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martedì 29 novembre 2011

Esoteric - "Paragon Of Dissonance"

Season Of Mist, 2011
I britannici Esoteric, attivi da ormai vent'anni nel ramo della musica estrema, hanno una caratteristica particolare: per quanto si possa cercare in Internet e sulle riviste specializzate, non si trovano mai recensioni negative o commenti taglienti nei loro confronti. Provate a controllare: qualsiasi persona che parli degli Esoteric ne parla sempre con rispetto. Magari non apprezza la loro musica in senso stretto, poichè effettivamente ciò che la band suona è un genere molto di nicchia, ma chiunque venga in contatto con le loro produzioni non può fare a meno di riconoscerne l'intinseca qualità. Sembra bizzarro, ma tutto ciò ha una spiegazione: gli Esoteric sono una band colma di idee, fantasia, tecnica e bravura, e per quanto possa suonare difficile e spaventosa la loro musica, queste capacità trasudano da ogni singola nota da loro suonata. "Paragon Of Dissonance", il nuovo album fresco fresco di stampa, è qui per dimostrarci ancora una volta questo apparentemente incrollabile assioma, vale a dire che qualsiasi album targato Esoteric deve essere per forza un prodotto di qualità sopraffina. E lo dimostra molto bene.

Dopo quello che fu l'immenso "The Maniacal Vale", una perla nera e monolitica che ci regalava cento minuti di musica onirica, siderale e oscura, sembrava impossibile partorire un album che non fosse in qualche maniera un calo di tono, anche impercettibile, comunque destinato ad essere inferiore al predecessore. Ma questi quattro inglesi hanno sfruttato bene i tre anni di tempo che hanno impiegato per comporre "Paragon Of Dissonance", e sono riusciti ad evolversi ancora un pochettino. Le coordinate sonore si sono infatti spostate su terreni ancora più entusiasmanti e ricchi, nonostante il gruppo non abbia perso nulla della propria personalità e del proprio stile, ormai consolidato quasi come se fosse un genere a sè stante. Si tratta di Funeral Doom, certo: ma sarebbe un insulto etichettare gli Esoteric unicamente come gruppo Funeral, e secondo me è un insulto etichettarli a prescindere. Come dico sempre, la libera espressione artistica non ha bisogno di etichette: al massimo possiamo discettare sul modo in cui essa prende vita. Nello specifico, possiamo dire che la base è un Funeral Doom, ma ricamato con così tante influenze che è impossibile definire esattamente che razza di musica sia. Quello che sappiamo per certo è che la maestria della band è ormai giunta a livelli imbarazzanti, e non può che far sentire inferiore la stragrande maggioranza delle doom band in circolazione, cronicamente prive di idee. Andando a parlare nello specifico, "Paragon Of Dissonance" è un mastodontico doppio album di 90 minuti, che colpisce fin dai primissimi ascolti (cosa assolutamente non facile nè scontata, quando si suona un genere così criptico e ostico) grazie alle sue magistrali atmosfere, al suo incedere camaleontico e dinamico, alle sue sonorità curate oltre ogni limite della maniacalità e impreziosite da innumerevoli sovraincisioni, alla sua ciclopica pesantezza che si sposa con grazia a melodie di bellezza sconvolgente, agli assoli di chitarra lunghi, sognanti e fantasiosi che non hanno rivali nel genere estremo, e perfino ad alcuni sprazzi di bruciante malinconia che non abbiamo sentito molto spesso nel corso della tumultuosa evoluzione della band. Una malinconia gigantesca, inguaribile, che stringe un cappio attorno al collo e non ha pietà alcuna dei nostri cuori. Le armonie dalle dissonanze stupefacenti e cangianti sono rimaste; è rimasto il growl caldo e lentissimo, tendente all'infinità dello spazio profondo; sono rimasti gli inquietanti e visionari inserti noise (senza i quali il sound sarebbe svuotato di metà della sua potenza evocativa), sono rimaste le ritmiche "a mina vagante", nel senso che non si può mai definire come varieranno e che strani sentieri sceglieranno di prendere. Il superbo songwriting, sempre teso ad esplorare nuovi orizzonti, non è calato nemmeno di un millesimo e si conferma ancora come uno dei principali punti di forza della band: un songwriting capace di far scorrere un'ora e mezza di musica pesante e claustrofobica come se fosse acqua fresca. In definitiva, è rimasto tutto ciò che conoscevamo degli Esoteric. Cosa distingue quindi "Paragon Of Dissonance" dai precedenti lavori della band?

L'innovazione più importante è senza dubbio l'inserimento di linee melodiche indipendenti e protagoniste della scena, cosa che non era apparsa quasi mai nei precedenti lavori. Le chitarre pennellano melodie che suonano completamente nuove, pulite e cristalline, risaltano notevolmente rispetto allo sfondo e prendono per mano l'ascoltatore, invece di stordirlo girandogli attorno e rimanendo in parte indecifrabili, come accadeva in precedenza. Ciò crea dei momenti di beatitudine che rendono "Paragon Of Dissonance" un'esperienza differente rispetto a tutti gli altri album targati Esoteric. Questo album, oltre ad essere curatissimo in ogni suo aspetto e oltre a mantenere una qualità alta in tutta la sua ragguardevole lunghezza, annovera infatti dei momenti di bellezza sublime che non hanno paragone (e che non è facile sentire da una band che in vent'anni ha prodotto album tutti di durata chilometrica, e che ora scrive un altro album di quasi un'ora e mezza dove la durata media dei brani è tredici minuti). Per rendervene conto, ascoltate l'intricato, struggente e lunghissimo (quattro minuti!!) assolo di chitarra alla fine della suadente "Disconsolate": c'è chi venderebbe la madre per scrivere un pezzo simile. Oppure ascoltate il disperato e strappalacrime incedere della desolata "Loss Of Will", le psichedeliche sfumature di "Torrent Of Ills", o le funamboliche contorsioni chitarristiche di "Cipher", talmente tesa e rocambolesca che pare stia per far esplodere le casse dello stereo; e come non citare l'immensa opener "Abandonment", che dopo otto minuti di martellamenti impietosi, saliscendi melodici e armonie cosmiche ci regala un crescendo finale maestoso e imponente, di quelli che fanno rimanere a bocca aperta e senza voce dall'emozione? Ascoltandola vi sembrerà di stare affrontando la salita ad una montagna altissima, oltre la quale vedrete un panorama che si estende per migliaia di chilometri, con le prime brucianti luci dell'alba che quasi sembrano appartenere ad un altro mondo. Un viaggio verso l'alto, sempre più su fino al paradiso. Ed è esattamente questa la sensazione che si prova ascoltando "Paragon Of Dissonance": quella di non appartenere più al mondo che conosciamo, ma ad un mondo nuovo, dove è il sogno a fare da padrone, e non più la ragione. Per dare quel tocco di atmosfera sognante in più, i quattro britannici hanno perfino iniziato a usare il pianoforte, centellinato e rado, ma di un buon gusto quasi imbarazzante.

"Paragon Of Dissonance", perdonatemi il gioco di parole, è un album che non teme paragoni con niente e nessuno: basta a sè stesso, come un gigantesco monolite nero piantato nel terreno, che resisterà a qualsiasi intemperia e continuerà a impressionare le persone che gli passeranno appresso, per millenni e millenni. Ringraziamo gli Esoteric per aver prodotto l'ennesimo, incrollabile capolavoro, e per essere ancora sè stessi nonostante il passare degli anni: è grazie a gruppi come questo che il Metal non morirà mai. Per chi già li conosce, acquisto obbligato e garanzia di ritrovarsi ancora una volta ad adorare il disco in ginocchio. Per chi apprezza il Funeral Doom ma ancora non conosce gli Esoteric, (categoria della quale facevo parte fino a non molto tempo fa) acquisto ugualmente obbligato, in quanto non può esserci occasione migliore per iniziare a scoprirli. Per chi vuole fare della sua vita qualcosa di speciale, e non ha paura di immergere il proprio io in un viaggio siderale attraverso profondità mai sondate prima, acquisto caldamente consigliato.

I Maestri sono tornati: inchino, prego. E che sia profondo.

Disco 1

01 - Abandonment (13:34)
02 - Loss Of Will (7:05)
03 - Cipher (9:15)
04 - Non Being (15:30)

Disco 2

01 - Aberration (15:44)
02 - Disconsolate (15:33)
03 - A Torrent Of Ills (13:37)

domenica 27 novembre 2011

Infèren - "Infèren"

Autoprodotto, 2011
Provenienti da Bergamo, gli Infèren si dedicano ad un black metal di quello stampo che ormai non va più di moda, vale a dire nudo e crudo, senza troppi fronzoli e contemporaneamente capace di evocare atmosfere e non risultare banale. Qualità piuttosto rara, in un mondo discografico ormai invaso dagli orpelli e dalle facilitazioni elettroniche: fa sempre piacere trovare una band che ne sappia fare a meno e sia comunque capace di produrre musica valida. Posso sicuramente includere gli Inferèn in questa categoria, anche se per ora hanno prodotto solo questo demo, che conta tre pezzi (più un'introduzione). Nonostante la giovane età della band, la musica sembra già avere una direzione e uno scopo precisi: raggelare i cuori di chi la ascolterà e stordire i loro sensi con violenza sonora ragionata ed efficace. Gli Infèren mischiano sapientemente tutto ciò che i grandi nomi del black metal hanno insegnato ai discepoli, prendendo un pezzettino da ogni band, anche non strettamente legata al black metal ortodosso. I ritmi martellanti dei Darkthrone, la voce indemoniata e bellicosa dei Satyricon (specialmente degli ultimi lavori), le atmosfere gelide dei Mayhem, le improvvise dissonanze dei Forgotten Tomb, il sottile gusto melodico degli Immortal e degli Ulver di "Nattens Madrigal": provate a immaginare tutti questi elementi messi assieme e dotati infine di quel tocco di personalità che gli consente di non diventare un gruppo clone. Certamente a livello di soluzioni gli Inferèn non inventano nulla di particolare, ma si nota subito che i loro pezzi sono ben curati, hanno un senso musicale e riescono a catturare l'attenzione, grazie anche a ritmiche mai troppo statiche e ad una buona fantasia nel riffing chitarristico.

