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mercoledì 30 maggio 2012

Drudkh - "Handful Of Stars"

Season Of Mist, 2010
Dopo la pubblicazione dell'intenso ed esaltante "Microcosmos", una vera ventata di aria fresca per chi dava i Drudkh spacciati dopo i contestati "Anti - Urban" ed "Estrangement", ecco che arriva il nono album in studio, puntuale come un orologio e prodotto sempre dalla Season Of Mist, a rimescolare ancora una volta le carte in tavola e a mostrare un volto differente della band ucraina, un terreno che ancora non era stato battuto. Ciò non ha ovviamente mancato di procurare al gruppo diverse critiche, ma come al solito i fan si sono divisi in due gruppi: chi apprezza il nuovo corso della band nonostante tutto, e chi invece lo ripudia andando a rimpiangere i primi, stupendi lavori degli ucraini. Da che parte stare, vi chiederete voi?

C'è da dire che, una volta terminata la breve introduzione pianistica, un brano come "Downfall Of The Epoch" lascia perlomeno perplesso chi era abituato ad ascoltare i Drudkh di "Forgotten Legends". Il suono si è abbondantemente ripulito, la produzione è diventata cristallina e quasi patinata, le sonorità hanno abbandonato quasi del tutto i terreni atmospheric - pagan black e si sono orientate decisamente più verso il post - rock, e perfino verso un certo tipo di doom, quello che per intenderci ha reso famosi i Katatonia. Impossibile non trovare similitudini con dischi come "Dance Of December Souls" e "Brave Murder Day", partendo dall'uso delle chitarre per arrivare alle ritmiche altamente ripetitive e quasi ipnotiche, nè veloci nè lente, senza tralasciare ovviamente l'uso di atmosfere un po' depresse e sicuramente più tranquille rispetto alle oniriche e burrascose composizioni degli esordi. Perfino la voce, che prima era un aspro scream che si incastrava tra gli strumenti in modo grezzo e approssimativo (e per questo tremendamente efficace), ora è diventata più preponderante e protagonista della scena, quasi come se volesse scavalcare gli strumenti, e ha perso un po' della sua carica selvaggia, acquisendo maggiore controllo e impostazione (per quanto sempre di scream si tratti). Le composizioni sono molto più lineari e quadrate, il riffing si è ulteriormente semplificato ed è difficile che rimanga qualcosa impresso nella mente, data l'omogeneità del tutto; potremmo quasi dire che il sound si è banalizzato, ma ciò è vero solo in parte.

"Handful Of Stars", infatti, nonostante la sua estrema semplicità e il suo abbandono verso le sonorità più ruvide ed evocative, non è per niente un brutto disco. Non mi faccio remore a dire che sicuramente è il prodotto meno interessante della discografia della band, escludendo ovviamente lo scialbo EP "Anti - Urban"; eppure, le capacità del gruppo ormai consolidate fanno sì che anche un disco non particolarmente ispirato come questo risulti piacevole e ben costruito. Sicuramente i brani sono un po' troppo uguali a sè stessi e anche tra di loro, nonostante nella seconda metà del disco vi sia un parziale ritorno alle origini (nel senso che compaiono sonorità leggermente più aggressive sia dal punto di vista vocale sia strumentale); è vero anche che qui il gruppo pesca abbondantemente dai Katatonia e da molte altre band venute almeno un decennio prima; ed è vero che non si sente più molto il legame con la natura e con le forze nascoste del cosmo, insomma quello spirito panteistico che ha sempre caratterizzato la musica della band. Ma qualcosa rimane sempre, un qualcosa che sotto sotto emoziona e coinvolge: una sottile malinconia, una pacata rassegnazione che tuttavia cela una venatura di rabbia, una gentile rivisitazione dei propri stati d'animo che si esprime attraverso cavalcate strumentali di pregevole fattura (prendete per esempio "Towards The Light", con i suoi interessanti chiaroscuri). Forse il tentativo di variare il sound è stato sfruttato male, nel senso che si poteva fare di più per rendere il disco maggiormente dinamico e variato; ma ripeto, non riesco a considerarlo un brutto album. Forse è semplicemente un'occasione mancata, un disco che avrebbe potuto essere molto di più e invece si ritrova ad essere solo un discreto esperimento, piacevole ma non memorabile.

"Handful Of Stars" è un disco che formalmente non ha nulla di sbagliato: in certi momenti riesce ad essere emozionante e a far viaggiare l'immaginazione, anche se ormai i tempi d'oro della band sono lontani e i primi dischi sono storia. Risente forse di un'eccessiva artificiosità della produzione, di strutture un po' trite e ritrite e di una certa staticità compositiva, ma tutto sommato si lascia ascoltare. Un piacevole accompagnamento per un viaggio in macchina, o per un momento di tranquilla meditazione sdraiati sul letto; non aspettatevi che immagini poderose vengano alla vostra mente, ma aspettatevi comunque quaranta minuti di onesta musica. Per i fan del gruppo, non mi sento di esprimere alcun parere: decideranno loro se considerare "Handful Of Stars" come una piacevole variazione sul tema oppure come una sbandata evitabile. Per quanto mi riguarda, scelgo la prima ipotesi.

01 - Cold Landscapes (1:14)
02 - Downfall Of The Epoch (12:10)
03 - Towards The Light (9:18)
04 - Twilight Aureola (9:00)
05 - The Day Will Come (9:06)
06 - Listening To The Silence (1:04)

Agalloch - "Whitedivisiongrey"

Dammerung Arts, 2011
Per la gioia degli Agalloch- fan che si sono persi le edizioni notoriamente limitate dei due EP "The Grey" e "The White", ci pensa questa nuova compilation ad aumentare il numero di release originali che contengono la musica tratta da quei due dischetti ormai così introvabili, il cui prezzo continua inesorabilmente ad aumentare a causa dell'elevato valore collezionistico che possiedono all'interno della scena metal.

In questa doppia release, anch'essa in edizione limitata e disponibile sia in vinile sia in CD (nel qual caso si presenta con una copertina diversa), gli Agalloch ci ripropongono tale e quale il materiale dei due dischi sopracitati, aggiungendoci anche alcune bonus track pensate per riempire gli spazi vuoti e arricchire la compilation con del materiale inedito. Nello specifico, il disco che ospita "The White" vede come traccia conclusiva un prolungato e originale remix della canzone "Haunting Birds", ma non sono gli Agalloch a riproporla, bensì i Nest (gruppo che ha collaborato con gli Agalloch per la realizzazione di un carinissimo e anch'esso introvabile split album su vinile). Nel disco che ospita "The Grey", invece, le bonus track sono tre remix molto atipici e ricchi di elettronica, giusto per alimentare un po' la vena creativo - sperimentale che ai tempi aveva guidato il songwriting dei due EP (non a caso, erano stati proposti in edizione limitata proprio perchè dovevano rimanere degli esperimenti circoscritti, e non un nuovo modus operandi del gruppo). Tra le bonus track, a dire il vero, non c'è niente di particolarmente interessante o memorabile, esse rappresentano solo un piccolo valore aggiunto che potrà essere accolto unicamente come curiosità, ma che ha solo la funzione di allungare un po' il brodo. Quasi quasi avrei preferito una riedizione dei due dischi in versione immodificata, o perlomeno che il disco con "The White" fosse costituito unicamente dai pezzi di "The White"; ma si sa, la perfezione non è di questo mondo.

Dedicato unicamente ai più strenui fan del gruppo, "Whitedivisiongrey" rappresenta un'ancora di salvezza per chi credeva ormai impossibile entrare in possesso delle delicate sonorità acustiche di "The White" e delle ipnotiche suggestioni di "The Grey" senza sborsare cifre assurde. C'è da dire però che non ci sono nemmeno molte copie di "Whitedivisiongrey" in giro, per cui già ora potrebbe essere troppo tardi...chi è interessato si affretti!

