetto, e da una tastiera che si esibisce in intricati arrangiamenti di sottofondo, i quali talvolta prendono l'iniziativa e si distaccano dalle linee principali del brano. Il concept del disco tratta delle emozioni vissute dal protagonista nel suo cammino personale di evoluzione, e la musica si sposa benissimo con un tale feeling: ogni brano infatti ha un qualcosa di progressivo, qualcosa che suggerisce un cambiamento, mai la staticità. Ne è la dimostrazione la successiva "A Cold Morning", una ballata nella quale la voce è assoluta protagonista, sostenuta solo da chitarre prive di distorsioni, e perfino da un azzeccatissimo flauto traverso (suonato da Enrico) che si inserisce magistralmente nel corso di un bellissimo assolo di chitarra. Più andiamo avanti con l'ascolto e più ci rendiamo conto della terrificante sicurezza dei musicisti, che sembrano già navigati e con anni di esperienza. Con "Changing Colours" torniamo a pestare più duro, ma è un brano che confonde, essendo sempre in bilico tra l'aggressività ritmica e l'allucinata rassegnazione della voce, in una traccia molto "country" e che fa largo uso di chitarre acustiche e perfino pianoforte, a dimostrazione che i ragazzi sanno sfruttare praticamente ogni strumento e sanno anche inserirlo nel posto preciso in cui serve. "A New Beginning" invece parte lenta, pesante e distortissima, con un ritmo ossessivo che nessuno si aspettava in un simile album: ancora una volta una sorpresa! Una tastiera nervosa si affianca alla chitarra e il ritmo accelera, in un crescendo apparentemente senza fine, non interrotto nemmeno dall'entrata della voce, carica di urgenza e malessere. Ma il finale riserva ancora qualche sorpresa, con un epilogo avvolgente, appassionato e romantico, ma senza nemmeno una traccia di sdolcinatezza. E questo fa guadagnare molti punti al disco.

Chiude l'album l'atipica bonus track "Freedom Supermarket", il cui titolo lascia già intuire la tematica trattata. In apertura e chiusura si sentono suoni e voci provenienti direttamente da un supermercato, con i classici e odiosi "bip" delle casse uniti a frasi di dubbio senso, mentre nella parte centrale siamo di fronte ad un brano di puro progressive metal, che potrebbe ricordare moltissimo i Tool. Linee vocali imprevedibili e dai cambi tonali continui si stagliano fiere su un tappeto strumentale instabile, che si muove a tentoni, riuscendo a creare un'atmosfera quasi paranoica e in fin dei conti assolutamente esaltante.

In ultima analisi "Anywhere But Home" è davvero un'ottimo lavoro, appassionato e verace, considerando che stiamo parlando del debutto di una band molto giovane, sia anagraficamente sia artisticamente. Mi sarei aspettato che l'album durasse un po' di più, poiché includendo la bonus track non raggiungiamo nemmeno i quaranta minuti, ma del resto nella botte piccola pare ci sia il vino buono: perchè voler allungare il brodo a tutti i costi, se in poco tempo si è riusciti ad esprimere tutto ciò che si voleva, e con tale efficacia? Non posso dunque fare altro che chiudere questa recensione consigliando il disco a tutti (sì, a tutti quanti) e affermando che i Dropshard sono forse la migliore realtà emergente italiana disponibile sul mercato. Talento, ragazzi, questo è talento allo stato puro, quel talento che straripa e non si può tenere nascosto nemmeno volendo.

01 - Look Ahead (1:25)
02 - Anywhere But Home (6:22)
03 - Images Of Mind (6:00)
04 - A Cold Morning (4:19)
05 - Again (1:09)
06 - Changing Colours (8:17)
07 - A New Beginning (5:06)
08 - Look Behind (1:37)
09 - Freedom Supermarket (Bonus Track) (5:45)

mercoledì 22 giugno 2011

Graveworm - "Scourge Of Malice"

Napalm Records, 2001
Recensire i Graveworm per me non è facile: sono animato da impressioni contrastanti, e costantemente indeciso se dare infine un'impressione di loro che sia positiva o negativa. Anche dopo anni che li ascolto, gli altoatesini non riescono nè ad appassionarmi del tutto, nè a deludermi interamente: e non so quando riuscirò ad avere un parere definitivo a loro riguardo. Il problema è che la musica di questa band è così ricca di aspetti contrastanti, da rendere praticamente impossibile un giudizio univoco. Mi spiego.

A livello di soluzioni stilistiche, i Graveworm propongono un buon death metal melodico costantemente infarcito di tastiere, a volte così roboanti da coprire perfino i suoni delle chitarre. Una buona attitudine sinfonica, quindi, unita ad un songwriting che potremmo definire anche ispirato, ma a volte prevedibile. Un'ottima vena melodica, questo bisogna riconoscerglielo, ma non sempre sfruttata al meglio, e anzi spesso spinta all'esagerazione, con il risultato di sconfinare quasi nel pop. Se di pop si può parlare, dato che le distorsioni sono sempre potentissime e la voce è costantemente in growl - scream, ed è anche una voce potente e ruvida. Il gruppo potrebbe avere tutte le carte in regola per imporsi definitivamente come un grande nome della scena death: allora perchè non riesco ad apprezzarli fino in fondo?