Andando ad analizzare più nel dettaglio, il disco si apre con la funerea "Intro", scandita da distanti rintocchi di batteria che le danno un tono altamente macabro. Presto siamo immersi nel vortice sonoro di "Hex Vengeance", brano acido e dissonante che ha il compito di prepararci all'arrivo dei due pezzi più interessanti del cd. La successiva "Blood Horizon", introdotta da un arpeggio liquido e catramoso, spinge ancora di più sull'acceleratore e sul pedale delle distorsioni, trasportandoci in una caverna mentre osserviamo il turbinio dei fiocchi di neve all'esterno. Il minimalismo del riffing, tipicamente associato a gruppi come i Darkthrone, è però piacevolmente rotto da alcuni momenti di riuscite incursioni melodiche e variazioni ritmiche che rendono il brano ben bilanciato. Con la successiva "Apocalyptic Visions" abbiamo invece un'atmosfera leggermente meno tesa, nonostante il mantenersi delle ritmiche veloci: il riffing si fa più consonante e meno stridente, in definitiva più melodico e in certi tratti addirittura orecchiabile, specialmente nei momenti in cui le distorsioni spariscono temporaneamente e lasciano il posto alle chitarre pulite. Sembra che il gruppo abbia una discreta capacità di conciliare un suono freddo e tagliente con alcuni passaggi che invece richiamano atmosfere meno crude, a tratti perfino vagamente epiche. 

Considerando che ho poco materiale tra le mani, ma che si tratta di materiale che lascia intravedere una buona qualità, credo che ci sia un futuro in arrivo per gli Inferèn, e che ci sia anche del talento. Ovviamente è difficile farsi notare in un panorama musicale così sovraffollato, anche nell'underground: tuttavia, conto che se una band ha qualcosa da dire, prima o poi riceverà almeno un po' di successo, ed è quello che auguro ai bergamaschi. Per adesso, sicuramente un demo promettente che potrebbe essere il preludio di un interessante album di esordio.


01 - Intro (1:03)
02 - Hex Of Vengeance (3:33)
03 - Blood Horizon (7:36)
04 - Apocalyptic Visions (6:10)

Nekrosun - "Crematorial Frost"

Autoprodotto, 2009
“Children Of Bodom are back from the grave”, “The return of the true reaper!”, “A new masterpiece from the shores of Lake Bodom”. La rete sarebbe intasata da titoli come questi se solo Crematorial Frost fosse stato scritto e pubblicato dai Children Of Bodom - o perlomeno una sua versione velocizzata. E invece non uno studio professionale, né tantomeno un seguito di esperti della Spinefarm hanno dato vita a questo disco: esso è il primo parto dei Nekrosun, parto avvenuto in casa e figlio dell’arte del sapersi arrangiare. Nondimeno quello che emerge da questa atmosfera da underground dell’underground è davvero interessante: uno stile musicale dall’impatto sonoro molto simile ai primi Children Of Bodom in cui persino le atmosfere create dalle tastiere richiamano inevitabilmente quelle di album come Something Wild e Hatebreeder, quelle splendide atmosfere da lago Bodom che col tempo i finlandesi hanno perso per strada, non si sa bene per quale motivo. A questo punto però non vorrei esagerare dando un’immagine parecchio errata dei Nekrosun: non pensate che si siano dilettati in una scopiazzata passiva alla Norther, non pensatelo nemmeno per scherzo. Nossignori, non è il loro caso, dato che tra l’altro i Children Of Bodom non sono una delle band da cui i Nekrosun traggono la loro ispirazione. Infatti nonostante l’impatto sonoro Crematorial Frost è in realtà più lento e complesso, mai ripetitivo, cantato per la maggior parte con un clean rivoluzionario che, nel bene o nel male, salta subito all’occhio. E’ un album che brilla di luce propria, di semplice e genuina ispirazione e di una grande personalità unite ad un’indubbia capacità tecnica. Niente a che vedere col solito Melodeath/Extreme Power di serie C2 girone B che tante altre band alle prime armi sciorinano convinte di suonare chissà che cosa. Un ritmo vario e mediamente abbastanza lento accompagna fedelmente l’imprevedibile evolvere dei brani, i cui highlights più eloquenti sono costruiti dalle chitarre melodiche e soprattutto dalle tastiere, col loro ampio range di sonorità distinte e capaci di creare un’eccellente atmosfera che accompagna costantemente l’incedere musicale, arricchendolo e ispessendolo, autentico valore aggiunto del disco. Ascoltare i capolavori No-Men-Clatures e Lunar Lament per credere. Uno stile singolare dunque che sa colpire anche grazie al suo saper essere catchy senza mai, mai, mai cadere in composizioni scontate o ripetitive. Questa è una nota di grande merito. Se oltre a tutto ciò si ricorda che si tratta del disco d’esordio, e che per di più è autoprodotto, si riesce ad intuire cosa questo sestetto sia riuscito a fare.

Il lettore attento si sarà però accorto che ho parlato di “cantato clean rivoluzionario” senza più riprendere l’argomento; ciò perché esso merita una menzione speciale. Alberto Bernasconi, cantante della band, è diplomato in canto lirico, e questo dovrebbe essere sufficiente a farvi rizzare le antenne: egli alterna un cantato abbastanza canonico in stile Power, con rare ed effimere uscite in growl, ad un originale clean dalle forti tendenze liriche. Molti hanno criticato questo suo stile in quanto non adatto al genere musicale proposto. Io sono fermamente convinto che questo tipo di critica rasenti l’assurdo in quanto è un po’ come dire che nel mondo della musica - come del resto anche dell’arte più in generale - vi sono degli accostamenti che per loro natura sono impossibili. Una simile asserzione pone degli irrazionali paletti alla creatività, paletti che sono il riflesso esteriore degli angusti limiti del proprio gusto artistico. In realtà la creatività non conosce alcun limite, e ben vengano gli artisti come i Nekrosun che cercano di proporre accostamenti apparentemente improponibili. Ciò premesso io sono tra coloro che inizialmente non riuscivano a mandar giù questo stile canoro - anche se per altre ragioni, legate all’“artigianalità” delle registrazioni - e quindi so bene cosa provino tutti coloro che per la prima volta ascoltano i Nekrosun e restano insoddisfatti della prova vocale di Alberto. Ma a costoro non posso far altro che dire di riascoltare più e più volte Crematorial Frost, e di approfittarne per plasmare la propria forma mentis come fosse un vaso di creta ancora molle. Non c’è nulla di impossibile nell’arte, l’impossibilità sta negli occhi di chi guarda, proprio come il bello. Affinate la vostra vista, e vedrete che finalmente riuscirete ad apprezzare i Nekrosun nel loro modo di concepire la creatività.

Esecuzione strumentale, songwriting, atmosfere: da qualunque angolatura lo si guardi Crematorial Frost appare un disco di grande spessore e personalità. Dunque non già il grande ritorno dei Children Of Bodom, bensì la comparsa improvvisa dei Nekrosun, che si presentano così, emergendo dal nulla più profondo con un grande album che promette davvero bene.

01 - Through The Eyes Of Nemesys (05:27)
02 - Lunar Lament (08:43)
03 - Holocaust! (04:03)
04 - At The Point Of Decision (03:55)
05 - Without A Dimension (06:11)
06 - No-Men-Clatures (07:24)
07 - The Book Of Existence (04:56)
08 - Behind The Rip (06:39)
09 - Getsemani (04:25)
10 - Black Instinct And Abomination (10:17)

The Ergot - "Disagio Suite"

Autoprodotto, 2011
Per la prima volta da quando ho aperto questo blog, mi trovo a recensire una band esordiente italiana che suona doom - death, o forse sarebbe più corretto parlare di gothic - doom, dato che le influenze death sono comunque piuttosto scarse, se non nulle. I cinque ragazzi toscani, dopo aver pubblicato un primo EP, giungono al loro primo full - length rivelando buone potenzialità e ponendo le basi per una possibile evoluzione futura: nonostante il risultato non sia trascendentale, "Disagio Suite" è in ogni caso un disco ben suonato e ben riuscito che rispetta fedelmente i canoni del gothic - doom ma riesce anche ad aggiungerci qualcosina preso da altri generi.

I primi nomi che mi vengono in mente per caratterizzare il sound dei toscani sono Hanging Garden, Amber Tears, Morphia, Lethian Dreams, Shattered Hope: tutte band appartenenti al filone gothic - doom - death altamente melodico e raramente aggressivo, quel genere di musica che utilizza le chitarre distorte e le voci cavernose come veicolo per esprimere sentimenti di solitudine e rimorso, ma senza quella rabbia e quel nichilismo tipici del death metal. "Disagio Suite" è quindi un disco abbastanza arioso e piacevole, che si destreggia tra brani avvolgenti e melanconici come "The Rain, The Dream, The Pain" , "Silence" (molto bello) e "November Fog", e qualche volta esplora lidi leggermente più pesanti con episodi come "Orgiastic Visions Of A Hating Man", "Crypt Keeper" e l'intensa "Song For You", capaci di alzare il volume delle chitarre senza però fargli superare il livello di guardia. Nonostante la parte strumentale sia di classico stampo gothic - doom, la voce stupisce molto per il suo timbro molto vicino al black metal, che costituisce un elemento anomalo ma molto interessante per la band, che arricchisce così le sue influenze. La voce è infatti quasi sempre in screaming, uno screaming decisamente poderoso e ben riuscito, e solo raramente scende a tonalità più basse tornando in growl, mentre ancora più raramente ci regala alcuni sprazzi di pulito o di parlato, comunque trascurabili nell'economia del disco intero. Senza dubbio, le intense linee vocali e le melodie di chitarra, semplici e dirette, sono i principali punti di forza dell'album. Gli elementi che ci stanno attorno, vale a dire sezione ritmica e tappeti di tastiere, hanno una funzione puramente di accompagnamento e non diventano mai i protagonisti della scena.

Lo scorrere delle tracce è come un lento fiume che ci avvolge in un mondo mesto e decadente, con poche variazioni di velocità e di temi, preferendo rimanere piuttosto omogeneo e costante. Non è certamente un album innovativo o capace di reinventare un genere musicale, nè farà gridare al miracolo: tuttavia è indubbiamente una prova onesta da parte di una band che sicuramente ha ancora ampi margini di miglioramento. Ancora un po' di lavoro sul songwriting e sulla personalità, e i The Ergot potranno affermarsi nella scena gothic - doom con più forza e autorevolezza. Per adesso, bene così.
01 - November Fog (5:33)
02 - The Rain, The Dream, The Pain (5:19)
03 - Song For You (5:20)
04 - Dormiveglia (4:55)
05 - Orgiastic Vision Of A Hating Man (4:10)
06 - Et In Arcadia Ego (2:41)
07 - Crypt Keeper (4:19)
08 - Infinity's Shape (4:45)
09 - Silence (6:11)
10 - Hope (6:00)
11 - Self Destruction Symphony (5:05)

venerdì 25 novembre 2011

Brutal Murder - "Death Squad"

AIMA Records, 2010
Non è la prima volta che una band Death italiana di stampo moderno ci contatta per richiedere una recensione. Ho avuto già il piacere di parlare di Eyeconoclast e Slaughter Denial, ed ora tocca ai bergamaschi Brutal Murder, giunti con Death Squad al loro secondo full-length. Come al solito non posso dire di aver ascoltato un grande disco, ma sicuramente un disco piacevole che ha delle sue peculiarità e che mi sono divertito ad ascoltare, imparare e recensire.