01 - The Isle of Summer (03:58)
02 - Birch Black (02:40)
03 - Hollow Stone    (04:15)    
04 - Pantheist (07:17)    
05 - Birch White (03:44)    
06 - Sowilo Rune (05:40)     
07 - Summerisle - Reprise (04:55)      
08 - Haunted Birds (cover-song by Nest) (10:06)    
09 - The Lodge (Dismantled) (13:12)    
10 - Odal (Nothing Remix) (07:47)      
11 - Nur.Noch.Asche (Allerseelen Shadow Remix) (04:24)
12 - Dunkelgrauestille (Allerseelen Pale Companion Remix)     (04:43)    
13 - A Desolation Song (TWC Aleutian Mix) (12:41)

martedì 29 maggio 2012

Drudkh - "Slavonic Chronicles"

Season Of Mist, 2010
Quando sono andato a curiosare nella discografia dei Drudkh, consultando i siti specializzati come la bibbia Metal Archives, oltre agli album ufficiali mi è capitato che mi cascasse l'occhio anche su questo EP, rilasciato su vinile e anche su CD come parte dell'edizione limitata dell'album "Handful Of Stars", uscito poco prima. Dopo aver valutato velocemente il contenuto, mi sono detto: "Mah, un disco con soli due brani, e per giunta due cover...niente di interessante". Niente di più sbagliato: dopo averlo ascoltato ho cambiato completamente idea.

Non conosco le band che hanno concepito questi brani, così come non conosco le versioni originali dei medesimi: conosco solo la stupenda reinterpretazione che ne hanno fatto i Drudkh, e conosco bene il brivido dell'emozione che si sente sulla pelle quando si ascolta una canzone suonata col cuore, e non solo con gli strumenti musicali. L'iniziale e lunga "Tam Gdzie Gaśnie Dzień...", cover dei Sacrilegium, potrebbe essere uno dei più bei brani di black metal che io abbia mai ascoltato: non gli manca assolutamente nulla per essere considerato un classico. Potenza, velocità, ritmiche convincenti e trascinanti, sprazzi melodici puliti e sognanti dove compare anche un flauto tradizionale, superbi fraseggi di chitarra che insistono nel dilaniarci l'anima, solenni cori in pulito, disperazione e sconforto trasmessi egregiamente dallo screaming di un cantante che conosce il fatto suo e ha ormai acquisito una padronanza eccellente dei propri mezzi. Ottima anche la capacità del gruppo di riadattare nel proprio stile ciò che appartiene ad altri musicisti; se non avessi saputo che questa è una cover, molto probabilmente l'avrei considerata un brano dei Drudkh a tutti gli effetti. Inconfondibli sono infatti le chitarre "a fiume continuo", le stratificazioni sonore ronzanti e sporche (ma paradossalmente valorizzate da una produzione eccellente e pulita), così come è inconfondibile quell'aura malinconico / depressa e perfino vagamente sciamanica, che tutti i loro fan conoscono bene. Ma le sorprese non finiscono al primo brano: la successiva "Indiánská Píseň Hrůzy", cover dei Master's Hammer, ci sorprende ancora di più con sonorità rallentate, dal piglio incattivito e carico di tensione, pronto ad esplodere ad opera di una voce ancora una volta spettacolare nella sua intensa drammaticità. Solo nel finale la tensione si stemperà un po', grazie ad un assolo celebrativo e al tempo stesso carico di dolore e sofferenza, un vero epitaffio che chiude questo breve ma intenso dischetto nel migliore dei modi.

Dura solo sedici minuti, non contiene nemmeno un brano inedito e potrebbe tranquillamente essere tacciato di inutilità: eppure mi tiene lì, con l'orecchio incollato alle casse o all'auricolare. Sarà un caso?

01 - Tam Gdzie Gaśnie Dzień... (Sacrilegium cover) (10:48)
02 - Indiánská Píseň Hrůzy (Master's Hammer cover) (5:17)

Häive - "Mieli Maassa"

Northern Silence Productions, 2007
Ho acquistato questo album dal sito della Solitude Productions, poichè incuriosito dalla descrizione che ne veniva proposta: sembrava fosse un disco di puro folk finlandese, un po' sulla falsariga di quello stupendo "Kauan" dei Tenhi, un disco capace di farti sognare ad occhi aperti. E così l'ho aggiunto al carrello delle spesa, incoraggiato anche dalla splendida copertina che raffigura una barca in secca sulla riva di un lago finlandese, completamente circondato dalle conifere che in quelle terre regnano sovrane. L'attesa era gioiosa: ero sicuro che mi sarebbe arrivato un disco speciale. E così è stato, anche se non esattamente nella maniera che credevo io.

Quando il disco mi è arrivato a casa e ho fatto partire la prima traccia, mi sono detto: che bei suoni, che bell'atmosfera! Anche se si tratta di tre note in croce, il kantele finlandese è sufficiente a ricreare una magia, di quelle che ti si stampano in testa e soprattutto ti si stampano nel cuore. Ma è stata ancora più grande la sorpresa ascoltando la seconda traccia "Virvatuli": accidenti, questo non è affatto un disco di solo folk! Compaiono invece chitarre ruvide e spesse, uno screaming ispido e carico di espressività, melodie struggenti ed evocative...insomma tutto ciò che si chiederebbe ad un buon disco di black metal atmosferico, che incorpora in sè le ormai diffuse influenze folkloristiche. Che ne dite, tutto ciò sa di già sentito? Può darsi, ma non è assolutamente importante. Quel che conta è che "Mieli Maassa" è un disco che non si fa pregare per mostrare le sue potenzialità e la sua forza espressiva, preferendo sbattercele in faccia fin da subito, con pochi preamboli e pochi fronzoli. L'unico componente e polistrumentista Varjoselu si destreggia perfettamente tra gli strumenti tradizionalmente metal e gli strumenti legati alla sua terra, incastrandoli in modo che nessuno dei due possa nettamente predominare sull'altro, e rendendo così onore al concetto di "contaminazione", che ultimamente sta spopolando nel mondo black metal. Melodie passionali e sempre melanconiche ci avvolgono dall'inizio alla fine del disco senza mai lasciare momenti morti, complice anche la relativa brevità del disco stesso; la musica presenta un'ottima omogeneità e le sue evoluzioni sono spontanee, mai forzose, sempre eleganti e raffinate. Raramente i ritmi sono veloci, più spesso si viaggia sui mid tempo: in certi tratti pare quasi di ascoltare doom metal, con la differenza che non c'è quell'alone spiccatamente depressivo e decadente che alberga in quel genere. Immergersi nel fiume di "Mieli Maassa" è invece un'esperienza piacevole, un viaggio che ci avvicina all'essenza della natura, quell'essenza che ogni musicista black ricerca nelle sue note e nelle sue atmosfere, perchè suonare questa musica non vuol dire altro che mettere a nudo la nostra faccia più primordiale, intima, istintiva. In questo disco troviamo infatti musica istintiva, melodie discretamente elaborate ma contemporaneamente molto spontanee e mai artificiose, attimi di beatitudine acustica che vengono spazzati via da sezioni più potenti e rocciose, venute a ricordarci che la natura non è solo bellezza e tranquillità, ma è anche e soprattutto severità e indomita irrequietezza. Ecco che dunque, ascoltando i possenti riff e le malinconiche cavalcate di chitarra e arpa riusciamo a vedere di tanto in tanto le canne che oscillano al vento sulla riva di un lago; o sentiamo il vento che si insinua nel bosco e produce il suo ammaliante suono; o ancora percepiamo il gelido abbraccio della neve, che ricopre il paesaggio con la sua candida coltre anestetizzante. Come ogni gruppo atmospheric black che si rispetti, gli Häive non hanno alcun problema nel tradurre in immagini la loro musica, ed è sufficiente che l'ascoltatore abbia un minimo di sensibilità per far sì che "Mieli Maassa" diventi quasi un'esperienza catartica, spiccatamente intimista.

Può darsi che non siano particolarmente originali, e nemmeno troppo ricercati a livello tecnico; può darsi che i brani non siano mostri di complessità; può darsi che "Mieli Maassa" non sia un disco imprescindibile. Ma come ho detto prima, chissenefrega. Ascoltare questa musica è come essere rapiti da uno spiritello del bosco, che ci conduce a scoprire i segreti del mondo in cui vive, quel bosco apparentemente immobile ma che in realtà brulica di vita. Un disco che esige di essere ascoltato in perfetto silenzio, con uno stato d'animo che tende alla contemplazione: non adatto per chi nella musica ricerca l'immediatezza e la potenza diretta. In ogni caso un ottimo lavoro, vibrante e ottimamente costruito: non posso fare altro che consigliarne l'acquisto. A volte, i fraintendimenti possono portare a delle gran belle sorprese...