Prendiamo per esempio un brano come l'opener "Unhallowed By The Infernal One". Sin dalle prime battute è chiaro che la band vuole suonare pesante, o meglio vorrebbe sembrare aggressiva, tramite l'uso di chitarre in tremolo picking, voci indiavolate e ringhiose, batteria a mitraglietta: ma sotto sotto si capisce che non c'è mai vera cattiveria dietro le note dei Graveworm, ma piuttosto una teatralità esagerata, che sconfina talvolta nella pacchianeria. Questo possiamo pensarlo finchè non arriviamo alla parte conclusiva, teatro della linea melodica più bella che io abbia mai sentito, eseguita da due tremolanti violoncelli che paiono animati da vita propria, e sorretti da una splendida e potentissima chitarra che fa tremare il terreno con la sua potenza evocativa. Questo è il punto principale dei Graveworm: possono essere pacchiani, possono esagerare con questi tastieroni che coprono tutto, possono avere un'attitudine fin troppo "catchy" e che richiama l'orecchiabilità, ma talvolta sono capaci di sorprenderti con tratti di assoluta bellezza, che lasciano letteralmente senza parole. Il disco è tutto così: orchestrazioni esagerate e brani incredibilmente pomposi lasciano sempre in dubbio se storcere il naso oppure stupirsi positivamente. "Abandoned By Heaven", traccia seguente, è anch'esso un brano che potrebbe sembrare musica pop travestita da death metal, se non nel momento in cui un arpeggio liquido ed inquietante introduce ad un momento di pura estasi sensoriale, avvolti da un tappeto di chitarre e tastiere armoniose e solenni. E che dire, nuovamente, dei meravigliosi violini che aprono "Descending Into Ethereal Mist" ? Pochi secondi, ma di grandissimo effetto, che però vengono presto messi in secondo piano da una traccia fin troppo scontata e piatta, debitrice di tutti i clichès del death melodico (escludendo, ancora una volta, alcuni momenti magici che purtroppo durano sempre poco). Una mosca bianca è l'interessante strumentale "Threnody", con le sue corde metalliche pizzicate fino allo spasimo, mentre "Demonic Dreams" ci riporta al tipico suono Graveworm, stavolta con un brano ancora più mieloso e che per certi versi suona come le ballate anni '60, pur usando tutt'altro tipo di sonorità. E la stessa cosa vale per "In Vengeance Of Our Wrath", così come per la conclusiva "Sanctity Within Darkness", che vorrebbe essere un pezzo black metal marcio, ma che non riesce ugualmente a liberarsi da quel sapore che gli inglesi chiamerebbero "cheesy". Non c'entra il formaggio: noi lo chiameremmo qualcosa come "sdolcinato". Non ho citato "Ars Diaboli" trattandosi soltanto di un coro gregoriano a cappella, e la cover di "Fear Of The Dark" degli Iron Maiden, tutto sommato riuscita molto bene, ma non così rilevante rispetto all'originale.

Arrivato a questo punto, non so proprio cosa dire. I Graveworm hanno come basilare difetto quello di avere un grosso potenziale, ma di sfruttarlo in maniera errata, unendo spunti melodico - armonici eccezionali con un'attitudine eccessivamente pomposa, mischiando poi il tutto con un'aggressività mai convincente al 100%. Un pastone male amalgamato, che può essere affascinante ai primi ascolti, ma che poi lascia sempre più perplessi. Tuttavia, non posso condannare questa band: ci sono momenti in questo album che valgono l'intera discografia di altre band, magari anche più blasonate. Il problema è che non bastano: si poteva decisamente dare di più. Un amico li ha definiti così: "carini, ma nulla di più". Tristemente d'accordo.

01 - Dreaded Time (1:48)
02 - Unhallowed By The Infernal One (6:03)
03 - Abandoned By Heaven (6:18)
04 - Descending Into Ethereal Mist (6:48)
05 - Threnody (4:32)
06 - Demonic Dreams (7:25)
07 - Fear Of The Dark (8:49)
08 - In Vengeance Of Our Wrath (5:57)
09 - Ars Diaboli (1:13)
10 - Sanctity Within Darkness (5:20)

Mar De Grises - "First River Regards"

Firebox Records, 2009
Dopo la pubblicazione dei primi due album, con i quali i cileni Mar De Grises si sono fatti notare nella scena doom metal come fautori di una musica appassionata, decadente e nello stesso tempo sperimentale, ecco che è arrivato anche per loro il momento di rilasciare i primi demo su album ufficiale. Questo EP conta solo quattro brani, di cui due già presenti sul debutto "The Tatterdemalion Express": apparentemente, c'è poco materiale e questa potrebbe sembrare un'uscita trascurabile. Niente di più errato! Oltre alle interessanti versioni delle due tracce già conosciute, "Storm" e "Recklessness" (molto più oscure e opache rispetto alle versioni ufficiali, in definitiva molto più "doom"), ci troviamo con altre due perle da aggiungere alla già validissima discografia del gruppo.