Death Squad non ci propone il solito Brutal suonato a fuoco con ritmo e riff casuali, bensì una sua versione decisamente meno tirata e molto più catchy, incravattata quanto basta per riuscire comunque a trascinare senza cadere in una proposta priva di anima. E anzi, per dirla tutta: chi ha detto che i Brutal Murder suonano Brutal Death Metal? E’ vero che la tracklist e l’artwork non lasciano certo dubbi sul fatto che la band non sia dedita al Country, ma nondimeno da quel che ho avuto modo di sentire in questo disco mi sembra che si tratti piuttosto di un’onesta band Death, senza Brutal, che pesca un po’ dalle radici storiche del genere e un po’ dalle influenze moderne. Un Death Metal che per la verità suona moderno soltanto nel sound e parzialmente nello stile del drumming, meno rude e sgraziato rispetto a quello tradizionale datato; per il resto, lo stile in sé ha molto di riconducibile al Death più classico: il growl a tratti molto gutturale chiaramente ispirato a quello di Lord Worm, il riffing thrash-oriented e molto catchy che si mantiene costantemente semplice e primordiale, le improvvise furibonde accelerazioni. Death Squad è il trionfo della semplicità e dell’immediatezza, nonché un esempio che dimostra come detti concetti non implichino necessariamente quello di banalità: se si sanno far girare riff semplici e ritmiche semplici nel modo giusto il risultato non può deludere, e infatti Death Squad non delude, pur senza strafare. A questo devo poi aggiungere dei complimenti speciali alla band per quanto riguarda la gestione degli assoli di chitarra: magari mi sbaglio, ma mi sembra che vi abbia dedicato non poca attenzione. Per prima cosa non ne abusa mai, nel senso che non li usa a mo’ di esondazione fluviale sommergendo ogni brano, ma piuttosto li raziona saggiamente; inoltre non sono mai assoli “casuali”, del tipo cascate marasmiche di shred e nient’altro, bensì sono ragionati e hanno un senso, un’evoluzione precisa. Devo concludere con un plauso particolare alla hidden track che chiude il disco, una clandestina sequenza di ilari bestemmioni in growl e in scream non visibile nella tracklist, un brano che non riesco ad ascoltare senza ridere divertito!

Nel complesso un disco composto e piacevole, non privo di verve, da parte di una band che con questo stile sicuramente faticherà non poco ad emergere nel panorama Metal odierno. Ma in fondo chi se ne frega di emergere dal panorama Metal odierno? Suonare dovrebbe significare esprimere le proprie preferenze, ciò che si ha dentro, senza curarsi della fama e del ritorno economico; sotto questo aspetto mi sembra che non ci sia nulla da obiettare ai Brutal Murder.

01 - Intro (00:43)
02 - Disfigured Your Face (03:48)
03 - The Suffering (04:50)
04 - Zombie Masochrist (03:53)
05 - She Devours Cocks (04:51)
06 - Splatter Party (04:05)
07 - Bikers Death Squad (05:08)
08 - Eat Yourself (02:52)
09 - Maggots Infected Flesh (05:15)
10 - Medicomatose Defecation (07:56)

mercoledì 23 novembre 2011

A.V. - "Der Wanderer Uber Dem Nebelmeer"

Pest Productions, 2010
"Il viandante sul mare di nebbia", di Caspar David Friedrich, è forse il più famoso dipinto del Romanticismo, sul quale si sono dette milioni di parole e versati fiumi d'inchiostro. Tuttavia, dopo che la misconosciuta label cinese Pest Productions ha deciso di pubblicare una compilation che raccogliesse musica adatta a sposarsi con i temi del dipinto, esso è diventato anche l'identificativo di questo doppio CD, dalla durata complessiva di quasi due ore e mezza. Ogni brano qui presente è stato composto appositamente da ognuna delle band per figurare su questo album, lasciando agli artisti la libertà di decidere come omaggiare il dipinto e le emozioni che esso evoca. Il risultato è eccellente.

All'interno del booklet si legge: "The meaning of this compilation is a tribute to the painting and the painter, but also to the wandering and pantheistic spirit and soul within each of us. To the feeling of being one with nature." In sostanza, un tributo all'uomo e alla natura nel loro complicato rapporto, che dovrebbe spingere l'uomo a perdersi dentro di essa, ma che spesso viene disatteso e travisato. Non è scelta comune quella di dedicare una compilation musicale ad un dipinto, ma devo dire che è stata sfruttata alla perfezione, con maestria assoluta. Ben venticinque band partecipano al tributo, e i generi musicali proposti sono molto vari: si va dal black metal al folk, alle commistioni tra i due, passando per la musica ambient e puramente atmosferica, per il post - rock e la musica neoclassica, con un comune denominatore: si tratta sempre di musica intimista, dai toni minori e decadenti, talvolta aggressivi ma più spesso dimessi e malinconici. La grande varietà proposta nella compilation ha il pregio di non apparire mai disorientante, poichè anche se le sonorità sono molto diverse, ogni brano non è stato scelto a caso ed è sempre concorde con lo spirito comune del disco. Via libera, dunque, alle intense ballate acustiche appaiate con brani massicci e dominati dal growl, così come a interludi che sanno quasi di danza popolare, nonchè a brani di soli violini che riescono a toccare corde profonde e a emozionare con naturalezza. Impossibile citare tutti i musicisti coinvolti senza fare torti a nessuno, vista la numerosità delle band: posso però dire che nella compilation appaiono band illustri come Kauan, Agalloch e Fen, più un'interminabile serie di gruppi underground e sconosciutissimi, spesso esordienti, ma tutti molto validi e capaci (devo fare un torto alle altre band segnalando due nomi in particolare, Gallowbraid e Oskoreien, autori di due pezzi semplicemente incredibili).

Devo dire che ho fatto delle bellissime scoperte ascoltando questa compilation, e mi sono gustato fino in fondo le dolci sensazioni che provoca una musica così vicina al concetto di comunione con la natura, sia che si tratti di descrivere un freddo inverno in cui i bambini piangono perchè non si ha nulla da dar loro per mangiare, sia che si tratti di foglie d'autunno che cadono e avvizziscono, sia che si tratti del risveglio primaverile e del cocente sole estivo che risveglia l'allegria e la voglia di vivere. In sostanza, una compilation riuscita nel suo scopo e ricca di musica di buona qualità: nonostante non sia un amante delle raccolte, che ritengo spesso dispersive e inutili, in questo caso mi sento di consigliarla vivamente. Il fatto che non vi obblighi perentoriamente ad acquistarla è solo una questione di educazione.

Disco 1:

01. October Falls - Usva (3:02)
02. Nechochwen - Winterstrife (6:46)
03. Musk Ox - The Face of Patience (5:10)
04. Agalloch & Mathias Grassow - Nebelmeer (8:56)
05. Gallowbraid - Earthen Throne (9:20)
06. Oskoreien - Ode to Arinbjorn (4:19)
07. Thayer Cabin - The Painting Moves (3:14)
08. Dämmerfarben - Oktobersturm (6:39)
09. Kauan - Vmesto Slez (4:33)
10. Wandar - Waldgänger (9:15)
11. Schwarze Heimat - Verlorener Glanz (4:48)
12. Underjordiska - Ej Hit Kommen (6:44)
13. A Death Cinematic - In the Tumbeling Dawn Light, Their Eyes Fall Frozen Through The Mist and Rain (6:54)

Disco 2:

01. Fen - The Wind Whispers of Loss (8:22)
02. Äldresjäl - Through Fire the Serpent Uncoils (7:26)
03. Nachtreich - In Gedanken (6:17)
04. Vindensång - The Reaper and The Seed (7:28)
05. Nebelung - Graue Nacht (7:27)
06. Enmerkar - Of Mist and Memories (5:08)
07. Stroszek - Land des Schweigens und Dunkelheit (5:15)
08. Kehrä - Valo (6:23)
09. Quellenthal - Winterreise (3:00)
10. Spectral Lore - Pilgrimage (6:05)
11. Carved In Stone - Night (2:33)
12. Velnias - Sovereign Nocturnal (13:01)

martedì 22 novembre 2011

Austerity - "Austerity"

Bubonic Productions, 2009
Per quanto possa sembrare strano se riferito ad una persona che ascolta ogni tipo di metal da più di un decennio, è con questa sconosciutissima band romagnola che ho avuto la mia prima esperienza con il drone doom. Non con mostri sacri come Sunn O))), Nadja, Earth e Uncertainty Principle, che conoscevo già ma non avevo mai approfondito degnamente, bensì con questa giovane one man band della quale mi sono aggiudicato la centesima e ultima copia del cd, distribuito in edizione più che limitata. Essendo un neofita, non avevo dunque un background adeguato per comprendere una musica simile, nonostante avessi una buona esperienza di doom e funeral doom: tuttavia, devo dire che questo primo esperimento mi ha convinto.

La musica racchiusa in questo lunghissimo album, che sfiora la durata massima contenibile in un CD, è come un interminabile viaggio all'interno delle profondità della psiche umana, vista nel suo aspetto più malato e vagabondante. A livello di sonorità si viaggia a metà tra il drone doom e il dark ambient, con una certa predilezione per quest'ultimo, nonostante le chitarre distorte siano comunque spesso presenti. Come si conviene ad un buon gruppo drone, i tempi sono mostruosamente lenti e le composizioni incredibilmente dilatate, ripetitive e ossessionanti: le atmosfere hanno un che di patologico (ma con interessanti risvolti sognanti che mitigano la psicosi di alcuni episodi), i prolungatissimi power chord sembrano lamenti di un'anima persa che sta vagando nel nulla, i rintocchi di batteria sono sordi e radi, le tastiere hanno un suono ovattato e distante, come se ci stessero osservando dalle profondità siderali dello spazio. Questa musica è fatta solo di atmosfera, non certo di melodie o armonie sopraffine: la ridondanza dei passaggi è una forma mentis, più che una scelta dettata dall'incapacità di fare diversamente (come potrebbe sembrare ad un ascolto superficiale), mentre lo spiccato minimalismo non lascia dubbi sul fatto che la band voglia trasportare l'ascoltatore in un mondo spoglio e desolato, come potrebbe essere una Terra dopo la guerra nucleare, o un distante pianeta extrasolare illuminato solo da alcune fioche e pallide stelle.

