Pagine utili del blog

domenica 29 maggio 2011

Esoteric - "The Pernicious Enigma"

Aesthetic Death, 1997
Un soggetto astratto dalle tinte oscure intriganti che rimanda da una parte alla fisica delle particelle, agli atomi, ai geni, e dall’altro ad uno scorcio metafisico: è questa la facciata con cui si ripresentarono nel 1997 gli Esoteric, pionieri del Funeral Doom, è questa la punta di un titanico iceberg chiamato The Pernicious Enigma che sfiora le due ore di durata.

Abbiamo qui il prototipo di quello che essi diventeranno nell’avvenire, di ciò che rielaboreranno in continuazione migliorando di volta in volta la loro abilità compositiva: dimenticata la psichedelia settantiana del debutto la band spinge all’estremo le atmosfere claustrofobiche e il cantato terrorizzante, rendendo la propria musica ancora più schiacciante e opprimente. La ricercatezza atmosferica si fa ancora più esasperata sia nelle melodie che nel riffing, e il songwriting è difficile da afferrare. Dischi sinistramente raffinati, terrificantemente miniati come questo non se ne vedono molti in giro, e sono poche le band che suonano con una simile ricercatezza: così a pelle mi vengono in mente gli immensi Tyranny ed Evoken, e gli italici Urna e Arcana Coelestia. Oggigiorno parecchi fan del Funeral Doom esaltano gruppi come Autumnia, Remembrance, Ophis, Nox Aurea, Revelations Of Rain e tanti altri, band sì carine ma che alla lunga stancano per via di un songwriting banale e di una certa pochezza a livello di soluzioni stilistiche. Ma visto che questi gruppi sono talvolta più conosciuti e seguiti rispetto a quelli storici, credo sia costruttivo descrivere l’approccio musicale di The Pernicious Enigma mettendone in risalto le grandi differenze rispetto allo stile Funeral moderno:
* compaiono molte melodie lente e ricercate con un sound particolare, caratterizzate dalla loro natura solista: non ripetono un riff fisso come mediamente avviene in altre band, ma evolvono in modo imprevedibile, proprio come gli assoli strumentali;
* i riff sono lunghi e labirintici, complementati da numerosi noise di vario genere che ispessiscono l’atmosfera e la resa sonora;
* spuntano di tanto in tanto improvvise sfuriate effimere in stile Death/Grindcore, rudi e violente;
* la tensione snervante creata da chitarre e noise viene sovente sublimata in arpeggi inquietanti, ipnotici ed echeggianti;
* la voce è usata come uno strumento, nel senso che, invece che limitarsi a scandire le parole, i suoi prolungati sordidi gorgheggi e le grida gollumiane vanno ad aggiungersi al tessuto atmosferico creato dagli strumenti musicali, integrandovisi perfettamente.
Sono questi i particolari stilistici che rendono l’enigma pernicioso difficile da inquadrare, proprio come un ente metafisico al quale è impossibile dare una forma: continua alternanza tra melodie allucinatorie e lenti riff labirintici i quali, insieme alla voce, creano un’atmosfera fittissima e palpabile che rimbomba nella scatola cranica dell’ascoltatore, come un’emicrania che non allenta la morsa, come se le proprie meningi venissero strizzate con forza e i propri pensieri passati in un tritacarne. E sono tutti questi aspetti, questa estrema variegatura e ricercatezza che fanno di quest’album un traguardo inarrivabile per la maggioranza delle scontate band moderne, un disco estremamente difficile da comprendere che continua a regalare qualcosa di nuovo ad ogni ascolto, nonostante a livello compositivo gli Esoteric non fossero ancora del tutto impeccabili. Una strana curiosità: la traccia conclusiva del primo disco, NOXBC9701040, è un’improvvisazione. Singolare per un genere come il Funeral Doom, no?

Ascoltare questo disco è un po’ come vagare in un vasto labirinto le cui pareti si stringono e si allargano con una ciclicità inafferrabile, il cui pavimento pare a tratti innalzarsi e il cui soffitto a volte si abbassa vertiginosamente. Di tanto in tanto sono le vostre gambe a dirigervi, altre volte è solo un lavoro mentale, come se il corpo fosse stato lasciato temporaneamente alle spalle. Questa è più o meno la sensazione spiazzante in cui induce The Pernicious Enigma se ascoltato con dedizione e immedesimazione, una sensazione che dovrebbe intimorire ma che invece spinge ad essere ripercorsa più e più volte.

Disco 1
01 - Creation (Through Destruction) (13:13)
02 - Dominion Of Slaves (16:01)
03 - Allegiance (11:50)
04 - NOXBC9701040 (12:48)

Disco 2
01 - Sinistrous (12:40)
02 - At War With The Race (02:52)
03 - A Worthless Dream (13:09)
04 - Stygian Narcosis (13:17)
05 - Passing Through Matter (19:15)

Khanate - "Things Viral"

Southern Lord, 2003
Istruzioni per l’uso: assumere non più di una volta alla settimana, lontano dai pasti, preferibilmente nel mattino o nel pomeriggio. Durante l’ascolto tenere la mente impegnata con altre attività che ne distolgano l’attenzione, in modo da diluirne la concentrazione.
Avvertenze: se eccede le dosi consigliate può causare nervosismo, sbalzi d’umore, vomito, effetti allucinogeni, sonnambulismo, disturbi intestinali.
Controindicazioni: evitare l’ascolto in casi di irritabilità, instabilità dell’umore, acidità intestinale, ipocondria, dissonnie, sconsigliato a chi è predisposto alla depressione e alla nevrosi ossessiva.

Il booklet di Things Viral, il secondo album dei Khanate, non suggerisce nulla di tutto ciò, ma a mio avviso più che un booklet sarebbe occorso un foglietto illustrativo: Things Viral si presenta come un disco malato, un prodotto pericoloso e realmente virale dalla musica rarefatta, minimale fino al midollo. Se nell’omonimo debutto Khanate trovavano molto spazio riff distorti e dissonanti, qui questi si defilano per la maggior parte del disco e lasciano un ampio raggio d’azione ad atmosfere intrise di malattia e miseria. In certi momenti sembra che le note siano stare risucchiate mediante una pompa a vuoto e ne siano rimasti solo echi distanti: come un osso avidamente spolpato, un corpo divorato dalla sarcopenia. Per i Khanate è difficile parlare di musica nell’accezione più comune del termine, ma stavolta lo è ancora di più: quest’album è un viaggio psicologico, se ne può godere appieno - posto che se ne possa godere - solo calandosi nei panni di una persona disperata e impotente, una persona che ha perso tutto fagocitata dalle vicissitudini della vita, immedesimandosi nella situazione di profonda miseria che i testi lasciano trasparire. I testi infatti fanno la differenza, e la fanno ancor più che nell’album precedente: ma non sono tanto i testi in sé che colpiscono, quanto il modo in cui vengono interpretati dal raccapricciante Alan Dubin. Egli ripropone il suo grido stridulo, lento e chiaro che è impossibile non capire e non seguire, e la band sembra voler enfatizzare questo aspetto, metterlo ancor più in evidenza rispetto al passato: la voce qui è la vera spina dorsale del disco alla quale spesso non rimangono attaccati che pochi brandelli dei tessuti e schegge delle costole, poche efficaci frasi spesso ripetute ossessivamente fino alla nausea che imprimono in pochissime parole un intero universo psicologico incentrato sul fallimento. Tanto per fare gli esempi più impressivi si possono citare “red glory!”, strillato più volte in Commuted insieme a “one, two, three times eyes close”, che suppongo si riferisca ad una truculenta strage durante un raptus di follia e alla conseguente incredulità una volta riacquisito lo stato conscio; l’angosciante “[I was] visible, but non seen” in Dead, paranoia di matrice sociale carica di rancore che conduce al suicidio; il febbrile “stay inside” sussurrato in Too Close Enough To Touch, che in due parole è capace di riassumere suggestivamente una forte introversione isterica marchiata a fuoco nella psiche a causa delle disgrazie percepite o vissute nel mondo esterno.

Things Viral non va considerato come album musicale, ma come monologo disperato di una persona abbandonata tra le ceneri del proprio fallimento, un grido irrazionale e incoerente di colui che ha completamente perso il controllo delle proprie facoltà, un grido che nasce da molto lontano dentro ognuno di noi ma che arriva ad affacciarsi alle porte della coscienza solo quando questa si è ormai svincolata dal controllo dell’Io: l’ultimo canto di un brutto anatroccolo cronico, malato e mentalmente decrepito, ultimo canto straziante che nessuno udirà.

Tenere fuori dalla portata dei bambini.

01 - Commuted (19:13)
02 - Fields (19:50)
03 - Dead (09:27)
04 - Too Close Enough To Touch (11:11)

domenica 22 maggio 2011

Ulver - "Bergtatt - Et Eeventyr I 5 Capitler"

Head Not Found, 1995
Ho scoperto tardi gli Ulver, ma dal momento in cui mi sono deciso a conoscerli e ad approfondirli, non posso più farne a meno. Sembra strano aver incrociato con un tale ritardo un gruppo come gli Ulver, in quanto sono tra i gruppi più capaci ed influenti nell'intera scena black metal: e ancora più strano è scoprire quanto questa band sia stata capace di rinnovarsi, fino a stravolgere totalmente il proprio stile. Merito del mastermind, Garm, che è riuscito a creare prima un album black - folk, poi un album di solo folk, uno di solo black, e poi passare alla musica elettronica, al trip - hop e alle colonne sonore. Di questo insolito cammino evolutivo, "Bergtatt" è il primissimo passo: un concept album della durata di poco più di mezz'ora, narrante la storia di una ragazza, Pige, persa in un bosco norvegese. In quella foresta oscura e fredda la ragazza farà conoscenza con innumerevoli spiriti malvagi, che la porteranno inesorabilmente a fare una brutta fine, ma senza che per questo la voluttà assassina della natura venga placata.

 Il sound di questo "Bergtatt" stravolge un teorema del black metal, ossia che un disco black debba per forza essere registrato male, per essere "vero". Falsissimo! "Bergtatt" gode di una produzione stellare, pulitissima, che riesce a mettere in risalto ogni elemento: l'aggressività delle chitarre, la precisione dei blast beat, le stupende linee vocali pulite di Garm (costantemente raddoppiate tramite sovraincisione, per aumentare l'effetto "sognante" ed evocativo), la bellezza dei flauti e delle rare ma intense parti di pianoforte, i suadenti stacchi di chitarra acustica che esprimono al meglio i momenti di apparente quiete nella triste storia qui raccontata. Interamente cantato in danese antico, l'album è un concentrato di pura poesia e folklore nordico: aggressività e melodie panteistiche, quasi new age, si danno battaglia per tutto l'album cercando di sopraffarsi l'un l'altra, e riuscendo in questo modo a guadagnarsi eguale spazio. Ciascuno dei cinque capitoli che compongono l'album ha un suo senso e una sua direzione: vale la pena di analizzarli uno per uno, così da entrare propriamente nel concept, che è assolutamente indispensabile capire per poter apprezzare l'album.