01 - I Raina (1:07)
02 - II Raina: Virvatuli (Metsänpeittoon) (6:30)
03 - III Raina: Metsäläinen (6:38)
04 - IV Raina: Yömyrsky (6:37)
05 - V Raina: Takaisin Koskemattomaan Metsään (8:23)
06 - VI Raina: Kurjat Kurjet (10:46)

Drudkh - "Anti-Urban"

Supernaul Music, 2007
Dopo la pubblicazione dell'atipico esperimento "Songs Of Grief And Solitude", che abbandonava il black metal ruvido e atmosferico degli esordi per dedicarsi unicamente al folk acustico (e che per questo motivo si attirava diverse critiche, a mio giudizio ingiuste), gli ucraini Drudkh ritornano alle loro consuete sonorità pubblicando questo mini - vinile in edizione limitata a 999 copie, contenente solo una traccia per lato, per una durata complessiva di tredici minuti e mezzo. Scopo ufficiale di questa release è preparare il terreno per l'uscita del successivo full length "Estrangement" (disco che riceverà altre critiche ingiuste, sempre secondo la mia visione delle cose), ma c'è da dire che obiettivamente il materiale qui proposto non è molto interessante, facendo sì che questo dischetto si configuri unicamente come pezzo per collezionisti e fan sfegatati del combo ucraino. Non che sia un disco particolarmente brutto, ma semplicemente siamo abituati a sentire i Drudkh suonare qualcosa di molto più ispirato e corposo delle due tracce che ci vengono qui proposte. Potrei quasi dire che si tratta di una release inutile, se non fosse che stimo troppo i Drudkh per usare un termine così perentorio nei loro confronti. Mettendo però da parte la componente personale, obiettivamente sì, si tratta di un dischetto piuttosto inutile, nonostante il tentativo sperimentale di contaminare la vena atmospheric black con qualche elemento doomeggiante. Idea buona, ma realizzazione piuttosto carente, come raffazzonata: sembra quasi che la band si sia lasciata prendere dalla fretta.

L'opener strumentale "Fallen Into Oblivion" sposa perfettamente il suo titolo con la musica, trattandosi di una lenta cantilena di sette minuti assolutamente deprimente, che si trascina stancamente in un'atmosfera sconsolata e priva di sbocchi. Il riffing è insistente e lamentoso, il ritmo sembra sempre sul punto di crollare, e ben poche variazioni ci aspettano lungo il corso del brano, fino a quando esso improvvisamente sfuma nel nulla, lasciandoci una netta sensazione di amaro in bocca. Girando il disco ci pensa però "Ashes" a risollevare parzialmente le sorti di "Anti-Urban", grazie ad un ritmo più veloce e alla presenza di parti cantate, non molto convincenti a dire il vero, ma perlomeno qui si respira un'aria più dinamica e meno mortifera rispetto a prima. Rimane il fatto che la musica è sempre piuttosto ripetitiva e, alla lunga non comunica granché, se non la solita malinconia depressiva e ombrosa made in Drudkh, caratteristica che comunque traspare e si fa sentire anche nei loro brani meno ispirati, come questi.

Non mi sento di valutare "Anti-Urban" in modo completamente negativo, ma di certo esso rimarrà una semplice curiosità nella discografia dei Drudkh, che è troppo vasta e troppo ricca di begli album per lasciare spazio ad un isolato esperimento come questo. Se vi sforzate, potreste trovarlo vagamente interessante, forse proprio in virtù del suo voler tentare qualche strada nuova, o perlomeno non troppo simile alle precedenti. Alla pari di ciò che fu "The Grey" per gli Agalloch, la tiratura limitata e la velleità sperimentale possono essere gli unici elementi che impediscono ad "Anti-Urban" di essere considerato un fallimento totale. Prendetelo per quello che è, in ogni caso, e se per caso è il primo disco dei Drudkh che ascoltate, sappiate che non avete ancora sentito niente delle meraviglie che questa band è in grado di creare.

01 - Fallen Into Oblivion (6:55)
02 - Ashes (6:20)

domenica 27 maggio 2012

Drudkh - "Microcosmos"

Season Of Mist, 2009
Conoscete già i Drudkh? Allora probabilmente sarete a conoscenza del fatto che questa band ha pubblicato dischi a ritmi molto sostenuti, e soprattutto ha pubblicato dischi sempre degni e sempre dotati di quella carica d'ispirazione che li rendeva intensi e mai banali (anche nel caso di esperimenti come il contestato eppure splendido "Songs Of Grief And Solitude"). Qualcuno, tuttavia, nel 2007 si chiese cos'avesse combinato la band con la pubblicazione dell'altrettanto contestato "Estrangement", disco che a mio parere non aveva e non ha tuttora alcuna pecca, se non forse il fatto di essere uscito dopo album spettacolari come "Forgotten Legends" o "Blood In Our Wells". Sta di fatto che quel disco non venne molto apprezzato: e quando all'alba del 2009 uscì questo "Microcosmos", il pubblico si divise tra accaniti sostenitori e detrattori, convinti che ormai il gruppo ucraino avesse imboccato la strada del declino inesorabile. Ma in questo caso "Microcosmos" fu un vero e proprio album di svolta, una prova del nove che spazzò via ogni dubbio: i grandi Drudkh erano tornati alla ribalta con un disco che non ha nulla da invidiare ai suoi illustri predecessori, e si impone come caposaldo della loro nutrita discografia.

Compatto e potente come una valanga inarrestabile, "Microcosmos" assalta i sensi e gli animi degli ascoltatori con brani che avvolgono in un turbinio di suoni rotondi e corposi, riccamente stratificati e resi magnificamente da una produzione eccelsa per quelli che sono i canoni del genere. Il consueto black metal atmosferico di stampo pagano si è evoluto verso una concezione unitaria, totalizzante, con quella stessa monoliticità che fu propria del fulminante esordio "Forgotten Legends"; i brani sono strettamente legati gli uni agli altri e scorrono con una coerenza invidiabile, nonchè con una potenza sonora e una crudezza spietata, perfettamente atta a simboleggiare la ferocia della natura. Ci sono riusciti tante volte, a ricreare scenari naturali e forze arcane nei loro dischi: ma "Microcosmos" non è una mera riproposizione di quanto già detto, seppur lo stile sia sempre e inequivocabilmente quello dei Drudkh. Perchè dico questo? Semplicemente perchè i riff, se vogliamo, sono ancora più intensi e ficcanti, quasi come se parlassero direttamente al cuore; le atmosfere sono gelide e tumultuose più che mai, sostenute da ritmiche che sanno sempre come valorizzare al massimo i brani; la malinconia del vivere raggiunge vette eccellenti di espressione; la sensazione di desolata rassegnazione che si prova ascoltando ogni loro album si presenta con ancora più forza del solito. Le chitarre sono roboanti (tranne quando intervengono i consueti e delicatissimi assoli), il basso è uno schiacciasassi, la batteria è sfruttata magnificamente, la voce è come al solito un lamento pieno di dolore e rammarico inconsolabile. Eccellenza allo stato puro.

Il primo e l'ultimo brano fanno parte della tradizione musicale ucraina (così come i testi, che come al solito sono tratti dalle opere dei maggiori poeti nazionali), mentre i quattro brani centrali si danno battaglia spietatamente per chi riesce a risultare più emozionante e vibrante, con un probabile vincitore che risponde al nome di "Ars Poetica", eccezionale esempio della potenza devastante che può raggiungere il black metal quando è suonato con passione, sia in fatto di sonorità sia in fatto di espressività. Impossibile, tuttavia, scindere il disco in aspetti propriamente distinti: come ho già accennato prima, si tratta di una valanga che procede con innaturale lentezza e ci ingloba altrettanto lentamente in una morsa di gelo e malinconia, senza lasciarci più uscire se non nel momento in cui il disco termina. Ma non sarà difficile provare queste sensazioni sulla pelle anche dopo che il disco è terminato. 

Per concludere, siamo davanti ad un disco squisitamente Drudkh, che forse non è particolarmente innovativo rispetto a quello che la band ha già suonato, ma è semplicemente un altro, stupendo album che questi musicisti ci regalano. "Microcosmos" rappresenta una conferma definitiva per i fan storici, i quali probabilmente lo adoreranno senza vie di mezzo; per chi invece non si è ancora avvicinato alle affascinanti sonorità di questa band (ed è ora di cominciare), potrà rappresentare una degna summa di tutto ciò che la band è capace di fare, confezionata in quello che probabilmente è uno dei loro migliori lavori di sempre. Non avvicinatevi a questo disco pensando di trovare musica facile: "Microcosmos" è uno di quei dischi che scavano dentro, portando alla luce tutte le nostre sensazioni più primordiali e nascoste. Da parte mia, è proprio per questo che amo particolarmente questa stupenda band. E voi?