L'opener "Lacrime" è un esempio emblematico di ciò che ci aspetta nascosto tra i misteriosi solchi del CD. Atmosfere oceaniche e fluttuanti ci avvolgono immobili per minuti e minuti, facendoci scivolare lentamente in un torpore esistenziale. Quando al tema principale si aggiunge la chitarra distorta, talmente carica di effetti da essere quasi assimilabile al rumore bianco, ci accorgiamo che la musica dona realmente la sensazione di immobilità, e che può essere apprezzata solo da persone che sanno rimanere da sole con la propria mente: in caso contrario, un disco come questo risulterebbe insopportabile. Ci vogliono ben otto minuti e mezzo prima che la musica sfumi e lasci spazio ad un pianoforte che pare suonare sott'acqua, tanto è liquido e mellifluo il suo timbro: e con queste poche note distanti, oscure e fredde come lo spazio profondo, il primo brano è terminato. Ci aspetta un'altra ora abbondante di musica fatta tutta così. Inoltre, quasi tutto il disco è strumentale: la voce infatti appare solo in rari casi, filtrata e seminascosta dai sintetizzatori, per cui è una presenza abbastanza trascurabile. Si va quindi dalle ruggenti e ipnotiche distorsioni di "Nacht Und Morgenrote", al puro ambient celestiale di "Una Luce, Lontano", passando per la "sabbathiana" e leggermente meno soffocante "Novembre", fino alla solenne e spaventosa "Nelle Tempeste D'Acciaio", brano ambient che gioca per quattordici minuti e mezzo su un unico tema, ma che riesce comunque a far viaggiare lontano i pensieri, forse più lontano di quanto non siano mai andati. La chiusura, affidata a "Ad Nihil", è una vera prova di forza per chi sia riuscito ad arrivare fino a questo agonico punto.

Ascoltando questo album con il necessario raccoglimento, un'immagine mentale molto chiara si è formata nella mia testa. Mi sono figurato su un pianeta lontanissimo, dal cielo completamente buio ma rischiarato da un distante e flebile sole; in questo luogo estremo, solcato da canyon immensi e popolato da montagne alte decine di chilometri, mi trovo ad ammirare una gigantesca, immane statua d'acciaio lucente, che raffigura una forma vagamente umana ma che non è riconducibile a niente di conosciuto. E questa statua rimane immobile, nel silenzio più assoluto: e io rimango immobile insieme a lei, osservandola a distanza e rimanendo terrificato, inerme, senza poterne distogliere lo sguardo. Così via, in un tempo immensamente dilatato, fino a quando la mortale agonia di "Austerity" non ha il suo termine nella vita terrena. Volete provare anche voi?

01 - Lacrime (11:29)
02 - Nacht Und Morgenrote (10:57)
03 - Una Luce, Lontano (6:48)
04 - Novembre (10:14)
05 - Nelle Tempeste D'Acciaio (14:33)
06 - Ad Nihil (22:23)

Amon Amarth - "Amon Amarth"

Metal Blade, 1998
Così debuttavano ufficialmente con il loro primo full - length gli svedesi Amon Amarth, diventati negli anni (anzi nei decenni, dato che sono nati nel 1992) uno tra i gruppi più conosciuti e universalmente apprezzati nel panorama death metal melodico di stampo viking. Nonostante la band non si sia mai professata viking metal, anzi abbia sempre ribadito che secondo loro i vichinghi in senso stretto non c'entrano nulla col metal, le loro tematiche sono comunque legate alla storia norrena, e il caratteristico sound a metà tra il ruvido e il melodioso è indubbiamente molto adatto a descrivere le feroci battaglie e gli epici viaggi che compivano gli uomini del Nord. 

"Amon Amarth", che significa "Monte Fato", è a tutt'oggi un indiscusso capolavoro della scena death melodico svedese, seminale esempio di ferocia battagliera trasformata in musica, una ferocia che squarcia le carni come una possente ascia bipenne, ma che sa venarsi anche di una sottile malinconia e di una drammaticità fuori dal comune. Non si tratta di un assalto rabbioso e nichilista come quello dei conterranei At The Gates, bensì di puro furore epico, come se un migliaio di uomini urlanti, armati di lance e spade, stessero correndo tutti assieme incontro ad un'altro esercito di eguale grandezza, pronti a combattere per la propria vita e per il proprio onore. Diretto, scarno, crudo e con poche concessioni ai fronzoli, "Amon Amarth" è una successione di brani uno più esaltante dell'altro. L'irruenta e celebre "Ride For Vengeance" apre le danze con un ritmo schiacciasassi, sostenuto dai ruggiti poderosi di Johan Hegg, cantante che fa tremare le casse dello stereo con la sua potenza vocale. Assoli di chitarra memorabili e fiammeggianti, che hanno reso famosi gli Amon Amarth, non passano mai inosservati, così come non passano inosservati i brani che hanno fatto la storia del gruppo: "The Dragon's Flight Across The Waves" è un episodio imponente e carico di solennità, "Without Fear" alterna sprazzi di furia cieca a melodie supplicanti la grazia, mentre la mirabile title track "Amon Amarth" racconta la storia di una battaglia minuto per minuto, sviluppandosi lentamente su numerose variazioni tematiche che la portano ad essere via via sempre più intensa e celebrativa, fino a concludere con un meraviglioso assolo, dal piglio addolorato e pervaso da una malinconia lancinante. Ogni brano è a suo modo un piccolo classico, un epitaffio di un'antica guerra che viene condensato in suoni distorti e tremolanti, conditi da ritmi martellanti e incandescenti. Anche nei testi possiamo ritrovare la stessa grandeur evidenziata dagli strumenti: si parla sempre di colossali battaglie e imprese sovrumane, compiute da una popolazione inarrestabile e fiera, che avrebbe terrorizzato e dominato una vasta parte del mondo per lungo tempo.

Dispiace vedere che ormai gli Amon Amarth si siano ridotti a produrre musica come in una catena di montaggio, cedendo alla facile orecchiabilità che svuota di senso perfino le chitarre distorte e il growl. Gli Amon Amarth degni di essere ricordati sono questi, che infliggevano colpi mortali e si facevano strada tra i cadaveri con fierezza, ben consapevoli che le loro armi erano le più affilate e potenti che ci fossero. Nello specifico, senza usare vere spade e asce, ma solo quattro strumenti in croce, chiamati a tirar fuori tutto il potenziale di cui sono capaci e a riempire le nostre orecchie con un sound massiccio, avvolgente e carico di melodia che marchia a fuoco con la sua fiera e malinconica bellezza. Un disco che nel bene e nel male ogni appassionato di musica Metal deve conoscere.

01 - Ride For Vengeance (4:31)
02 - The Dragon's Flight Across The Waves (4:35)
03 - Without Fear (4:51)
04 - Victorious March (7:56)
05 - Friends Of The Suncross (4:44)
06 - Abandoned (6:02)
07 - Amon Amarth (8:08)
08 - Once Sent From The Golden Hall (4:11)

Abstract Spirit - "Horror Vacui"

Solitude Productions, 2011
I miei sospetti erano fondati: agli Abstract Spirit non interessa altro che dedicare una maniacale attenzione all’impatto sonoro al fine di creare delle pesantissime atmosfere terrificanti degne del miglior film dell’orrore.

Horror Vacui, il loro nuovo terzo full-length, conferma questa tesi maturata in me dopo l’ascolto del predecessore Tragedy And Weeds: si tratta del sigillo definitivo al loro Horror Funeral Doom Metal - nomenclatura quanto mai azzeccata -, settanta minuti di musica dall’oltretomba che farà raggelare il sangue nelle vostre vene. Growl catacombale, batteria lenta e rimbombante, riff trascinati, melodie opprimenti - insomma tutto quello in cui gli Abstract Spirit sono sempre stati maestri indiscussi, fin dal loro primo album, anche se stavolta la maestria in quest’aspetto supera sé stessa. Persino l’artwork, interno ed esterno, è più spettrale che mai, per non parlare poi del fatto che i testi sono scritti e cantati direttamente in russo, il che costituisce la proverbiale ciliegina sulla torta - o meglio, date le circostanze, il bouquet di fiori bianchi sulla bara. Horror Vacui è questo, e non c’è altro.

Se Liquid Dimension Change e Tragedy And Weeds avevano dato segni di vaga originalità a sprazzi nel songwriting, e se il secondo aveva fatto centro grazie alla presenza di alcuni curiosi sintetizzatori che riproducevano diffusamente il suono di un infausto trombone decadente, Horror Vacui rappresenta un clamorosa regressione: ritmo sempre uguale dal primo all’ultimo secondo, riff sempre uguali, songwriting prevedibile sotto ogni aspetto, e i tromboni che si limitano ad accompagnare e a creare la spessa atmosfera sonora che avvolge l’ascoltatore per tutti i 71 minuti di durata del disco. Horror Vacui è atmosfera, atmosfera pura, spessa e pesante, è un incubo che nessuno vorrebbe mai fare, è tutto ciò che del nostro inconscio ci attanaglia e ci terrorizza. Non ho mai sentito nulla di così tenebroso e orrorifico, nemmeno da parte di band quali Esoteric, Tyranny ed Evoken: non voglio nemmeno lontanamente paragonare gli Abstract Spirit a questi colossi, ma sotto l’aspetto puramente sonoro, spaventoso e terrificante Horror Vacui li batte tutti, e in scioltezza, senza nemmeno faticare troppo. Perfino Liquid Dimension Change e Tragedy And Weeds sembrano impallidire al suo cospetto: gli Abstract Spirit hanno ottenuto ciò che volevano, e in questo campo non hanno più rivali.

Ma quindi questo Horror Vacui ha colpito nel segno oppure no? E’ un gran disco oppure è una pippa? Come il 99% del Funeral Doom moderno, dal punto di vista del songwriting si tratta di un disco poco più che insignificante; se siete grandi fan del Funeral Doom datato, difficilmente riuscirete ad appassionarvi ascoltando Horror Vacui. Eppure io, che sono un fan di band colossali come Esoteric e Skepticism, non riesco a smettere di ascoltarlo: non è dal punto di vista del songwriting che gli Abstract Spirit brillano di luce propria...dovete cambiare sistema di riferimento e mettervi in un’ottica d’atmosfera: ascoltatelo quando vi sentite già morti, quando tutto vi scivola addosso, quando avreste voglia di assistere impassibili allo sgretolarsi del mondo che vi circonda, quando non vi resta altro posto in cui stare che la piccola cella della vostra scatola cranica, così buia, umida e profonda...vedrete che in questi momenti il vostro animo sembrerà cantare all’unisono coi lamenti di Horror Vacui.

