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venerdì 30 marzo 2012

Sear Bliss - "Forsaken Symphony"

Red Stream Inc, 2002
Si dice che i poeti moderni siano i cantanti. La mia versione dei fatti è che siano i musicisti.

Immaginatevi due chitarre elettriche sepolte da una cattiva produzione che dona loro un’affascinante sonorità impastata. Una delle due si produce in riff e melodie in classico stile Black Metal, l’altra costituisce una specie di gracchiante noise continuo in cui si distinguono a malapena dei riff sporchissimi, appena accennati. Questo accorgimento stilistico, oltre ad amalgamare la musica in modo eccellente, crea un’atmosfera unica che ha un valore speciale. A questo ispido profluvio chitarristico aggiungete uno scream marcio e raschiante e, per contrasto, una serie di sintetizzatori ovattati che creano una seconda atmosfera a metà tra lo spaziale e l’arcaico. Quasi mai questi strati di atmosfere che glissano l’uno sull’altro raggiungono la feroce foga del Black Metal, si tratta piuttosto di un galleggiare con ritmicità moderata e cadenzata, quanto di meglio si potrebbe desiderare per lasciare che le proprie emozioni possano galleggiare con loro. Il tutto è completato da un mesto trombone, mai in primo piano, il quale va ad integrare il lavoro dei sintetizzatori. Ed ecco a voi la poesia.

In questo caso i poeti sono gli ungheresi Sear Bliss, la band col trombone, che in occasione del loro quarto full-length si presentano con un platter di nove poesie dal desolante titolo Forsaken Symphony, un titolo che descrive molto bene il mood dei loro versi. Si tratta di un disco piuttosto diverso dai precedenti: mai la band aveva proposto niente di così desolatamente scoraggiato, e mai l’atmosfera tesseva trame così fitte e straordinariamente continue - la scarsa coesione del pur buono Grand Destiny, album precedente di appena un anno, ne è un ottimo esempio. Anche il loro fedele trombone, elemento che più di tutti li distingue dal resto delle band, è diverso dal solito: non si concede mai ad uscite da leader, rimane piuttosto in ombra creando uno sfondo malinconico, malinconia unica nel suo genere. I Sear Bliss hanno sempre puntato tutto sulla loro capacità di creare nei loro dischi un’atmosfera unica e particolare, e Forsaken Symphony è un ulteriore passo in questa loro personale evoluzione stilistica. Più profondo e meno immediato dei loro lavori precedenti - per quanto nemmeno essi non fossero esattamente immediati - Forsaken Symphony rappresenta uno di quei magnifici esempi di quanto preziosa possa essere una produzione pessima: se questo avesse avuto le registrazioni più pulite e potenti dei lavori seguenti della band, probabilmente avrebbe irrimediabilmente perso una grossa fetta del suo fascino.

A dispetto di questa azzeccata uniformità sonora nelle desolate lande della quale l’atmosfera si sviluppa al meglio, mi permetto di dire che vi sono ugualmente due perle che per mood epico e feralità delle melodie brillano più di tutte le altre: la sconsolata Eternal Battlefields, col suo delicato pianoforte, e la conclusiva The Hour Of Burning, che si spegne su di un lungo assolo di chitarra da pelle d’oca, chiudendo il disco nel migliore dei modi.

Qualunque appassionato di Black Metal d’atmosfera a forte contenuto emotivo non può perdersi questo disco per nessuna ragione al mondo. Lasciatevi cullare dal triste poetar musicale di questi impavidi ungheresi, che con nove brani tutti diversi e ben riconoscibili sapranno accompagnare lo stanco peregrinare del vostro spirito. Un’esperienza musicale che vi consiglio fortemente di intraprendere.

01 - Last Stand (07:40)
02 - My Journey To The Stars (06:49)
03 - She Will Return (05:11)
04 - The Vanishing (09:54)
05 - The Forsaken (06:27)
06 - When Death Comes (06:53)
07 - Eternal Battlefields (07:22)
08 - Enthralling Mystery (04:34)
09 - The Hour Of Burning (08:32)

mercoledì 28 marzo 2012

Nocte Obducta - "Stille (Das Nagende Schweigen)"

Grind Syndicate, 2003
Quanto una band dalle origini espressamente Black Metal come i Nocte Obducta pubblica un disco come Galgendämmerung è evidente che qualcosa dentro di essa sta cambiando, qualcosa che dapprima germoglia appena, ancora fragile e prematuro, ma che poi col tempo si fa robusto e ben ancorato al terreno. E se in Galgendämmerung di questo qualcosa si avvertivano solo i prematuri germogli, ecco che il primo vero fiore sboccia in tutta la sua bellezza soltanto con Stille (Das Nagende Schweigen), un EP il cui titolo dice tutto: quiete (il rosicchiante silenzio).

Nonostante i singoli dettagli siano tutti da scoprire, l’andamento a sorpresa di Stille è già chiaro dai toni caldi e commuoventi della opener Die Schwäne Im Moor, il cui finale con quel suo vago senso di incompiuto costituisce il migliore degli ingressi alla volta di questa versione più levigata e poetica dei Nocte Obducta. Niente più imperversanti riff Black Metal, niente più ritmi indiavolati: se la passata musica dei Nocte Obducta potrebbe essere paragonata ad un angosciante olio su tela di Friedrich, Stille è piuttosto un pregiato pastello che vive della magia dei suoi toni soffusi e un po’ sbiaditi le cui vivide linee in primo piano svaniscono gradualmente nell’atmosfera aeriforme generale. Ciò non significa che Stille sia un album acustico; l’aggressività c’è tutta e si può forse ancora parlare di questa musica come di Black Metal, ma solo nella sua anima più intima, poiché i riff sono più posati, ogni singolo suono è ben calibrato, tanto nelle chitarre quanto nella voce, fino alle episodiche tastiere che aggiungono una cornice perfetta. E’ lecito nutrire un po’ di nostalgia nei confronti dei Nocte Obducta che furono, e in fondo il mood di Stille, questo fiore primaverile novello, è impregnato di nostalgia. Ma non è quella nostalgia cocente che si prova quando una grande band scade in qualcosa di scontato, è anzi una nostalgia che in breve diverrà nostalgia per il futuro, tramutandosi in quella curiosità carica di entusiasmo nel veder pian piano fiorire il roseto al quale porteranno col tempo questi sviluppi musicali, un roseto il delizioso nettare dei cui fiori allieterà le sequenze della passeggiata di chi lo percorrerà quietamente, avvolto nel rosicchiante silenzio.

Può un semplice EP essere considerato un capolavoro alla stregua dei più grandi e rinomati full-length? Già i Meshuggah ci informarono circa la positività della risposta a siffatta domanda mediante il loro ciclopico None; ora i Nocte Obducta ce ne danno un’emozionante conferma con Stille, che è un lavoro magico: ha quell’alone magico delle fiabe tedesche della raccolta dei fratelli Grimm, quelle fiabe che narrano di incantesimi e sortilegi e che quando siamo piccini riescono così bene a rapire completamente la nostra psiche e ad occupare tutte le nostre fantasie, almeno per quei magici istanti in cui pendiamo dalle labbra di chi ce le legge. All’età di ventiquattro anni, e ben lungi da quei tempi fatati, grazie a Stille sono riuscito a rivivere quei brividi che credevo ormai morti e sepolti. E quando la fiaba dei Nocte Obducta si chiude con le toccanti note finali in pianoforte di Vorbei, rimane la stessa ingenua meraviglia di quando ero bambino: vorrei che ricominciasse subito daccapo.

01 - Die Schwäne Im Moor (04:17)
02 - Töchter Des Mondes (06:42)
03 - Der Regen (06:06)
04 - Tage, Die welkten (06:58)
05 - Vorbei (07:54)

sabato 24 marzo 2012

Majestic Downfall / Ansia (Split Album)

Solitude Productions, 2007
Anche in questo caso, la Solitude Productions ha fatto un buon lavoro. Reclutando due band assolutamente sconosciute, una messicana (i Majestic Downfall) e l'altra italiana (gli Ansia), la ormai nota casa discografica russa ha assemblato questo dischetto che farà felici gli amanti delle sonorità doom, sia per quanto riguarda il filone funeral, sia per quanto riguarda il più classico doom - death che potremmo definire quasi "da classifica". Andiamo con ordine e analizziamo separatamente l'operato di queste due band.

Aprono il disco i Majestic Downfall, con tre tracce che propongono un doom - death dalle tinte quasi solari, non particolarmente dure nè oppressive, abbastanza malinconiche ma comunque orecchiabili e piacevoli. Si tratta di quel doom - death alla Mourning Beloveth, che magari non sarà memorabile nel corso di numerosi ascolti, ma che risulta sempre piacevole grazie alle sue melodie cesellate e morbide. Un buon esempio di ciò che l'unico componente di questa one man band è capace di fare può essere "In A Ocean Of Fears", che si regge su linee melodiche quasi solari, ben controbilanciate da una parte ritmica piuttosto rocciosa e da un growl che ricorda molto quello dei cugini irlandesi, vale a dire ringhioso e profondo. Sufficiente è l'utilizzo della tastiere, dalle timbriche a volte insolite e molto acute, e utilizzate con discrezione, per non rischiare di coprire tutto con un sound eccessivamente roboante o pomposo. Nessuna delle tre canzoni proposte dal gruppo è identificabile come un capolavoro di doom death, ma tutte e tre si mantengono su livelli molto buoni, per cui il gruppo è sicuramente promosso.

I nostrani Ansia invece viaggiano su terreni diversi, decisamente più vicini al funeral doom. Anche loro propongono tre brani, che poi si riducono a due se non consideriamo il psichedelico intermezzo atmosferico - ambient in seconda posizione. La parte del leone è svolta dai due brani principali, lunghi rispettivamente tredici e quindici minuti, che si trascinano con assoluta malinconia e disperazione per tutta la loro lunghezza. Le ritmiche rallentano notevolmente, la voce è filtrata, allucinata e sporchissima (in certi tratti ricorda i rauchi e visionari sussurri dei primi Mar De Grises), i testi sono scritti in italiano e spiccano per un'ottima vena poetica "maledetta". Le composizioni non si adagiano su temi banali, ma sperimentano e ricercano un'evoluzione, risultando un continuo crescere di sensazioni alienanti e intrise di male di vivere. Molta atmosfera che a tratti spadroneggia con inserti di puro ambient, sottili sentori paranoici che non se ne vanno mai, sapiente utilizzo di orchestrazioni e in particolare di un pianoforte che suona i suoi interventi con grande intensità, una buona attenzione ai dettagli e un buon songwriting sono ciò che ci offrono gli Ansia, formazione che sicuramente ha del grosso potenziale e sa come sfruttarlo.