01 - Days That Passed (1:07)
02 - Distant Cries Of Cranes (9:37)
03 - Decadence (10:33)
04 - Ars Poetica (9:48)
05 - Everything Unsaid Before (9:33)
06 - Widow's Grief (1:08)

venerdì 25 maggio 2012

Sidhe - "She Is A Witch"

Autoprodotto, 2012
Citando direttamente dalla biografia della band: "I Sidhe nascono per volontà di Rob (chitarrista Longobardeath ed ex Vexed, AleaJacta, My last keen), e della sua compagna Tytanja alla voce. Sidhe, in gaelico, significa “popolo delle colline” o “popolo fatato”, un nome scelto per presentare la band nel contesto appropriato, un mondo fatto di fate, folletti, creature della mitologia nordica e celtica, ma soprattutto un mondo di streghe. Da diversi anni, Rob e Tytanja abbracciano la fede Wicca e le pratiche Neo-Pagane, decidono quindi di unire il loro credo alla passione per la musica."

Una band di esaltati che mettono l'immagine davanti a tutto? Non proprio: "She Is A Witch" è un gradevole album di esordio, autoprodotto e quindi libero di esprimere la propria essenza senza condizionamenti esterni. Mischiando il gothic rock e le atmosfere doom di mostri sacri come i Candlemass, il risultato è una carrellata di otto brani che hanno come principale attrice la semilirica voce di Tytanja, a dire il vero piuttosto particolare: una di quelle voci che si apprezzano o si detestano, per via della sua spiccata teatralità e per l'andamento un po' cantilenante, sicuramente molto personale. Gli strumenti spesso si limitano ad accompagnare l'interpretazione vocale, tramite l'uso di un sound abbastanza secco e acido, piacevolmente granitico anche se talvolta un po' troppo spostato verso i toni acuti, sacrificando i bassi (ma questo sicuramente è dovuto all'autoproduzione amatoriale, non alla volontà della band). Come ho già detto prima, i Candlemass emergono come potente influenza lungo tutte le otto tracce del disco, ma i Sidhe riescono in qualche modo a mantenere una loro personalità, tramite appunto queste scelte vocali che a tratti ricordano perfino la celebre Sister dei White Skull: una voce femminile un po' roca, dalla timbrica vagamente maschile, possente, versatile ed espressiva. Il resto lo fanno le atmosfere costantemente decadenti, i ritmi cadenzati e le potenti pennate di chitarra, a tratti capace di rendersi squisitamente melodica e perfino ariosa, come nella catchy opener "The Wheel Of The Year", ottima summa del sound del gruppo (in certi punti, specialmente nel refrain, mi ha ricordato i maestri Evergrey!). Tutto ciò è al servizio di pezzi che sanno anche spingersi abbastanza in là con i minutaggi, senza per questo diventare noiosi. Non c'è bisogno di ricordare l'estrema importanza che hanno in questo caso le tematiche, i testi e l'attitudine generale della band; per chi si interessa di esoterismo e paganesimo, questo album non mancherà di suggerire immagini di rituali magici e sacrileghe riunioni di streghe. Notevoli le due tracce cantate in italiano, vale a dire "L'Incantesimo" e "Il Vangelo Di Aradia": l'uso della nostra lingua madre conferisce un ulteriore tocco di espressività e di classe ad un lavoro che già da questo punto di vista se la cava piuttosto bene.

Insomma, un buon lavoro: non è certamente un mostro di originalità, ma si lascia ascoltare più che volentieri. Piacerà sicuramente a chi mastica il gothic dalla mattina alla sera, specialmente se a quel gothic aggiunge anche una spruzzata di buon vecchio doom classico.

01 - The Wheel Of The Year (7:24)
02 - Goddess Song (5:26)
03 - L'Incantesimo (5:52)
04 - She Is A Witch (6:09)
05 - Il Vangelo Di Aradia (7:21)
06 - In The Twilight (6:00)
07 - Witchcraft Way (5:44)
08 - Superstition (5:37)

giovedì 24 maggio 2012

Oranssi Pazuzu - "Kosmonument"

Spinefarm Records, 2011
Fin dalla prima volta che ho ascoltato ed apprezzato Kosmonument ho avuto un vago sentore che ci fosse qualcosa che non funzionava del tutto; ma andiamo per ordine. Kosmonument è il tanto atteso secondo album degli Oranssi Pazuzu, band finlandese che aveva esordito con un botto gigantesco nel 2009 grazie al capolavoro Muukalainen Puhuu. La forte tendenza psichedelica e la passione per tematiche cosmonautiche: entrambi questi aspetti sembrano essere il rinnovato filo conduttore dell’opera di questi rivoluzionari musicisti che dopo appena due dischi sono già riusciti a costruirsi un’immagine precisa e venerabile. Gli Oranssi Pazuzu hanno preso il Black Metal, l'hanno scuoiato e ne hanno utilizzato le pelli per racchiudervi la psichedelia degli anni '70 - e, per la verità, di Black non è rimasto nulla se non lo scream e qualche raro blastbeat. Il risultato è una musica intensa ma mediamente placida, abbastanza semplice da ascoltare nonostante la sua estrema ricercatezza, immediatamente riconoscibile: in altre parole, un risultato geniale.

Questa genialità gli Oranssi Pazuzu non l'hanno certo persa per strada: tanti sono gli highlights in questa loro nuova fatica, a partire dalle dinamiche Komeetta e Uusi Olento Nousee per arrivare a quelli che ritengo i brani migliori: l'ipnotica Andromeda, quasi rilassante con le sue melodie lente e ruvide, e Loputon Tuntematon, coi suoi riff travolgenti. Tutto in questo disco è curatissimo: lo stupendo sound primo su tutto, unico nel suo genere, sound che mi suggerisce un ipotetico Blackened Sludge/Stoner. Ma questa cura strepitosa, questa grande attenzione per i dettagli, non si palesa solo a livello musicale, e ne è un esempio il bellissimo artwork. Sembra che gli Oranssi Pazuzu abbiano pensato proprio a tutto.

Ma se Kosmonument è così bello, curato e geniale, cos'era quel sentore del quale blateravo quando ho esordito con queste righe? Ci ho messo un po' a capire di cosa si trattava, ma alla fine ne sono venuto a capo: quasi tutti i brani dell'album sono, al loro interno, estremamente ripetitivi. Il che non vuol dire che il disco in sé sia ripetitivo, anche perché semmai è l'esatto opposto: i brani sono diversissimi tra loro, ognuno brilla di luce propria ed è immediatamente riconoscibile. Ma, se preso singolarmente, il brano tipo di Kosmonument si snoda sul paio di riff in croce su cui è costruito, i quali vengono riproposti ad infinitum fino - e talvolta oltre - la nausea. Questo piccolo baco, che in condizioni normali sarebbe un enorme insanabile difetto, in realtà in queste circostanze passa abbastanza inosservato grazie al grande lavoro di noise ed "effetti speciali" che va ad intessere una fitta trama di pregevole fattura. In effetti la musica degli Oranssi Pazuzu fa grande leva sulle atmosfere, e forse è proprio per accentuarle ulteriormente che la band ha optato per innestarle su basi semplici e ripetitive. Il disco suona così come un crogiolo di ottime idee e di trame geniali, intrappolate però in una piattezza troppo statica. In sintesi, Kosmonument presenta una generale regressione dell'abilità compositiva in confronto a Muukalainen Puhuu.

A conti fatti Kosmonument è un gran bel disco, ma a mia detta inferiore al suo predecessore Muukalainen Puhuu, il quale è molto più frizzante e geniale, praticamente privo di pecche. Gli Oranssi Pazuzu confermano di avere delle idee chiare e continuano per la loro strada, quella strada che li ha portati in breve tempo ad un gran successo di critica e pubblico. Il piccolo peccato è che stavolta lo hanno fatto con composizioni alle quali manca un po' di pepe, troppo statiche per riuscire a valorizzare al meglio tutto l'universo musicale che racchiudono.