"Mar De Grises", la prima delle due inedite, è introdotta da un ritmo veloce e trascinante, sotteso da una peculiare voce rauca e catacombale che solo raramente arriva ad essere un vero e proprio growl, e anzi spesso e volentieri diventa un semplice recitato. Echi di puro doom metal, a tratti dal gusto Mournful Congregation, emergono frequentemente da questo brano dalla tensione palpabile, evidenziata soprattutto nelle parti più rallentate, pronte in ogni momento a trasformarsi in vere e proprie cavalcate in doppia cassa. Da notare l'uso intelligente e sempre ben dosato del pianoforte, che in sottofondo riesce sempre a tessere trame di valido aiuto alla struttura portante; così come è da notare la pregevolezza delle parti di batteria, sufficientemente tecniche ed intricate da tenere sempre alta l'attenzione. Come sempre, la struttura del brano è variegata e difficilmente prevedibile, e ciò è un elemento che assicura alla musica della band un'ottima longevità, in quanto è praticamente impossibile assimilare ogni aspetto delle composizioni dopo pochi ascolti.

Il brano viene chiuso da un epilogo lento, mellifluo ed emozionante, popolato da accordi di chitarra che creano magnifiche progressioni, mentre in sottofondo un tappeto di archi ci solleva di parecchi metri da terra e ci lascia fluttuare nell'aria. Basterebbe questo lungo brano a giustificare l'acquisto di questo EP, ma il meglio deve ancora venire con la successiva "For Just An Eternity". Una tranquilla introduzione con la chitarra in clean ed un pianoforte malinconico e serafico si trasforma presto in un brano drammatico e sofferto, dove una voce straziante grida tutto il suo dolore senza possibilità di rimedio, non consolata nemmeno dal solido background di violini che anche stavolta non risulta pacchiano nè fuori luogo. Un'apparente riappacificazione centrale ci inganna, poiché il brano ora diventa granitico ed epico: l'orchestra non funge più da sottofondo ma guadagna un posto di rilievo, tessendo melodie splendide e maledette, fino all'intensissimo momento in cui gli archi suonano da soli, raggiungendo il climax dell'emozione. E quando sembra che tutto sia finito, le chitarre decidono di rispondere scendendo di un altro tono e ingrossandosi ancora di più, unendosi in battaglia con la doppia cassa in un parossismo finale che toglie il fiato.

In definitiva, un dischetto da consigliare in generale a tutti gli amanti del Doom metal di qualità, e non solo ai fan di vecchia data dei Mar De Grises. Il seppur poco materiale presente è tutto di altissima qualità, e questa uscita è molto più di una semplice rehearsal prodotta per fare cassa. C'è solo da chiedersi come mai questi due splendidi pezzi inediti non siano stati resi disponibili prima, ma ora possiamo smettere di farci domande e gustarci questo piccolo capolavoro.

01 - Storm (10:16)
02 - Recklessness (5:24)
03 - Mar De Grises (11:28)
04 - For Just An Eternity (11:42)

martedì 21 giugno 2011

Opeth - "Watershed"

Roadrunner, 2008
Anche gli Opeth si stanno lentamente incamminando verso la loro personale Via Crucis. Vox populi, vox dei si dice, e in questo caso la vox populi non strilla ancora, ma inizia già a mormorare: “Gli Opeth non sono più quelli di una volta”, oppure “Gli Opeth non sanno più fare dischi come Orchid e Blackwater Park”, o ancora “Iniziano anche loro a sentire il peso degli anni sul groppone”.

Infatti nonostante i pareri decisamente positivi - anche se non unanimi - di molte recensioni che si possono trovare in rete, non sono da meno i fan che trattano Watershed con sufficienza e mezza delusione - fenomeno che ho potuto osservare io stesso parlando con diverse persone. Che gli Opeth avessero voglia di cambiare lo si sentiva già da un po’: nel 2003 si sono giocati la carta acustica, nel 2005 hanno introdotto le tastiere nel sound di quello che io ritengo uno dei loro album migliori, Ghost Reveries, donando nuovo intenso fascino alle loro caratteristiche melodie acustiche. Questa volta però escono più allo scoperto: Watershed è parecchio diverso da tutti i suoi predecessori pur rimanendo in pieno ambito opethiano, le tastiere di Per Wiberg rivestono un ruolo ancor più centrale che in Ghost Reveries e le influenze prog-rock si fanno più esplicite. Una simile diversità è anche dovuta ad un colpo durissimo subito dalla band: l’abbandono in un colpo solo di due colonne portanti come il chitarrista Peter Lindgren e il batterista Martin Lopez. Mikael li ha rimpiazzati con due ottimi elementi quali, rispettivamente, Fredrik Akesson e Martin Axenrot, ma è inevitabile che la resa sia differente...del resto se voi foste il presidente del Barcellona e perdeste Leo Messi, come diavolo lo rimpiazzereste?
Sostanzialmente questo è il background di avvenimenti a causa dei quali il popolo sta progettando a bassa voce di caricare la croce sulle spalle di Mikael Akerfeldt. Beh, io non ci sto, tutto questo è assurdo. La verità è che se Watershed venisse messo a confronto in modo oculato con gli altri album sulla piazza sarebbe ancora una volta tra le migliori uscite dell’anno, grazie alla sua inventiva e ad un songwriting fresco e ispirato. Ma la verità è anche che questo per il popolo non conta: a loro interessa solo il fatto che gli Opeth stanno mutando, questo è quanto gli basta per riempirsi la bocca di grossolani proclami. Siamo arrivati al punto in cui una band non può più nemmeno cambiare le virgole nel proprio stile senza subire stupide critiche. Assurdo. Quando una band susisce delle perdite importanti nella sua formazione giunge necessariamente ad un trivio: compatirsi per poi arrendersi; reclutare nuovi musicisti e tentare di emulare lo stile dei precedenti, ovviamente con scarsi risultati; reclutare dei nuovi musicisti e seguire le loro inclinazioni, portando una folata di aria fresca allo stile della band. Voi cosa scegliereste? Voi non lo so, ma Mikael Akerfeldt è un uomo dotato di giudizio e quindi ha scelto la terza via, e seguendola con curiosità e ricercatezza è giunto a Watershed. Io, che pure sono un grande fan di capolavori quali Morningrise e Blackwater Park, vedo in quest’album una grande sapienza compositiva che si sposa con un gusto raffinato, vedo un’intro appassionante e sofisticata col suo duetto di voci maschile-femminile, vedo l’ineguagliabile delicatezza di Burden con le sue linee gentilmente arabescate, vedo il superbo assolo di tastiera in The Lotus Eater, vedo gli occasionali leggeri venti di oboe, flauto, violino e violoncello che arricchiscono le melodie. Vedo questo ed altro: ma il resto scopritelo guardando coi vostri occhi.