Capitolo I. Una chitarra decisa ma molto melodica fa da suadente tappeto alla voce di Garm, una voce trasognata e delicata, così come la protagonista della storia, che si allontana verso il bosco ignara della sua imminente sorte. La ritmica rimane pressochè uguale dall'inizio alla fine della canzone, ma questo aspetto passa in secondo piano in quanto le stupende armonie vocali e le parti soliste di chitarra assorbono tutta l'attenzione dell'ascoltatore. Solo nel finale il ritmo cambia e fa capolino una linea melodica apparentemente giocosa, ma in ultima analisi piuttosto malinconica: essa ci trascina irrimediabilmente in un crescendo entusiasmante, fino a sfumare con dolcezza. Siamo solo al primo brano, ma già rimaniamo impressionati dalla bellezza della musica, che con pochi elementi sforna un'espressività fuori dal comune.

Capitolo II. Come non commuoversi ascoltando il primo minuto, giostrato tra chitarra acustica e flauto, suonato in maniera talmente leggera e gentile da mettere i brividi? Ma non abbiamo nemmeno il tempo di bearci di questa melodia che subito un blast - beat furioso ci assale, insieme ad una voce stavolta non più celestiale, bensì aspra e tagliente: la storia inizia a prendere forma, e la foresta si risveglia in tutta la sua cupa malvagità. Ma altrettanto improvvisamente arriva un refrain dalla bellezza disarmante, nel quale Garm supera se stesso con una prestazione vocale impressionante. Qui si nota particolarmente che la scelta di "raddoppiare" la voce è quanto di meglio si poteva pensare per quest'album: rende il suono pieno, corposo, coinvolgente. Dopo una ripetizione del medesimo schema, pochi secondi di chitarra acustica e una voce non più accompagnata da strumenti chiudono l'album, in un epilogo tanto breve quanto intenso. Uno degli aspetti più caratteristici degli Ulver è quello di saper emozionare anche con tre semplicissime note, ma messe in in un contesto talmente azzeccato da renderle magiche.

Capitolo III. Rabbia allo stato puro è quello che ci aspetta fin da subito in questa traccia: ormai gli spiriti malvagi sono pronti a ghermire la preda, che scappa terrorizzata (memorabile lo stacco, sotteso da uno schizofrenico pianoforte in sottofondo, nel quale si sentono solo dei passi veloci e disorientati che calpestano foglie secche). Un brano teso, tirato, veloce e parossistico, senza respiro: il misfatto sta per compiersi. Sicuramente è l'episodio più strettamente black metal di tutto il disco, il più duro e difficile da digerire, ma non per questo meno bello: è semplicemente l'altra faccia della suadente dolcezza incontrata finora.

Capitolo IV. La preda è stata catturata ed è condotta in una caverna, dove risuona una chitarra acustica marziale e severa, insieme ad una voce stavolta spostata su tonalità gravi, quasi da rituale pagano attorno ad un falò. Come non immaginarsi in mezzo ad una foresta buia e silenziosa, ascoltando questa perla? Pare quasi di percepirli attorno a sè, questi spiriti, mentre attirano con l'inganno la giovane fanciulla dentro un luogo dal quale non potrà mai più uscire. L'aggiunta di alcune distanti voci femminili non fa che rendere il tutto ancora più ricco di atmosfera e di pathos, amplificati dalla programmatica monotonia di questo intermezzo.

Capitolo V. Per chiudere l'album si torna ad una sfuriata black metal, che aumenta progressivamente di drammaticità fino al tragico epilogo, ovvero la richiesta negata di libertà e il compiuto sacrificio della giovane. Ritornano le atmosfere tese e cariche di urgenza già sentite nel capitolo III, pennellate non solo dalle chitarre elettriche e dalla batteria, ma anche dalle chitarre acustiche, che corrono veloci e spasmodiche. Il brano si conclude in un climax di tensione, ma con un sorprendente finale di chitarra acustica, che compare quando ormai tutti gli altri strumenti si sono tacitati. Dopo tanta paura, questo dolcissimo e triste epilogo ci informa ineluttabilmente della morte della ragazza, ma contemporaneamente della sua ritrovata pace. Lacrime di commozione potrebbero sgorgare abbondanti.

Difficile rimanere indifferenti a tale dimostrazione di superiorità: un disco come "Bergtatt" è irripetibile, e va considerato come una vera e propria opera d'arte, più che come un mero album di black metal. Non posso fare altro che imporre l'acquisto di questo gioiello, che più di qualsiasi altro album saprà trasportare l'ascoltatore in quei boschi freddi, umidi e pieni di vita nascosta, che io stesso personalmente ho percorso e rivivo ogni volta che riascolto queste note. Capolavoro assoluto, un disco che rimarrà immortale e sopravviverà a qualsiasi trend del momento; perchè la vera Arte, una volta data alla luce, non ha data di scadenza.

01 - Capitel I - I Troldskog Faren Vild  (7:51)
02 - Capitel II - Soelen Gaaer Bag Aase Need (6:34)
03 - Capitel III - Graablick Blev Hun Vaer (7:45)
04 - Capitel IV - Een Stemme Locker (4:01)
05 - Capitel V - Bergtatt - Ind I Fjeldkamrene (8:06)

sabato 21 maggio 2011

Amesoeurs - "Amesoeurs"

Code666, 2009
“We, Amesoeurs, are the children of this sad and metallic century; receptors capturing the aggressive and unhealthy waves of the industrial era. […] We are neither intellectuals nor politicians and don't have any message to pass on. We just want to FEEL, contemplate and ECHO the sound that the modern world and its absurdities have inspired us with”. Delle riflessioni sulla vita nella società industrializzata moderna, una cover accattivante che potrebbe tranquillamente fare da copertina ad un’edizione moderna de “Il capitale”, un logo dai tratti rapidi e poetici: così si presentano le “anime gemelle”, un progetto francese che si pone come tanti altri sulle orme di band come i Lifelover.

Tuttavia non parliamo di emulazione, bensì di creatività: si tratta di un ottimo Depressive Rock con forti tinte Blackened dipinte su ritmiche molto Punk moderno che sfociano occasionalmente in sfuriate Black, un Depressive Rock dal sound abbastanza ruvido che si alterna a limpidi arpeggi, e un cantato femminile leggero e sbarazzino che fa molto cartone animato giapponese. Uno stile originale, in cui certi riff hanno un sapore punk-rock moderno e taluni mi ricordano vagamente addirittura artisti come Green Day e Ligabue! Pensate quante altre similitudini potrebbe sentirci uno più avvezzo alla musica pop di quanto non lo sia io. Tuttavia, se da un lato c’è questa affinità col pop-rock dei giorni nostri, dall’altro l’album è reso frizzante da un songwriting interessante, mai banale, e da sporadiche improvvise accelerazioni che sanno tanto di Black Metal: ad esempio l’inizio di Heurt o la seconda parte di La Reine Trayeuse, per non parlare della toccante intro I XIII V... che dischiude le porte per Trouble, o ancora la conclusiva Au Crépuscule De Nos Rêves, due brani questi ultimi interamente cantati in scream che però sembrano straordinariamente a loro agio lì in mezzo. Sicuramente si tratta di un lavoro ispirato, estremamente scorrevole, che mette in mostra un ampio numero di soluzioni stilistiche perfettamente contestualizzate nell’atmosfera generale. Una curiosità: i numeri romani dell’intro citata qui sopra formano la scritta "Amesoeurs is dead", che si ottiene sostituendo ad ogni numero la lettera che occupa quella posizione nell’alfabeto.
Forse non abbiamo a che fare con nulla di rivoluzionario, ma sicuramente - ed è questo ciò che conta - non abbiamo neanche nulla di scontato: oltre cinquanta minuti di musica sobria e piacevole che sebbene non possa far gridare al miracolo difficilmente vi annoierà, musica a tratti un po’ naif che però sprofonda inevitabilmente in quel piacevole malessere esistenziale di facciata, quella sorta di eco della modernità che fa interferenza con felicità umana di cui la band parla nel suo MySpace, il riflesso delle metropoli e della tecnologia che si specchiano negli occhi di un essere dagli istinti ancora primordiali come l’uomo, un uomo che osserva il mondo esterno senza essere a volte capace di venirne a capo.

Ma come tutte le storie reali anche questa non ha il lieto fine: la band infatti si è sciolta dopo aver pubblicato questo disco a causa di insolubili divergenze musicali tra i suoi membri. E’ proprio vero: Amesoeurs is dead, e neanche a farlo apposta la band ricalca con la sua breve attività discografica le sue stesse parole e le sue scoraggianti riflessioni sulla vita nella società moderna: “Amesoeurs is a spit, the only way we have to spew out the anxiety and frustration tied to the difficulties of existence and the pursuit of happiness in our modern society”.

01 - Gas In Veins (05:10)
02 - Les Ruches Malades (04:17)
03 - Heurt (06:01)
04 - Recueillement (07:00)
05 - Faux Semblants (04:21)
06 - I XIII V XIX XV V XXI XVIII XIX – IX XIX – IV V I IV (01:41)
07 - Trouble (Éveils Infâmes) (04:49)
08 - Video Girl (04:11)
09 - La Reine Trayeuse (05:32)
10 - Amesoeurs (04:03)
11 - Au Crépuscule De Nos Rêves (11:16)

Nile - "Amongst The Catacombs Of Nephren-Ka"

Relapse, 1998
Oggi quest’album, se paragonato al presente della band, è un piccolo pezzo di antiquariato che verrebbe conservato gelosamente in un eventuale museo del Metal. Lo stile della band è ormai consolidato in un Brutal Death epico e progressivo, solido e dinamico, in una parola: mostruoso. In Amongst The Catacombs Of Nephren-Ka sono presenti in maniera molto indiretta tutti i germi di questo futuro glorioso, germi che rimangono accennati, inespressi, compattati insieme in una sorta di brodo primordiale: Amongst è il brodo primordiale dell’universo dei Nile.