In definitiva, questo split è un ottimo lavoro che potrà piacere a praticamente tutti gli appassionati di doom metal, essendo abbastanza variegato e bilanciato nelle sue componenti. Apprezzo gli split quando sono coerenti con sè stessi e permettono di scoprire nuove band interessanti, che mai si sarebbero andate a pescare: sicuramente in questo caso l'obiettivo è stato centrato. Per cui, se apprezzate il genere, in questo disco potrete tranquillamente trovare pane per i vostri denti.

Majestic Downfall
01 - A Bird's Departure (8:10)
02 - In An Ocean Of Fears (7:22)
03 - A Tear Of Understanding (7:38)

Ansia
04 - Part I (13:40)
05 - Part II (5:51)
06 - Part III (15:37)

Niroth / Wodensthrone (Split Album)

Roadkill Records, 2006
Un vero pezzo per collezionisti, questo dischetto: ultra - underground assoluto, limitato a 250 copie e non una di più, risulta ormai praticamente impossibile da reperire. Suonato non certo per vendere, ma unicamente per passione e per esprimere i propri sentimenti attraverso la musica. Questo è il bello degli split album, che sovente contengono solo una traccia per band e che hanno come unico scopo quello promozionale, magari per inviarlo ad una casa discografica sperando in un contratto. In questi dischetti brevi ma intensi, che la rarità rende preziosi, si concentra infatti tutta la volontà di una band di far vedere ciò di cui è capace, e anche in questo caso i due gruppi coinvolti, Niroth e Wodensthrone, non si tirano indietro e mostrano tutte le loro capacità.

Entrambe le band provengono dal Regno Unito e suonano un black metal che sa discostarsi sufficientemente dai canoni del genere e che sa muoversi con efficacia tra sonorità feroci e atmosfere che tendono alla gloriosa epicità, di stampo vagamente medioevale. Una differenza sostanziale tra le due band, tuttavia, c'è: mentre per i Niroth questo split arriva dopo la pubblicazione del primo album ufficiale, per i Wodensthrone il medesimo split rappresenta il primo vagito musicale, che gli permette di uscire almeno un po' dall'anonimato. A livello strettamente musicale, tuttavia, è difficile dire quale sia il brano migliore dei due, anche perchè la musicalità delle due band è talmente simile da rendere quasi impossibile una distinzione "a orecchio". Questo dischetto tuttavia merita di essere ascoltato almeno una volta nella vita, per la sua splendida irruenza, la sua produzione completamente amatoriale che si avvicina quasi alla storica cacofonia di un "Nattens Madrigal", e per le sue melodie che trasudano furore e potenza inarrestabile, lasciando da parte il classico nichilismo black metal per approdare invece su terreni più evocativi. Il sound avvolgente e la bellezza delle linee melodiche, sempre riconoscibili nonostante il fragore strumentale e vocale, completano il quadro e ci regalano un breve assaggio di ciò che il buon black metal melodico dovrebbe sempre essere.

Dirvi di procurarvi questo split è un po' una presa in giro, poiché credo che sia semplicemente impossibile. Tuttavia, posso promuovere decisamente questo piccolo frammento artistico, che non va tacciato d'insignificanza solo perchè è breve: è in dischi come questo che si annida il germe della bellezza e della genuinità spontanea, quel germe che è sempre un piacere scovare quando si conosce una nuova band e si rimane rapiti dalla sua musica. Se volete rendervi conto di ciò in prima persona, ascoltate "Loss", il disco che i Wodensthrone partoriranno tre anni dopo. E forse di colpo questo album vi sembrerà meno inutile di prima, e il cerchio si sarà chiuso.

Niroth
01 - The Flame In My Hand (6:10)

Wodensthrone
02 - A Tribute To Our Glorious Dead (5:38)

giovedì 22 marzo 2012

Falkenbach - "Tiurida"

Napalm Records, 2011
L'islandese Vratyas Vakyas, unico componente dei Falkenbach, è un personaggio molto particolare. Al pari di quello che fu il glorioso Quorthon, egli preferisce rimanere nell'ombra, concedendo pochissime interviste, evitando di farsi fotografare, e mantenendo un contegno enigmatico perfino con la propria casa discografica. Ciò non gli ha impedito di scrivere una parte della storia del viking metal, a partire da quando pubblicò il primo album "En Their Medh Riki Fara..." fino ad oggi. I suoi dischi sono sempre stati ispirati e coinvolgenti, le sue melodie cariche di passione ed epicità, la sua voce sempre evocativa e solenne. "Tiurida" è la naturale conclusione di un'evoluzione che ha portato il nostro polistrumentista sempre più vicino a sonorità leggere e orecchiabili, abbandonando gli esordi black e concentrandosi maggiormente sulla componente folk, valorizzando al massimo il fattore immediatezza. Il risultato è davvero sorprendente, e dimostra che il concetto di orecchiabilità non va sempre di pari passo con quello di commercialità e faciloneria. "Tiurida" è infatti un disco che ancora una volta è capace di farci sognare, trasportandoci in un mondo fatto di pascoli verdi, possenti montagne, capanne di legno e abiti pittoreschi indossati durante una festa pagana; pur nella sua elementare semplicità compositiva, la capacità di pennellare scenari non gli manca, così come non gli manca la capacità di farsi riconoscere nel suo stile anche dopo poche note. Il titolo dell'album è molto azzeccato: "Tiurida" significa infatti "gloria", quella stessa gloria che traspare da ogni singola nota suonata dal nostro Vratyas.

Una possente introduzione, popolata dai suoni di due severi corni che si rispondono vicendevolmente dalla lunga distanza, lascia il posto ad una composizione di una bellezza eccezionale, vale a dire "Where His Ravens Fly...". Provate ad ascoltare questo brano senza immaginarvi la felicità che scaturisce da un villaggio in festa, pullulante di vita e di speranze: la melodia è infatti semplicissima ma stupenda, dai toni sereni ma non per questo inutilmente pomposi, una di quelle melodie che giungono dritto al cuore e catturano all'istante, fondendosi nel sangue in maniera da non poter più essere scacciate. La chitarra acustica ingentilisce il possente muro sonoro formato dalla chitarra distorta, mentre la prova vocale di Vratyas è ancora una volta impareggiabile in quanto a interpretazione e sentimento. Poco importa se la struttura è ciclica e prevedibile, e se ciò è un elemento che ritroviamo anche nelle successive canzoni: "Tiurida" è un disco concepito per essere semplice, diretto, emozionale e genuino, niente di più. Tutti questi aggettivi si possono infatti adattare perfettamente anche alla successiva "Time Between Dog And Wolf", che a differenza della precedente sfodera un aggressivo cantato growl / scream e si regge su atmosfere più marziali e severe, che nel refrain raggiungono il culmine della potenza espressiva. Sorprendente è invece "Tanfana", una strumentale basata su suoni abbastanza pesanti ma retta da melodie di flauto estremamente giocose, quasi bambinesche, eppure anche in questo caso coinvolgenti e trascinanti: la bravura di Vratyas sta nel superare il sottile confine che distingue un brano ridicolo da un brano che evoca i cristallini sentimenti dei bambini, puri e incontaminati nella loro incantata ingenuità. Ci spostiamo su toni molto più drammatici e malinconici con la commovente "Runes Shall You Know", quasi un epitaffio lasciato da un vecchio guerriero morente, che declama le sue gesta con orgoglio ma con la consapevolezza di essere arrivato alla fine, mentre i bambini lo ascoltano con gli occhi sgranati. Un solo tema portante, ma che lascia emozioni brucianti. Pensate che il disco a questo punto cali di intensità? Niente di più sbagliato: ecco che "Tiurida" torna a pestare duro con "In Flames", possente e belligerante inno guerriero che polverizza anche le montagne con il suo roccioso incedere. "Sunnavend" invece è qui per raccontarci storie antiche e poderose, al suono di una chitarra acustica che richiama alla mente le glorie del passato. Il cerchio si chiude con la bonus track strumentale "Asaland", originariamente presente in uno dei primi demo del gruppo, e ora riproposta in versione simil - acustica: come conclusione è piuttosto atipica, trattandosi di un brano più veloce e meno spostato sui toni maestosi ed evocativi, ma il motivetto di chitarra è un qualcosa di sufficientemente brioso per chiudere il disco in bellezza.

"Tiurida" è sicuramente il disco meno complesso partorito dai Falkenbach, ma è anche un disco che funge da importante conferma: Vratyas ha saputo rinnovarsi di album in album ed è riuscito a fare in modo che, spogliando il suono Falkenbach di tutte le influenze che lo avevano caratterizzato in precedenza, il nucleo centrale potesse esprimersi al meglio, senza risultare banale. Questo disco ci parla con il cuore in mano, è emozione pura e sublimata in note: non deluderà i vecchi fan del gruppo, e consacrerà i Falkenbach come uno dei migliori (e più sottovalutati) gruppi viking metal in circolazione. Non fatevi scappare questo piccolo gioiellino: vi ruberà poco tempo, ma vi darà tanto.

01 - Intro (1:38)
02 - Where His Ravens Fly... (7:24)
03 - Time Between Dog And Wolf (6:01)
04 - Tanfana (5:31)
05 - Runes Shall You Know (6:00)
06 - In Flames (7:53)
07 - Sunnavend (5:51)
08 - Asaland (Bonus Track) (4:03)

mercoledì 21 marzo 2012

Sigh - "In Somniphobia"

Candlelight Records, 2012
“Lots of vintage gems were used in the making of the album such as a Minimoog, Prophet-5, Clavinet D-6, Roland RE-201 Space Echo etc. along with some ethnic instruments like Indian Sarangi, Sitar, Tampura, and Tabla. Kam Lee (ex-Massacre, Bone Gnawer etc.) and Metatron (The Meads Of Asphodel) cooperated with the lyrics and the vocals for Lucid Nightmares”. Da un simile inusitato dispiego dei più disparati strumenti musicali non può che scaturire un coacervo di influenze distinte, tra cui tastiere settantiane, melodie orientali, ampio uso di effetti elettronici, elementi caraibici e a tratti perfino quella vaga parvenza da film noir. Stiamo parlando dell’Avantgarde extravergine dei Sigh, band che non è nuova a siffatto sincretismo musicale; la novità consiste nel fatto che non stiamo parlando di Imaginary Sonicscape.