01 - За Пределами Сомкнутых Век (12:57)
02 - Post Mortem (11:19)
03 - Пульс (12:03)
04 - Vigilae Mortuorum (Interludium) (03:17)
05 - Без Меня... Мертвое Завтра... (10:24)
06 - Атрофия Мировоззрения (11:45)
07 - Horror Vacui (09:14)

sabato 19 novembre 2011

Primordial - "Imrama"

Cacophonous Records, 1995
Dirò la verità: al primo ascolto avevo considerato "Imrama" come un album decisamente poco interessante, tanto da spingermi a metterlo tra i cd da regalare, quelli dei quali aspetto solo di liberarmi poichè ormai non mi interessano più. Ero quasi riuscito a sbolognarlo, quando ho avuto un piccolo scrupolo di coscienza: mi sono detto, proviamo a rivalutarlo, magari non è così scarso. E infatti, puntualmente, mi sono smentito: ora "Imrama" ha acquisito una notevole considerazione e un degno posto nella mia collezione.

Perchè questo? Forse perchè gli irlandesi Primordial sono una band che ha sempre brillato di luce propria, grazie ad un'interessante e personale versione di black - doom - folk metal di stampo celtico e pagano, molto legato alle tradizioni popolari e alla storia: e per questo motivo, è difficile rimanere delusi da una loro produzione. Al massimo, si può arrivare a comprenderla con un po' di ritardo. Nello stesso anno in cui i Blut Aus Nord partorivano l'immenso capolavoro black metal "Ultima Thulee", i Primordial nascevano con questo "Imrama", disco indubbiamente grezzo e acerbo, ma ricco di vibrante passione ed evocative sonorità impastate e marce, non al punto da rendere il disco inintellegibile, ma quel tanto che basta da renderlo affascinante. Il lato "folk" è ancora piuttosto in sordina, se non in casi particolari (la strumentale acustica "Beneath A Bronze Sky"), l'attitudine doom è ancora completamente assente, mentre a predominare è proprio la vena black, dotata di un sapore epicheggiante che è quello che poi ha reso famosi i Primordial, donando loro un sound inconfondibile e immediatamente riconoscibile tra mille. "Imrama" è un susseguirsi di brani di media durata e che viaggiano con l'acceleratore premuto moderatamente, senza eccessi; brani nei quali le chitarre formano un impasto ronzante pressochè continuo mantenendo tuttavia un senso melodico ben definito, nel quale le ritmiche sanno variare la velocità quel tanto che basta per non rendere i brani piatti e monotoni, mentre una voce latrata e sporca ci riempie l'animo di malvagità e sentimenti oscuri, tramutandosi solo occasionalmente in un cantato pulito che per certi versi ricorda la drammaticità dei My Dying Bride, seppur spostata ad un livello più recitativo e meno lamentoso. I brani non spiccano per il fatto di possedere melodie emozionanti o raffinate progressioni armoniche, e nemmeno per essere particolarmente elaborati: la base musicale è sempre piuttosto scarna, il riffing cantilenante e nervoso, gli inserti di chitarra acustica calcolati col contagocce e inseriti qua e là come supplemento; tutto ciò fa apparire l'album come povero di contenuti, almeno inizialmente. Tuttavia, con l'aumentare degli ascolti, il disco rivela la sua latente epicità e carica simbolica, che verrà espressa al meglio dai successivi tre album (in particolare dal mirabile "Storm Before Calm"). I brani, inizialmente tutti simili, iniziano a differenziarsi e ad acquistare un carattere proprio, mentre si acquista consapevolezza che i brani sono tutti in qualche modo legati tra loro, non raffazzonati e approssimativi.

"Imrama" è, in definitiva, un promettente embrione che racchiude in sè grandissime potenzialità, già evidenti ma non ancora portate a compimento ultimo. Non si tratta di un disco scialbo o insignificante, che sia incapace di comunicare emozioni: dopo l'iniziale delusione, chi ha pazienza scoprirà che tra questi solchi si nascondono antiche storie e rituali magici occulti, consumati attorno ad un cerchio di pietre come quello che appare in copertina, perfettamente esemplificativa del carattere musicale del disco. E quelle chitarre dissonanti e sulfuree prenderanno vita e acquisteranno un sapore diverso, facendo di "Imrama" un degnissimo album black metal, l'inizio della carriera di un'interessante e capace band.

01 - Full Arsa (4:47)
02 - Infernal Summer (6:12)
03 - Here I Am King (4:27)
04 - The Darkest Flame (5:19)
05 - The Fires... (5:24)
06 - Mealltach (1:27)
07 - Let The Sun Set On Life Forever (4:27)
08 - To The Ends Of The Earth (5:31)
09 - Beneath A Bronze Sky (3:27)
10 - Awaiting The Dawn... (5:00)

domenica 13 novembre 2011

Empyrium - "Weiland"

Prophecy Productions, 2002
I tedeschi Empyrium sono una band che non è mai appartenuta più di tanto al genere Metal: essi hanno utilizzato le chitarre distorte solamente nei primi due album (su quattro totali incisi finora), e anche lì non le usavano molto spesso, preferendo focalizzarsi sulle tastiere e sugli strumenti classici, come le chitarre acustiche, i violini e il pianoforte, non tralasciando nemmeno i flauti. Dopo la svolta del terzo album, una sorta di redivivo "Kveldssanger" che segnò l'addio definitivo della band alle sonorità metalliche, ci troviamo ora al cospetto di questo "Weiland", che raccoglie parte dei 300 minuti di materiale registrato da quando la band ha avuto vita, nel lontano 1994. Materiale definito come "sciolto", in sostanza si tratta di libera espressione artistica senza canoni nè confini, che utilizza solamente strumenti convenzionali per arrivare al cuore degli ascoltatori, senza alcun effetto distorsivo o elettronico. 

Il materiale che compone "Weiland" è molto eterogeneo: impossibile e inutile sarebbe descrivere pezzo per pezzo il disco, poichè l'attitudine è proprio quella di un collage di musica libera, quasi come se l'intero disco fosse una lunga improvvisazione. Troviamo un po' di tutto in questi cinquanta minuti, anche se il comune denominatore sembra essere una vena poetica particolarmente evidente nella scelta dei suoni e soprattutto delle voci. Esse infatti sono particolarmente teatrali, profonde e "liriche", come se appunto stessero recitando un lungo poema cantato. Si potrebbe superficialmente incasellare questo album nel filone folk romantico e prevalentemente strumentale, ma mi sentirei di elevarlo ad un livello superiore: non è semplicemente folk, si tratta di arte allo stato puro. Ci accorgiamo della differenza ascoltando gli impercettibili sussurri che si accompagnano dolcemente ad una chitarra melliflua e suadente, le lunghe e oscure galoppate delle chitarre acustiche, i malinconici (e talvolta impetuosi) giri di pianoforte che in poche note condensano sentimenti inesprimibili a parole, le tristi sviolinate che incredibilmente si accompagnano perfino al growl, a tratti ancora presente nonostante la sparizione delle distorsioni: e quale contrasto può essere più romantico di questo? La parola "romanticismo", nell'accezione iniziale e "tedesca" del termine, simboleggiava i sentimenti più forti e più contraddittori, che fluivano liberamente e non si potevano nè volevano arrestare. Tutto ciò è perfettamente incarnato da "Weiland", capace di passare dalla pacatezza alla drammaticità più sentita, che non per forza ha bisogno di atmosfere e suoni roboanti. Il tutto con un garbo ed un gusto musicale sopraffino, che non è facile trovare. Ne hanno fatta di strada dal primo "...A Wintersunset", affascinante ma acerbo e incapace di incanalare efficacemente tutto il suo potenziale: gli Empyrium sono ora diventati una band matura, e "Weiland" è un po' il punto di arrivo della loro evoluzione, che li ha portati ad essere via via più complessi e ricercati, sicuramente più difficili da assimilare ma più abili a lasciare segni indelebili nei cuori di chi li ascolta. Perfino il sottoscritto ha inizialmente considerato "Weiland" un album noioso e scialbo, senza emozione: ma semplicemente il disco non aveva ancora avuto modo di penetrare nell'animo e di rivelare tutto il suo nascosto fascino.

Le dodici tracce scorrono come un sogno, alternando con eleganza le sonorità e le atmosfere, risultando noioso solamente per un ascoltatore che non ha voglia di immergersi in una musica così avvolgente e vellutata,  melodiosa ed emotiva, che talvolta parla con un impercettibile sussurro, talvolta con una portentosa e vociante ode alla natura e ai sentimenti umani. Non è certamente un disco immediato, ma è sicuramente l'album più intenso e originale mai partorito dagli Empyrium, ed è un'esperienza da non perdere. Fatelo vostro lentamente, senza fretta: non si lascerà scoprire così facilmente. Una volta che vi lascerà entrare, però, non vi mollerà più.

1) Kein Hirtenfeuer Glimmt Mehr (02:36)            
2) Heimwärts (06:52)            
3) Nebel (02:18)    
4) Fortgang (07:11)      
5) A Capella (00:51)    
6) Nachhall (01:31)       
7) Waldpoesie (13:56)        
8) Die Schwäne im Schilf (05:47)            
9) Am Wasserfall (01:48)            
10) Fossegrim (03:34)       
11) Der Nix (02:47)    
12) Das Blau-Kristallne Kämmerlein (01:31)

Akercocke - "The Goat Of Mendes"

Peaceville Records, 2001
Qualche giorno potrebbe succedervi una cosa bizzarra. Immaginate di aver comprato i biglietti per il concerto della vostra band preferita. Arrivate lì con grande anticipo, siete già vicino al palco e non vedete l’ora che inizi. Nel frattempo si esibiscono le varie band spalla che scaldano la serata e vi aiutano ad entrare nella giusta atmosfera. Durante una di queste esibizioni di supporto vi girate improvvisamente verso il palco e vedete...quattro perfetti gentlemen inglesi vestiti di tutto punto, di quelli che potrebbero prendere pacatamente il the coi biscotti alle cinque del pomeriggio. Ma questi quattro gentlemen urlano e ruggiscono, e suonano pesante. Il giorno che vi accadrà non temete, non sarete sul set di un film surreale tratto da un romanzo di Kafka né tantomeno al centro di un improbabile esperimento di scienze delle comunicazioni: sarete al cospetto degli Akercocke.