Nella formazione che registrò questo disco l’unico membro attuale dei Nile è il chitarrista e fondatore Karl Sanders, che tra l’altro si occupava in toto delle chitarre: comparivano poi Chief Spires al basso e il grande Pete Hammoura alla batteria, mentre il cantato era appannaggio di ciascuno dei tre membri - lo storico Dallas Toler-Wade sarebbe entrato in formazione solo nell’album seguente, e per vedere all’opera il devastante inarrivabile George Kollias bisogna attendere fino alla vera svolta della band: Annihilation Of The Wicked del 2005. Descrivere questo primo full-length del terzetto è semplice. Immaginate un album Brutal Death di quello datato: poco più di mezz’ora di durata, brani brevi e fulminei, riff veloci e spessi con un sound nero e grezzo, ritmo infernale, growl cavernoso, assoli di chitarra velocissimi e imprecisi; e dopo aver immaginato tutto ciò aggiungeteci un alto dosaggio di robusti toni epici guerrieri, toni dal gusto risalente al periodo delle antiche civiltà mesopotamiche, con però locazione Egitto. Questi toni di battaglia sono realizzati con strumenti tipici, nella fattispecie il damaru d’osso umano, un piccolo tamburo indiano a forma di clessidra; il suggestivo flauto d’osso; il gong turco; e infine il dumbeck, il tipico tamburello che nell’immaginario collettivo viene attribuito alle popolazioni africane. Non di rado tra il tumulto generale dei riff selvaggi trovano spazio delle piccole culle in cui grazie a questi strumenti si sviluppano melodie ipnotiche. Il bello di questo album è anche il fatto che i brani sono riconoscibili, fatto insolito in ambito Brutal Death, e sebbene siano tutti di ottima fattura ve ne sono due che emergono su tutti gli altri: Ramses Bringer Of War, che contiene un crescendo esplosivo strepitoso tra due assoli di chitarra, e Beneath Eternal Oceans Of Sand, perfetta col suo arpeggio arcano e desolante come brano di chiusura.

La durata dei brani è esigua, la durata totale dell’album è quasi la metà rispetto a quelli recenti, ma la velocità, la brutalità, l’abilità tecnica, le capacità compositive e le tinte epiche egiziane ci sono già tutte: semplicemente esse sono compattate, pressate rudemente l’una contro l’altra in una durata temporale esigua, in un antro oscuro tra le catacombe di Nephren-Ka. E forse è proprio questo il fascino immortale di questo piccolo pezzo di antiquariato.

01 - Smashing The Antiu (02:18)
02 - Barra Edinazzu (02:47)
03 - Kudurru Maqlu (01:06)
04 - Serpent Headed Mask (02:18)
05 - Ramses Bringer Of War (04:46)
06 - Stones Of Sorrow (04:17)
07 - Die Rache Krieg Lied Der Assyriche (03:13)
08 - The Howling Of The Jinn (02:35)
09 - Pestilence And Iniquity (01:54)
10 - Opening Of The Mouth (03:40)
11 - Beneath Eternal Oceans Of Sand (04:18)

martedì 17 maggio 2011

Maudlin Of The Well - "Bath"

Dark Symphonies, 2001
Il 2001 è stato un anno fondamentale per il metal, sopratutto nelle sue branche più sperimentali; l'inizio del millennio ha dato infatti alla luce diversi dischi che abbinavano ricerca musicale e discreto successo di vendite, come ad esempio “Lateralus” dei Tool o “Toxicity” dei System of a Down. Accanto a questi dischi sono andati poi ad accostarsi dei lavori molto ricercati, anche se, purtroppo, hanno conseguito meno successo commerciale. Probabilmente il migliore di questi album è “Bath” dei Maudlin of the well, che fa del suo punto di forza la commistione fra post-rock, death-metal e jazz.

Il tema principale del disco, supportato sia dalle musiche che dai testi, è il viaggio astrale; una forma di esperienza extracorporea dove, durante il sonno, il nostro io viene estroverso dal corpo. La band ha più volte dichiarato, infatti, che la composizione del disco è avvenuta durante diverse sedute necessarie per attivare il viaggio astrale. Questa influenza ricade anche sulla ricercata produzione: i suoni sono infatti filtrati per suonare il più possibile sognanti. Questa premessa è essenziale per capire il rapporto dicotomico delle diverse canzoni, le esperienze oniriche, infatti, non sono sempre di carattere tranquillo ma vengono alternate da veri e propri incubi. Troveremo, quindi, accanto a brani dolci come “The blue Ghost” autentiche “efferatezze” come “They aren't all Beautiful”. Sono questi cambi atmosferici a rendere completa l'esperienza di ascolto di “Bath”, che riesce ad ottenere un perfetto equilibrio fra le componenti alterando i generi ma anche le strutture delle canzoni. Particolarmente positivi, da questo punto di vista, sono brani come “The Ferryman” che integrano un'intelligente apertura d'organo (!!!) con elementi jazzati di chitarra in clean fino ad erigere una spirale di cantato femminile su uno sfondo costituito da vortici di chitarra distorta; "Girl with a Watering Can", invece, cesella sapientemente il canto feminnile all'interno di strutture jazz creando una fortissima sensazione di distacco. Spicca anche, in questo scorcio di panorama onirico, la commuovente “Geography”, dove il cantato in growl viene messo da parte per sfoderare una meravigliosa sezione in moog. Il capolavoro del disco però è la splendida “Birth Pains Of Astral Projections” che, grazie al suo intercedere di atmosfere metal e jazzate, di violenza e di estasi, porta l'ascoltatore in un percorso che ha l'apice in un vellutato assolo di sassofono.

Ma “Bath” non si limita a questo, ogni traccia è sapientemente creata per imprimersi, almeno a livello emotivo, nell'ascoltatore. Gemello di “Leaving your Body Map” uscito lo stesso anno, Questo album riassume l'anima istrionica dei componenti del gruppo ed è la testimonianza che è possibile,volendo, creare un'avant-garde metal eccezionale pur distaccandosi dalle radici black del genere. Un disco consigliato non solo agli amanti della sperimentazione, ma in generale a tutti coloro che pensano di avere un rapporto con la musica di qualità, la sua contemplazione rende questo ascolto un'esperienza che non si conclude con lo spegnimento dello stereo; prenotate, quindi, la seduta: dopo questo disco difficilmente l'anima tornerà da sola nel vostro corpo.

01 - The Blue Ghost / Shedding Qliphoth (7:57)
02 - They Aren't All Beautifull (5:36)
03 - Heaven And Weak (7:42)
04 - Interlude 1 (1:38)
05 - The Ferryman (7:50)
06 - Marid's Gift of Art (3:41)
07 - Girl With a Watering Can (8:44)
08 - Birth Pains of Astral Projection (10:34)
09 - Interlude 2 (2:12)
10 - Geography (5:00)

Meshuggah - "Catch 33"

Nuclear Blast, 2005
I Meshuggah confermano di essere una band a cui non piace ripetersi: hanno sì inventato un loro stile personalissimo e inimitabile, ma non per questo ci si sono appisolati sopra. Hanno piuttosto intrapreso un loro viaggio musicale proponendo varianti sempre nuove del loro Math - e stavolta la band riprende la vena Progressive esibita nell’eccellente singolo I, datato 2004.

Catch 33 è un album nella cui tracklist figurano tredici brani, ma in realtà si tratta di un pezzo unico che si snoda e si evolve in molteplici direzioni. La proposta musicale è asfissiante e tremendamente claustrofobica, ma al tempo stesso estremamente dinamica: l’opprimenza schiacciante di Nothing è stata qui rielaborata e resa più sottile, più elastica. Più che di tredici brani è opportuno parlare di cinque momenti differenti, i quali sembrano descrivere un viaggio nelle profondità più recondite del proprio inconscio; in effetti Catch 33 potrebbe essere usato come la colonna sonora della psiche umana - forse non è un caso che il singolo di un anno prima s’intitoli proprio “Io”. Così nel descrivere il disco mi imbarco in prima persona in questo viaggio psichico:
I: Il primo momento consiste dei primi sei brevi brani che in realtà formano un corpo unico solido e scorrevole, un lento fragoroso divenire spigoloso 100% Meshuggah che sembra denotare un malessere avvertito consciamente. Qui stiamo percorrendo la superficie della coscienza, resa impervia dal destarsi di un qualche conflitto interiore.
II: Il secondo momento coincide con la settima traccia, Mind’s Mirror, in cui la musica si arresta di colpo: sprofondiamo improvvisamente negli strati più profondi della nostra mente, e una voce aliena che pare provenire da noi stessi ci immerge sempre più fino ad accarezzare il paradossale Es, sede delle nostre contraddizioni e delle nostre ambivalenze.
III: Non potrebbe esistere rappresentazione musicale migliore del liberarsi dei moti pulsionali dell’Es della coppia In Death - Is Life, In Death - Is Death, che costituisce il terzo momento dell’album. Così come l’Es è il nucleo delle nostre emozioni e della nostra attività cerebrale, questa coppia di brani è il nucleo pulsante di Catch 33: qui la rigida spigolosità del primo momento sembra flettersi come se fosse plastica, e tiene banco un’eccezionale interpretazione in chiave jazzistica che costituisce probabilmente uno dei migliori momenti musicali che i Meshuggah abbiano mai composto. Le pulsioni sono ormai scatenate e inizia la loro lenta tortuosa risalita verso la coscienza, verso l’Io.
IV: Il quarto momento coinvolge i brani dal decimo fino a metà dell’ultimo, e vede il riaffiorare in superficie dopo una lunga apnea nell’inconscio: non a caso Shed si apre con un urlo liberatorio. Qui siamo di nuovo 100% Meshuggah e il conflitto iniziale prosegue sotto la tirannide del Super-Io che condanna senza riserve gli afflussi provenienti dal cuore della nostra mente. Nuovi riff più machiavellici di quelli che aprivano il disco, nuovo divenire eracliteo, nuovo Math tutto da gustare.
V: Il disco si chiude col quinto momento che coincide con la seconda metà del brano di chiusura, Sum, che altro non è che uno dei classici arpeggi placidi ma sinistri della band. Si tratta di un lento scivolare via in dissolvenza in cui il peggio sembra essere passato, ma sembra aver lasciato un’insicurezza profonda.

Questo è Catch 33, un’opera progressiva dallo straordinario valore compositivo, un succedersi di nuovi livelli raggiunti che si stratificano l’uno sull’altro in cui il successivo non può esistere senza il precedente, il che sembra descrivere alla perfezione tanto i nostri processi psichici quanto la discografia della band: come già detto i Meshuggah non si ripetono mai, e Catch 33 ne è l’ennesima dimostrazione. Forse questo disco non piacerà ai nostalgici di Destroy Erase Improve che hanno un’idea dei Meshuggah imbarazzantemente riduttiva, ma sicuramente farà impazzire chi i Meshuggah li ha capiti davvero.