Un’altra delusione per l’ignorante popolino di fanatici e conservatori, perché per Akerfeldt non è ancora giunta l’ora della Via Crucis: egli continua piuttosto a camminare con tranquillità lungo un fresco sentiero boschivo in esplorazione della nuova vegetazione che per forza di cose muta e si rinnova. Quanto ai detrattori, che di questo sentiero neanche sospettano l’esistenza, non posso che consigliare di lasciarsi trasportare dalla musica che ascoltano piuttosto che farle violenza cercando a tutti i costi di adattarla a quello che si aspettavano: l’aspettativa distrugge il godimento, e limita drasticamente l’apprezzamento.

01 - Coil (03:07)
02 - Heir Apparent (08:51)
03 - The Lotus Eater (08:48)
04 - Burden (07:42)
05 - Porcelain Heart (08:01)
06 - Hessian Peel (11:26)
07 - Hex Omega (06:59)

martedì 14 giugno 2011

Abstract Spirit - "Tragedy And Weeds"

Solitude Productions, 2009
Ad un solo anno di distanza dal debutto torna sulla scena una delle tantissime band Funeral Doom russe che negli ultimi anni sono spuntate come funghi durante un’umida notte autunnale: gli Abstract Spirit.

La band ha perfezionato e ispessito i suoi punti di forza, e si ripresenta con un lavoro curatissimo in ogni dettaglio: la resa sonora è qualcosa di spettacolare. Un sound devastante come se numerose pareti rocciose si ergessero davanti all’ascoltatore, una batteria che rimbomba come i passi di un gigante di pietra, una chitarra ricca di ottime distorsioni, un growl spesso e grasso che pare Zeus col catarro in una mattina in cui si è svegliato male. Anche i sintetizzatori vanno oltre la perfezione: i suoni in pianoforte sono corpulenti che è un piacere, quelli in stile organo sono fitti e avvolgenti, e a tutto questo si sono aggiunti anche degli originali tromboni decadenti che rendono tragico e un po’ assurdo lo scorrere della musica. Un’idea bizzarra ma davvero geniale in un genere come il Funeral Doom, strano che nessuno ci abbia mai pensato prima - posto che ciò sia vero. Attenzione, importante: non sto dicendo che la resa sonora di quest’album sia grandiosa per motivi legati alla produzione...no, a me non interessa che il sound sia pulito piuttosto che sporco. Quello che sto dicendo è semplicemente che il suo spessore, la sua corposità, il suo roboante rimbombo sono qualcosa di magnifico. Vi posso garantire che non esiste nessun album Funeral Doom il cui sound possa essere anche solo lontanamente paragonato a quello di Tragedy And Weeds.

Ma Tragedy And Weeds ha anche un altro grande punto di forza: i brani sono ben differenziati tra loro pur senza togliere né continuità né coerenza al disco, ognuno ha qualcosa di particolare che lo distingue dagli altri. I tromboni in synth non sono onnipresenti e anzi cedono talvolta il passo a organi ecclesiali e pianoforti; alla fine di Funeral Waltz c’è uno stacco molto bello in cui chitarre e basso si fanno da parte; la strumentazione di Face The Nightmare è molto particolare, tutta da gustare; il riff mostruoso di Wrapped In Solitude è ben riuscito e stacca con efficacia dal resto della musica; e infine Sepulchral Winter ha dei pregevoli toni epici e solenni che la rendono ben distinta dalle altre tracce.