In effetti quando si dice Sigh tutti pensano subito a Imaginary Sonicscape, il loro disco più noto e più vario. Esso è come una lucida visione cosciente di un paesaggio musicale diurno, un mondo percepito mediante i propri sensi e come tale coerente ed ordinato. Infatti, nonostante il genio compositivo che riesce ad unificare la presenza di tutti i generi musicali che vi possano venire in mente, Imaginary Sonicscape è un disco abbastanza solido e statico nel suo svilupparsi: ritmi standard e strutture nella norma, con le svariate influenze musicali che si fanno realmente vivide principalmente nei ponti strumentali, molto meno nelle strofe. Ma dopo il giorno arriva la notte, periodo in cui ci si abbandona alle bizzarre rielaborazioni inconsce del materiale diurno che vedono i diversi elementi sensoriali mescolarsi tra loro in modo apparentemente incoerente e grottesco: si giunge cioè sulle magiche sponde del regno dei sogni. Ed è qui, proprio qui, che sorge la nuova opera dei Sigh: In Somniphobia, il quale si presenta come una rielaborazione onirica di Imaginary Sonicscape in cui il materiale musicale proveniente dai generi più diversi si fonde tutto insieme, si perde la distinzione netta tra strofe e ponti, e molteplici elementi musicali si infilano in ogni possibile pertugio. Quando recensii Imaginary Sonicscape, a causa delle sue innumerevoli influenze musicali ne parlai come se fosse l’attività onirica della musica stessa, ma come già dissi esso appariva più come un sogno strappato al mondo dei sogni e descritto con precisione impeccabile dal punto di vista conscio. In Somniphobia presenta invece tutta la tipica inafferrabile bizzarria onirica, e in tale stato rimane. Emblematica in tal senso è la stratosferica copertina, una delle più belle in assoluto che io abbia mai visto - divertitevi nell'osservarne ogni singolo dettaglio, scoprirete un'opera d'arte nell'opera d'arte.

Non mi arrovellerò nel difficile compito di cercare un modo efficace per rendervi l’idea del contenuto musicale di questo disco, perché non ho la pretesa di farlo meglio di quanto non abbia già fatto la band: “In Somniphobia is a sonic nightmare that lasts for more than an hour. The musical direction is pretty much far removed from that of the last two albums, Scenes From Hell and Hangman's Hymn. It is not easy to describe its direction, but probably one can say that it is something between Imaginary Sonicscape, Hail Horror Hail and Gallows Gallery, or rather, simply a nightmarish version of Imaginary Sonicscape. Put heavy metal, classical music, jazz, Indian traditional music, Stockhausen, and Xenakis into a cauldron of hell and stir it, you'll get In Somniphobia. This is surrealistic, ethnic, druggy, atmospheric and definitely scary!”. Surreale, etnico, allucinogeno, atmosferico e assolutamente spaventoso. Non ci sono aggettivi migliori per inquadrare un’opera che si apre subito a mille con l’inebriante scelleratezza di due pezzi come Purgatorium e The Transfiguration Fear che volano indiavolati e travolgenti sulle ali dell’entusiasmo, impregnati di quel gusto folle tutto giapponese. Ma questa ebbrezza finisce presto, perché il seguente tema d’apertura ci fa sprofondare nei cinque incubi lucidi, cinque brani superbi che affondano le radici nell’angosciante reame degli incubi, reame che tutti noi conosciamo fin troppo bene. Cinque brani imprevedibili in cui, musicalmente parlando, succede di tutto: musica che si mescola ad altra musica in modo apparentemente inintelligibile, chiamando in causa un intero panorama musicale ma scomponendolo nei suoi elementi semplici e poi ricombinandolo in modo ancor più aberrante che di Picasso - l’idea che danno è proprio quella di una serie di bizzarri ineffabili incubi. Il disco si chiuderà poi con Fall To The Thrall, che riprende lo stile dei due brani di apertura, e con l'ottima suite Equale. Credetemi, sarebbe inutile mettersi ad enumerare tutti i colpi di genio con i quali Mirai Kawashima ha costellato questo disco, sono troppi e troppo sbalorditivi per essere riassunti in poche righe, la soluzione migliore è procurarvi l’album e ascoltarvelo per conto vostro. Vi basti sapere che ne vale davvero la pena, perché la musica della qualità di quella contenuta in In Somniphobia è una merce rara. Vorrei piuttosto fare una puntualizzazione a quanto i Sigh ci hanno detto poco sopra a proposito del loro album. E’ indubbiamente vero che per la mole di influenze musicali distinte In Somniphobia è collegato a doppio filo con Imaginary Sonicscape. E se poi è vero che esso ha la freschezza di Hail Horror Hail e il piglio un po’ settantiano e un po’ stralunato di Gallows Gallery, è altresì vero che ha la tracotanza e l’esplosività sonora che solo Scenes From Hell ha saputo raggiungere nella storia della band. Opterei quindi per dire che quest’album è un po’ un punto di incontro di tutto quello che la band ci ha proposto durante la sua carriera, e che al tempo stesso rappresenta ancora qualcosa di nuovo, qualcosa da scoprire con stupore e meraviglia, qualcosa da vivere a tutti gli effetti ripensando al fascino perverso di quegli incubi che vi hanno tenuti svegli quelle notti maledette in cui vi sono apparsi nel sonno.

C’è poi una questione che mi sta molto a cuore, e che costituisce per me motivo di ulteriori elogi alla band. Da sempre mi sono lamentato della batteria dei Sigh, batteria che fino a Imaginary Sonicscape (incluso) si è sempre ridotta a banale accompagnamento mid-tempo, l’unica zavorra che impediva loro di eccellere in ogni direzione possibile. Piccoli miglioramenti si udirono nel più veloce Gallows Gallery, ma fu solo con Scenes From Hell, dopo quasi vent’anni di attività della band, che essa arrivò a livelli soddisfacenti: si passava da parti lente a parti indiavolate, e i ritmi si concedevano qualche variazione anche all’interno dei brani stessi. Tutto ciò appare magnificato in In Somniphobia: finalmente i Sigh esibiscono una base ritmica all’altezza del resto della musica, non particolarmente complessa ma piena di cambi e variazioni che la rendono degna di apprezzamento. Non riesco nemmeno ad immaginare quanto migliori sarebbero stati i già ottimi album della band se essa fosse arrivata prima a suonare la batteria in questo modo. In ogni caso è inutile piangere sul latte versato, meglio concentrarsi sul presente: vivissime congratulazioni, con l’auspicio che in futuro si perseveri in questa direzione.

I Sigh si confermano band avvezza a tagliare nuovi traguardi in continuazione e a superare ogni volta sé stessa, dando libero sfogo al proprio genio creativo: lo stile dei Sigh consiste nel reinventare il proprio stile album dopo album. In Somniphobia rappresenta un disco di bellezza sopraffina, un modo unico di concepire la musica in tutta la sua estensione e le sue possibilità, privandola di ogni gretto preconcetto da bar di periferia. Non ho la più pallida idea di quanto e cos’altro ancora potrà darci questa band in futuro, ma in questo momento il voluttuoso richiamo di In Somniphobia mi impedisce di potermene preoccupare. Il presente è ora, il presente è In Somniphobia: chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza.

01 - Purgatorium (04:48)
02 - The Transfiguration Fear (04:51)
03 - Opening Theme: Lucid Nightmare (01:58)
04 - Somniphobia (07:34)
05 - L'Excommunication à Minuit (05:38)
06 - Amnesia (08:10)
07 - Far Beneath The In-Between (07:10)
08 - Amongst The Phantoms Of Abandoned Tumbrils (09:31)
09 - Ending Theme: Continuum (01:42)
10 - Fall To The Thrall (05:17)
11 - Equale I) Prelude II) Fugato III) Coda (08:00)

lunedì 19 marzo 2012

Ahab - "The Divinity Of Oceans"

Napalm Records, 2009
Centoquarantasette uomini ammassati su una zattera scalcagnata, abbandonata a sé stessa in balia delle onde. Non è poi così difficile immedesimarsi se si pensa che ciò è accaduto a causa di un naufragio di una comune nave. Onda dopo onda, potete udire il loro infrangersi...dapprima calmo contro la possente nave quando ancora eravate al sicuro, poi isterico contro le incerte assi di legno della zattera, ultimo baluardo che vi divide dalla morte. Il sole cocente, la disidratazione, la mancanza di provviste...poi col calar della notte le temperature si abbassano, e non vi rimane altro da fare che accalcarvi sulle sudice stanche membra degli altri lì con voi. Dovete rinunciare anche a quel minimo di spazio vitale...finché le persone in vita cominceranno a diminuire. E giacché lo spirito di sopravvivenza umano è forte e radicato arriverà il momento in cui, disperati, vi ciberete dei corpi esanimi dei vostri simili. Il resto lo lascio alla vostra immaginazione, vi basti sapere che dei centoquarantasette naufraghi iniziali i sopravvissuti furono appena tredici.

Questa è la terribile storia racchiusa nell’opera “La zattera della Medusa” di Géricault, questa è l’immagine con la quale scelgono di ripresentarsi gli Ahab nella difficile impresa di dare un seguito al loro debutto col botto. I tedeschi avevano infatti esordito nel 2006 addirittura per la Napalm Records, e l’avevano fatto con The Call Of The Wretched Sea, un autentico capolavoro che aveva lasciato di stucco chiunque ami il Funeral Doom e dintorni. Saranno riusciti a riconfermarsi ora che hanno pubblicato il loro secondo full-length?