01 - Autonomy Lost (01:40)
02 - Imprint of the Un-Saved (01:36)
03 - Disenchantment (01:44)
04 - The Paradoxical Spiral (03:12)
05 - Re-Inanimate (01:04)
06 - Entrapment (02:29)
07 - Mind's Mirrors (04:30)
08 - In Death - Is Life (02:02)
09 - In Death - Is Death (13:22)
10 - Shed (03:35)
11 - Personae Non Gratae (01:47)
12 - Dehumanization (02:56)
13 - Sum (07:18)

Unexpect - "In A Flesh Aquarium"

Label sconosciuta, 2006
Gli Unexpect sono una band che praticamente non è esistita fino al 22 Agosto 2006. Prima di questa data si segnalano un full-length del 1999 autofinanziato e limitato ad appena cento copie, la cui proposta musicale indecifrabile sicuramente non li aiutava a trovare una label, ed un EP del 2003 che, in quanto EP, non catturò molta attenzione. Poi però arriva il 22 Agosto 2006: viene pubblicato In A Flesh Aquarium.

Quello che sono riusciti a partorire gli Unexpect, questa band fantasma che improvvisamente ha assunto una propria consistenza materica, è qualcosa che non può non incontrare la resistenza di molti ascoltatori, non può fare altro che scontrarsi contro le barriere del senso comune, e come tutte le grandi intuizioni inizialmente troverà molti detrattori che lo derideranno. C’è una forte presenza di violini usati in modo terrificante, di tastiere nevrotiche, di chitarre isteriche, la batteria è inafferrabile, le voci passano dal growl maschile al clean femminile senza preavviso, e l’approccio musicale a tratti clownesco è completamente fuori da ogni tipo di convenzione: a mio avviso è molto vicino alla musica classica. Questo è uno di quegli album sui quali si potrebbe scrivere un libro. Una recensione che si limiti ad esaltare un simile lavoro non servirebbe a nulla...preferisco pertanto intraprendere due riflessioni differenti mettendomi in panni di persone diverse.

Prima riflessione: C’è la persona abituata ad un tipo abbastanza standard di Metal che sentendo la musica qui proposta potrebbe restare indignata, incredula, disgustata. Le impressioni suscitate a pelle dopo pochi ascolti sono: ma cos’è questo schifo? Dov’è la musica? Cosa significa tutto ciò? Che senso ha? Questo album che pretende di essere musicale non è altro che una selva di accostamenti sgangherati, dissonanti e incoerenti, un coacervo di delirante pazzia e schizofrenia. Questa non è musica, questo è caos, solo caos, nient’altro che folle caos. Queste riflessioni che si affollano spontanee alla nostra coscienza sono spesso accompagnate da varie sensazioni fisiche come ad esempio nervoso, senso di disagio, oppure aumento della temperatura corporea dovuto al disappunto, o ancora generale malessere legato alla realizzazione semiconscia che può essere più o meno espressa come: ma perché c’è gente che fa queste cose? L’hanno fatto davvero? Com’è possibile? E’ quella sorta di terrore per la diversità comune a tutta l’umanità che si palesa maggiormente nei costumi e nell’etica corrente, quell’essere spaventati non tanto dal percepire qualcosa per cui non siamo preparati, quanto dal realizzare che c’è chi questo qualcosa lo adora e lo pratica.

Seconda riflessione: Tuttavia, per mio merito e mia fortuna, sono riuscito col tempo a distruggere completamente questo terrore traumatico per la diversità, e questa mia libertà si ripercuote anche nell’apprezzamento musicale: io sono uno di quelli che ama quest’album alla follia. All’inizio non piaceva neanche a me, non ne ero spiazzato ma mi rendevo conto che questa musica non mi piaceva, nel senso che non mi arrecava alcuna sensazione gradevole. Tuttavia mi rendevo conto delle sue immense potenzialità e mi rendevo conto che esse erano occultate da uno spesso strato di complessità strumentale; e dato che amo le sfide decisi di prendermi il tempo necessario per perforare tale strato, per penetrare in profondità. Quando finalmente questa corazza cede si dischiude come un nuovo mondo e la musica di In A Flesh Aquarium inizia a scorrere nelle vene come una droga. Una volta che questa musica vi entra sotto la pelle non potete più farne a meno, finalmente si riescono ad apprezzare le geniali composizioni e le toccanti melodie, e una volta che i brani vengono memorizzati - il che è meno difficile di quanto possa sembrare - ci si accorge di quanto siano spontanei. Ogni uscita in violino è al posto giusto, ogni sgangherato giro di basso ed ogni impennata delle chitarre imbizzarrite va a creare un tutt’uno col resto: una volta che queste improbabili composizioni vengono assimilate divengono perfettamente naturali alle proprie orecchie, prive di qualsiasi forzatura compositiva. A questo punto ogni brano sarà un successo: Chromatic Chimera, Feasting Fools, Summoning Scenes, il trittico The Shiver, tutto sarà perfettamente in armonia con sé stesso e con ciò che lo circonda.

Arrivare ad apprezzare un album come questo non è compito facile per svariati motivi, e me ne rendo conto. Ma posso assicurarvi che ne vale la pena. In principio era il caos: ma dove inizialmente giaceva un ammasso informe di suoni ora prende forma l’ordine supremo, dove giaceva il rumore ora fluisce la melodia, dove sgorgavano il disagio e il disappunto ora zampilla l’estasi...

01 - Chromatic Chimera (05:52)
02 - Feasting Fools (06:17)
03 - Desert Urbania (07:29)
04 - Summoning Scenes (07:46)
05 - Silence_011010701 (05:13)
06 - Megalomaniac Trees (05:57)
07 - The Shiver - Another Dissonant Chord (03:00)
08 - The Shiver - Meet Me At The Carrousel (04:07)
09 - The Shiver - A Clown's Mindtrap (03:41)
10 - Psychic Jugglers (11:10)

Abstract Spirit - "Liquid Dimension Change"

Solitude Productions, 2008
"Liquid Dimension Change", con i suoi spettacolari toni blu di copertina, è il primo album dei russi Abstract Spirit, terzetto dedito ad un funeral doom molto classico e canonico, che tende a rimanere saldamente ancorato ai terreni già battuti, proponendo musica di sicuro impatto ma non altrettanta sicura originalità. Ultimamente la Russia sta diventando una terra molto interessante per il doom metal: in questi anni si sono affermate delle band colossali come Ea e Septic Mind, tutte provenienti dalla madre sovietica. Anche gli Abstract Spirit fanno parte delle band più in vista del filone doom estremo; tuttavia, a differenza dei loro cugini maggiori, i tre musicisti russi con il loro esordio non riescono a convincere fino in fondo, rimanendo sempre su livelli qualitativi molto buoni ma mancando di sfoderare quella scintilla di novità e di personalità che può trasformare una buona band in un gruppo rivelazione.

Il disco di questi tre musicisti oscuri sembra un compendio di tutto ciò che è stato già suonato in questo ambito musicale, ed è principalmente questo ciò che lo penalizza, non tanto l'esecuzione o la qualità sonora (che si collocano su livelli semplicemente eccellenti). In questi sessanta oppressivi minuti troviamo composizioni estremamente cupe e misantropiche, rette da una voce gutturale che sembra provenire direttamente da una fenditura della crosta terrestre che giunge fino al centro del pianeta. Un gusto dell'orrido molto pronunciato si esprime con atmosfere da incubo e composizioni sempre lunghe, dilatate ed emotivamente sfiancanti, tanto da rendere impegnativo l'ascolto dell'intero album senza interruzioni. Il songwriting è sufficientemente vario considerato anche il genere proposto, e le soluzioni adottate sono tutto sommato buone, come per esempio il bilanciamento delle tastiere e la loro presenza nell'album; non sono nè troppe (evitando quindi una sfrenata pomposità) nè troppo poche (evitando l'eccessiva scarnificazione del sound). Certi brani vivono su momenti davvero azzeccati, come l'emozionante assolo di chitarra in "Ruined", o la maestosa introduzione di "To Kiss The Emptiness":  tutto lascia presagire che questo sia un buon disco di Funeral Doom. Tuttavia, il principale difetto di quest'album è per l'appunto quello di essere solo un buon disco: la musica riesce indubbiamente a trascinare l'ascoltatore in un vortice di negatività, nel quale la speranza è completamente abolita e dove predominano i sentimenti più neri che si possano immaginare, tuttavia non riesco a trovare alcun elemento innovativo, nè alcun tratto distintivo che possa far emergere gli Abstract Spirit dallo status di gruppo "normale".

Non c'è niente di propriamente sbagliato nella musica di questa band, poichè in fondo si tratta di musica di sicuro effetto e impatto; musica che, per un ascoltatore totalmente a digiuno di doom metal ma che covasse il silenzioso germe del Funeral, potrebbe apparire spettacolare e impressionante, anche per via di un sound che teme veramente pochi paragoni, in quanto a luttuosità e pesantezza. Ma per un ascoltatore navigato, che sa bene da dove derivano le influenze delle varie band, questo album risulta un tantino scolastico, troppo statico e prevedibile, sostanzialmente incapace di osare e di proporre soluzioni originali e personali, pur non mancando di qualità (a costo di essere noioso, lo ripeto, perchè non vorrei che passasse il messaggio che gli Abstract Spirit sono un band scadente). Dovremo aspettare il successivo "Tragedy And Weeds" per vedere finalmente sbocciare la personalità degli Abstract Spirit; qui invece siamo di fronte ad un grosso potenziale sfruttato solo in parte. Pertanto, consiglio l'acquisto di "Liquid Dimension Change" unicamente ai più strenui e cocciuti amanti del genere, a chi proprio non riesce a vivere senza doom metal: ma per chi è abituato a selezionare bene i propri ascolti questo disco non è irrinunciabile, nè fondamentale. A questo punto, è solo una questione di finezza del palato dell'ascoltatore.