Fin qui parrebbe di leggere la fiera notizia della gloriosa nascita di un nuovo incommensurabile capolavoro di chissà quale band geniale, invece che la semplice recensione di un album di una delle tante band Doom russe. In effetti gli Abstract Spirit sono riusciti a dare alle stampe forse il più bel disco prodotto finora dalla Solitude, alla pari con quelli degli Ea. Purtroppo però è giunta l’ora delle note dolenti - anzi, della nota dolente, l’unica che si possa contestare al trio di Mosca: ma il songwriting? Questo aspetto, ancora una volta, è deboluccio. In sostanza è lo stesso problema del debutto: le idee ci sono tutte (e stavolta anche di più), l’impatto sonoro è qualcosa di grandioso, di incredibile, di ineguagliato, ma il songwriting è a tratti estremamente banale e ripetitivo - e questo, in un album che oltrepassa ampiamente l’ora di durata, si fa sentire parecchio. Il problema è che tutta l’abilità descritta qui sopra si limita a decorare i muri portanti dei brani, a ricamarci sopra, ma questi muri portanti su cui vengono innestati tali curiosi arzigogoli rimangono le cantilenanti basi, che sono una faccenda privata tra una chitarra ritmica ed una batteria prive di validi argomenti che animino il loro dialogo. Personalmente mi viene il sospetto che la band sia del tutto appagata dal proprio riuscire a suonare in modo ultra-funereo e ultra-pesante, e di conseguenza il suo unico intento è quello di concentrarsi su questo aspetto e valorizzarlo in ogni modo possibile.

A questo punto è solo questione di forma mentis: se amate il Funeral Doom di band come Evoken, Tyranny, Skepticism o Esoteric, cioè quel Funeral Doom dal songwriting affascinante e imprevedibile, probabilmente non saprete che farvene degli Abstract Spirit. Se invece riuscite ad accantonare le pretese di virtuosismo compositivo - chiamiamolo così - e ad entrare in un’ottica di soli sconforto e decadenza, questo Tragedy And Weeds è indubbiamente pane per i vostri denti: ascolto dopo ascolto vi catturerà sempre di più trascinandovi giù come se vi gettassero in mare aperto con attaccati vostri piedi dei grossi blocchi di cemento. Giù, giù, sempre più giù, finché il respiro verrà meno e l’oscurità sarà totale.

01 - Tragedy And Weeds (12:17)
02 - Funeral Waltz (09:12)
03 - Crucifixion Without Regret (11:19)
04 - Face The Nightmare (11:36)
05 - Wrapped In Solitude (10:27)
06 - Sepulchral Winter (13:20)

giovedì 9 giugno 2011

Rush - "Rush"

Mercury, 1974
C’erano una volta i gloriosi anni ’70, gli anni di Smoke On The Water e Stairway To Heaven, gli anni in cui spopolava l’hard rock di Deep Purple, Led Zeppelin e Black Sabbath, l’”avanti Cristo” del Metal, la culla natale di band come Iron Maiden, Motorhead, Accept, Saxon. Ma così come oggi esistono un’infinità di band oltre a quelle più famose, allo stesso modo negli anni ‘70 esisteva una certa scena underground: i Rush sono una di queste band meno conosciute.

I Rush sono un trio canadese che testimonia come il Canada, in fatto di buona musica, non sia solo una realtà recente ma sia stato produttivo fin dai primi tempi. Gli appassionati dell’hard rock settantiano e del rock progressivo sicuramente conoscono bene questo gruppo, attivo ancora oggi con ben diciannove full-length pubblicati, sei live ufficiali, un album di cover, una caterva di premi e riconoscimenti, sei libri pubblicati dal batterista Neil Peart e numerosi stili musicali differenti esplorati nel corso della loro ormai trentennale carriera. Tutto ciò ebbe inizio con questo piccolo omonimo album nel lontano 1974, in cui il terzetto era composto da Geddy Lee, Alex Lifeson e John Rutsey. Lo stesso anno, dopo la pubblicazione di Rush, quest’ultimo lasciò la band e venne sostituito dal succitato Neil Peart, e da lì fino ad oggi la lineup non ha più subito cambiamenti. Insomma, i Rush sono una leggenda vivente, un colosso musicale, e tutto ebbe inizio con questo dischetto dimenticato, queste otto tracce che costituiscono un piacevole mix di scanzonati episodi simpatici poco pretenziosi come In The Mood e Need Some Love, i classici brani “just for fun”, e di momenti davvero indimenticabili quali Here Again e Working Man: la prima, una triste ballad in cui viene fuori tutto il pathos di altri grandi classici come Since I’ve Been Loving You e Still Loving You; la seconda, sette minuti degni del migliore rock progressivo di quel tempo. Una band alla Led Zeppelin ancora piuttosto lontana da quello che sarebbe poi diventata, le cui capacità e inventiva trasparivano solo parzialmente da questo debutto; una band che dimostrava però senza ombra di dubbio di saper trasmettere la propria energia alla musica che componeva e dava sfoggio di un grande divertimento nel suonare: emblematici in tal senso i ripetuti assoli di chitarra di Take A Friend e What You’re Doing, così come la voce allora gagliarda e ancora ingenua di Geddy Lee, oppure la spensieratezza ritmica di John Rutsey.

I riff rockeggianti e il mood tipicamente settantiano fanno di questo Rush un disco imperdibile per tutti gli appassionati nostalgici del rock anni ’70, genere che anche ai giorni nostri continua ad essere seguitissimo e letteralmente adorato come se fosse una divinità. E allora perché limitarsi ai soliti - seppur eccellenti - Deep Purple e Led Zeppelin? Perché non rispolverare anche le vecchie glorie dei Rush?