Ad attenderci al varco di questo disco troviamo riff pazzeschi che paiono le lame macinanti di un tritacarne - vedi O Father Sea, Tombstone Carousal e Gnawing Bones - come anche tanta melodia di stampo unico, riconoscibile tra milioni, prima su tutte la fantastica Redemption Lost, per non parlare poi dell’outro di Nickerson's Theme, una chitarra melodica da vascello fantasma. Una volta assimilato tutto questo materiale, come possiamo rispondere alla domanda precedente? Gli Ahab sono riusciti a confermarsi? In tutta onestà devo dire che la risposta è no. No, non si sono riconfermati: si sono migliorati! Nonostante a quanto ho capito generalmente la gente preferisca di poco il disco d’esordio, io non posso esimermi dal venerare come fossero divinità le strutture di ogni singolo brano di The Divinity Of Oceans, ispirate, mature, ben costruite. Si è forse un po’ persa, è vero, quella raggelante pesantezza atmosferica di capolavori come The Hunt e The Sermon, ma al contempo la situazione si è evoluta nella direzione del genio compositivo di Old Thunder: le composizioni sono creative ed ispirate e si snodano in passaggi musicali eccelsi; nei momenti melodici gli Ahab tessono con encomiabile maestria fluttuanti arpeggi, e nei momenti più burrascosi macinano pesanti riff Death-oriented. A suggellare quanto di positivo ho detto finora ci pensa la cornice offertaci dal drumming migliore che io abbia mai sentito in ambito Funeral Doom, un drumming ispirato che invece che accompagnare stancamente le chitarre riesce a valorizzarle con personalità impeccabile. Cornelius Althammer è uno degli punti forti di questa band, e sono davvero felice che sia entrato a farne parte in pianta stabile. Parole di stima e congratulazioni s’han da spendere anche per la produzione: gli arpeggi hanno una sonorità tutta loro, oltre che ad essere singolari come stile, e il drumming basso e rimbombante dona un senso di ovattata dilatazione, come se il suono viaggiasse attraverso l’acqua invece che l’aria. A tutto ciò si aggiunge un growl abnorme che pare provenire dalle profondità dell’oceano. Sebbene ciò possa essere incredibile, vi garantisco che sembra davvero di essere in mare aperto, di avvertire le fluttuazioni della zattera, lo scricchiolio delle sue travi di legno, il ripetitivo placido splash dell’acqua contro le stesse: si percepisce la calma eterna del mare piatto e rilucente sotto la luna, che si alterna al mare grosso che si accanisce senza pietà contro l’imbarcazione con devastanti onde frangenti.

Ho cercato di essere il più oggettivo possibile nel descrivere questo disco, ma in tutta onestà dopo decine e decine di ascolti e dopo averlo assimilato completamente non sono riuscito a rinvenire nemmeno il più piccolo difetto. Gli Ahab sono una band che perpetra i suoi brani in melodie lunghe e ricercate e in lenti riff assassini, una band che ha delle idee del tutto personali e che sa trasporle in musica amalgamandole alla perfezione in un capolavoro di raffinatezza e ricercatezza, eleganza e magnificenza, confezionato in un sound che sa essere tanto poetico e minuziosamente miniato quanto pesante e ferale. Una musica che non ha certo dalla sua l’immediatezza: se centoquarantasette metallari scelti a caso si imbarcassero tutti assieme nell’impresa di sfidare questa divinità degli oceani non mi stupirei se solo tredici di essi sopravvivessero a tale impresa...ma state pur certi che questi tredici ringrazieranno di essercisi imbattuti.

01 - Yet Another Raft Of The Medusa (Pollard's Weakness) (12:40)
02 - The Divinity Of Oceans (11:03)
03 - O Father Sea (07:07)
04 - Redemption Lost (10:25)
05 - Tombstone Carousal (07:27)
06 - Gnawing Bones (Coffin's Lot) (10:48)
07 - Nickerson's Theme (08:06)

Tyrants - "Ruchus"

Autoprodotto, 2011
Sono solo in due. Suonano un metal sinfonico - orchestrale, mischiato con una buona matrice black. Le loro tematiche sono di stampo fantasy, chiaramente ispirate da classici immortali del genere come "Il Signore Degli Anelli". Sono i Summoning? No, errore: sono i Tyrants, che a differenza dei colleghi austriaci sono italiani al cento per cento e sono qui per dimostrarci che il metal italiano non è affatto banale e scadente come talvolta si tende a credere. Aerioch e Sinthoras, nomi altisonanti che ricordano abbastanza gli pseudonimi di Protector e Silenius, esordiscono con questo "Ruchus" lasciandoci subito la sensazione che non si tratti di una band di novellini. In effetti, molti dei brani qui presenti sono stati scritti diverso tempo prima, e hanno subito un processo di graduale miglioramento che li ha portati ad essere quello che sono in data odierna. Inoltre, in questa release fanno capolino diversi ospiti (tra cui anche Lord Vampyr) che impreziosiscono il tutto con i loro interventi vocali. Come presentazione non c'è male.

La proposta musicale di questo duo romano è abbastanza interessante e variegata, e sicuramente è dotata di una discreta personalità. Nell'arco di nove brani, il gruppo spazia tra black metal arrabbiato e crudo, power metal di stampo classico (ne è un ottimo esempio la melodica "Ruchus", che vive su un refrain molto catchy), musica sinfonica, arrangiamenti pomposi e ricchi, perfino un po' di gothic metal (ascoltate per esempio "Uruk - Hai", dal piglio decisamente oscuro). Questo collage di influenze si traduce in un disco sicuramente piacevole, composto con cura e dotato di una produzione degna, anche se migliorabile in alcuni aspetti (non dimentichiamoci, tuttavia, che si tratta di un'autoproduzione registrata in casa). La volontà dei Tyrants di pennellare scenari epici è assolutamente evidente, così come è evidente la melodicità delle composizioni, mai troppo aggressive e votate ad un mood progressivo, che preferisce parlare per immagini piuttosto che per mero impatto sonoro. Un ruolo fondamentale è ricoperto dai sintetizzatori, fedeli compagni della struttura di ogni brano: essi riescono a ricreare quelle atmosfere "cinematografiche", quasi fosse musica da film alla quale è stato montato un motore a sei cilindri. Ce ne accorgiamo per esempio in brani irruenti come "Revenge", che inizialmente vive su un blast beat, ma non abbandona mai l'eloquenza delle parti sinfoniche e non disdegna nemmeno una voce lirica femminile che aumenta la drammaticità del tutto in maniera semplice ma apprezzabilissima. 

Non mancano episodi magistrali come la strumentale "Beyond The Tyrants Land", un pezzo in cui viene fuori tutta la bravura del gruppo nel fondere melodie tastieristiche celestiali con l'irruenza e l'energia tipica del power; anche "Reborn" si fa notare per le sue melodie elaborate che vivono su una base a metà tra il thrash, il black e il power, così come succede con la successiva e trascinante "Slave To The Dust". La sorpresa vera e propria arriva però con la conclusiva "In The Land Of Mordor": un introduzione affidata ad un malinconico pianoforte lascia lentamente spazio alla possente voce di Martina Di Marcoberardino, che si esibisce in una prova davvero notevole in apertura e in chiusura del pezzo. Un brano fortemente epico e ricco di atmosfere evocative e magniloquenti, considerabile come un paradigma del gruppo e una degnissima conclusione di un disco che mostra un'ottima vena compositiva e una buona padronanza dei propri mezzi. 

"Ruchus" è un album che, per come si presenta, ha la capacità di affascinare e di attrarre ascoltatori da ogni dove, in quanto è molto vario, ben costruito e dotato di quella scintilla vitale che è indispensabile per potercisi appassionare. Considerando i mezzi a disposizione della band, direi che hanno fatto anche troppo: non gli rimane che cercare un contratto discografico serio, ma per il resto non manca nulla. Bravi!

01 - The March (2:06)
02 - Uruk - Hai (4:48)
03 - Ruchus (5:50)
04 - Beyond Death (5:38)
05 - Revenge (3:15)
06 - Beyond The Tyrants Land (5:50)
07 - Reborn (5:10)
08 - Slave To The Dust (4:45)
09 - In The Land Of Mordor (7:45)
10 - Break On Through (The Doors cover) (4:56)

martedì 13 marzo 2012

Suffocation - "Human Waste"

Relapse Records, 1991
Human Waste, un dischetto apparentemente insignificante in cui è racchiusa un’ampia fetta di quello che è il Metal come lo conosciamo oggi: non solo fu l’EP d’esordio di quella che era destinata a diventare un’autentica leggenda del Death Metal, i Suffocation, ma è anche il disco che contiene le basi di quelli che oggi chiamiamo Brutal Death e Technical Death. Ma la storia non è ancora finita: i Suffocation erano allora cinque ragazzini sconosciuti, e chi mai poteva pubblicare i loro venticinque minuti scarsi di metal sporco e rozzo se non una label ancora più sconosciuta? E così fu: questa label sconosciuta e appena messa in piedi si chiamava nientepopodimenoche Relapse Records. Human Waste fu dunque il primo album in assoluto ad essere pubblicato da quella che oggi, mi assumo le responsabilità di dirlo, è forse la migliore etichetta Metal.

Di qui è passata la storia, signore e signori: tutto lo splendore delle plurime band Brutal e Technical Death che abbiamo oggi, nonché i full-length delle band del roster della vulcanica Relapse, sono sgorgati da questo Human Waste pubblicato nel lontano 1991. Questa importanza storica ovviamente non è da sola sufficiente a fare di questo EP un buon EP, giacché importanza storica e validità della musica prodotta sono due caratteristiche completamente scorrelate. Ma niente paura, perché Human Waste è del tutto autosufficiente: qui dentro trovate alcuni dei riff più famosi e memorabili della storia del Death Metal, confezionati con una produzione molto scadente del tutto caratteristica dell’Old School, portatrice di un sound spesso, corposo e pastoso - tra l’altro molto migliore di quello smussato e insignificante dei successivi full-length Effigy Of The Forgotten e Breeding The Spawn, due capolavori del Death rovinati da una produzione completamente piatta. Anche gli assoli di chitarra sono ottimi, e nonostante l’imprecisione nell’esecuzione sono tra i più ammirevoli del genere: hanno un senso preciso e si riesce a ricordarli, il che fa di loro dei feticci venerabili la cui manifestazione si attende con trepidazione. Ma in fondo non si tratta solo di riff memorabili e assoli originali: Human Waste è un EP che portò una grande innovazione nel panorama Death, nonostante questo genere fosse nato da appena quattro anni. Coi loro ritmi serrati molto vari, il loro implacabile riffing assassino e il loro growl brutale i Suffocation gettarono per la prima volta le basi per staccare definitivamente il Death dal Thrash, facendone un genere del tutto indipendente - testimone che di lì a breve fu raccolto da band del calibro di Immolation e Incantation, ma questa è un’altra storia.

In definitiva non posso dirvi che Human Waste sia uno dei miei dischi Death preferiti, anche perché non sono un fan sfegatato della vecchia guardia, ma sicuramente è il mio preferito del primo ciclo di attività dei Suffocation. Innovazione e un pizzico di visionaria follia animano i sei brani che lo compongono, allora sei piccoli nanetti sconosciuti e oggi sei autentici monoliti del Death Metal.