01 - From Behind The Verge (9:00)
02 - To Kiss The Emptiness (8:00)
03 - Ruined (9:39)
04 - Sarabanda (11:08)
05 - Apostasy (13:47)
06 - Liquid Dimension Change (10:22)

Immortal - "Sons Of Northern Darkness"

Nuclear Blast, 2002
Se "Battles In The North" ci aveva fatto sentire in mezzo a una tempesta di neve, e "At The Heart Of Winter" ci aveva fatto sognare con le sue atmosfere che ricordavano gigantesche grotte di ghiaccio ed epici scenari di battaglia, questo "Sons Of Northern Darkness" unisce quei due dischi fondamentali, li migliora all'ennesima potenza, e grazie alla maturità e all'esperienza acquisita negli anni, fa sì che gli Immortal raggiungano finalmente la vetta più alta della loro storia, nonchè disco fondamentale in tutto il panorama black mondiale. Il livello compositivo, qualitativo e sonoro di questo album rasenta infatti la perfezione assoluta: mai nella storia degli Immortal si era sentito un sound così pulito, cristallino e allo stesso tempo tremendamente malvagio e schiacciante, rabbioso e aggressivo ma capace di sfumature di rara bellezza, quelle sfumature che fanno correre brividi gelati lungo la schiena. Non si tratta più di caos primordiale e rabbia cieca come fu nei primi album: "Sons Of Northern Darkness" è un album maturo e a suo modo elaborato, che vanta composizioni spesso lunghe e dalle strutture mutevoli, ricche di sorprese e di atmosfere differenti.

Con questo lavoro gli Immortal hanno unito una produzione stellare, delle percussioni potentissime (drumming davvero memorabile, specialmente per quanto riguarda i rullanti!), delle chitarre che raschiano e turbinano come neve impazzita, una voce malefica e posseduta che non manca nemmeno di tecnica, assalti furibondi compenetrati con melodie sinistre e arpeggi in clean dal sapore inquietante: il risultato finale lascia letteralmente a bocca aperta. L'assalto frontale di "One By One" è distruttivo, e ci richiama alla mente i fasti del sopracitato "Battles In The North", facendoci forse credere che tutto il disco sarà un ritorno alle origini: ma i nostri hanno pronte delle sorprese. Quando arriviamo a "Tyrants", brano dalle tinte epiche e malevole, ci accorgiamo infatti che gli Immortal ora sono capaci di stregare anche con ritmiche lente e sezioni quasi d'atmosfera, elementi che caratterizzano questo album e gli conferiscono quell'aura del tutto particolare. Un altro esempio di questa evoluzione sonora è la stupenda "Antarctica", intricata e camaleontica: sfido chiunque, nonostante i ritmi rallentati e l'atmosfera quasi solenne, a non sentirsi stritolati da tonnellate di ghiaccio e neve, proprio come se ci si trovasse al Polo Sud, luogo ultraterreno dove il sole sorge e tramonta una sola volta l'anno e dove il freddo raggiunge una dimensione sovrumana. Gli Immortal hanno sempre avuto la capacità di evocare questi scenari con la loro musica, ma solo con "Sons Of Northern Darkness" quest'abilità si completa e si esprime al meglio: non più con chitarre grezze e produzione approssimativa, bensì con una spiccata cura dei dettagli e una qualità sonora stavolta eccelsa. Non è facile mantenere l'indispensabile aura "black" quando si abbandonano gli stilemi classici, che impongono una produzione sporca proprio per poter ricreare al meglio tali immagini mentali.

L'accoppiata "Within The Dark Mind" e "In My Kingdom Cold" ci mostra nuovamente degli Immortal alle prese con ritmi medio - lenti e con un riffing quasi orecchiabile, che tuttavia non può certamente essere definito easy - listening: non una goccia di cattiveria viene sprecata, la musica rimane sempre severa e imperscrutabile. Tuttavia, è con il brano conclusivo che la band dà il meglio di sè e partorisce quello che probabilmente è il brano black metal più riuscito della propria carriera: "Beyond The North Waves" è un lento, ciclopico e catartico inno al grande gelo del Nord e a tutta la sua smisurata bellezza e potenza. Il liquido arpeggio iniziale, accompagnato dal suono dell'acqua che scorre, cede improvvisamente il posto ad un muro di chitarre immenso, sviluppando una ritmica marziale che potrebbe degnamente accompagnare l'addormentarsi del mondo e il suo scivolare in una cupa era glaciale. Penso che sia il brano più evocativo che io abbia mai ascoltato, e a mio parere rappresenta la summa di tutto ciò che il black metal può offrire: la prova del nove per capire se questo genere vi piacerà o meno.

Non c'è un solo episodio che stoni o che sia inferiore agli altri: quando si è convinti di essere incappati nel brano migliore del cd, dopo il quale si comincerà lentamente a calare di qualità, si viene puntualmente smentiti. I brani, infatti, sono disposti quasi in ordine di bellezza e capacità di coinvolgimento, partendo dagli episodi più tirati e arrivando via via ai brani cardine, ragionati e solenni. In definitiva, "Sons Of Northern Darkness" è un disco emblematico, probabilmente irraggiungibile e destinato a rimanere nel cuore di ogni blackster che si rispetti, il quale sarà felice di provare fisicamente i brividi di freddo sulla pelle mentre ascolterà per l'ennesima volta questo capolavoro.

01 - One By One (5:00)
02 - Sons Of Northern Darkness (4:47)
03 - Tyrants (6:18)
04 - Demonium (3:57)
05 - Within The Dark Mind (7:31)
06 - In My Kingdom Cold (7:17)
07 - Antarctica (7:12)
08 - Beyond The North Waves (8:06)

lunedì 16 maggio 2011

Subterranean Masquerade - "Suspended Animation Dreams"

The End Records, 2005
Al mondo esistono delle immense ingiustizie, sopratutto in campo musicale. Non è raro, infatti, imbattersi in gruppi molto famosi e spesso scadenti; non è raro, d'altro canto, imbattersi anche in band “di nicchia” che seguendo il proprio stile producono delle gemme di rara bellezza. Questo è il caso di una magnifica band americana che ha saputo coniugare la modernità del metal ad elementi jazz e musica classica. Sono infatti gli statunitensi “Subterranean Masquerade” a partorire, con il loro splendido “Suspended Animation Dreams”, un vero e proprio miracolo underground. Un gioiello che splende e oscura molti dischi di artisti ben più conosciuti e rinomati.

Ma veniamo al disco. Come ho detto in precedenza, il punto forte della band è quello di alternare momenti metal e squisiti arrangiamenti classici e jazzati, tendenza, questa, che risalta a partire dalla seconda traccia “Wolf Among Sheep", magistrale brano in cui i riff di chitarra si completano con degli splendidi archi in un crescendo di sensazioni positive. Se questa è l'atmosfera generale, spesso sostenuta da trovate molto intelligenti ed inusuali, troviamo anche momenti più riflessivi, e inaspettati, come la meravigliosa “Kind Of A Blur”,brano interamente strumentale dove sono i violini a dominare la canzone, fino al cambio finale dove entra un bellissimo ed etereo sassofono che rende l'ascolto un'esperienza estatica. Decisamente da segnalare anche uno dei brani più lunghi del disco, “The Rock'N'Roll Preacher” si erge, infatti, per quasi dieci minuti di durata; fra vortici growl, eteree sezioni di chitarra pulita e un meraviglioso connubio growl-sax nella sezione finale non può non far piacevolmente sorprendere e sorridere. Dico sorridere non a sproposito: le atmosfere che troviamo in questo disco sono infatti calde e sognanti, cosa assai rara per una produzione avant-garde metal, a tal punto che, a conti fatti, di metal mantiene solo una chitarra leggermente distorta e il cantato in growl; il brano che propone gli elementi più pesanti è, infatti, “Six Strings To Cover fear” dove la pesantezza dei suoni è unita a dei particolari effetti di violini che rendono comunque molto fruibile la traccia. Altro pezzo molto ben fatto è Awake, lunga suite di circa quindici minuti, dove subentra una bellissima voce femminile, che accompagna l'ascoltatore in territori jazz, questa volta affidati al flauto, per una sensazione di “Traffichiana” memoria; finita la sezione più jazzata si apre una parte di cantato che traghetterà fino al termine del pezzo l'ascoltatore. Parlando di questo disco va comunque sottolineato che non si tratta di una produzione facilmente ascoltabile, ad un primo ascolto l'album infatti tende a disorientare l'ascoltatore a causa della combinazione di moltissimi elementi, e sopratutto quelli più tipicamente jazz non sono di facile “digeribilità” ad un ascoltatore impostato sul metal; ma queste non sono note di demerito, sono avvertenze. Se c'è qualche critica da muovere al disco, questa dev'essere indirizzata alla prima traccia, che risulta molto al di sotto rispetto alle altre, scoraggiando l'ascolto dell'album e condizionando l'ascoltatore ancora prima dell'inizio. Insomma, al primo brano basta premere il tasto “Skip”.

Non posso quindi non consigliare questo disco agli amanti delle atmosfere eteree e jazzate, il lavoro compiuto per questo disco ha il merito di trasportare in un iperuranio onirico chiunque lo ascolti; per coloro ai quali questo disco risulterà indigesto a causa delle sonorità jazz: peggio per voi, non sapete quello che vi perdete.

01 - Suspended Animation Dreams (2:26)
02 - Wolf Among Sheep [Or Maybe The Other Way Around?] (6:27)
03 - No Place Like Home (8:01)
04 - Kind Of A Blur (3:13)
05 - The Rock'N'Roll Preacher (9:07)
06 - Six Strings To Cover Fear (6:49)
07 - Awake (14:23)
08 - X (4:29)

Arcturus - "The Sham Mirrors"

Candlelight, 2002
“Welcome/ This transmission/ From a fallen star/ Otherwise known as Arcturus”

L'introduzione di “Kinetic” esplode, è un canto che viene dallo spazio siderale, la voce, lattinosa, è filtrata nel vuoto e l'atmosfera è metallica e secca, volutamente fredda. Vorticosi riff di chitarra si fondono con una lodevole produzione elettronica, accompagnati dal suono secco e potente della batteria. Camba tutto, il cantato pulito di Garm, quantomai fuori dagli schemi si fonde a meraviglia con quanto sentito e si lancia in un refrain potentissimo ed evocativo, prima di chiudere con le tastiere amalgamato dal canto, questa volta più triste e cupo.
E' una certezza quella che mi pervade dopo l'ascolto di “Kinetic”: gli Arcturus sono tornati e si sono rinnovati.