01 - Finding My Way (05:06)
02 - Need Some Love (02:19)
03 - Take A Friend (04:24)
04 - Here Again (07:35)
05 - What You're Doing (04:22)
06 - In The Mood (03:34)
07 - Before And After (05:34)
08 - Working Man (07:10)

sabato 4 giugno 2011

Khanate - "Khanate"

Southern Lord, 2001
L’uomo civile è diventato quello che è per merito dell’evoluzione, e all’interno di una cultura non può esserci evoluzione senza che qualche coraggioso metta in discussione le tradizioni e le certezze acquisite proponendo qualcosa di nuovo, che inizialmente può sembrare folle e ridicolo. Vale lo stesso concetto nel mondo musicale: i membri dei Khanate, pronuncia Kan-eight, sono tra quei coraggiosi che osano tradurre in gesta concrete le assurde intuizioni artistiche che forse per caso hanno avuto. Nessuno può dire a priori se queste intuizioni siano geniali o siano destinate a fare un buco nell’acqua; ciò che è certo è però che se non si prova a realizzarle non lo si saprà mai. I Khanate hanno deciso di provare: il risultato è quest’album omonimo.

Si tratta di una musica inqualificabile altamente sperimentale che ci parla un po’ di Drone Doom e un po’ di Sludge, scarna come la carcassa di una gazzella dopo il pasto di un branco di iene, minimale come un neon di Dan Flavin, distorta come le membra di un torturato sulla ruota. Lenti riff stridenti che si trascinano stancamente su di un ritmo sgangherato, claudicante, che sfregano l’uno contro l’altro procurandosi abrasioni e strappandosi brandelli, e quando tale carneficina ha fine si scivola in momenti più riflessivi dove i defunti riff lasciano spazio ad arpeggi lebbrosi ben supportati da una batteria rarefatta ma avvolgente. Ogni singolo tocco sui piatti sembra il frantumarsi di una parte di noi...e ogni brano è un fragoroso e cigolante cammino verso le profondità di qualcosa. La voce, un alternarsi di un urlo stridulo di isterica disperazione con un rauco sibilo, merita una menzione speciale per via del suo ruolo centrale e della sua estrema efficacia: chiara e straziante, si concentra sulla ripetizione di poche persuasive parole come ad esempio l’urlo perentorio “no joy!”, oppure la parola “choke” in Under Rotting Sky, parole emblematiche ed immaginifiche che imprimono con la forza della perseveranza il chiaro concetto di desolazione nella mente dell’ascoltatore. Questo disco sembra suonato passando le unghie su una lavagna. Probabilmente se si facesse un’indagine su un campione di metallari chiedendo che sensazioni suscita quest’album dopo il primo ascolto avremmo delle risposte del tipo: 67% indignazione, incredulità ed emicrania, 22% nausea e vomito, 7% irritazione cutanea, 3% emorroidi, 1% tutte le precedenti insieme. Khanate è un disco che inevitabilmente al primo ascolto spiazza e talvolta indigna realmente, ma è terribilmente immaginifico e psicologico: Pieces Of Quiet mi forza a figurarmi il funerale surreale di uno psichiatra celebrato da malati di mente in un’acciaieria, mentre all’inizio di Under Rotting Sky mi sembra di prendere parte ad una seduta spiritica in una discarica. Bisogna cercare di calarsi giù per i suoi irti pendii, lungo i suoi spiacevoli meandri per raggiungere le sue spinose viscere, e poi lasciare libera la propria mente: qui è lei che fa da padrona, sono le libere associazioni che ci trasportano tra le onde incatramate di Khanate. Vi assicuro che per coloro che avranno la perseveranza e la perversione di costruirsi una zattera e solcare tali onde esso si rivelerà qualcosa di unico e affascinante, e paradossalmente persino armonioso! E lo dico nel pieno possesso delle mie facoltà di intendere e di volere.

I Khanate ci propongono una musica dadaista, un’anti-musica, e questo loro disco è il nuovo orinatoio di Duchamp. Khanate, questa sacrilega ora di rumori metallici distorti, questo cumulo di lamiere e rifiuti, rinnega e distrugge tutto ciò che il Metal classico è stato fino ad oggi: qui non c’è alcuna scarica adrenalinica, la tensione non può fare altro che accumularsi senza trovare sfogo; qui non ci sono headbanging, ma solo una paralisi crescente; qui non c’è la possibilità di gridare la propria rabbia, si prova soltanto un’irrimediabile sensazione soffocante.

01 - Pieces Of Quiet (13:24)
02 - Skincoat (09:40)
03 - Torching Koroviev (03:37)
04 - Under Rotting Sky (18:17)
05 - No Joy (11:27)

Sigh - "Hangman's Hymn"

The End Records, 2007
Nella notte della ricerca musicale dei Sigh ella prese il sax, lo suonò, lo propose ai suoi nuovi colleghi e disse: “Sentite e ammiratela tutti, questa è la mia arte offerta in beneficio per voi”. Dopo il sax allo stesso modo prese il microfono, si esibì in un growl aggressivo, lo propose ai suoi nuovi colleghi e disse: “Ascoltate e godetene tutti, questo è il calice della mia rabbia per il nuovo ed eterno splendore, versata per voi e per tutti gli amanti della grande musica. Facciamo questo in onore di essi”.

