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martedì 10 maggio 2011

Manes - "Vilosophe"

Aftermath Music, 2003
“Perché posso dare vita a questa fantasia/Farvi addormentare in ogni menzogna/Ma potete strisciare di nuovo alle vostre tane/Se non rendete a me la vostra anima”

Da un'introduzione di questo tipo ci aspetteremmo l'ennesima ammiccata al satanismo di cattivo gusto tipica del black metal, sopratutto vedendo che il gruppo in questione è norvegese e che i primi due album, nonostante qualche virata industrial, sono partoriti dalla mente di un blackster. Eppure no, in questo caso ci troviamo di fronte ad un disco dall'inaspettato risvolto filosofico, non era difficile verso la fine dell'ottocento trovare autori che in seno alla rivoluzione filosofica impartita da Nietzsche si gettassero contro gli stilemi dogmatici del positivismo, si potrebbe citare Munch per le arti visive, Strindberg con il teatro ma forse il più importante di tutti potrebbe essere Tolstoj in ambito letterario. Nel celeberrimo “la morte di Ivan Ill'ic” Tolstoj attribuisce alla società il ristagno intellettuale, è la società con i suoi simboli ad indurre l'uomo all'alienazione da se stesso, e, di conseguenza, alla morte (prima intellettuale, poi individuale ed infine sociale e fisiologica).

Il tema ricorrente di questo disco appare quasi il medesimo ma questa volta dal conflitto fra l'individuo e la società emergono le nevrosi, la schizofrenia e... il desiderio di uccidere. Se il tema può considerarsi interessante (ma già battuto da alcuni pensatori dello scorso secolo, Jung su tutti) ancora più interessante e fondamentale è il corredo musicale, quanto mai appropriato per delineare le lancinanti lacerazioni della personalità descritte da questo gruppo. Chitarre distorte e asciutte unite ad una voce bassa ed espressiva sono espressioni tipicamente black che si fondono alla perfezione con delle campionature fra il trip-hop e l'industrial in un sapiente equilibrio di suoni il più possibile schizofrenici e alienanti.

Come ci si può aspettare da un disco il cui tema scorre verso un conflitto, anche il rapporto musicale è conflittuale, se in precendenza a questo disco qualcuno aveva già introdotto elementi elettronici nel black (Arcturus) e se qualcuno aveva trasformato il black in elettronica (Ulver) i Manes fondono totalmente entrambi i generi, il rapporto dicotomico fra la musica è parte della meraviglia di questo disco, l'ascoltatore si sente ammaliato e dissociato. La musica produce le immagini, che hanno la stessa distorsione e ambivalenza delle nevrosi recondite in ognuno di noi. Il compito che il gruppo scandinavo assolve è quanto di più difficile si possa assolvere: fondere musica e testo in una singola esperienza di simboli uditivi; merito, questo, anche di un songwriting decisamente ispirato e di gran classe.

Mi rendo conto che la recensione, fino ad ora, possa risultare pomposa a mia discolpa però devo dire che questo è un lavoro estremamente complesso, affascinante come pochi e di uno spessore intellettuale notevole. Difatti il gruppo non ha mai superato, delittuosamente, la dimensione della musica di nicchia, anche se questo è il destino di molti gruppi avant-garde; è una musica assolutamente non per tutti e questo, in particolare, uno dei dischi più ostici che abbia mai ascoltato. In ogni caso, una volta fatto proprio, rimane uno splendido tesoro da custodire gelosamente che non farà altro che crescere ascolto dopo ascolto.
Da segnalare anche gli splendidi artwork che adornano sia la cover che il booklet dell'album, per una volta decisamente curati e ricercati.

In definitiva un disco consigliatissimo del quale le mie parole, benchè entusiastiche, non possono che sminuire il valore, in fondo questa è la storia di un killer, l'istinto omicida che alberga, dormiente, nell'inconscio di ognuno di noi. Da ascoltare con l'anima.

01 - Nodamnbreaks (4:39)
02 - Dying With Your Hands Bound (10:37)
03 - White devil Black Shroud (3:55)
04 - Terminus A Quo/ Terminus A Quem (5:21)
05 - Death Of The Genuine (4:44)
06 - Ende (6:20)
07 - The Hardest Of Comedowns (5:56)
08 - Confluence (5:35)