01 - Infecting The Crypts (04:37)
02 - Synthetically Revived (03:38)
03 - Mass Obliteration (04:28)
04 - Catatonia (03:55)
05 - Jesus Wept (03:38)
06 - Human Waste (02:58)

Norhod - "Arianhod"

Autoprodotto, 2012
La pomposa e magniloquente introduzione, intitolata "Caer Arianhod", getta subito una luce positiva e interessante su questo piccolo EP completamente autoprodotto dai nostrani Norhod, formazione nata nel 2009 ma che solo ora è riuscita a trovare una line up stabile, come del resto succede a moltissime band emergenti. Atmosfere possenti ed epiche, grande utilizzo delle tastiere, dell'organo e degli archi, uniti ad un'attitudine che per certi versi ricorda perfino la granitica pesantezza del thrash - death metal: quest' interessante mistura di influenze rende "Arianhod" un lavoro che riesce a catturare fin dai primi ascolti grazie ad una buona freschezza compositiva e ad una convincente vena aggressiva, che mantiene vivo l'interesse per i brani ed evita che scadano nella pacchianeria gratuita dei mille tastieroni che coprono tutto. Nonostante l'attitudine spiccatamente sinfonica, siamo infatti lontani dall'epicità contemplativa e sublime dei Summoning, ma piuttosto il sound si orienta su coordinate più dirette, drammatiche e potenti, grazie soprattutto alla riuscita alternanza tra le due voci, growl maschile e clean femminile, entrambe molto calate nella parte e tecnicamente apprezzabili. Il riffing di chitarra è molto acido, nervoso, con qualche vaga influenza orientaleggiante e perfino qualche raro momento di felicità folkeggiante; l'incedere dei brani è secco, senza l'utilizzo di pesanti e continui muri sonori. Oserei definirlo un sound quasi minimale, nonostante l'ottima varietà timbrico - melodica degli strumenti (in particolare delle tastiere), aspetto che risalta immediatamente e si configura tra i punti di forza del disco. Un punto che si potrebbe migliorare è la sezione ritmica, in particolare la batteria: si nota un suono piuttosto approssimativo e povero, ma probabilmente è anche causa della produzione, non perfetta. Considerando però che il disco è una demo autoprodotta, non si può pretendere la luna: non tutti hanno i mezzi per registrare con pulizia cristallina!

A fronte di ciò, gli episodi sono comunque convincenti, in particolare le due "Doomed To Oblivion" e "Lily's Ashes", brani che riescono a ricreare una sensazione di urgenza e di lieve malinconia, specialmente in "Lily's Ashes", perfettamente interpretata dalle due voci, che si alternano con magistrale intensità. "Last Sundown" è un episodio più veloce e leggermente meno ombroso, mentre la conclusiva "Arianhod" è un po' un riassunto di tutto quello che ci è stato precedentemente proposto. Un dischetto breve, ma abbastanza esplicativo del fatto che questa band è passata attraverso una maturazione artistica nel corso degli anni, che l'ha portata ad emergere con discreto talento e personalità. Non si tratta di un EP che fa gridare al miracolo, ma sicuramente l'impressione che lascia è molto positiva, grazie alla sua buona varietà e alla bontà delle sue soluzioni melodiche e stilistiche. Aspetto il full length, che spero arriverà presto, per vedere come i Norhod hanno sfruttato il potenziale mostrato in questo esordio. I miei auguri!
01 - Caer Arianhod (1:12)
02 - Doomed To Oblivion (6:22)
03 - Lily's Ashes (5:06)
04 - Last Sundown (4:50)
05 - Arianhod (4:02)

venerdì 9 marzo 2012

Overtures - "Rebirth"

Sleazy Rider, 2011
Secondo disco per questa band italiana nata nel 2003 e proveniente da Gorizia, band che si era già fatta notare per la pubblicazione del precedente album in studio "Beyond The Waterfall" e che ora ritorna con questo "Rebirth", nuovo di zecca. Per qualche strana ragione, le band capaci e promettenti vengono sempre messe sotto contratto da etichette misconosciute, quasi sempre estere e dalla distribuzione molto limitata, ma così facendo se non altro si assicurano la possibilità di emergere nel mercato discografico, sempre più affollato di band, e per giunta sempre più affollato di band capaci, tra le quali è sempre un dolore selezionare le migliori e lasciarne altre in ombra.

Muovendosi a metà tra territori power metal e hard rock, gli Overtures confezionano un secondo full length molto piacevole e ottimamente suonato, forte di una produzione stellare che permette ad ogni strumento di risaltare, e in particolare permette alla voce di assumere il ruolo protagonista che è stato cercato per lei. Le influenze sono ravvisabili nei primi Stratovarius, nei W.A.S.P., nei Whitesnake (specialmente in "You Can't Spit Of Me") e in tutte le band che sapevano come suonare della musica diretta e potente, creando ritornelli e melodie che si stampavano in testa fin dal primo ascolto. Anche gli Overtures hanno una buona capacità in questo senso, come si richiederebbe ad un buon gruppo power rock: a fronte di una tecnica strumentale che denota sicuramente una buona esperienza, i pezzi riescono a risultare sempre piacevoli e sufficientemente coinvolgenti, non certamente complessi a livello di strutture, ma non è nemmeno questo ciò che gli si chiede. Agli Overtures si può chiedere un disco per scacciare i pensieri negativi e divertirsi, e magari ogni tanto emozionarsi con qualche passaggio epico e maestoso, che interviene a impreziosire l'atmosfera generale del disco (si veda per esempio l'organo in "Delirium", il pianoforte in "Fly, Angel", la poderosa forza espressiva di "My Name Is Fear", o le atmosfere accattivanti e rallentate di "Daemons", che ritengo il brano di punta del disco). A parte qualche episodio che si attesta su livelli solamente discreti, i pezzi riescono a mantenere una buona vena ispirativa e a scorrere nel lettore senza intoppi, senza far gridare al miracolo ma facendo comunque pronunciare la fatidica frase "questi ragazzi mi sembrano bravi". Consiglio al gruppo di proseguire sulla strada della sperimentazione, lavorando su quegli interessanti spunti di personalità che ho sentito in questo "Rebirth": sono sicuro che le sorprese che potrebbero riservarci sono ancora numerose. Per adesso, non mi resta che giudicare positivamente questo lavoro.

01 - Here We Fall (3:29)
02 - Fly, Angel (4:57)
03 - You Can’t Spit On Me (4:00)
04 - Delirium (6:19)
05 - Farewell (4:35)
06 - Not Too Late (2:54)
07 - The Prophecy (3:40)
08 - My Name Is Fear (3:21)
09 - Easy (3:55)
10 - Daemons (6:13)
11 - Not Too Late (acoustic) (3:00)

giovedì 8 marzo 2012

Dark Tranquillity - "The Mind's I"

Osmose Productions, 1997
Dopo lo storico successo di "The Gallery", gli storici melodic death metallers Dark Tranquillity si ripropongono al pubblico con questo disco dalla copertina astratta e particolare, che non sono mai riuscito a capire bene cosa raffiguri. L'aspettativa creata da un capolavoro come il predecessore era elevata, e purtroppo devo dire che il gruppo svedese non è riuscito a mantenerla: "The Mind's I", pur non essendo certamente un brutto disco, è nettamente inferiore al masterpiece che l'ha preceduto e soffre notevolmente il confronto. 

Con la pubblicazione del suddetto album, il gruppo ha mostrato una certa evoluzione: le intricate melodie chitarristiche perdono un po' del loro carattere funambolico e le composizioni si fanno più lente, mediamente più pesanti e sicuramente più emotivamente gravi. Nonostante si apra con dei brani veloci e secchi, sono numerosi gli episodi in cui i ritmi rallentano e le atmosfere si fanno più riflessive. Purtroppo, se il disco fosse stato spostato tutto in questa direzione il risultato sarebbe stato certamente migliore: invece siamo di fronte ad un disco "a metà", che in parte vuole mantenere la pregevole irruenza di "The Gallery", dall'altra vorrebbe sperimentare brani più introspettivi. Come a dimostrare che non si può tenere il piede in due scarpe, i brani migliori sono senz'ombra di dubbio quelli in cui a prevalere è la componente lenta e riflessiva: troviamo quindi autentici capolavori come "Hedon" e "Insanity's Crescendo", popolati da melodie tristissime e appassionate, nonché interpretati da una voce davvero intensa, perfettamente calata nella parte ed estremamente convincente nella sua drammaticità. In "Insanity's Crescendo" compaiono anche un'emozionante chitarra acustica e perfino delle sconsolate voci femminili, grazie alle quali il brano acquista un'intensità che ha pochi pari. Altri brani molto interessanti e ben costruiti sono "Still Moving Sinews", nervosa e inquieta ma bellissima con le sue melodie dissonanti, e "Constant", anch'essa melodicamente molto arguta e debitrice dei migliori momenti di "The Gallery". Ma tutto il resto? Merita anch'esso di essere citato? Sì e no. Brani brevi come "Dissolution Factor Red" e "Scythe, Rage And Roses" passano via senza suscitare quasi alcuna emozione, riducendosi a manierismo tecnico da suonare in velocità; spicca inoltre per la sua bruttezza "Atom Heart 243.5", pezzo piuttosto banale e insulso, decisamente non all'altezza di ciò che i Dark Tranquillity sono capaci di fare. Gli altri brani sono abbastanza interessanti, a tratti presentano momenti azzeccati, ma non si può certamente dire che siano capolavori. 

Purtroppo, il disco soffre molto il confronto con il capolavoro "The Gallery", e il giudizio che se ne dà è per forza di cose influenzato da tale paragone: ma anche cercando di essere obiettivi, questo "The Mind's I" rimane un album dal potenziale sfruttato a metà, un insieme di brani talvolta splendidi, talvolta solo normali, talvolta proprio insapori, quasi privi di direzione. Rimane comunque un lavoro abbastanza interessante, che merita l'ascolto solo per poter godere dei suoi brani di punta, e che comunque vi consiglio di portare a termine per intero almeno una volta nella vita, se non altro per poter godere dell'introspettiva chiusura affidata a "The Mind's Eye", interessante episodio simil - acustico.