Già, ma chi è costei? Non già Lisa Simpson posseduta, bensì la Dottoressa Mikannibal, nome tratto dall’accostamento della parola cannibal al suo vero nome Mika, una giovane sensuale ragazza dagli occhi a mandorla dottoressa in fisica, saxofonista e cantante growl. Bene...e cosa c’entra? C’entra perché Mirai Kawashima è un pazzo furioso, e cosa c’è di più pazzo che reclutare improvvisamente una giovane saxofonista dottoressa in fisica che canta in growl? Cosa c’è di più pazzo che stravolgere ancora una volta tutto ciò che i Sigh sono stati fino al giorno prima? Cosa c’è di più pazzo che uscirsene improvvisamente con un album assassino ed esplosivo? E così la storia di Sigh si ripete nel suo perenne non ripetersi: “nuovo album” per Mirai significa confutare la propria discografia precedente, un compito che gli riesce sempre in modo eccelso. Nel 2001 Imaginary Sonicscape confutò le sonorità Black mediante una gamma infinita di stili musicali diversi, nel 2005 Gallows Gallery confutò la varietà di Imaginary Sonicscape con uno stile molto unitario a metà tra il retrò e l’Avantgarde, stavolta Hangman’s Hymn confuta Gallows Gallery tornando ad un Black trasportante carico di energia sinfonica dalla strabiliante pienezza sonora. Si ritorna così allo scream, si ritorna ad un sound ruvido, e tale ritorno avviene a velocità incandescenti: ritmi insostenibili, assoli sfrenati, voci incalzanti. In sé e per sé i brani non sono particolari nelle strutture e nemmeno troppo ricercati, né tantomeno i riff sono originali: è evidente il ripescare nelle antiche leggende come Venom e Celtic Frost. La grandezza di quest’album sta piuttosto nel suo unire la furia del Black Metal alla musica sinfonica: non si tratta del classico Symphonic Black Metal, giacché questo si serve dei toni sinfonici al fine di creare atmosfere gotiche decadenti e/o spettrali, e non di rado è più lento del Black canonico. I Sigh fanno proprio l’esatto opposto: viaggiano a velocità forsennate e usano sax e orchestra in modo diretto, pomposo e potente. A loro non interessa l’atmosfera spettrale, a loro interessa la potenza sinfonica nuda e cruda, e la spingono all’inverosimile per mezzo di un ardente Black/Thrash. Basti vedere ad esempio in The Master Malice come esplode la canzone, già vivace, quando parte il primo assolo; oppure l’attacco di The Memories As A Sinner e Introitus: pochi nanosecondi e si è subito nel vivo dell’azione. Ma forse i brani più incredibilmente travolgenti sono I Saw The World’s End e Salvation In Flame: prorompenti, incontenibili, strabordanti.

Hangman’s Hymn è una bollente doccia sinfonica, è un lanciafiamme ben alimentato dall’odio che brucia dentro: “I just want all the people to die. I hate greedy people who have no interest than making money. I hate weak people who have to cling to the religious fairytales. I hate 99.9% of people on this earth. I'm not pretending a misanthropist, I mean it. I just want them to burn in hell”. E’ la conferma che le cose migliori nascono dall’odio e dal disagio di chi si sente fuori posto rispetto a quelli che lo circondano, di chi sa di essere su un altro livello, di chi sa di muovere i propri passi in ben altri lidi. Hangman’s Hymn è l’ennesima dimostrazione del delirante acume di Mirai Kawashima.

01 - Introitus/Kyrie (04:30)
02 - Inked In Blood (03:12)
03 - Me-Devil (03:17)
04 - Dies Irae/The Master Malice (05:45)
05 - The Memories As A Sinner (03:32)
06 - Death With Dishonor (03:04)
07 - In Devil's Arms (04:33)
08 - Overture/Rex Tremendae/I Saw The World's End (06:06)
09 - Salvation In Flame/Confutatis (05:08)
10 - Hangman's Hymn/In Paradisum/Das Ende (05:06)

giovedì 2 giugno 2011

Pantheist - "Pantheist"

Grau Records, 2011
Mi risulta piuttosto imbarazzante iniziare questa recensione del nuovo album dei Pantheist, dato che pochi dischi mi hanno spiazzato in maniera così netta. Il gruppo non ha bisogno di molte presentazioni: i belgi capitanati dall'eclettico Kostas Panagiotou hanno saputo imporsi come grandi nomi del doom metal, attraverso la pubblicazione di album sempre dotati di grande carica sentimentale nonchè grandi dosi di sperimentazione, che rendevano ogni disco sempre diverso dal precedente. Questa è un'arma a doppio taglio: rinnovarsi di continuo può facilmente portare a fare dei passi falsi. Non posso dire che questo "Pantheist" sia propriamente un passo falso, ma di sicuro contiene molti punti che lasciano a dir poco basiti. A volte in positivo, a volte in negativo: ancora oggi non so in quale direzione spostare l'ago della bilancia.