Dopo una carriera iniziata nel segno del black metal, l'anima sperimentale di Garm prende il sopravvento e, dalle sue idee, nasce quell'icona di sperimentazione chiamata “La Masquerade Infernale” considerata la magna opera del panorama avant-garde metal bellezza, follia e sperimentazione infatti hanno lasciato un segno nei cuori (e nelle menti) di chi si è tuffato alla ricerca del male nell'uomo. Dopo una pausa di qualche anno l'attesa per il nuovo disco degli Arcturus si è fatta spasmodica ma, sopratutto alla luce del tempo trascorso dalla sua uscita, posso dire che le aspettative, pur enormi, non hanno schiacciato il disco, anzi, è stato il disco a sgretolare le aspettative e ad innalzarne altre che, in seguito all'abbandono di Garm, porteranno i nostri a sfornare un buon disco: “Sideshow Symphonies” che non sarà comunque all'altezza dei precedenti.

Ma dopo questa breve e concitata storia del gruppo che l'ascolto di "Kinetic" mi ha suggerito, posso tornare a parlare di “Sham Mirrors” che contiene al suo interno sette finissime gemme, l'una migliore dell'altra. Si può, quindi, parlare di “Nightmare Heaven”, autentica meraviglia musicale con “incastonata” al suo interno una squisita sezione elettronica la quale fa da ponte per il tanto assurdo quanto squisito repraise finale. E come non parlare d'assurdo senza citare “Ad Absurdum” ?, questo brano fa della follia la discriminante fra le varie sezioni del brano queste si stagliano prima di implodere in un finale tranquillo, domintato dagli ululati di Garm. Un assalto alla giugulare è la successiva “Collapse Generation” dove una pestata introduzione in doppia cassa (HellHammer si sente subito) transita in spazi soft-elettronici prima di esplodere nel genio di Garm. “Star Crossed” è il brano più atmosferico del disco impreziosito da una deliziosa finitura di tastiere, anche questa volta è il bilico tra genio e follia a permeare la traccia, ed è infatti nei cambi del cantato, e ancora una volta in Garm, che trova soluzione il brano. La sesta traccia è un ritorno al black metal sperimentale delle origini: “Radical Cut” ha infatti una struttura basata sul canto in scream dell'ospite Ihsahn, che ipnotico si scaglia aggredendo le orecchie dell'ascoltatore. Chiude il disco “For To End Yet Again” il pezzo più progressive, che fa da incanalatore di tutti i momenti positivi del disco, tornano le trombe (Già sentite nella “Maquerade”) e il disco finisce degnamente. Ma sono pronto a scommettere che il tasto play tonerà su “Kinetic” e, sono pronto a scommettere, che questo accadrà ancora un'infinità di volte.
Ad ogni ascolto salta all'orecchio un nuovo colpo di genio, una nuova sfumatura o un nuovo suono che all'ascolto precedente non era stato notato. E' infatti l'ascolto reiterato la chiave per aprire alle proprie porte della percezione il disco, che una volta assimilato non abbandonerà più l'ascoltatore.

In definitiva un disco da comperare assolutamente, la più meravigliosa e brillante produzione in campo avant-garde metal mai concepita che, forse, farà ricredere anche chi sostiene che questo meraviglioso genere musicale non sia arte; pregna di momenti eccitanti, di emozioni vorticanti, suoni spaziali e robotici, la portata artistica raggiunta dagli Arcturus in questo disco non ha eguali. Se, invece, siete fra coloro invece che hanno già preso il disco, che aspettate? Premete, ancora una volta, il tasto play perchè anche fra dieci anni, troverete ancora in questo disco qualcosa di nuovo e interessante.

01 - Kinetic (5:26)
02 - Nightmare Heaven (6:06)
03 - Ad Absurdum (6:49)
04 - Collapse Generation (4:13)
05 - Star Crossed (5:02)
06 - Radical Cut (5:09)
07 - For An End Yet Again (10:34)

domenica 15 maggio 2011

Immortal - "Battles In The North"

Osmose Productions, 1995
Decisamente autocelebrativa la copertina di questo album, che raffigura i due demoni norvegesi in procinto di gelare le nostre anime con un album assolutamente distruttivo, di importanza seminale per lo sviluppo del Black Metal, anche se come album in sè è ben lontano dall'essere perfetto. Quando gli Immortal pubblicarono questo "Battles In The North", nel lontano 1995, avevano già alle spalle due album importantissimi come "Diabolical Fullmoon Mysticism" e "Pure Holocaust", ma è con questo terzo disco che i nostri fanno il botto e si impongono sulla scena black metal, grazie ad un suono più estremo, ancora più capace di evocare atmosfere gelide e invernali come da sempre la band è avvezza a fare.

"Battles In The North" è un disco che, più che musica, contiene i suoni di una vera e propria tempesta di neve furibonda, di quelle che tagliano la pelle e fanno perdere la ragione a chi vi si trovi in mezzo: impossibile non sentire il freddo sulla pelle quando inizia, violentissima, la prima traccia. Non bisogna aspettarsi melodia (perchè praticamente non ce n'è), nè particolari tecnicismi strumentali (il suono è confuso e certamente non privo di scivoloni), nè concessioni all'orecchiabilità: "Battles In The North" è un album assassino, senza pause di riflessione, un susseguirsi di ritmi violenti e martellanti dall'inizio alla fine, uniti ad uno screaming abrasivo e ad un riffing chitarristico al limite della cacofonia, ma dalla timbrica particolarissima, che ha reso famosi gli Immortal. Molti, e nn mi sento di biasimarli, considereranno questo album come una prova decisamente poco interessante: è innegabile che in questo disco ci sia ben poco di musicale. I pezzi sono quasi indistinguibili l'uno dall'altro (a parte l'eccezionale mosca bianca "Blashyrkh", la più lenta del lotto e uno dei pezzi più riusciti della carriera del gruppo), e a chi non è avvezzo al black metal tutto il disco sembrerà un blob catramoso senza senso, uno sfogo di furia cieca senza alcuna direzione. Può anche essere che sia così: io stesso, dopo l'impatto iniziale assolutamente devastante, non riesco quasi mai ad ascoltare più di tre brani di fila. Eppure, questo disco, per quanto imperfetto e cacofonico, rappresenta un intera cultura: la storia del Black metal passa anche da qui, e in questo album tocca uno dei suoi momenti storici più alti. Successivamente gli Immortal affineranno il proprio sound e lo renderanno sempre più fruibile, senza mai però snaturarlo: ma finchè si parla di "Battles In The North", nulla è concesso alla melodia o alla facilità di ascolto.

Una mezz'ora abbondante nella tormenta, nè più nè meno: tocca all'ascoltatore decidere se esserne affascinato oppure disgustato. Vie di mezzo, temo che non ce ne siano.

01 - Battles In The North (4:12)
02 - Grim And Frostbitten Kingdoms (2:47)
03 - Descent Into Eminent Silence (3:09)
04 - Throned By Blackstorms (3:38)
05 - Moonrise Fields Of Sorrow (2:24)
06 - Cursed Realms Of The Winterdemons (4:00)
07 - At The Stormy Gates Of Mist (3:00)
08 - Through The Halls Of Eternity (3:35)
09 - Circling Above In Time Before Time (3:56)
10 - Blashyrkh (4:34)

Gorguts - "The Erosion Of Sanity"

Roadrunner, 1993
Nel 1993 il Death Metal era ormai ufficialmente esploso, e mentre le band trainanti del settore crescevano e rilasciavano i loro capolavori decine di band in tutto il mondo continuavano a nascere e a fare il loro debutto discografico. E’ anche per questo che la proposta Death nudo e crudo iniziava a vacillare, e il sovrannumero di band spingeva necessariamente alla ricerca di qualcosa di nuovo. Non a caso il 1993 può essere assunto come data convenzionale della nascita del Melodic Death, mentre quello che oggi chiamiamo Technical Death è anche più recente di un paio d’anni. I Gorguts vissero in prima persona questo momento storico, come testimonia il loro secondo full-length di cui mi accingo a discutere.

Ho già introdotto i Gorguts in questo blog parlando del loro album di debutto Considered Dead; The Erosion Of Sanity è la loro seconda effige, datata proprio 1993. Si tratta di una forte riconferma di tutto quanto è già stato apprezzato due anni prima, riconferma che presenta però una serie di nuovi accorgimenti personali: i brani sono un po’ più tecnici nella sezione ritmica, con una batteria varia ma assolutamente mai labirintica; gli assoli presentano una buona varietà: si va dalle classiche scariche adrenaliniche tipiche del Death Metal a linee più lente e armoniose; la produzione è simile a quella dell’esordio, forse un pelo più curata: pulita quanto basta per valorizzare i toni bassi e distinguere le note, grezza a sufficienza come vuole la tradizione. Scendendo più nel dettaglio abbiamo una splendida intro in pianoforte in Condemned To Obscurity, brano caratterizzato anche dai suoi riff claudicanti, un’intro acustica in Dormant Misery che rimanda inevitabilmente a Waste Of Mortality, un apprezzabile giro di basso in A Path Beyond Premonition in vero stile Death e ben tre assoli di chitarra in The Erosion Of Sanity, sebbene i primi due siano molto brevi. Tutti questi elementi rendono The Erosion Of Sanity più interessante di quanto non fosse l’ultra-classico Considered Dead e arricchiscono ciò che i Gorguts già erano - ma nonostante ciò restiamo al 100% in ambito Old School Death Metal. Lo specifico perché alcuni parlano di questo album usando le parole Technical Death Metal; può darsi che quando uscì venne considerato da alcuni come qualcosa di realmente tecnico e innovativo, il che può anche starci considerato il contesto storico di allora in cui il Technical Death era ancora immaturo, ma oggi potendo valutare retrospettivamente e a mente fredda non è assolutamente il caso di classificarlo tale.

I Gorguts dei primi anni ’90 si confermano quindi una solida realtà dell’underground Old School, senza cedere alle attrattive dei nuovi magnifici sbocchi del Death Metal - perlomeno non ancora, dato che dovremo attendere fino al 1998 per assistere alla vera svolta della band. Ancora una volta niente di trascendentale, ancora una volta un ottimo disco nel suo genere e nel suo contesto storico.

01 - With Their Flesh, He'll Create (04:03)
02 - Condemned To Obscurity (04:51)
03 - The Erosion Of Sanity (04:53)
04 - Orphans Of Sickness (05:21)
05 - Hideous Infirmity (04:05)
06 - A Path Beyond Premonition (04:57)
07 - Odors Of Existence (03:47)
08 - Dormant Misery (04:53)

Pantheist - "O Solitude"

Firebox Records, 2003
I Pantheist sono oggi una band molto eclettica, la cui proposta musicale passa per un Doom/Death misterioso dai lontani tratti Funeral e punta verso un rock progressivo anni ’70 che sta lentamente prendendo il sopravvento. Si tratta di uno stile evoluto lentamente col tempo, che probabilmente all’inizio il leader Kostas Panagiotou non aveva ancora ben chiaro nella sua testa: infatti l’esordio della band, O Solitude, è ricordato oggi come un classico del Funeral Doom.