01 - Sienipilvi (05:57)
02 - Komeetta (06:34)
03 - Uusi Olento Nousee (05:21)
04 - Luhistuva aikahäkki (06:23)
05 - Maavaltimo (05:42)
06 - Siirtorata 100 10100 (04:08)
07 - Andromeda (08:57)
08 - Loputon Tuntematon (05:50)
09 - Kaaos Hallitsee (08:24)
10 - ∞ (08:57)

domenica 13 maggio 2012

Wodensthrone - "Curse"

Candlelight, 2012
Ci avevano già esaltato con l'eccellente debutto "Loss", un concentrato di black metal di stampo epico e roboante che non temeva confronti, pur essendo piuttosto derivativo; li ritroviamo adesso con "Curse", scoprendo che non solo non hanno perso un millesimo della loro bravura, ma sono addirittura un pochino migliorati.

I britannici Wodensthrone non saranno forse la band più originale del pianeta, e nemmeno la più innovativa; le loro sonorità sono state già ampiamente esplorate dai gruppi mainstream, e ciò che ci propongono non è niente di trascendentale. Anche all'interno della loro finora giovane discografia, non si può dire che il gruppo sia mai cambiato di molto; "Curse", infatti, non si discosta quasi per nulla dalle sonorità del precedente "Loss". Ma non è questo il punto. Il punto è che i Wodensthrone sono bravi, eccome se sono bravi, e pur non presentando nulla di nuovo, confezionano la loro musica così bene che non si può non rimanere di stucco e dire "diamine, questa è una band che ci sa fare davvero". Il segreto è tutto qui. Un minimo di personalità necessaria per non sembrare dei completi cloni dei Wolves In The Throne Room o dei Primordial, e per il resto tanta violenza sonora, tante melodie epocali e commoventi, tanti arrangiamenti che ci fanno sentire nel mezzo di un campo di battaglia sterminato, in cui il vento ci investe con ferocia; insomma, tanta passione e tanto sentimento "mitologico" e combattivo. Sembrano frasi fatte, lo so: ma per quanto possano essere trite e ritrite, non mi viene in mente nulla di diverso per descrivere la musica del quintetto. Non voglio annoiarvi descrivendo nei particolari ogni traccia, anche perchè sarebbe piuttosto inutile: così come accadeva in "Loss", i brani tendono a formare una continuità indissolubile e sono piuttosto simili gli uni agli altri. Anzi, sono più simili ancora, perchè stavolta manca l'intermezzo acustico (che fu "Pillar Of The Sun") a spezzare un po' la travolgente carica dei brani. Via libera dunque a brani in cui il pedale dell'acceleratore è spinto a fondo corsa, mantenendo quasi sempre ritmi veloci e potenti, mentre un muro di chitarre e una voce lacerante ci investono con fraseggi affascinanti e momenti schiacciasassi. Per rendervi conto della potenza che il gruppo è in grado di sprigionare, ascoltate la violentissima opener "Jormungandr": il tremendo riff iniziale non può che rappresentare le spasmodiche contorsioni del vermone mitologico che ormai è cresciuto così tanto da circondare l'intera Terra, e che adesso sta agitando la sua orribile testa fuori dall'acqua, facendola ribollire e spumeggiare. L'associazione tra musica e immagini è praticamente perfetta.

Stilisticamente, "Curse" è un disco che prosegue con coerenza il discorso musicale già iniziato in precedenza, fin dalla pubblicazione dei primi split: ma esso non si limita a vivere di rendita, bensì ci regala dei nuovi pezzi veramente formidabili e spettacolari. Prendete una "First Light", drammatica e sontuosa epopea costruita su riff che si fanno ricordare a lungo; oppure una "Battlelines", cavalcata poderosa e ricchissima di atmosfera plumbea, che si contrappone a splendide e solari orchestrazioni; o una "The Name Of The Wind", eccezionale e magnifica chiusura di 13 minuti, che tocca livelli di epicità mai sentiti prima grazie soprattutto ad una prestazione vocale memorabile e ad un testo che più poetico non potrebbe essere. Su quest'ultimo brano mi sento di dover spendere ancora qualche parola: è dannatamente perfetto, cominciando dall'introduzione in sordina che piano piano prende forma e si trasforma in una cavalcata epica, che poi lascia il posto ad un'accelerazione formidabile, ad un riff strappalacrime e ad un finale estremamente drammatico, dove i brividi lungo la schiena sono pressochè automatici. Brani come questo rendono il disco di per sè meritevole di essere acquistato, specialmente da parte di chi ha apprezzato i precedenti lavori del gruppo. Essi non troveranno nulla di nuovo: la musica è sempre quella, il disco anche in questo caso ha una durata notevole, perfino la disposizione dei pezzi e i singoli minutaggi ricalcano la precedente tracklist: insomma, quasi un disco fotocopia. Che però contiene una carrellata di nuove canzoni una più bella e intensa dell'altra, che quasi mettono in ombra le precedenti composizioni (che già erano splendide). E inoltre i testi sono quanto di più poetico mi sia capitato di leggere ultimamente. C'è bisogno di dire altro?

...and the Gods scream my name...
Scream....my....name....

01 - The Remaining Few (0:39)
02 - Jormungandr (7:00)
03 - First Light (10:58)
04 - The Great Darkness (7:57)
05 - Battlelines (11:23)
06 - Wyrgpu (9:28)
07 - The Storm (5:58)
08 - The Name Of The Wind (13:28)

sabato 12 maggio 2012

Green Carnation - "Journey To The End Of The Night"

Prophecy Productions, 2000
Provate a immaginare: dopo una lunga ed estenuante attesa, avete trovato la donna (o l'uomo) della vostra vita. Sembra tutto perfetto, siete innamoratissimi e state per dare alla luce il vostro primo figlio, il frutto di tutto ciò che avete conquistato insieme alla vostra dolce metà: ma un giorno scoprite, bruscamente e impietosamente, che il vostro bimbo non nascerà mai, perchè la sua vita si è prematuramente interrotta. A questo punto, il mondo vi crolla addosso: tutto assume un colore nero, la depressione dilaga, non sapete più perchè siete al mondo, nè se valga la pena di continuare. E se siete un musicista, forse potreste trarre ispirazione da una simile tragedia per comporre un disco come questo "Journey To The End Of The Night", un epico e memorabile viaggio verso la fine della notte, impenetrabilmente maligna e nera come la pece.

I Green Carnation si formano nei primissimi anni 90, ma a parte una demo in cui suonano un black / grind piuttosto canonico e nemmeno troppo interessante, non producono nient'altro per dieci lunghi anni. Il mastermind Tchort si stacca per andare a suonare in altre band (tutti lo ricordano per essere stato il bassista degli Emperor, ma non solo), mentre i rimanenti membri vanno a formare la band progressive - avantgarde black In The Woods..., che ci regalerà capolavori ineguagliati. Ci vorranno per l'appunto una decina d'anni e lo scioglimento degli In The Woods... per riportare Tchort a suonare con i suoi vecchi amici, riformando i Green Carnation. Allo stesso tempo arriva la tragedia, la morte del figlio neonato, che fornisce a questo disco una potente ragione di esistere: Tchort infatti riversa in questi settanta minuti tutta la nera depressione e la cupezza della sua vita in quel periodo, dando alla luce un disco estremamente complesso, tanto difficile quanto intrigante e sentito.

Mi risulta quasi impossibile definire in poche parole cosa si trovi, a livello musicale, in questo lungo e straziante album. A dispetto di ciò che si potrebbe pensare, non è la pesantezza dei suoni a fare da padrona: parlerei piuttosto di pesantezza delle atmosfere. Non sono le possenti voci growl ad esprimere l'angoscia verso la vita e la morte, ma questo ruolo è affidato ad una voce maschile pulita, molto teatrale e melodrammatica, che si affianca ad altre numerose voci "ospiti", quasi tutte femminili e di stampo lirico - operistico. I brani non sono crudi e diretti, bensì estremamente elaborati e raffinati, squisitamente progressive nelle loro intricate evoluzioni, ma abbastanza cupi da poter rientrare tranquillamente nel doom, intelligentemente venato dal gothic. Ecco, se dovessi etichettare questo disco, direi proprio che si tratta di un "progressive gothic / doom" estremamente personale, caratterizzato da scelte che appaiono indigeribili solo ad un ascoltatore distratto. Non tutti infatti potranno comprendere subito il senso di questi arpeggi insistenti, di queste distorsioni ronzanti e spiccatamente dissonanti, di questo incedere lamentoso e allucinogeno, di questi ritmi inquieti e perennemente nervosi, o di questo leggiadro ma contemporaneamente angoscioso canto femminile, presente in dosi veramente massicce. Ogni brano risucchia l'ascoltatore in un vortice di sentimenti, completamente negativi, e lo imprigiona in una gabbia mentale che non gli lascia pace, nemmeno nei momenti in cui la musica sembra aprirsi a scenari più miti. Sono tutti inganni, qui di positività non ce n'è nemmeno un barlume: quando una tragedia ci colpisce, tutto prende il colore di quella tragedia, anche se possiamo avere dei momenti in cui fingiamo che non sia mai accaduto nulla.