01 - Dreamlore Degenerate (2:46)
02 - Zodijackyl Light (4:01)
03 - Hedon (5:38)
04 - Scythe, Rage And Roses (2:36)
05 - Constant (3:04)
06 - Dissolution Factor Red (2:09)
07 - Insanity's Crescendo (6:54)
08 - Still Moving Sinews (4:43)
09 - Atom Heart 243.5 (4:02)
10 - Tidal Tantrum (3:00)
11 - Tongues (4:55)
12 - The Mind's Eye (3:09)

Dark Tranquillity - "The Gallery"

Osmose Productions, 1995
Un irruento attacco di batteria, un riff travolgente che rimarrà nella storia, un grido rauco che ci fa tremare le vene dei polsi: è così che, con la funambolica "Punish My Heaven", inizia "The Gallery", quell'antico capolavoro risalente ormai al lontano 1995 ma che tutt'oggi non smette di influenzare un intero genere musicale. Proprio grazie a questo disco, tale genere vide uno dei momenti più alti della propria giovane storia, collezionando un successo che probabilmente rimarrà insuperato nel suo ambito.

Il genere di cui stiamo parlando è il Death melodico di Gothenburg, collocato geograficamente in quell'area per via della concomitante presenza di tre band seminali del genere: gli At The Gates, gli In Flames e gli stessi Dark Tranquillity. Non mancarono collaborazioni tra le tre band, nonchè sentimenti di amicizia che le unirono: per un certo periodo, addirittura, i cantanti di In Flames e Dark Tranquillity furono scambiati, prima che venisse costituita la line up definitiva, per cui è inevitabile che tutte le volte le tre band vengano ricordate tutte assieme. "The Gallery" si inserisce sulla scia del debutto "Skydancer", acerbo ma ottimamente promettente, e si impone sulla scena svedese con una freschezza e un'irruenza che ancora oggi non hanno paragoni, dimostrando capacità tecniche elevatissime e un'attitudine che in seguito renderà famosi i Dark Tranquillity: potenza devastante delle chitarre e della ritmica, gusto melodico sopraffino e cesellato, turbini di note in ogni brano, un Mikael Stanne strepitoso con il suo cantato growl caldo e modellabile, tantissima fantasia e una sottile malinconia di fondo che vive in ciascun brano, in maniera più o meno marcata ma comunque sempre presente. Tutti questi elementi si mischiano nella sopracitata "Punish My Heaven" con splendida furia compositiva, tra tempeste di riff veloci che ci lasciano letteralmente senza fiato, susseguendosi uno all'altro con una scorrevolezza che ha dell'incredibile. Se dovessi scegliere il perfetto paradigma del death melodico svedese, la mia scelta senza dubbio cadrebbe su questo brano. Tuttavia, è difficile trovare un episodio sottotono in questo disco, straripante di idee e di maestria. I capolavori abbondano: la breve ma magniloquente "Silence And The Firmament Withrdrew", la drammatica "The Gallery", la tristissima "Lethe" (introdotta dalla più bella melodia di basso solista che si sia mai sentita in un disco metal) sono tutti brani che sono diventati dei classici immortali, grazie ad un'ispirazione compositiva ai massimi livelli e ad una fusione pressoché perfetta tra aggressività e melodia, marchio di fabbrica del gruppo svedese. Devo ribadire ancora una volta che, oltre all'eccellente padronanza degli strumenti, la parte più spettacolare la ricopre Mikael Stanne dietro il microfono. Il cantante si diverte a dilaniare i nostri timpani con una voce indiavolata, sporca e rabbiosa ma contemporaneamente ricchissima di tecnicismi e di sfumature, percepibili a orecchie allenate. Quando poi con "Projector", che seguirà diversi anni dopo, lo sentiremo dedicarsi alla voce pulita, scopriremo che la sua bravura canora non conosce limiti stilistici.

Il disco viaggia su ritmi quasi sempre veloci, ma è capace di una tale varietà tra i brani da lasciare quasi imbarazzati. La storia del death melodico, oggi così tristemente inflazionato, ha qui un suo caposaldo massimo, uno di quei dischi che ti possono seriamente cambiare la vita, se li incontri nel momento giusto. Ricordo ancora la folgore che mi colpì la prima volta che misi questo disco a contorcersi nel lettore: allora ebbi la sensazione di aver scovato un qualcosa che sarebbe durato nel tempo. Dieci anni dopo sono ancora qui ad ascoltare "The Gallery", commuovendomi con il break melodico di "The Emptiness From Which I Fed", con l'evocativo intervento della voce femminile in "...Of Melancholy Burning", con la spagnoleggiante chitarra classica di "Mine Is The Grandeur...", con i malinconici assoli di "Edenspring", ma soprattutto con l'inconsolabile tristezza di "Lethe"...

Devo aggiungere altro, signori? Questa è storia, e non si tratta semplicemente del solito disco dall'importante valore storico ma che musicalmente lascia a desiderare. Questa è storia che abbaglia per la sua bellezza, allora come oggi, ed esige di essere conosciuta da qualsiasi metallaro che si rispetti. Per cui, raccomandandovi di fare vostro questo capolavoro se ancora non l'avete, non posso che assegnargli il massimo dei voti. Sì, lo so che non diamo voti alle recensioni, ma almeno il concetto di dare il massimo è facilmente afferrabile, no?

01 - Punish My Heaven (4:48)
02 - Silence And The Firmament Withdrew (2:38)
03 - Edenspring (4:32)
04 - The Dividing Line (5:03)
05 - The Gallery (4:09)
06 - The One Brooding Warning (4:16)
07 - Midway Through Infinity (3:32)
08 - Lethe (4:44)
09 - The Emptiness From Which I Fed (5:45)
10 - Mine Is The Grandeur... (2:28)
11 - ... Of Melancholy Burning (6:14)

Blood Of The Black Owl - "A Feral Spirit"

Bindrune Recordings, 2008
E’ l’imbrunire. Camminate solitari in un bosco. Vi fermate. Una fitta ma fievole intelaiatura di cinguettii riempie il silenzio attorno a voi. Un sinistro ululato, poi un latrato sgangherato. Tremate. L’improvviso gracchiare di un corvo rompe di nuovo il silenzio. Poi un tuono lontano vi avverte dell’imminente sopraggiungere della pioggia scrosciante. Neanche il tempo di cercare un riparo che i primi deboli rumori delle gocce che colpiscono la vegetazione catturano la vostra attenzione. Siete soli, tremanti e bagnati.

Tutto ciò arreca timore, e immedesimarsi in una simile situazione mette a disagio. Cosa potrebbe esserci di più adatto di una ruvida e greve chitarra Black Metal per descriverlo? La risposta ce la danno gli americani Blood Of The Black Owl che con A Feral Spirit giungono al loro secondo full-length. Oltre a racchiudere le sensazioni di cui sopra nella lunga introduzione Spell Of The Elk e ad usare la ruvida e greve chitarra Black Metal, aggiungono tutta una serie di accorgimenti personali che danno vita a qualcosa di unico. Immaginatevi una sorta di Pagan Black Metal molto atmosferico e marcatamente tribale, tutto adorno di strumentazioni folk quali ocarine, corni e gong, e suonato con ritmi Doom; questo vi dà un’idea approssimativa dell’arte della band. Ma per dar forma effettiva a questa idea approssimativa è necessario chinare il capo e immergersi con tutti sé stessi nell’incantesimo tribale e nei sordidi gorgheggi che traspirano da questo disco levandosi come antichi spiriti. In tal modo non camminerete più soli nella foresta, e nemmeno starete in piedi immobili terrorizzati dai rumori attorno a voi, bensì vi sembrerà di sedervi in cerchio a gambe incrociate intorno ad un crepitante focolare, in compagnia di uomini sconosciuti bardati con rudi pellicce d’orso e nodosi bastoni variopinti, mentre il fuoco illumina i solchi scolpiti dal tempo sui loro visi. In A Feral Spirit rivive tutta la magia animista della quale la natura era impregnata presso le tribù dei nostri antenati. Il resto lo fanno un po’ le diffuse atmosfere selvagge e ferali - in effetti non potrebbe esserci termine più adeguato -, un po’ gli sporchi riff di chitarra, dotati di un sound particolare e deliziosamente impastato. Ma A Feral Spirit non si limita a cogliere il lato oscuro e tremebondo della foresta, bensì esplora anche quello più squisitamente poetico. I Blood Of The Black Owl sono infatti una band che sa essere anche molto dolce, come dimostra ad esempio la melodia finale di Forest Of Decrepitude: strumentazione folk da brivido alla quale si aggiungono una sorta di confortevoli maracas che evocano forse l’arrivo di una delicata pioggia primaverile; è uno sposalizio con la natura, un tenero ritorno alle origini avvolto da un senso viscerale di nostalgia. E non è il solo episodio ad essere carico di questa intima regressione alle radici: potrei citare anche la splendida The Melancholy Article, per non parlare della conclusiva Journey Of The Plague Year, un modo perfetto di chiudere un simile disco. Alla luce di questi cambi repentini del mood del disco mi domando: vi è davvero un tale incolmabile abisso tra il lato crudo della foresta, e più in generale della natura, e il suo lato poetico? Vi è davvero una tale antitetica contrapposizione tra i due? O forse non si tratta altro che di due facce di una stessa medaglia, due aspetti coerenti di una singola unitaria entità resi aspramente contrastanti dalla percezione sensoriale e dalla limitatezza della concezione umana?

La parte più bella di quest’opera è proprio il suo dualismo, il suo avere due facce dall’espressione contrastante e mostrarle entrambe, passando da oscure introversioni sciamaniche a sentieri melodici da crepacuore. Questo fa di A Feral Spirit un disco semplicemente irresistibile, da ascoltare più e più volte mentre la pelle d’oca irrigidisce la vostra cute e aggiunge quel senso unico di perversa ebbrezza necessario per vivere al meglio questo arcaico viaggio nelle profondità sciamaniche e animiste dell’uomo che fu.