Appare però chiaro fin dalla primo brano che non si tratta del solito Funeral Doom completamente privo di ispirazione che tenta in qualche modo di trivializzare le leggende del genere macchiando il loro stile grandioso con monotone melodie pret-a-porter: abbiamo piuttosto davanti cinque composizioni molto personali che si impongono per qualità e composizione, il cui stile è difficilmente racchiudibile in una cerchia precisa: se da un lato non si può parlare di Funeral Doom, dall’altro non si può certo liquidare O Solitude come disco Doom/Death! Nossignore, O Solitude è molto di più del solito Doom/Death: esibisce delle chitarrone con riff lunghi e lenti, una batteria rarefatta, corpose tastiere esondanti in stile ora organo ed ora orchestra, ma poi improvvisamente se ne esce fuori con primitive accelerazioni che col Funeral Doom non c’entrano alcunché. Sembra davvero che i Pantheist siano capaci di mettere sé stessi nella musica che compongono e suonano. Svettano in particolare i brani centrali: la lunga Don’t Mourn, per il suo ritornello acustico che esce all’improvviso e per l’incredibile delicato assolo prima di tastiera e poi di chitarra; Time, per il suo granitico tono ecclesiale; ed Envy Us, grazie alla sua rielaborazione del notturno no.20 di Chopin. E il bello è proprio che, nonostante l’album suoni molto compatto ed unitario, ogni pezzo ha quel qualcosa in più rispetto a tutti gli altri che lo differenzia inequivocabilmente.
Tuttavia a mio parere questi Pantheist hanno un po’ lo stesso - grave - problema dei colleghi Officium Triste: nonostante le intuizioni musicali siano pregevoli, la produzione è indecente. Ma non parlo di quel sano grezzume in stile Black o Death Metal...questo non c’entra affatto. Qui il problema è piuttosto la realizzazione dei brani, la trasposizione del pentagramma in onde sonore. Il sound della chitarra è smussato e abbastanza piatto, incapace di incidere; i riff sembrano di gomma. Il range sonoro è estremamente ridotto: mancano totalmente tanto i picchi alti quanto i catacombali picchi bassi penetranti tipici del miglior Funeral Doom. La batteria sembra un po’ in sordina, debole, anemica; è come se fosse lontana, fragile, impaurita. E la voce...dio mio, che schifezza la voce, detto con sincerità. Il growl non riesce mai a legarsi con la musica, sembra olio nell’acqua, e il clean è semplicemente vergognoso. Kostas, nonostante sia un compositore che non teme confronti, è stonato come una campana, incapace di creare un’armonia perfino sui toni di media altezza, e non capisco perché non abbia reclutato in formazione qualcuno che il cantante lo sappia fare davvero invece che sobbarcarsi un compito che è ampiamente al di là delle sue possibilità. E, neanche a dirlo, se ci fate caso questi sono esattamente gli stessi medesimi problemi di cui soffrono gli olandesi Officium Triste.

A me piace cercare di valorizzare ogni tipo di produzione, non pretendo la perfezione sonora e anzi in numerosi casi ritengo che un sound vecchio e sporco sia decisamente migliore di uno moderno e pulito. Però un conto è adottare volutamente un sound sporco o impreciso al fine di ricreare determinate atmosfere o emozioni, altra cosa è invece registrare un album con un sound smussato e amorfo incapace di incidere sia qualitativamente che emotivamente. E questo nel caso di O Solitude è un peccato mortale, perché il materiale musicale scritto da Kostas sarebbe in grado di dar vita a qualcosa di indimenticabile se solo venisse prodotto nel modo giusto.

01 - O Solitude (09:50)
02 - Don't Mourn (14:00)
03 - Time (07:38)
04 - Envy Us (07:57)
05 - Curse The Morning Light (18:17)

Amon Amarth - "Twilight Of The Thunder God"

Metal Blade, 2008
Ho deciso di recensire questo album perché lo reputo un insulto al Metal, e perché incredibilmente solo pochi altri sembrano essersene accorti.

Chiariamo subito: gli Amon Amarth non sono forse un gruppo prodigioso, ma quantomeno erano meritatamente arrivati al successo grazie a un Melodeath intriso di tumultuose melodie Viking che paiono forgiate con martello e incudine. La loro proposta melodica è sempre stata ampiamente al di sopra della media, i loro assoli sempre ispirati, il loro sound sempre spesso e incandescente. E ora? A prima vista nulla di nuovo, come chiunque penserebbe vedendo la cover di Twilight Of The Thunder God e i titoli delle nuove canzoni. La spiacevole sorpresa arriva dopo, quando il CD inizia a contorcersi nel lettore...e si capisce che questo disco è in realtà un disco pop mascherato da Viking Melodic Death. Ascoltando la opener si capisce già l’andazzo del disco: piglio melodico da band metalcore per dodicenni, sound ultra-moderno spogliato della sua ruvidità naturale, ritmi così costanti che paiono suonati da un metronomo, strutture dei brani scontate oltre ogni limite accettabile. Basta ascoltare la melodia della titletrack, il riff di Guardians Of Asgaard, di Free Will Sacrifice, di No Fear For The Setting Sun per rendersi conto della banalità del disco, melodie che se non fosse per il growl di Johan Hegg potrebbero tranquillamente passare su MTV. Per non parlare degli assoli di chitarra: comici! Pochi secondi di inutilità che scivolano via senza lasciar traccia in perfetto stile Power Metal moderno, completamente slegati dalla musica che li circonda e caratterizzati da un sound elettronico alla DragonForce - e cosa c’entra tutto ciò con gli Amon Amarth? Boh. La maggior parte dei brani poi sono costruiti su mid-tempo esasperanti senza senso, meccanici, privi di vita. La ciliegina sulla torta è la presenza degli ospiti, vale a dire Apocalyptica e Roope Latvala (chitarra, Children Of Bodom): i primi convocati per un inserto in violoncello che è contestualizzato quanto una banana cresciuta su un ciliegio, il secondo per un caspita di assolino ridicolo di appena venti secondi, che tra l'altro non c'entra niente col resto del brano. Secondo me Latvala è entrato in studio, magari stava pure parlando al telefono con sua mamma: "Sì mamma, sto bene, non preoccuparti", non si è nemmeno tolto la giacca e ha fatto scorrere velocemente le dita sulla sua chitarra per 20 secondi, continuando nel frattempo a fare ciò che stava facendo: "Ti ho detto che sto bene mamma!", uscendo subito dopo; della serie "come presenziare come ospite in un disco musicale in meno di 60 secondi senza venir meno ai vostri impegni quotidiani". In mezzo a questa distesa di oltraggioso scempio e delirante idiozia trova spazio un solo breve episodio di decenza: parlo di Where Is Your God?, un brano originale, vario e dinamico che per certi versi mi ricorda l’andamento di Cry Of The Black Birds. Ma questo pezzo è solo, isolato, abbandonato, è un povero viandante solitario tra le ripetitive dune del deserto. Intorno a lui chilometri di nulla. Il disco è così palloso e prevedibile che a metà ascolto, guardando la titletrack e scorgendo che l’ultimo brano è più lungo degli altri, ci si dice scherzosamente: sarà il classico polpettone lento, melodico e pacchiano che segue gli altri nove mid-tempo, tutto uguale e mortalmente noioso. Detto fatto: manco a farlo apposta Embrace Of The Endless Ocean è esattamente così. Dove sono finiti i pezzi alla The Pursuit Of Vikings, Death In Fire, Fate Of Norns, Versus The World, Thousand Years Of Oppression? Cancellati, polverizzati, spazzati via come le case dei primi due dei tre porcellini.

E’ evidente che gli Amon Amarth hanno deciso di sfondare...sì, di sfondare le proprie tasche col denaro, seguendo la moda del momento e proponendo quindi un Melodeath semplicemente ridicolo che non ha nulla da comunicare, la classica “musica” per i baby metallari ancora in fasce - che poi più avanti negli anni se ne pentiranno regolarmente - ma che, passata la scossa iniziale, non lascia nulla a livello emotivo. Se solo il glorioso Odino potesse sentire con quale musica scadente e approssimativa si pretende di tributarlo li trafiggerebbe con la sua infallibile Gungnir, e poi strazierebbe i loro cadaveri calpestandoli coi possenti zoccoli di Sleipnir.

01 - Twilight Of The Thunder God (04:08)
02 - Free Will Sacrifice (04:08)
03 - Guardians Of Asgaard (04:23)
04 - Where Is Your God? (03:11)
05 - Varyags Of Miklagaard (04:18)
06 - Tattered Banners And Bloody Flags (04:30)
07 - No Fear For The Setting Sun (03:54)
08 - The Hero (04:04)
09 - Live For The Kill (04:11)
10 - Embrace Of The Endless Ocean (06:44)

sabato 14 maggio 2011

Pain of Salvation - "Remedy Lane"

Inside Out, 2002
“We will always be much more human than we wished to be”

Con queste parole si conclude l'analisi e la ricerca di se portata avanti dagli svedesi Pain of Salvation di Daniel Gildenlow; un'analisi che muove attorno all'intima essenza dell'uomo quale animale dotato di intelletto, dove sono gli errori compiuti nella vita a determinare quella crescita individuale necessaria tanto a noi quanto agli altri. E la coscienza di se stessi si sviluppa in un viaggio che abbraccia l'intera durata della vita, dove la "cura dell'anima" è il viaggio stesso.

Come intuibile dalla meravigliosa immagine di copertina, una versione stilizzata del famoso sarcofago degli sposi di origine etrusca, sono le emozioni a giocare un ruolo fondamentale e i bisogni comportamentali che ne conseguono, prima fra tutte l'amore che è l'esperienza più universale e al contempo più intima di ogni uomo, quello che potrebbe essere definito il riassunto stesso dell'essenza umana. Sono quindi le esperienze sessuali, l'innamoramento, il matrimonio, i figli, a costruire il mondo attorno a noi, risulta quindi fondamentale capire che il senso di fallimento, di errore, di perdizione, ma anche di possessione e di gelosia sono sempre stati al centro dei conflitti dell'uomo di ogni epoca.