La musica è talmente eterogenea e varia da rischiare di confondere seriamente l'ascoltatore. Essa può passare da momenti quasi thrashy a inquietanti sezioni lente, dalla sfuggente psichedelia pinkfloydiana (il lavoro di tasitere è sempre presente e di eccezionale spessore) alle atmosfere plumbee dei Candlemass e dei Cathedral, dalla grandiosa pomposità della lirica e della musica classica fino ad accelerazioni vertiginose che spingono al massimo la drammaticità, già evidente, dell'opera. Perchè è di opera che si tratta, una vera opera metal come ai tempi fu l'immenso "Tommy" degli Who; un'opera che nel suo sviluppo tocca e incorpora influenze di ogni tipo, per presentarci infine un prodotto estremamente maturo e consapevole dei suoi mezzi espressivi. Brani interminabili e spettacolari come "My Dark Reflections Of Life And Death" e "Under Eternal Stars", vere e proprie sonorizzazioni dei più reconditi e veraci sentimenti umani, sono più di semplici composizioni musicali. Essi raccontano vere e proprie storie di vita, soprattutto attraverso dei testi introspettivi e squisitamente filosofici, lontani anni luce dalla banalità che impera nel mondo moderno. Potrei stare qui per ore a descrivere nei dettagli ogni brano, ma sarebbe un'opera lunga e faticosa, e sicuramente inutile: metterei troppa carne al fuoco e rischierei di confondere chi mi legge: il disco può essere compreso solo ascoltandolo per intero, ma la premessa indispensabile è calarsi nel contesto nel quale il disco è stato concepito; in caso contrario, sarà facile avere l'impressione di ascoltare un lavoro che non ha nè capo nè coda.

Ci vuole passione e impegno per assimilare un lavoro come "Journey To The End Of The Night". Non è un disco concepito per rilassare, o per sollazzare l'ascoltatore: il suo intento è quello di renderci partecipi di una condizione dolorosa, e di farcela vivere il più possibile fedelmente. La musica è, come il cinema, un ottimo mezzo per vivere delle emozioni senza doverle per forza sperimentare in prima persona: e quando dei musicisti riescono in questo intento, qualsiasi tipo di classificazione in generi e sottogeneri perde di senso: rimane solo la consapevolezza che quei musicisti hanno prodotto qualcosa di speciale e irripetibile. In poche parole, questo album bisogna ascoltarlo. Anzi no, non bisogna solo ascoltarlo: bisogna viverlo.

Complimenti, Green Carnation.

01 - Falling Into Darkness (2:33)
02 - In The Realm Of The Midnight Sun (13:42)
03 - My Dark Reflections Of Life And Death (17:50)
04 - Under Eternal Stars (15:31)
05 - Journey To The End Of Night (Part I) (11:28)
06 - Echoes Of Despair (Part II) (2:30)
07 - End Of Journey (Part III) (5:08)
08 - Shattered (Part IV) (1:34)

venerdì 11 maggio 2012

Ukuku - "Esplosione Di Organi Interni"

Autoprodotto, 2012
Esplosione di organi interni: SPLASH!, tutti spiaccicati sul muro, una bella intonacata rosso vermiglio, preludio a quello che si potrebbe credere essere uno scimmiottamento all’italiana del Brutal Death Metal statunitense. Ma non è questo il caso. Gli Ukuku, gruppo di Verona alle prese col suo primo full-length, si presentano infatti con una curiosissima intro caratterizzata da una batteria battagliera e una chitarra che per contro appare rilassata, quasi in stile Southern Rock, quanto basta per far subito rizzare le antenne. Cosa ci aspetta dopo questi trentasei secondi? Cosa diavolo ci è capitato tra le mani?

Risposta: una roba composita e primordiale, inclassificabile nonostante la sua semplicità di fondo. Questa roba di questi veronesi sta a metà tra il Metal estremo e il Metal più classico, senza rientrare in realtà in nessuno dei due. Le sonorità della chitarra sono basse e plumbee, decisamente troppo tetre per poter parlare di Metal classico, eppure così smussate da essere completamente prive della carica esplosiva di generi taglienti come Thrash e Death, escluso qualche brano della seconda metà del disco. E del resto i piacevoli ritmi mid-tempo, sempre molto vari e curati, non fanno nulla per invertire questa tendenza. Scendendo più nel dettaglio, ciò che colpisce subito è la curiosa dualità tra il grezzume paleolitico delle sonorità di voce e strumenti da un lato, e la varietà nei riff, nei ritmi e nello stile canoro dall’altro. Anche l’alternanza tra cantato in inglese ed italiano fa la sua parte. Un’altra caratteristica tanto interessante quanto - purtroppo - rara nel mondo del Metal è poi il fatto di usare una sola chitarra: ciò rende la musica ancora meno aggressiva, sebbene essa non rinunci a suonare sporca e primitiva, e l’effetto svuotamento durante gli assoli è davvero ipnotico, con solo basso e batteria che restano a tesserne la base.

Essenzialmente è questo che ci si trova davanti mentre la musica degli Ukuku scorre, una roba indefinibile ricca di strane particolarità, quasi arcaica. Ma in realtà questa roba è tanta roba! Non so come rendere l’idea di quanto piacevole sia per me ascoltare questo disco, che riesce a sembrare uno scarto del Thrash primitivo anni ’80 e al tempo stesso un rivoluzionario approccio musicale, variopinto e ricco di idee - ditemi voi se questa non è tanta roba! Inoltre i lampi di genio sono numerosi, anche se purtroppo - oppure, vista la particolarità, per fortuna? - effimeri: si guardino ad esempio il breve inserto elettronico di Dimentica Il Mio Nome, la breve Deviating Hate che è interessante dal primo all’ultimo secondo, l’atmosfera desolante e malaticcia di The World We Created, i suoni particolari nel finale di Neri Presagi, la criptica Remembering The Past, più i vari arpeggi e assoli che sono uno più bello dell’altro - non ne troverete nemmeno uno che non sia quantomeno ottimo.

Gli Ukuku sono la dimostrazione di come si possa ancora suonare qualcosa di personale ed ispirato, e soprattutto fresco e vario, senza necessariamente dover impiegare strumenti di ogni genere e scrivere brani complessi, per quanto anche quest’ultima soluzione produca sovente ottimi risultati. Non posso quindi che parlare molto bene di questo disco, nonostante all’apparenza potrebbe inizialmente sembrare più uno sfogo da punkettari mancati che non un lavoro serio. Ma l’abito non fa il monaco, e gli Ukuku hanno dimostrato di avere in testa tante idee valide e, last but non least, di suonare per genuina passione. Tanta roba!

Quando anche l’ultimo fiume si sarà seccato ci accorgeremo che il denaro non si può bere, né mangiare.

Ha ha ha ha ha!


01 - Intro (00:36)
02 - Grey Old Bar (02:38)
03 - Dimentica Il Mio Nome (03:25)
04 - Bloody Gold (04:09)
05 - Hit The Kobold (03:08)
06 - Berserk (05:12)
07 - Deviating Hate (03:03)
08 - Malaria (02:16)
09 - The World We Created (03:50)
10 - Secrets (05:19)
11 - For Those They Die (03:50)
12 - Parabellum (02:30)
13 - Neri Presagi (04:00)
14 - Remembering The Past (03:50)
15 - Black Snow (02:20)
16 - Clowns (03:50)

lunedì 7 maggio 2012

Kathaarsys - "Rara Vez"

Silent Tree Productions, 2012
Un pianoforte ed una chitarra elettrica. Soli. A rompere il ghiaccio è lei, che con le sue danzanti corde seduce lui, il quale non può resistere a lungo a questo infatuante richiamo. E così inizia un emozionante fraseggio fatto di malinconici arpeggi e delicate note, di delicate note e malinconici arpeggi, un drammatico flamenco leggero e suadente che si dimena per i successivi trentatré minuti: questo è Rara Vez, un disco influenzato dal flamenco, suonato solo con pianoforte e chitarra elettrica.