01 - Spell Of The Elk (09:38)
02 - Crippling Of Age (05:38)
03 - He Who Walked Away From The Fire & Laughed As He Bled (06:40)
04 - Void (09:33)
05 - The Melancholy Article (05:50)
06 - Unattainable Vistas Of Our Remembrances (07:34)
07 - Forest Of Decrepitude (09:23)
08 - Inter-Weaving The Beyond (08:50)
09 - Journey Of The Plague Year (10:10)

martedì 6 marzo 2012

Mare Infinitum - "Sea Of Infinity"

Solitude Productions, 2011
Ma come, un altro gruppo Funeral Doom Metal proveniente dalla Russia e scritturato dalla Solitude Productions? Questo è il pensiero che potrebbe venire in mente a chi venisse in contatto per la prima volta con i Mare Infinitum, e magari scoprisse che uno dei suoi membri suona anche in gruppi colossali come Abstract Spirit e Comatose Vigil. In effetti, i Mare Infinitum non fanno dell'originalità la loro principale prerogativa: rispetto a tutte le altre band edite dalla mamma Solitude essi non aggiungono proprio nulla, proponendoci sempre il solito Funeral Doom orrorifico, oscuro e carico di atmosfera plumbea, per la gioia delle nostre orecchie avvezze a tali sonorità. Dico "per la gioia" senza alcuna ombra di ironia, poiché potrà essere vero che il gruppo non è originale, che ce ne sono tanti come questo, ma sicuramente il medesimo gruppo sa come disporre le carte in tavola e come poi utilizzarle per ottenere il miglior effetto possibile con i pochi mezzi che ha a disposizione. 

Il gruppo utilizza con perizia le chitarre e le tastiere per formare brani lunghi e introspettivi, carichi di dolore e sofferenza, declamando le proprie oscure storie con una voce che ricorda moltissimo quella dei cugini Abstract Spirit, molto probabilmente perchè il cantante è lo stesso (non è dato sapere esattamente quale membro della line up suoni quale strumento, e quale sia effettivamente il cantante: tuttavia, la somiglianza è fin troppo palese). Se per il growl non c'è niente da segnalare, una sorpresa sono invece le clean vocals: invece di essere un controbilanciamento alla pesantezza del growl, esse sono acide, inquiete, arrembanti e particolarmente sofferenti, e ciò risulta in un grosso punto a favore per i Mare Infinitum, dato che non ho sentito così spesso una simile scelta vocale in un disco Funeral Doom. A livello di songwriting, poi, troviamo dei brani davvero ispirati e coinvolgenti, come ad esempio "Sea Of Infinity", che vede la partecipazione di elegiaci cori femminili: le partiture chitarristiche sono di grande intensità e si sposano magistralmente con le tastiere e il pianoforte, mentre le voci maschili raggiungono picchi di espressività davvero notevoli, con un lamento funebre dalla forza eradicante. Notevole anche la strumentale "November Euphoria", che pur senza l'ausilio della voce riesce a trascinarci in un limbo di negatività dal quale è difficile trovare scampo, e in certi momenti acquista una carica quasi epica, sinistramente rilucente. Non tutti gli episodi sono allo stesso livello, ma comunque la media si mantiene buona: posso dire per certo che la band dà il meglio di sè quando si muove su territori più orientati alla lentezza, mentre perde qualche punto di coinvolgimento nei momenti in cui si avvicina maggiormente al doom - death di stampo Mourning Beloveth (anche se la matrice rimane comunque sempre Funeral).

In sostanza, se già conoscete Comatose Vigil e Abstract Spirit, mettete assieme i loro sound e troverete qualcosa di molto simile ai Mare Infinitum. Musica che non ha nessuna pretesa di essere innovativa o speciale, ma che riesce a coinvolgere grazie alla perizia dei musicisti e alla bellezza di alcuni episodi che tolgono davvero il fiato. Siccome nessuno ha detto che ogni nuovo disco uscito sul mercato deve per forza essere un qualcosa di nuovo, posso promuovere senza remore i Mare Infinitum e consigliarli agli amanti delle sonorità a metà tra il doom death e il funeral doom.

01 - In Absence We Dwell (14:10)
02 - Sea Of Infinity (9:47)
03 - Beholding The Unseen (9:44)
04 - November Euphoria (8:36)
05 - In The Name Of My Sin (12:30)

Disarmonia Mundi - "Nebularium"

Autoprodotto, 2002
Ho parlato molto male dell'ultimo lavoro dei Disarmonia Mundi, e anche adesso che è passato diverso tempo da quella recensione, non ho cambiato idea. Mentre insultavo quel polpettone privo di idee e pieno zeppo di manierismi, ho però citato quello che fu il primo lavoro della band torinese, e adesso mi è venuto in mente che non si rende giustizia ai Disarmonia Mundi se ci si limita a stroncare le loro obiettivamente pessime produzioni odierne. Bisogna anche ricordare questo piccolo, esaltante capolavoro che risponde al nome di "Nebularium", e che purtroppo è rimasto un unicum nel corso della loro evoluzione artistica.

Con la freschezza e l'entusiasmo tipici di un gruppo esordiente che si produce da solo i propri album, i ragazzi escono nel 2002 con questo primo full length che spiazza subito tutto e tutti con la sua eccezionale nitidezza sonora e con la sua capacità di giostrarsi tra più generi con una naturalezza che ha dell'incredibile. Death metal, sprazzi di progressive, melodia in dosi consistenti e mai banale, momenti di furia controbilanciati da sezioni più ragionate, per un lavoro che ricorda le sonorità di giganti quali gli Opeth, i Dark Tranquillity e in misura minore i connazionali Novembre. Otto tracce di fuoco, cariche di un'energia devastante e suonate divinamente se si pensa che i musicisti sono tutti esordienti, scorrono nel lettore trasmettendoci scosse telluriche e brividi d'emozione che non si lasciano tacitare facilmente, soprattutto quando partono certe formidabili fughe chitarristiche intrecciate, debitrici della migliore tradizione death melodico. Basta ascoltare la nervosa introduzione "Into D.M.", a cui fa seguito la possente "Blue Lake": un growl semplicemente fantastico si accoppia con una tempesta di riff piacevolissimi e ispirati, di quelli che catturano immediatamente l'attenzione grazie alla loro natura contemporaneamente fruibile e ricercata. Notevoli sono le parti ritmiche, fantasiosamente tecniche e mai prevedibili, con entrate di doppia cassa perfettamente bilanciate da rallentamenti strategici, con il risultato che la musica coinvolge in ogni singolo aspetto, e non per il suono di un unico strumento o della voce (perfettamente scissa tra growl e clean). Stupendi alcuni episodi come "Guilty Claims" e "Demiurgo", vere e proprie highlight del gruppo che purtroppo non sentiremo più da questo disco in poi: la prima è un malinconico assalto con sfumature progressive, momenti di geniale impazzimento strumentale ed epico refrain cantato in pulito, dove si raggiunge il massimo dell'emozione; la seconda, un mirabile esempio di come si possa unire il progressive al death in modo semplice ed efficacissimo, tramite un pezzo che pare quasi raccontare una storia, tra i suoi saliscendi che sfociano in un travolgente crescendo finale. Tutti i pezzi sono tuttavia degnissimi di nota, senza eccezioni: ognuno ha qualcosa da dire. "Burning Cells" è furia ragionata che si diverte poi a perdersi in terreni quasi glam rock, "Mechanichell" è irruenza allo stato puro condita da geniali linee melodiche, la title track "Nebularium" è puro sfogo delle velleità sperimentali dei musicisti, che si divertono a mischiare le influenze più disparate per creare un brano funambolico. 

Non ho parole per descrivere lo sconcerto che ho provato quando, dopo il sufficiente "Fragments Of D-Generation", il gruppo si è perso in un'insipida autoclonazione del peggio del death melodico odierno, quello così tristemente inflazionato da potersi addirittura candidare a MTV. Mi piace ricordare i Disarmonia Mundi solo per quello che erano in questo disco: genuini, freschi, pieni di speranze e ricchi di idee, capaci di trasmettere qualcosa con la loro musica. Mi dispiace che poi, evidentemente, non vendevano nulla e hanno preferito scegliere altre strade: ma almeno un disco con i controcoglioni l'hanno fatto, eccome se l'hanno fatto.

01 - Into D.M. (3:06)
02 - Blue Lake (7:02)
03 - Mechanichell (5:02)
04 - Guilty Claims (7:15)
05 - Burning Cells (4:38)
06 - Demiurgo (7:07)
07 - Nebularium (7:07)
08 - Awakening (2:51)

Drudkh - "Blood In Our Wells"

Supernaul Music, 2006
Dopo la virata stilistica di "The Swan Road", il compito di stupire e affascinare i fan storici dei Drudkh tocca a questo nuovo disco, partorito nel giro di pochissimo tempo grazie ad un'evoluzione che la band ha affrontato con rapidità impressionante. Un'evoluzione che tuttavia c'è stata e c'è ancora, in quanto ogni nuovo album dei Drudkh è sempre diverso dal precedente, nonostante certe volte si ravvisi la volontà di tornare agli esordi, a quella magica commistione di black metal e neofolk che li ha resi famosi nel mondo underground. "Blood In Our Wells" è uno dei capisaldi della discografia della band ucraina, un disco che riesce finalmente a far rivivere le meravigliose sensazioni provocate dai primi due album, e lo fa con un'attitudine stavolta magniloquente e quasi cinematografica, come se stesse raccontando una storia. Atmosfere che si distaccano dalla velocità e tendono più all'epico; suoni meno incisivi e più corposi, rotondeggianti piuttosto che spigolosi; melodie di grande spessore e forza evocativa, che tengono con il fiato sospeso; tutti questi elementi contribuiscono a rendere questo quarto album uno dei migliori capitoli che la band abbia mai prodotto in tutta la sua prolifica storia, capace di reggere benissimo il confronto con un "Forgotten Legends". 

La breve introduzione folk "Nav" è solo un preludio, un'iniziale immagine di un villaggio popolato da gente semplice, che sta per essere sconvolto da una guerra, o da una calamità naturale, o comunque da un evento di grande portata storica. L'opener "Furrows Of Gods" è qui per dimostrarcelo: un incedere recitativo e marziale viene accompagnato magistralmente da linee di tastiera severe, che risaltano solamente nei momenti in cui le distorsioni tacciono in favore di azzeccati inserti acustici, mentre per il resto rimangono piuttosto nascoste dal muro creato dalle distorsioni e dalla potente batteria. Per minuti e minuti rimaniamo sugli stessi temi portanti, fino a quando l'ambientazione cambia e ci spostiamo in terreni ancora più desolati e avvizziti, mentre il villaggio ormai sta iniziando ad andare in malora. La successiva "When The Flame Turns To Ashes" è la perfetta rappresentazione della morte di qualcosa, che lentamente si sfalda e diventa cenere: anche questo è un brano intensamente scenografico, che evoca battaglie ed epici racconti tramandati oralmente da generazioni. Ancora una volta, sono le linee di tastiera a rendere speciale questo lavoro, poiché gli donano quel tocco di classe evocativa che dà l'anima al disco, permettendogli di esprimere tutta la sua carica storico - immaginativa. Magistrale il finale, carico di una malinconia inguaribile che brucia dall'interno e scioglie tutto, terminando con un riff stanco e prostrato, ormai prossimo a spegnersi nell'oblio come una fiamma che, giunta alla fine della sua vita, rotola un po' su se stessa e infine si trasforma in una tenue colonna di fumo, destinata a scomparire dopo aver compiuto la sua ultima agonia.