Sono molto felice di poter asserire che la band ha compiuto un balzo in avanti siderale rispetto all’esordio di soli due anni prima: quel crogiuolo di idee che si intuiva a malapena sotto la cinerea coltre di pochezza di Rape Of The Bastard Nazarene trova finalmente piena espressione, dispiegandosi in tutta la sua estensione. Da 35 minuti striminziti navighiamo ora intorno ai 55, e da tutta quella serie di spunti solo vagamente abbozzati germogliano ora dei brani fatti e finiti, che riescono ad esprimere tutto quello che la band avrebbe voluto dire fin da allora (tutto, o forse ancora niente, aspettate infatti di ascoltare cosa combineranno da Choronzon in poi...). The Goat Of Mendes si presenta come uno dei pezzi da novanta del Blackened Death Metal, oltre che avere un timbro inqualificabile marcatamente personale e irripetibile - ed una copertina che si lascia apprezzare facilmente. Si tratta di una musica che calibra molto bene sfuriate estreme e atmosfere sinistre, col suo sound primordiale e infernale ed una creatività allo stato puro che si palesa tanto nelle strutture dei brani quanto nelle singole trovate musicali. Ciò che colpisce è specialmente la moltitudine di svolte differenti, che fa piacevolmente a pugni con una produzione decisamente povera: un cantato che copre l’intera gamma growl/clean/scream concedendosi addirittura dei piccoli voluttuosi inserti femminili, arpeggi pericolosi, e poi ancora numerose piccole sfumature sonore che vanno dai tromboni all’elettronica, ed intermezzi strumentali sempre azzeccati e opportuni: della durata giusta al momento giusto, tre brevi ed efficaci pause riflessive sacrileghe che ci preparano alla fase successiva del rituale. E poi tanta, tanta classe che emerge nonostante le raccapriccianti increspature sonore: come non ammirare un’ecletticità così spontanea?

The Goat Of Mendes segna l’inizio di un grande periodo produttivo e creativo per gli Akercocke, un periodo di sole vittorie che durerà ben sei anni culminando nel 2007 con il superlativo Antichrist, prima che la band si rifugi improvvisamente nel silenzio più profondo e misterioso. Ad oggi quasi non si hanno più notizie di loro: il sito ufficiale è stato chiuso e non ci sono news che riguardino l’attività discografica della band; giusto qualche apparizione live di tanto in tanto. Ma non corriamo troppo: The Goat Of Mendes non è che l’inizio di questa avvincente storia di una band, gli Akercocke, dannatamente attraente e dal fascino unico. Vi suggerisco caldamente di cominciare da questo boccone per poi seguire il climax ascendente dei tre album successivi, e vedrete che non ve ne pentirete.

01 - Of Menstrual Blood And Semen (06:26)
02 - A Skin For Dancing In (07:18)
03 - Betwixt Iniquitatis And Prostigiators (02:13)
04 - Horns Of Baphomet (07:06)
05 - Masks Of God (04:52)
06 - The Serpent (03:47)
07 - Fortune My Foe (01:16)
08 - Infernal Rites (04:30)
09 - He Is Risen (04:48)
10 - Breaking Silence (04:16)
11 - Initiation (01:11)
12 - Ceremony Of Nine Angles (08:53)

sabato 12 novembre 2011

Ablaze In Hatred - "Deceptive Awareness"

Firedoom Records, 2006
Quando mi capita di ascoltare un disco come questo, vale a dire un album che inizialmente mi verrebbe da giudicare negativamente, penso al percorso musicale che hanno affrontato gli artisti prima di arrivare alla pubblicazione del disco. Mi immagino tutte le lezioni di musica, le ore di pratica sugli strumenti, le sessioni di prova negli scantinati, le speranze riposte in un progetto nascente ... e poi il momento in cui il primo contratto discografico viene faticosamente conquistato, l'emozione di vedere il proprio CD finalmente pubblicato, la soddisfazione di vedere un artwork curato e belle immagini sul libretto, la promozione dell'album e la crescita della band ... ogni disco e ogni band hanno la propria storia dietro di sè, non si può negarlo. Solo per essere riusciti ad ottenere un contratto discografico, considerando che si suona un genere molto di nicchia, una band meriterebbe comunque un minimo di rispetto, se non altro per lo sforzo compiuto. Nello specifico, i finlandesi Ablaze In Hatred hanno sicuramente messo passione e impegno nel creare questo "Deceptive Awareness": nessuno infatti suona doom metal per arricchirsi o per diventare famoso, bisogna proprio amare il genere per provare a comporre musica di questo tipo. Il risultato è tutt'altro che eccezionale, ma non mi sento comunque di stroncare brutalmente questo debutto: non posso dargli più di una sufficienza, ma perlomeno quella la raggiunge, per una serie di motivi che ora mi accingo a spiegare.

Come molte altre band finlandesi dello stesso filone (citiamo solamente due nomi intoccabili come Shape Of Despair e Swallow The Sun), i quattro musicisti si dedicano ad un doom - death di stampo molto classico e canonico: hanno dalla loro parte una produzione sonora sicuramente migliore, dovuta ai mezzi di cui si può disporre oggigiorno, ma la derivatività di questa proposta è fuori discussione. Il disco è ben suonato, tecnicamente non è nulla di particolare, ma non importa, nel doom ciò non è strettamente necessario ... ci si aspetterebbe però un buon songwriting e delle belle atmosfere, per rendere l'ascolto un'esperienza coinvolgente, un qualcosa che possa far vivere delle emozioni reali anche senza inventarsi nulla di nuovo. Qui sta il principale difetto di "Deceptive Awareness": i brani, moderatamente lunghi, tendono ad essere piuttosto ripetitivi, sono poco vari, contengono poche soluzioni interessanti o originali. Non c'è mai una reale progressione all'interno dei brani, poichè alla fine si tratta sempre degli stessi giri di accordi ripetuti per minuti e minuti, con cadenza quasi metronomica; sono rare le accelerazioni o i cambi di ritmo che risvegliano l'attenzione, mancano i colpi di testa, le idee interessanti. Le tastiere, poche e rade, fanno il loro lavoro con discrezione e senza infamia, ma non costituiscono un elemento che impreziosisce più di tanto il sound, al punto che spesso risultano a malapena udibili. A livello formale, il disco è impeccabile: suona il proprio genere al 100% senza mai contaminarsi con altro, è puro doom - death vergine. Il problema è che, oltre a inquadrarsi perfettamente all'interno di un unico genere, non ha una particolare inventiva o espressività, niente che lo distingua dalla massa di band che suonano la stessa cosa.

A questo punto, tutto farebbe pensare che io voglia stroncare questo disco bollandolo come un prodotto inutile e privo di anima. Sì, ma fino a un certo punto: "Deceptive Awareness" è infatti un disco che ha molti difetti, ma che ha pure qualche pregio: anche se le sue soluzioni sono già sentite e la sua composizione è molto statica e minimale, possiede comunque un vago alone di mistero e un qualche momento degno di nota (interessante ad esempio l'introduzione "Lost", forse il brano più personale del lotto), e nel complesso sonorizza molto bene la sensazione di rassegnazione, di silente disperazione, di stanchezza nei confronti della vita. Questi accordi che si ripetono lentamente come anime incolonnate in una processione funebre, questa voce cavernosa e sempre in bilico tra tristezza e rabbia, queste melodie che tendono sempre all'abbattimento; sono questi i punti su cui bisogna concentrarsi, se si vuole cavare ciò che di buono c'è in questo disco. Quando ascolterete "Deceptive Awareness" nei momenti più spenti e tristi delle vostre giornate, è possibile che la musica si metta a cantare assieme a voi, e che vi ci rispecchiate abbastanza efficacemente. Avendo scoperto questa maniera di ascoltarlo, il mio giudizio passa quindi dalla stroncatura alla sufficienza, fermo restando che gli Ablaze In Hatred sono una band alla quale non si può chiedere più di tanto, e che con ogni probabilità rimarrà sempre confinata al livello di band mediocre. Se cercate una musica che vi faccia scoprire cose nuove e che stimoli la vostra curiosità e sensibilità musicale, statene lontani anni luce; se invece preferite semplicemente crogiolarvi in un limbo sospeso tra la depressione e la mestizia, "Deceptive Awareness" potrà essere un discreto sottofondo.

01 - Lost (The Overture) (5:11)
02 - When The Blackened Candles Shine (9:25)
03 - Howls Unknown (6:27)
04 - Constant Stillness (8:38)
05 - Ongoing Fall (8:28)
06 - To Breathe And To Suffocate (5:20)
07 - Closure Of Life (7:58)

giovedì 10 novembre 2011

Jupiter Society - "First Contact//Last Warning"

Fosfor Creations, 2008
Anni fa, quando ero un accanito fan dei Candlemass, ricordo di aver visto nel booklet di Dactylis Glomerata un baldo giovine dall’aspetto bizzarro, calvo e con indosso un’improbabile camicia sgargiante. Gli amichevoli sfottò ovviamente si sprecavano: “Ma dov’è andato a prenderseli Leif i nuovi musicisti?”, oppure: “Chi è il suo stilista? Gargamella?”, e ancora: “Ma costui lo sapeva che quella foto sarebbe finita nel booklet oppure l’hanno incastrato?”.

Poi gli anni passano, molta acqua scorre sotto i ponti tra successi e vicissitudini...e un bel giorno succede di imbattersi in First Contact//Last Warning, album d’esordio di tali Jupiter Society. Il momento è solenne. Può capitare abbastanza frequentemente di rimanere piacevolmente colpiti quando si ascolta qualcosa di nuovo; ma quell’immediata sensazione di aver scoperto qualcosa di grande, qualcosa di unico, quella capita giusto una volta ogni tanto, poche volte nella vita. Non ci vuole una laurea per capire come il Prog proposto da questi Jupiter Society sia ben diverso da tutto quello che si è già sentito: un Prog lento e compassato, macchinoso, a tratti quasi pachidermico, e non solo nelle ritmiche perché è soprattutto lo stile vocale, strutturato e paziente, che contribuisce a creare questa sensazione di impantanamento. Un Prog che mette al primo posto nelle proprie preferenze la melodia e l’atmosfera. E nonostante le sonorità non siano mai taglienti o aggressive, gli orchestrali toni epici, oscuri e pomposi degni del miglior film di fantascienza interstellare rendono quest’opera immensa, e a tratti quasi spaventevole, con le sue atmosfere così palpabili che si tagliano con un coltello. Un Prog come non l’avevo mai sentito.