Raramente capita di assistere ad una simile opera musicale, raramente capita una band così vulcanica ed orientata alla sperimentazione come i Kathaarsys, e anche una band simile raramente può concepire un disco del genere. Molte band che amano sperimentare si concedono prima o poi nella loro carriera ad un album in cui abbandonano le pesanti distorsioni caratteristiche del Metal, basti pensare ai classici Damnation degli Opeth, The White degli Agalloch, Origin dei Borknagar. Rara Vez non fa eccezione: Marta Barcia accantona per una volta le quattro corde per sedersi al pianoforte, diventando ancora più sensuale di quanto già non sia, mentre J.L. Montáns indossa la sua fida chitarra e fa danzare alla grande le proprie dita. Poesia in movimento. A tal proposito mi permetto di rivolgere dei complimenti speciali a Montáns e ai Kathaarsys per non aver ceduto alla tentazione di usare la chitarra acustica: ogni singola nota di chitarra è suonata con la chitarra elettrica, col risultato che gli arpeggi sono molto più corposi ed espressivi. Scelta felicissima, e me ne compiaccio dato che in un modo o nell’altro la chitarra acustica sembra finire sempre per contagiare chiunque. In un simile scenario in cui pianoforte e chitarra elettrica si scambiano sublimi effusioni, alla batteria di Adrián Hernández toccherebbe lo scomodo ruolo di reggere il moccolo, ragion per cui in questa occasione ha preferito defilarsi completamente. Ma non è tutto, giacché come al solito i Kathaarsys dedicano grande attenzione ad ogni singolo aspetto delle loro opere: "Lyrics with a journalistic point of view, music rooted in the Spanish classical way including piano as a new main instrument and using the Galician language for the first time. The look of the new release will be different from the usual typical plastic box and will offer a great content in a big format". Si tratta in realtà di un formato gigante 21 x 30 cm che emula un quotidiano, nero su bianco, due spesse pagine in cartone che si aprono a libro, dentro le quali si trova il disco. Insomma, a tutto ciò che riguarda Rara Vez è stata prestata una maniacale attenzione, e tutte queste stranezze caratterizzano quello che probabilmente rimarrà un capitolo isolato nella discografia della band - come del resto sembrerebbe suggerire il titolo stesso.

A questo punto qualcuno avrà notato che all’inizio ho parlato dei trentatré minuti di Rara Vez, quando invece il disco dura in realtà quaranta minuti. Infatti purtroppo negli ultimi sette minuti salta fuori la magagna: il grande rammarico di questo disco quasi perfetto è proprio il finale, ossia l’ultimo dei cinque brani: A Involución Das Masas. Esso significa sette minuti e dico sette di narrazione in gallego, la lingua parlata in Galizia, terra di origine della band. Sette interminabili minuti tutti uguali, senza che il tono di voce abbia grande espressività, senza che subisca la minima variazione, e soprattutto senza atmosfera. Dopo il primo minuto ci si sente irritati, dopo il secondo il bonus sopportazione è più che esaurito, e dopo il terzo si vorrebbe tirare una botta in testa al narratore per farlo star zitto. Ma non si può, perché davanti a noi c’è un disco e non una persona...così non resta altro da fare che fermarlo anzitempo. Tante, anzi tantissime band sono cadute sulle narrazioni, e i Kathaarsys non sono né i primi né gli ultimi: una voce troppo preponderante, troppo monotona, ma soprattutto troppo, troppo, troppo prolungata. Non so cosa volessero ottenere i Kathaarsys con questo brano, che con ogni probabilità è coerente con il concept che sta dietro il disco, ma musicalmente parlando si tratta di un pugno in un occhio, è un vero peccato chiudere un disco della raffinatezza di Rara Vez in questo modo impacciato e grossolano. A Involución Das Masas è più che altro A Involución Da Música, e lascia quella sensazione di impotenza che consiste nell’essere stati defraudati di un grande capolavoro che fino a pochi minuti prima ci era cresciuto sotto gli occhi prendendo forma poco a poco, accompagnato da quell’emozione unica che si vive quando si ascolta un nuovo disco per la prima volta e lo si scopre pezzetto dopo pezzetto. Questa conclusione è una mancanza imperdonabile.

E allora forse è proprio questa la vera degna conclusione di Rara Vez: raramente capita di assistere ad una simile opera musicale, e ancor più raramente capita che essa cada così malamente proprio nel finale, dopo trentatré minuti praticamente perfetti. Ma una volta digerita la delusione rimane comunque la coscienza degli altri, superbi, ineguagliabili trentatré minuti, i quali costituiscono una parentesi musicale più unica che rara.

01 - Manipulación (08:33)
02 - Traxedia Española (09:47)
03 - Crítica Da Estupidez Pura (04:29)
04 - Retorno á Idade Media (10:06)
05 - A Involución Das Masas (07:09)

domenica 6 maggio 2012

Kroda - "Fimbulvinter"

Hammermark Art, 2007
Nella mitologia nordica, che io da sempre ritengo una culla di meraviglie tutta da scoprire, il Fimbulvinter è un terrificante inverno che dura tre anni ininterrotti e che presagisce alla fine del mondo, il Ragnarok. Gli ucraini Kroda, ormai giunti alla loro terza release discografica ufficiale, compiono un lavoro magistrale nel trasporre in musica la potenza evocativa e mitica di quella tremenda esplosione di gelo e apocalisse, partorendo un disco che definire convincente ed ispirato è dire poco. Immagini e scenari scorrono vividi durante l'ascolto, rendendo l'esperienza di questo "Fimbulvinter" davvero ricca e intensa.

Non si tratta tuttavia di musica facile da ascoltare e da assimilare, per via della sua intrinseca pesantezza ed aggressività. Fin dalla prima traccia, la lunga "The Beginning Of Winter Night Of Oskorei", si capisce infatti che la band non vuole risparmiare le orecchie di nessuno, così come il lungo inverno morde tutti con ferocia e senza pietà alcuna. Rispetto ai due dischi precedenti, "Fimbulvinter" è senz'altro più spietato e mordace; ma non è solo durezza che i Kroda ci propongono. Sulla base black molto rocciosa e potente, dai suoni notevolmente ingrossati e dalle ritmiche spesso mitraglianti (le linee di basso sono eccezionalmente pompate e poderose), si stagliano anche delle stupende suggestioni folkloristiche e momenti di pura emozione melodica, esaltati al massimo dall'uso di strumenti tipici come i flauti (veri, non sintetizzati: e la differenza si sente) e il quasi onnipresente scacciapensieri siciliano. Non si è assolutamente persa la vena romantica del gruppo, la quale però stavolta, unita ad un suono più potente e schiacciante, acquista paradossalmente ancora più fascino.

I brani si sviluppano con un continuo alternarsi di sezioni spaccaossa e momenti di inquieta riflessione, spezzati da aperture melodiche da brivido che portano un po' di luce in questo mondo raggelato da questo inverno innaturalmente lungo e tagliente. Ne è un perfetto esempio la successiva "Glacial Riders Of Fimbulvinter", giocata su un sinistro e battagliero riffing di chitarra che si alterna a sezioni pulite e ad un flauto dal sapore addirittura orientale, il cui timbro viene esaltato da una produzione semplicemente magnifica. I frequentissimi blast beat, presenti praticamente in ogni brano e in dosi massicce, fanno coppia con un'aggressiva e preponderante voce in screaming per ricreare le atmosfere "nevose" e tempestose del glaciale Fimbulvinter, simboleggiando perfettamente il turbinare dei fiocchi di neve e le valanghe che procedono inarrestabili, radendo al suolo intere foreste e villaggi; tuttavia, la controparte melodica strumentale è sempre presente e rende l'ascolto estremamente suggestivo, slegandolo da un impatto unicamente basato sulla potenza sonora sprigionata. Non si può infatti basarsi sulle linee vocali per cercare una melodia: lo screaming è talmente tirato e marcio che ha obiettivamente poco di musicale, assomigliando di più ad una lunga e velenosa recitazione.