"Solitude" ed "Eternity", entrambe di durata molto elevata, sono i brani più aggressivi e veloci del disco, maggiormente assimilabili alle sonorità di "Forgotten Legends", ma che tuttavia non dimenticano il carattere musicale dell'album e riescono comunque a mantenere il loro alone epico e descrittivo, che racconta fieramente le gesta di eroi del passato e tutto ciò che hanno sofferto prima di lasciare questo mondo. Entrambi i brani posseggono una carica drammatica ancora più forte e spiccata, espressa da melodie lente e lamentevoli, che nascondono silenziose suppliche e grida di dolore inascoltate. Splendide in particolare sono le linee melodiche di "Eternity", dotate di intensità mirabile, e per questo motivo ripetute a lungo così da rendere partecipe l'ascoltatore del drammatico racconto, fino a farlo immedesimare totalmente in questa storia. Chiude il disco un epilogo strumentale che supera in tristezza ed inquietudine tutti gli altri brani, come a simboleggiare che la storia non finisce bene: sarà un caso che è intitolato "Ukrainian Insurgent Army", il che evoca storie di lotta popolare finite spesso in tragedia? 

La sensazione che ci rimane dopo aver finito di ascoltare per intero questo album è una tristezza vaga ma ineluttabile, inconsolabile: anche se non sappiamo cosa volessero dirci i Drudkh con i loro testi scritti in lingua madre, la potenza immaginativa della loro musica è sufficiente per farci percepire quelle sensazioni direttamente sulla pelle. Dischi come questo lasciano un che di incompiuto, come se la vita stessa non fosse più sufficiente: forse perché non c'è spiegazione a certi orrori della vita. "Blood In Our Wells" vi darà un assaggio di tutto ciò, con vigorosa espressività e senza alcuna pietà per la vostra sfera emotiva. Cercate di non farvelo scappare.

01 - Nav (2:25)
02 - Furrows Of God (8:57)
03 - When The Flame Turns To Ashes (10:37)
04 - Solitude (12:24)
05 - Eternity (10:38)
06 - Ukrainian Insurgent Army (5:02)

Drudkh - "The Swan Road"

Supernaul Music, 2005
Come si sa, il terzo disco è un momento importante nella storia di una band: gli ucraini Drudkh non hanno perso occasione di renderlo un elemento differenziato rispetto a quelli che furono i due precedenti capolavori, e nonostante questa uscita non riesca a bissare il successo e le magiche atmosfere dei primi due dischi, mostra una decisa evoluzione che lo rende molto interessante.

Non si può parlare di un disco dei Drudkh senza contestualizzarlo, citando gli altri lavori e analizzando le influenze e l'evoluzione che il gruppo ha affrontato. "The Swan Road", cantato esclusivamente in lingua madre, è quindi indissolubilmente legato a "Forgotten Legends" e "Autumn Aurora", di cui mantiene le atmosfere ma allo stesso tempo riesce a risultare non una mera fotocopia, bensì un qualcosa che è mutato profondamente e ci sorprende con il suo cambio di attitudine. I dischi precedenti erano un miscuglio di black metal e influenze neofolk, espresse da atmosfere autunnali e delicate, nonostante la spiccata ruvidezza delle linee vocali e chitarristiche; essi volevano esprimere l'intrinseca forza dei fenomeni naturali, anche i più apparentemente innocui come il ritmico cadere di una goccia su una pietra, gesto che nei millenni è in grado di scavare i massi più solidi. Sonorità grezze ma contemporaneamente gentili e posate, ritmiche possenti e rocciose, attitudine contemplativa e riflessiva: ma le carte in tavola vengono rimescolate con questo "The Swan Road", che fin da subito si mostra molto più diretto, elettrico, aggressivo e veloce. "1648" introduce l'opera con accordi carichi di sofferenza e tensione, musica certamente non felice, accompagnata da un sinistro scampanìo che lascia presagire qualcosa dietro l'angolo. Ecco infatti che "Eternal Sun" ci investe con una furia mai sentita prima d'ora in un album dei Drudkh, un blast beat ferocemente inarrestabile che ci lascia senza fiato. Quando il brano inizia a prendere forma definita, mostrando anche qualche interessante inserto acustico nascosto tra le fiumane distorte, capiamo subito che i Drudkh hanno voluto spingere sul pedale della drammaticità, abbandonando il sereno appagamento naturalistico di "Autumn Aurora" o le suggestioni arcane di "Forgotten Legends". Ciò si evince molto bene con il proseguire dell'ascolto: i brani sono tutti carichi di triste risentimento e di nostalgia, espressa da brani mai felici e mai appaganti come la triste "Blood", intessuta di sentimenti urticanti. La voce si è fatta più roca, trascinata, sicuramente più carica di dolore rispetto agli esordi. Il trio che segue, composto da "Glare of 1768", "The Price Of Freedom" e "Fate" rappresenta il momento in cui il disco trova il suo massimo compimento, destreggiandosi tra sporche e nervose muraglie di chitarra, inserti folkeggianti che hanno l'effetto di spezzare temporaneamente l'aggressività sonora, ritmi parossistici che improvvisamente cedono il posto a sezioni più riflessive e rassegnate, e momenti davvero emozionanti come la cavalcata di "Fate", giocata su un riff magico e su un assolo che affonda diritto nel cuore come una lama lucente e spietata. Mi lascia invece un po' perplesso la conclusiva "Song Of Such Destruction", poesia ucraina di Taras Schevchenko, musicata esclusivamente in veste folk: un esperimento che chiude l'album come una mosca bianca, non particolarmente interessante a dire il vero, ripetitiva e a tratti quasi irritante.

"The Swan Road" rappresenta dunque un capitolo importante nella storia del gruppo ucraino, mostrando un'evoluzione che poi verrà raccolta dai dischi successivi e più o meno perfezionata, tra i vari allontanamenti e riavvicinamenti allo stile originale, quello che li ha resi celebri. Non raggiunge la bellezza dei primi due dischi, ad oggi ancora insuperabili nella discografia della band, e forse nemmeno di quelli che seguiranno, come l'intenso "Blood In Our Wells" o il recente e splendido "Microcosmos": ma si tratta comunque di un album che gronda sentimento da ogni nota e che merita sicuramente di essere ascoltato, se non altro per l'impegno con cui il gruppo cerca di conciliare tradizione popolare e modernità sonora, riuscendoci con ottimi risultati.

01 - 1648 (1:40)
02 - Eternal Sun (7:42)
03 - Blood (9:04)
04 - Glare Of 1768 (5:58)
05 - The Price Of Freedom (8:13)
06 - Fate (6:41)
07 - Song Of Such Destruction (4:23)

lunedì 5 marzo 2012

Austere - "Only The Wind Remembers"

Fog Of The Apocalypse, 2008
Gli Austere sono una band australiana che suona un Black Metal dalla tendenza Depressive dedito alla contemplazione delle figure naturali. Ciò ci è suggerito in maniera sognante dall’evocativo titolo di questo EP di soli due brani: solo il vento ricorda. Splendido...quattro parole che da sole riescono a trascinare in un turbine di fantasie desolanti che arrivano ad abbracciare l’intera psiche umana nel suo complesso di eterni problemi esistenziali.

Non c’è nemmeno bisogno di sforzarsi per produrre nella propria mente questa malinconica serie associativa: per me è sufficiente affacciarmi alla finestra della mia camera che mi mostra ancora una volta i boschi dietro casa mia, e contemporaneamente lasciar partire la musica degli Austere. Un Black Metal assolutamente toccante e deliziosamente malinconico che si serve della contemplazione della natura per evocare tutta la lacerante tristezza esistenziale dell’essere umano. Perché la contemplazione della natura non è unicamente pace ed equilibrio interiore, può anzi essere l’esatto opposto. Può essere straziante dolore esistenziale e fragorosa sofferenza interiore, una sofferenza che cresce indomabile come un cavallo imbizzarrito fino a trovare espressione emozionale in un irrefrenabile grido di disperazione. Eh già, la natura evoca anche questo, uno stato d’animo che forse può cogliere solo chi ha avuto il privilegio di sperimentarlo sulla sua pelle in tutta la sua affascinante perversione; gli Austere sembrano riuscire ad esprimerlo in modo superbo ed ineccepibile. E come ci riescono? Grazie ad una formidabile sinergia tra le sonorità gelide e raschianti delle chitarre e un agghiacciante scream urlato, tipico del Depressive Black Metal. Un dualismo curioso e originale nonostante per alcuni possa essere difficile da digerire, giacché il Black Metal degli Austere non è esattamente Depressive, bensì è collocabile in quel filone di stampo naturalistico che ci canta dell’ombra dei boschi e dei respiri della natura. Anche Only The Wind Remembers ci canta dell’ombra dei boschi e in questo sa essere estremamente melodico, caldo, introspettivo, intimo, impreziosito anche dalle corde della chitarra acustica; ma lo fa spogliandosi di ogni speranza, di ogni sicurezza, di ogni protezione, regredendo alla verminosa impotenza dell’infanzia quando l’uomo non è ancora autosufficiente, non è ancora pronto ad affrontare da solo le mille difficoltà della vita. Ascoltando Only The Wind Remembers vi sembrerà di essere nudi e impotenti, rannicchiati tra nodose radici e aghi di pino sotto una fredda pioggia scrosciante che gocciolando dalle altre frasche bagna la vostra pelle tremante.

Se anche voi saprete farvi catturare da questi venticinque minuti di viaggio interiore e di contatto col lato più profondo della natura che Only The Wind Remembers vi offre, non vi resta che ascoltare To Lay Like Old Ashes, full-length datato 2009 che a mio parere perfeziona la formula musicale della band grazie ad un legame praticamente perfetto tra sonorità più vaste e sublimi ed un cantato che vede aggiungersi un clean dannatamente caldo alle violente zaffate di un esasperante scream indomabile. Un perfetto connubio musicale da non lasciarsi scappare.

01 - Towards The Great Unknown (11:34)
02 - Only The Wind Remembers (13:24)