Non si direbbe, ascoltando l'intro "One Of These Funerals", che questo album possa deludere: un'introduzione così eccezionale fa gridare subito al capolavoro, mentre la chitarra e l'organo si intersecano turbinosamente, creando quello stupendo alone oscuro - sacrale (ma anche capace di tirar fuori gli attributi quando serve) che da sempre caratterizza il gruppo. Quando parte "Broken Statue", invece, già si intuisce che qualcosa è cambiato: non ci sono più distorsioni pesanti, nè voce growl, nè aloni misteriosi: siamo davanti ad un brano di puro progressive - glam rock, con un testo insospettabilmente melenso e una musicalità sì piacevole, ma che assolutamente non sembra partorito da un gruppo come i Pantheist, famoso per le sue atmosfere profonde e introspettive. Il carattere del brano è troppo leggero, quasi scanzonato, da musica country: e questo è il primo brano che lascia interdetti. La lunga traccia successiva, "The Storm", recupera qualche punto con un mood stavolta mellifluo e suadente, con la ritrovata lentezza dei ritmi (non immune da qualche interessante e rabbiosa accelerazione), tanto che sembra quasi che i nostri si siano redenti e abbiano voluto fare un esperimento della durata di una canzone, per poi tornare a suonare come al solito. In questo brano compare anche una voce growl, che però rimarrà l'unica che sentiremo nel corso del disco: e questo è un altro elemento di novità non indifferente, che non mancherà di spiazzare i fan storici del gruppo. Comunque sì, quello di "Broken Statue" potrebbe essere stato solo un esperimento. Ma non è così sicuro: verso il nono minuto di "The Storm" sembra quasi di ascoltare "La Villa Strangiato" dei Rush, tanto per fare un esempio di come la band si sia ulteriormente dedicata alla sperimentazione selvaggia. Lo splendido finale di archi, tuttavia, ci fa ben sperare per il proseguimento dell'album: una melodia così oscura e intrigante la sanno trovare solo i Pantheist.

Il quarto brano, purtroppo, è un orrore. Temevo che arrivasse, e infatti è arrivato. "Be Here" è sicuramente il brano peggiore che i nostri abbiano mai composto, una melensaggine insulsa, tralaltro lunga quasi undici minuti. Una trascinata ballad della peggior specie, qualcosa tra il peggio degli Hammerfall e dei Dream Theater, quando scelgono di darsi alle cascate di melassa. Cantata in maniera approssimativa e tremolante, risulta molto fastidiosa con le sue velleità tipicamente glam rock, completamente slegate da quelli che erano gli episodi precedenti. Tentando di ignorare questo scempio, passo alla traccia successiva, sperando in una ripresa che salvi l'album e lo riporti su livelli perlomeno accettabili. Per fortuna, "4:59" non tradisce le aspettative, trattandosi di un brano che ricorda di più i vecchi Pantheist, con il suo incedere rilassato e ipnotico, dalle sonorità liquide. Non molto vivace, ma sicuramente mille volte più ispirato della precedente ciofeca: se non altro, quelli che ascoltiamo sono i Pantheist che ricordavamo, quelli gloriosi.

Chissà se con le ultime due tracce il disco rialzerà definitivamente la testa? Sì e no. La penultima traccia "Brighter Days" è infatti un vero capolavoro, sicuramente tra i migliori brani mai scritti dai Pantheist: riecco finalmente quella solennità finora solo accennata, quelle melodie che sono capaci di far sognare ad occhi aperti, quella potenza espressiva che temevo di non trovare più. Un brano che arriva diritto al cuore, e che finalmente ci fa emozionare come ai tempi dei gloriosi "Amartia" e "Journey Through Lands Unknown", teatro di brani di assoluta bellezza e intensità. Ma purtroppo è un episodio isolato: con la successiva e ultima "Live Through Me", il disco crolla nuovamente su se stesso. Trattasi di un altro stanco, trascinato polpettone zuccheroso che non comunica assolutamente nulla se non melensaggine, non potrei pensare altrimenti. E dura otto minuti pure lui.

Non so proprio come giudicare quest'album, dunque basiamoci su alcune fredde statistiche. Abbiamo due brani assolutamente eccezionali ("One Of These Funerals" e "Brighter Days"). Due brani interessanti ("The Storm" e "4:59"). Un brano solo discreto ("Broken Statue"). Due brani terribili ("Be Here" e "Live Through Me"). A mio parere, questo disco avrebbe potuto diventare un EP, con una tracklist modificata: mantenendo solo "One Of These Funerals", "The Storm", "4:59" e "Brighter Days", ora starei qui a parlare del nuovo, esaltante capitolo della discografia dei Pantheist. Purtroppo non posso ignorare la presenza dei rimanenti brani, che inficiano il risultato totale in quanto rendono il disco frammentario, senza coesione interna: sembra di ascoltare una compilation di tante band diverse, e questo è un elemento fortemente penalizzante. Ma tutto sommato, credo che il disco valga l'acquisto: la sua parte "buona" è sufficientemente meritevole per risollevare le sorti di un disco che ha come unica pecca quello di affiancare capolavori e brani scialbi. Di poco, ma vincono i capolavori.

01 - One Of These Funerals (3:01)
02 - Broken Statue (8:39)
03 - The Storm (11:41)
04 - Be Here (10:47)
05 - 4:59 (5:03)
06 - Brighter Days (8:42)
07 - Live Through Me (8:16)