Completamente ammaliato dai primi ascolti, irrimediabilmente ammansito da alcune trovate musicali, ho approfondito febbrilmente la conoscenza di questa band: la mente che architetta da dietro le quinte questo crocevia tra una one-man band ed un collettivo; il “chairman” - come si fa chiamare lui - che quasi in stile Ayreon si è circondato di un intero equipaggio, un’autentica messe, di musicisti e cantanti per registrare il proprio disco; questo sapiente burattinaio che muove i mille e mille fili di siffatto concept ambientato nello spazio; costui, dicevo, è il tastierista Carl Westholm, precedentemente noto per aver collaborato con Leif Edling in Abstrakt Algebra e Krux, e per il progetto Carptree condiviso con Niclas Flinck, progetto che si inserisce in quella corrente di Rock progressivo moderno molto elettronico. Carl Westholm...uhm...calvo, svedese, tastierista “imparentato” con Leif Edling...il nome non mi era del tutto nuovo, ma improvvisamente la sua passata collaborazione con gli Abstrakt Algebra fece scattare in me la scintilla: recuperai il booklet di Dactylis Glomerata e lo sfogliai fino a trovare la fatidica scritta: “Keyboards: Carl Westholm”. Parbleu! E’ proprio lui! Il baldo giovine dall’aspetto bizzarro, calvo e con indosso un’improbabile camicia sgargiante!

Ma ora il baldo giovine dall’aspetto bizzarro, calvo e con indosso un’improbabile camicia sgargiante, è diventato adulto e la musica se la scrive da sé con risultati strabilianti. In effetti in First Contact//Last Warning si sente tanto l’influenza delle sonorità tipiche dei Carptree, moderne ed elettroniche, quanto l’influenza dei Krux nei toni oscuri e gravosi che contraddistinguono l’intera opera. Ma non si tratta solo una combinazione di queste due influenze, non già una semplice miscela dell’esperienza musicale di Westholm, bensì molto di più: un Prog come non l’avevo mai sentito, come sottolineavo qualche riga fa. Per farsi un’idea della sopraffina capacità compositiva di Westholm basta dare un’occhiata ad esempio a Cold, Rigid And Remote: ammirate come si evolve la melodia nelle parti più quiete, e con quale pomposità esplodono da esse gli enormi, lenti riff. Un altro brano da esaminare ai raggi X, forse il migliore in assoluto, è la lunga The Enemy: l’essenza della progressività, prima oscura e intricata quasi fosse un labirinto in cui le melodie giocano e si rincorrono vicendevolmente per poi dischiudersi in un limpido sontuoso ritornello dai toni quantomeno curiosi. Infine il tutto viene inghiottito di nuovo dall’oscurità spaziale con cui si fonde, dando luogo ad un finale strumentale da brividi che ci porta a Solitude Unite Us, un altro pezzo da novanta. Il resto sarà pane per i vostri denti e cibo per la vostra mente: prendete, e mangiatene tutti, questo è il genio di Carl Westholm offerto in sacrificio per voi. E quando dopo quasi un’ora inizierete a sentirvi sazi, dovrete ricredervi: un sopraffino finale in pianoforte, roba da avere la pelle d’oca sullo stomaco, susciterà nuovamente il vostro appetito e vi indurrà a chiedere il bis. Ma il bello della musica è anche questo: una volta che è incisa su disco a miracol mostrare tale rimane per sempre, eterna ed immutabile, pronta per voi ogni volta che la vorrete di nuovo. E i Jupiter Society sono lì, incisi a dar vita a First Contact//Last Warning, un’eterna odissea nel macrocosmo spaziale e nel microcosmo della vostra mente.

Thank you, Carl Westholm.

01 - The Pilot (07:11)
02 - Bismarck Explorer (07:32)
03 - Cold, Rigid And Remote (05:51)
04 - Abduction (07:11)
05 - The Enemy (11:36)
06 - Solitude Unites Us (06:44)
07 - 8511 (04:52)
08 - Presumed Dying (09:38)

mercoledì 9 novembre 2011

Raventale - "Bringer Of Heartsore"

BadMoodMan Music, 2011
Con questo "Bringer Of Heartsore", i Raventale giungono al quinto album in studio, nonchè alla piena maturazione compositiva e stilistica. L'ucraino Astaroth, unico componente, è partito da un certo livello per arrivare poi a produrre dischi sempre più raffinati e curati, e se già il precedente "After" rappresentava un notevole passo avanti in tale senso, questo nuovo platter migliora ulteriormente le cose. La matrice di fondo è sempre il solito black metal intriso di atmosfere doomish, dalle tinte fosche e crepuscolari, piuttosto freddo nelle sue atmosfere dissonanti e novembrine; tuttavia, siamo ormai lontani dal grezzume degli esordi, poichè con il tempo il nostro artista ha reso il sound sempre più atmosferico e ricco di sfumature, sconfinando per certi versi nel progressive. Il consueto minimalismo che caratterizzava tutti gli album precedenti è ancora presente, ma si è arricchito grazie ad un uso maggiormente ricercato e vario delle chitarre, alla sapiente calibrazione delle tastiere che sanno mostrarsi solo quando è necessario, all'evolversi delle ritmiche in trame più complesse, e anche il songwriting ci ha guadagnato. I brani di "Bringer Of Heartsore" sono tutti piuttosto lunghi, escludendo gli interludi strumentali; ogni brano ha una progressione facile da seguire, sottesa da ritmi quasi sempre incalzanti che suggeriscono un'idea di movimento, come se si stesse costantemente viaggiando, in questo caso verso il "crepacuore". L'atmosfera di sconforto e di depressione che si respira in questi solchi è palpabile, nonostante il maggior respiro donato alle composizioni: le chitarre hanno mantenuto il loro suono raggelante, marchio di fabbrica dei Raventale, mentre la voce di Astaroth è sicuramente migliorata, arrivando ad essere maggiormente espressiva e partecipe della musica, non più un mero accompagnamento come nei primi album, nei quali era a malapena percettibile in mezzo al marasma strumentale.

Al primo impatto, un pezzo come "Anything Is Void" può spiazzare i fan storici, grazie alla sua tesissima introduzione di sapore burzumiano (qualcuno potrebbe pensare alla meravigliosa e storica "Det Som En Gang Var"). I tamburi prendono velocità, uniti alle chitarre che si fanno sempre più rabbiose, e finalmente il brano esplode in un blast beat che ci lascia piacevolmente stupiti. La raffinazione del sound è andata di pari passo con un aumento dell'aggressività sonora, risultando in un trascinante susseguirsi di riff e accordi "a valanga", che hanno l'effetto di avvolgere completamente l'ascoltatore in una coltre di densa nebbia in costante movimento. Anche la successiva "Twilight...The Vernal Dusk" viaggia su ritmi mediamente veloci, ma lascia più spazio a tratti spiccatamente melodici e a progressioni armoniche semplici ma di grande effetto, poichè affidate ad una tastiera che ha ben chiaro il concetto di "buon gusto musicale". Nei momenti più rallentati il riffing si fa maggiormente elaborato, così come gli assoli di chitarra, particolarmente sognanti e dal sapore quasi gothic (per certi versi mi hanno ricordato i momenti migliori dei Tiamat): e questo è un elemento interessante, poichè  non eravamo abituati a trovare spesso degli assoli di chitarra in un album targato Raventale. Il disco procede sempre su questa falsariga, alternando momenti di pura contemplazione come "Breathing The Scent Of Death" ad episodi più rocciosi e negativi come "Detachment And Solitude", non dimenticando nemmeno di inserire alcuni brevi intermezzi dominati dalle chitarre pulite, come per spezzare la silente tensione che tiene in piedi l'album. Astaroth è ormai diventato più che bravo nel creare atmosfere sconsolate e ricche di pathos emotivo, che si sposano perfettamente ad una fredda giornata di novembre, mentre si cammina tra le foglie secche e tra i mille colori dell'autunno che sta lentamente portando al letargo della natura. 

"Bringer Of Heartsore" è in definitiva un disco maturo, molto ben costruito e perfino orecchiabile, se di orecchiabilità possiamo parlare in un contesto come questo. Potremmo considerare questo album come un mix tra il gelo di "Mortal Aspirations" e la struggente malinconia di "After", una summa compositiva che finalmente afferma Astaroth come artista valido e degno di ricoprire un ruolo d'onore nella scena black - doom metal odierna. Un plauso va anche allo stupendo artwork, dalle tonalità rossastre che si possono riscontrare nei tramonti più infuocati e affascinanti. Difficile rimanere delusi da questo album, specialmente se avete apprezzato i precedenti lavori: ma mi raccomando, ascoltate questi quaranta minuti di musica in una condizione favorevole, ovvero quando la giornata è grigia, il vostro umore oscilla tra il malinconico e il depresso, e cercate qualcosa che concili il vostro stato d'animo, invece di contrastarlo. Un album come "Bringer Of Heartsore" sarà la perfetta colonna sonora per un momento simile.

01 - Anything Is Void (7:27)
02 - Twilight...The Vernal Dusk (7:25)
03 - These Days Of Sorrow (5:50)
04 - Breathing The Scent Of Death (4:20)
05 - Prologue: Sailing To Further (1:21)
06 - The Last Afterglow Burned (5:51)
07 - Detachment And Solitude (6:16)
08 - Epilogue: Alone With Heartsore (1:30)

sabato 5 novembre 2011

Anaal Nathrakh - "Domine Non Es Dignus"

Season Of Mist, 2004
Non parlate. Umani, stupidi umani, voi e il vostro gene della morte avete inghiottito il mondo. Siete così deboli e patetici...errare è umano, ma sognare è futile: voi invece continuate a vivere secondo i vostri “valori” procreando nuova distruzione, e uccidendo la luce finché sarete giunti alla distruzione finale di tutta la dignità. Se solo potessi vomitare su di voi, umani...non parlate. Ma questa non può essere la fine...rabbia, rabbia contro la morte della luce! E rivalutazione di tutti i valori!