Nei tredici brani che compongono il disco ogni aspetto è messo in risalto da un vortice sonoro progressive accompagnato, anzi, complementato da una stesura dei testi di eccezionale valore, al fine di rendere l'avventura nell'inconscio un'analisi psicanalitica. Un commento particolare va, comunque, al comparto musicale; pur essendo una formazione progressive tecnicamente notevole, contrariamente alle aspettative, mai il disco cade vittima della tecnica, ogni sezione è semplicemente funzionale alla canzone, grazie ad un uso estremamente intelligente di costruzioni sonore. Inoltre, a livello musicale, notiamo che il progressive è arricchito e contaminato da incursioni nel rap (“Ending theme”), ruggiti growl (“A Trace of Blood”), atmosfere classiche (“Fandango”) e, non ultimo, sensazioni acustiche (“Dryad of the Woods”). Se questa tendenza porterà i Pain of Salvation a strafare nei lavori successivi, trova in questo album una perfetta sintesi espressiva in tre atti, che segna una delle più alte vette raggiunte dal progressive e che contiene quello che è il miglior brano mai scritto in questo genere, la meravigliosa e commuovente "Beyond the Pale", che possiede una delle più belle e vorticose strutture progressive mai concepite.

In definitiva un disco quasi perfetto, fiore all'occhiello del progressive, che impone questo stile di lettura nel contesto europeo, elevandolo e rendendolo anche più frizzante e ricercato di quello americano delle origini, perché in fondo fare musica è una forma di ricerca che ci rende molto più umani di quello che vorremmo essere.

01 - Of Two Beginnings (2:49)
02 - Ending Theme (4:59)
03 - Fandango (5:51)
04 - A Trace Of Blood (8:17)
05 - This Heart Of Mine [I Pledge] (4:01)
06 - Undertow (4:47)
07 - Rope Ends (7:02)
08 - Chain Sling (3:58)
09 - Dryad Of The Woods (4:56)
10 - Remedy Lane (2:15)
11 - Waking Every God (5:19)
12 - Second Love (4:21)
13 - Beyond The Pale (9:56)

Worship - "Dooom"

Endzeit Elegies, 2007
Quello che mi appresto a recensire è un disco partorito da una band fondamentale della scena doom, vale a dire i Worship, da sempre dediti ad una musica che più underground non potrebbe essere. Nel 1999 diedero vita ad una corrente funeral doom estremamente "di nicchia", grazie alla pubblicazione di un demotape di ascolto davvero difficile come "Last Day Before Doomsday". Atmosfere mortifere e oppressione sonora, elementi tipici del genere, erano spinti ai massimi livelli, ma contemporaneamente non mancava una certa dose di dolcezza e di romanticismo, grazie ad una vena melodica insospettabilmente presente, per essere un gruppo così estremo e intransigente.

Dopo il tragico suicidio del mastermind Max, gettatosi da un ponte dopo essersi ubriacato pesantemente, il gruppo sembrava destinato allo scioglimento, ma ci pensò Doommonger (il secondo componente) a tenere in piedi questo progetto, e diversi anni dopo uscì questo "Dooom", in ricordo dello scomparso artista. Un album che ci regala settanta minuti abbondanti che ricordano davvero un funerale, tanto sono estremi nella loro depressività. Non credo di aver ancora trovato una band che suona più lentamente dei Worship: intendiamoci, tutti i gruppi funeral doom suonano lentamente, ma questi suonano ancora un po' più lentamente di tutti gli altri. Le coordinate sonore sono simili a quelle del demo che aveva fatto conoscere i Worship ad un pubblico di veri appassionati: tempi dilatatissimi, chitarre monolitiche che si limitano praticamente a suonare accordi prolungati all'infinito (ma senza arrivare agli eccessi di gruppi come i Sunn O))), una voce gutturale e ben poco rassicurante, e delle splendide pennellate di chitarra solista che geme, si lamenta e ci ammalia con melodie elementari ma bellissime. Il suono delle chitarre è arido, raschiante, quasi fastidioso: non piacerà a chi nel metal ama la pulizia dei suoni e la loro relativa gradevolezza all'orecchio. Non c'è spazio per cambi di ritmo, per squarci di luce, per un po' di riposo donato alle nostre orecchie: dall'inizio alla fine, il muro sonoro di "Dooom" non ci abbandona mai, e alla fine dell'ascolto (per chi riuscirà ad arrivare in fondo) sfido chiunque a non sentirsi realmente stanco e provato sotto tutti i punti di vista. A mio parere, nessuno è ancora riuscito ad eguagliare i Worship in quanto ad oppressività e pesantezza emotiva: le composizioni sono permeate da una rassegnazione totale, senza via d'uscita. Del resto, i Worship non sono mai stati un gruppo che badasse al riscontro commerciale: il loro intento era ed è tuttora quello di produrre la musica più angosciante possibile, amata solo dal proprio zoccolo duro di fan.

Potrà piacere alla follia oppure disgustare, ma la musica dei Worship è indiscutibilmente autentica: funerea e dilaniante a livelli stellari, pur nella sua estrema elementarietà compositiva. Inutile stare a descrivere brano per brano, data la pachidermica compattezza del disco: mi limiterò quindi a consigliare, all'ardito ascoltatore che volesse cimentarsi con questo "Dooom", della prima traccia, intitolata "Endzeit Elegy". Se il primo brano verrà superato, ci sono buone probabilità che il disco diventi un classico nella propria discografia, ma questa è un'esperienza che deve fare ciascuno di noi. Come diceva Morpheus al tentennante Neo: "Io posso solo indicarti la soglia, sei tu quello che la deve attraversare..."

01 - Endzeit Elegy (8:38)
02 - All I Ever Knew Lie Dead (8:24)
03 - The Altair And The Choir Of The Moonkult (8:11)
04 - Graveyard Horizon (9:41)
05 - Zorn A Rust-Red Scythe (8:06)
06 - Devided (8:17)
07 - Mirror Of Sorrow (9:44)
08 - I Am The End (Crucifixion Part II) (11:50)

mercoledì 11 maggio 2011

Dream Theater - "Images And Words"

Atco Records, 1992
E' un fulmine a ciel sereno quello che investe il mondo musicale nel 1992: dopo una decade non esattamente allettante per gli amanti del progressive, influenzata sopratutto dal movimento neo-prog , un gruppo americano forte della lezione dei Queensryche, decide di unire la passione per gruppi come i King Crimson, I Rush e i Pink Floyd ad un sound moderno e graffiante. La band in questione, ovviamente, sono i Dream Theater, che pubblicano uno dei dischi più importanti del decennio perché sarà proprio grazie a questo album che il metal uscirà dall'orbita Heavy e Glam, segnando un punto di svolta epocale verso la composizione di musica metal raffinata.

E' difficile recensire un disco di questa fama e portata, oltre a fondare in senso canonico il progressive metal, porterà questo genere ad essere uno dei più ascoltati nell'intero ambito metal, ovviamente l'ondata di recensioni è ed è stata copiosa; spero, comunque, di riuscire nel mio intento cioè quello di far capire che questo disco non sia esente da difetti ma che sia, comunque, un'opera fondamentale con la quale tutti i dischi, in ambito progressive, vengono tutt'ora confrontati.

Ricorderò in eterno la prima volta che ho ascoltato “Pull me Under”, un' intro di chitarra in clean si sviluppa fino ad esplodere in potenti powerchords, la batteria è ricca di figure ritmiche e il cantanto in crescendo costruisce il climax che ha il suo acme nella sezione centrale. - Il progressive è tornato - ho pensato ma i suoni erano graffianti e moderni. In ogni caso, va detto, la parte finale non è all'altezza di quella centrale. Le casse hanno poi lanciato “Another Day”, impressionante ballata progressive metal dove un elegantissimo sassofono si unisce alle distorsioni, neanche il tempo di riprendermi da cotanta bellezza ed è partita “Take the Time”, questa volta a farla da padrona è la sezione ritmica, il basso a cinque corde e la batteria costruiscono le basi dell'intera canzone, con perizia tecnica e gusto raffinato. Poi è il turno di “Surrounded” altra ballata di pregevole fattura, dove l'accento è posto sul crescendo vocale del cantante LaBrie, per finire in uno splendido affresco di pianoforte che apre le porte alla mastodontica, magnifica, celeberrima “Metropolis part 1” vero e proprio manifesto del progressive anni novanta, permeata da una complessa struttura in forma suite di lontani echi crimsoniani, che porta l'ascoltatore in diverse e sfaccettate dimensioni, un'introduzione che arricchisce ogni battuta di sfumature ha il compito di sorreggere fino alla botta al fulmicotone, che precede il cantato, la sezione più propriamente metal che rimane sospesa da una (forse eccessiva) sezione strumentale, per poi riprendere laddove il refrain ci aveva lasciati e chiudere cosi la suite. Ma l'ascolto continua ed è il turno di “Under a Glass Moon” dove sono i suoni delle tastiere, intrisi delle distorsioni della chitarra, a creare una splendida atmosfera orientaleggiante che non può non ammaliare, l'assolo centrale però, se vogliamo, è molto tecnico e scolastico e decisamente meno ispirato dei meravigliosi riff che attraversano la traccia fino alla sua chiusura. Chiusura, questa, che crea un forte contrasto con il brano più sorprendente dell'album, “Wait for Sleep” : una meravigliosa ballata per voce e pianoforte crea un opera breve e onirica che è l'autentico gioiello del disco; questa volta a spuntarla è l'originalità di Kevin Moore (alle tastiere) dove la musica evoca l'immagine eterea della protagonista.
Siamo in dirittura d'arrivo, i nostri affidano la chiusura ad un' altra suite, “Learning to Live”. E' una suite molto ben costruita che ad una prima impalcatura vocale contrappone un medley delle armonie portanti del disco fino a dissolversi. Vale la pena di sottolineare, per quest'ultimo brano e in generale per tutto il disco, un songwriting più che discreto.

Questo mio ascolto, ricco di variazioni e di sfacettature, ha avuto il merito di instillare in me, e in torme di altri ascoltatori, l'interesse verso il metal progressivo, pregio, questo, di un disco magari non perfetto, a volte carico di tecnicismi un pochetto fini a se stessi ma, al contempo, autentica fusione di immagini e parole che i Dream Theater hanno saputo dipingere, con i pennelli della musica, all'interno della nostra mente creando quella che è forse la più importante opera in ambito progressive degli ultimi vent'anni.

01 - Pull Me Under (8:14)
02 - Another Day (4.23)
03 - Take The Time (8:21)
04 - Surrounded (5:30)
05 - Metropolis Part I : The Miracle And The Sleeper (9:32)
06 - Under A Glass Moon (7:03)
07 - Wait For Sleep (2:32)
08 - Learning To Live (11:30)