I brani sono legati gli uni agli altri in modo abbastanza evidente, poichè il finale di ciascuno ricorda molto ciò che poi troveremo nell'inizio del brano successivo. Tale soluzione è stata sfruttata davvero bene, donando al disco una perfetta continuità ed eliminando i momenti morti. Ogni episodio è possente, aggressivo ma finemente ricamato, ricco di sfumature e momenti paradisiaci; ne sono un esempio le due stupende "...Where Brave Warriors Shall Meet Again" e soprattutto la celestiale "Funeral Of The Sun". Già la prima delizia le nostre orecchie con furibondi assalti sonori che improvvisamente lasciano il posto ad arpeggi e melodie lancinanti, dalla bellezza sconvolgente; ma quando parte lo spettacolare funerale del nostro astro, oscurato permanentemente dall'innaturale inverno, c'è solamente da prostrarsi dinanzi alla delicata magia del flauto e delle maracas, alla primordiale violenza degli elementi naturali, all'asprezza indomabile delle sezioni vocali e ad una parte conclusiva sognante ed elegiaca, che spazza via l'immane quantità di violenza attraverso cui siamo appena passati. Credo che il suddetto brano sia uno dei più begli esempi di brano folk - black che possiamo trovare in circolazione, una vera perla di composizione e accostamento di emozioni differenti. 

Chiude il cerchio una riuscitissima cover dei Branikald, che i Kroda riescono a rendere propria in maniera magistrale, e che potrebbe benissimo essere scambiata per un brano originale del gruppo. Per nulla fuori contesto, essa aggiunge un tocco di classe all'album, nonostante io generalmente non apprezzi le cover quando si inframmezzano a brani originali. Questa volta però, visto l'eccellente risultato, non posso che approvare la scelta dei Kroda, che con questo "Fimbulvinter" hanno confezionato un prodotto davvero riuscito: non gli manca infatti nulla per essere considerato non dico un classico, ma quasi. Potenza schiacciasassi, velocità, melodia, tecnica, ottimo songwriting, senso della progressione, buona varietà e coerenza interna: devo spendere altre parole per convincervi che questo disco è una cannonata?

Lasciatevi rapire dalle fauci dell'Inverno, esso saprà cosa fare delle vostre insignificanti e tremule membra...

01 - The Beginning Of Winter Night Of Oskorei (11:43)
02 - Glacial Riders Of Fimbulvinter (12:08)
03 - ...Where Brave Warriors Shall Meet Again (8:56)
04 - Funeral Of The Sun (10:57)
05 - A Stormrider (Branikald cover) (11:23)

giovedì 3 maggio 2012

Wolves In The Throne Room - "Celestial Lineage"

Southern Lord, 2011
Il nuovo lavoro dei Lupi Nella Stanza Del Trono era atteso con molto interesse e fervore da parte dei fan, e non a torto. Ormai affermati come una delle più interessanti e originali realtà del black metal americano, i due fratelli Weaver sono riusciti a costruire attorno a sè un vero e proprio mondo: il ritiro in una fattoria autarchica, l'agricoltura biodinamica, le tematiche filosofiche e antroposofiche, le pesanti camicie di flanella al posto del face painting e dei vestiti borchiati, e soprattutto la personale e riuscita rielaborazione dei canoni del black metal "classico", sapientemente trasmutato in una miscela di grezzume "gentile" e di suggestioni sperimentali - psichedeliche dal sapore post rock. Con simili premesse alle spalle, è ovvio che la band dispone di un buon numero di seguaci, uno "zoccolo duro" che attende con ansia ogni nuova uscita dei propri mentori. Ma mai come in questo caso l'aspettativa era alta, nei confronti dei Lupi.

Il precedente "Black Cascade" aveva mostrato al mondo una band ormai matura e capace di rinnovarsi disco dopo disco, dando spazio alla sperimentazione stilistica (il debutto "Diadem Of 12 Stars"), alla solennità elegiaca ("Two Hunters"), alla cupezza impenetrabile ("Malevolent Grain") e infine, con il disco sopracitato, alle sonorità dirette e impulsive, ma non per questo prive di quell'alone di fascino che da sempre i due fratelli infondono nella loro musica. Questo ultimo "Celestial Lineage" può essere considerato come la perfetta summa di tutte le capacità del gruppo, il compendio di tutto ciò che i nostri hanno suonato finora, migliorato ancora un po' e presentato in una veste elegante e raffinata. Basta dare un'occhiata al superbo artwork, curato da veri professionisti del settore, per rendersi conto che questo album ha avuto una cura davvero maniacale, sia dal punto di vista estetico sia musicale. Lo dimostra la splendida e maestosa opener "Thuja Magus Imperium", da subito impegnata nel farci precipitare nuovamente in quello spettacolare abisso di suoni penetranti e misteriosi con i quali i Wolves amano circondarci. Le distorsioni sono dilatate ed eteree, i ritmi passano dal veloce al velocissimo per poi perdersi in sezioni dalla lentezza suggestiva e in liquidi intermezzi ambientali, le inafferrabili linee melodiche continuano la loro consueta opera ammaliante, le sovraincisioni conferiscono al sound una pienezza ed un'evocatività invidiabile. La mistica potenza della natura è ancora una volta l'elemento cardine del sound dei Lupi, che tentano di trasporre in musica i superbi paesaggi dell'area in cui vivono; con suggestioni pagane e grandi dosi di riflessione e introspezione, le ruvide sonorità black metal riescono così a diventare perfino rilassanti, pacate, sulfuree e per nulla urtanti. Come di consueto, i Wolves non vogliono suonare musica distruttiva o nichilista: è così che anche un brano tirato come "Subterranean Initiation" non dà mai l'impressione di essere cattivo, bensì suggerisce facilmente immagini oniriche ed estatiche, come quelle evocate da un rituale pagano attorno a un falò notturno. La greve e primordiale voce in screaming è una lama tagliente che scava a fondo nella nostra anima, come un pensiero che si insinua a fondo nell'inconscio; i sottili tappeti di sintetizzatori in sottofondo creano un substrato onirico che aumenta ancora di più il carattere "immaginativo" della musica. E tutto è amalgamato con una classe e una maestria che fa paura.

Inframmezzati da alcuni interludi di pura atmosfera, i brani scorrono come il lento espandersi di un gas, che piano piano si dilata e ingloba tutto ciò che incontra, compenetrandolo gentilmente con il proprio essere. Evidente è lo sforzo compiuto dal gruppo per rendere la propria musica ancora più evocativa e magniloquente del solito, sforzo che traspare specialmente da un brano come "Woodland Cathedral", superbo interludio di pura atmosfera che vede come protagonista una celestiale voce femminile, l'organo ecclesiale e delle distorsioni liquide, impalpabili, che si uniscono ai sintetizzatori creando un'atmosfera magica e visionaria. Ma il meglio viene con le ultime due tracce, "Astral Blood" e soprattutto "Prayer Of Transformation"; la prima, una bilanciata catarsi di violenza e ragione; la seconda, una cosmica elegia che con le sue sonorità sovrapposte e dilatatissime ci stacca definitivamente dal mondo terreno e ci proietta verso le nascoste immensità del mondo spirituale.

"Celestial Lineage" non si spinge molto oltre i conosciuti confini del sound del gruppo, a parte un'aumentata propensione per la vena psichedelica. Esso comunque è probabilmente il miglior lavoro che i nostri abbiano mai partorito: contiene tutto ciò che i Lupi sono stati e sono capaci di fare, e lo dà alla luce con una padronanza e una maturità ormai invidiabile. Semplicemente una conferma della bravura di questi ragazzi, che proseguono il proprio discorso musicale / esistenziale con coerenza e fierezza, rendendoci partecipi delle meraviglie del Creato con la loro musica intensa, concettuale e variopinta. Un disco che fa volare con il pensiero, e se lo vogliamo anche col fisico: non sarà difficile provare una sorta di distacco dalla fisicità, se ci si immerge completamente nelle sue sonorità. Da scoprire poco per volta, e da vivere.

01 - Thuja Magus Imperium (11:42)
02 - Permanent Changes In Consciousness (1:54)
03 - Subterranean Initiation (7:09)
04 - Rainbow Illness (1:28)
05 - Woodland Cathedral (5:26)
06 - Astral Blood (10:16)
07 - Prayer Of Transformation (10:57)