Ok, forse mi sono lasciato prendere un po’ la mano, ma non mi sembra poi così improbabile che sia proprio questo ciò che gli apocalittici Anaal Nathrakh vogliono urlarci da dietro gli incomprensibili versi lancinanti di V.I.T.R.I.O.L. e dalla suggestiva tracklist. Ma andiamo per ordine. Siamo in Gran Bretagna, la terra dei bastian contrario: gente che guida sul lato sbagliato della strada, unità di misura fantasiose che usano solo loro, colazione e pranzo invertiti di ruolo. Ma se nei costumi quotidiani queste singolari usanze fanno degli inglesi un popolo curioso da scimmiottare simpaticamente, il loro riflesso nella musica è di notevole spessore: la Gran Bretagna non sforna molte band Metal, ma quelle che sforna sono spesso di grande qualità e di indiscussa personalità, dedite ad uno stile del tutto personale che è impossibile rintracciare in altri gruppi - basti pensare ad esempio a Cradle Of Filth, Akercocke, Esoteric, Fen, The Axis Of Perdition, Caïna. Gli Anaal Nathrakh sono per l’appunto una band inglese, e anch’essi sono unici e irripetibili. Per la verità gli Anaal Nathrakh, duo composto da V.I.T.R.I.O.L. come cantante e Irrumator come polistrumentista, non sono una novità assoluta: il loro esordio discografico risale a tre anni prima col full-length The Codex Necro, album che metteva già bene in luce quelle che sono le principali attitudini della band: un’inedita devastante fusione di Black Metal e Grind con qualche vago barlume di musica elettronica, disfattista e allucinante, annichilente e nera come la pece. Dopo un EP più lungo nel titolo che nella durata ecco che il duo di Birmingham torna a farsi vivo col suo secondo full-length, Domine Non Es Dignus, un disco uscito addirittura per la Season Of Mist che riprende in tutto e per tutto la direzione musicale dell’esordio. Qui non troverete grosse novità - se non forse un sound più potente -, ma tanta rabbia nichilista e voglia di devastazione: questi sono gli Anaal Nathrakh, capaci di passare da riff selvaggiamente arruffati a ritornelli in clean - vedi la superba Do Not Speak e This Cannot Be The End -, dalle diffuse sfuriate Grind ad inserti d’atmosfera come in To Err Is Human, To Dream - Futile.

Ci tengo a sottolineare che questa band non si inventa proprio niente dal punto di vista del songwriting: la sua immensa abilità sta piuttosto nell’impatto sonoro, nell’inaudita originalità della proposta musicale, nell’indiscernibile annichilente stile vocale. Nondimeno gli Anaal Nathrakh sono una band che va ascoltata almeno una volta nella vita, a prescindere da quelle che sono le vostre preferenze musicali, prima che la bieca mietitrice vi prenda con la sua ossuta mano e vi conduca altrove.

01 - I Wish I Could Vomit Blood On You...People (1:51)
02 - The Oblivion Gene (3:06)
03 - Do Not Speak (5:33)
04 - Procreation Of The Wretched (4:35)
05 - To Err Is Human, To Dream - Futile (3:47)
06 - Revaluation Of All Values (4:09)
07 - The Final Destruction Of Dignity (3:33)
08 - Swallow The World (3:59)
09 - This Cannot Be The End (6:24)
10 - Rage, Rage Against The Dying Of The Light (4:25)

venerdì 4 novembre 2011

Axiom - "Truths Denied"

Autoprodotto, 2009
Gli italiani Axiom sono attivi dal 2004 nella creazione di un'interessante mistura tra power, progressive e thrash metal, mescolati in parti uguali e shakerati assieme in un disco, questo "Truths Denied", (successore del debutto "A Moment Of Insanity"), che impressiona molto bene per qualità compositiva e cura per ogni minimo dettaglio, nonchè per un'attitudine schiacciasassi ed aggressiva che rende ogni brano un vero assalto frontale. Il gruppo è capace di muoversi molto bene in tutti e tre i generi musicali che esplora, fondendoli con maestria e risultando sempre convincente: troviamo riuniti in un solo album i virtuosismi del progressive, l'irruenza del thrash, la velocità del power, e come ciliegina sulla torta troviamo ben due voci, una pulita e una in growl, entrambe molto tecniche e forti di sicuri anni di duro allenamento, che le rende plastiche e versatili. Ma non manca nemmeno una voce femminile, chiamata a dare un riuscito contributo in un paio di brani, a dimostrazione del fatto che gli Axiom ci tengono a non essere banali e cercano di arricchire il più possibile la loro musica con elementi diversi. Melodie abbastanza immediate si uniscono con un'attitudine molto tecnica e che sicuramente non fa della banalità il suo credo: basta scegliere un brano a caso per rendersi conto che non c'è alcuna concessione alla faciloneria e all'approssimazione. Mirabili sono le alternanze tra la voce pulita e la voce growl, le quali spesso si trovano anche a coesistere su piani paralleli, creando un effetto molto coinvolgente; in particolare è la voce growl ad essere interessante, in quanto capace di variare molto il livello di "sporcizia" del timbro, a seconda di ciò che richiede il contesto. Impeccabile il lavoro dei due chitarristi, impegnati a conciliare linee melodiche powereggianti con le frenetiche cascate di accordi tipiche del thrash; particolarissime sono poi le linee tastieristiche di Lello Acampa, dal suono quasi "separato" dai rimanenti strumenti, acido e tagliente: una maniera sicuramente insolita di usarle, ma che risulta originale e caratteristica. Una sezione ritmica sempre laboriosa e precisa completa il quadro, regalandoci un disco che scorre con estremo piacere dall'inizio alla fine, vorticando e trascinandoci in un calderone sonoro sempre in movimento, nel quale non possiamo fare altro che affogare violentemente, fino alla conclusione della malinconica outro "Keep The Rain", che con il suo pianoforte e la voce della guest singer Claudia Andretta ci saluta con inaspettata dolcezza.

Gli Axiom sono sicuramente una band promettente e capace, e si spera che la strada da loro intrapresa si tradurrà in buoni risultati. Non posso che augurarglielo, poichè è sufficiente anche un ascolto distratto per notare quanta passione e perizia i ragazzi mettano nella propria musica: come si suol dire, probabilmente è solo una questione di tempo. Per adesso non rimane che gustarsi questo "Truths Denied", possibilmente ad alto volume e con un sufficiente spazio per muoversi.

01 - Truths Denied (1:54)
02 - Never Die (5:33)
03 - Human Race (6:09)
04 - Red Eyes (6:22)
05 - Dawn is Coming (5:33)
06 - Scar (6:41)
07 - Seven Steps to the Grave (4:45)
08 - State of Grace (5:00)
09 - A Revolution Inside (4:16)
10 -  Keep the Rain (3:31)

Revelations Of Rain - "Emanation Of Hatred"

Solitude Productions, 2010
I Revelations Of Rain provengono dalla Russia ed escono per la mamma delle doom label russe, ovvero la Solitude Productions. Chi già conosce l'assoluta qualità delle band da lei scritturate sa già che ben difficilmente quest'etichetta manca il bersaglio, e infatti anche in questo caso ha fatto un centro perfetto.

Il gruppo è ormai giunto al suo terzo full length, che l'ha portato alla completa maturazione sonora e compositiva: "Emanation Of Hatred" è infatti un album che potremmo definire perfetto, da numerosi punti di vista, come fosse un paradigma dell'intero panorama doom - death. Mischiando un buon 80% di doom con un 20% di death, i quattro ragazzi ci propongono sette tracce suonate divinamente, dall'impatto e dalla qualità sonora semplicemente inarrivabili. Il carattere musicale del disco è certamente oscuro e malevolo, e si sentono spesso echi di gruppi storici come i My Dying Bride (per la parte melodica) o Evoken (sia per gli inquietanti e obliqui arpeggi in pulito, sia per la pesantezza dei muri di chitarre); tuttavia, la musica lascia spazio a consistenti dosi di melodia creata da una lead guitar assolutamente eccezionale, talmente espressiva che pare quasi pronunciare parola, mentre suona. Ciò che distingue i Revelations Of Rain dalla massa delle altre band doom - death (che spesso e volentieri non vanno oltre i soliti tre accordi prolungati all'infinito...), e li rende distinguibili tra mille, è per l'appunto la presenza di linee melodiche di chitarra solista quasi strappalacrime, emotivamente coinvolgenti e dal suono cristallino, a tratti perfino caldo e romantico. Il tutto si contrappone magistralmente ad un tappeto strumentale e vocale da angoscia, ricreata da riff monolitici, voce growl particolarmente drammatica e una sezione ritmica sempre fantasiosa e mai scontata, dal suono pieno e potente (perdoniamo l'uso della drum machine, se è usata bene come in questo caso). Inoltre, a differenza di molte altre band scritturate dalla Solitude, i Revelations Of Rain scelgono di usare le tastiere con molta parsimonia, senza mai lasciare che diventino protagoniste della scena: ciononostante, non si scade mai nella noia dovuta alla scarsa profondità delle atmosfere (problema che affligge altre band come ad esempio i Mourning Beloveth, che utilizzano esclusivamente le chitarre: in un gruppo doom è molto difficile cavarsela senza tastiere). I Revelations Of Rain riescono invece ad essere equilibrati in tutto, dimostrando di avere un ottimo talento e un gusto musicale molto pronunciato. Lo dimostrano composizioni elaborate e mature come "Our Cathedral" e "Antithesis Of Life", ricche di variazioni e di momenti sorprendenti, che risvegliano costantemente l'attenzione e tengono incollati alle casse dello stereo, senza mai perdersi in passaggi inconcludenti e ripetuti stancamente. Il gruppo sa bene come stupire i propri fan: chi non si meraviglierebbe ascoltando l'improvviso e devastante stacco di puro death metal "old school" a metà di "Time"? O le feroci linee vocali della conclusiva "In Expectation Of Awakening"? Oppure l'introspettiva strumentale "Salvia Divinorum", che si destreggia perfettamente tra tappeti di tastiere (stavolta lasciati a suonare un po' per conto loro), attimi di puro terrore e momenti in cui la chitarra sembra bucare letteralmente le casse, pennellando una melodia spettacolare?

"Emanation Of Hatred", ripeto, è un disco formalmente perfetto, ed emotivamente pregno. Non c'è una nota fuori posto, non c'è un calo di attenzione, nemmeno quando il disco sta arrivando ormai alla conclusione. Seguendo la lezione di chi li ha preceduti, i Revelations Of Rain sono riusciti a maturare e a raggiungere un livello invidiabile all'interno del loro genere, risultando essere personali e convincenti. Disco curatissimo e di indubbia qualità: procurarselo è un imperativo se si apprezza il genere.

01 - Time (7:42)
02 - Our Cathedral (7:09)
03 - Antithesis Of Life (8:30)
04 - Salvia Divinorum (4:25)
05 - Hidden (8:26)
06 - Mortido (4:25)
07 - In Expectation Of Awakening (8:47)