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sabato 30 giugno 2012

Traumatic Voyage - "Cogito Ergo Sum"

Autoprodotto, 1998
Presentazione: “Finalmente una cover e un booklet decenti!”, viene subito da esclamare appena si ha tra le mani Cogito Ergo Sum prima ancora di averlo ascoltato, il quarto full-length della one-man band Traumatic Voyage dell’enigmatico Astorian. Sì perché in effetti i dischi precedenti, a dispetto dell’ottima musica che contenevano, si presentavano in modo davvero tremendo – diciamo che non invogliavano molto all’ascolto, per usare un eufemismo. Ma non solo l'artwork è fatto in casa: stavolta, in assenza di case discografiche disposte a rischiare il fiasco dando voce alla sua musica elitaria, Astorian si è arrangiato da solo e si è anche autoprodotto il disco. Cogito Ergo Sum: così come Cartesio uscì dalla sonnecchiante notte del dubbio scettico sulla conoscenza grazie all'intuizione “penso, dunque sono”, allo stesso modo Astorian uscì dalla situazione di stallo dell'assenza di un'etichetta discografica assumendo il totale controllo della produzione della sua arte. Che ne è del suo cogito?

Stile: Sulla musica dei Traumatic Voyage si potrebbe dire molto, oppure molto poco. Molto, anzi moltissimo, qualora non li conosciate; molto poco, o forse addirittura niente, nel caso in cui abbiate già ascoltato i tre dischi precedenti. Infatti lo stile musicale permane pressoché immutato: brani sgangherati, allucinati, lunghi e vari, né troppo veloci né troppo lenti, ricchi di riff, arpeggi e sintetizzatori, tutti insieme uno sopra l'altro. Non c'è un attimo di pausa, non ci sono respiri: solo la voce continua di Astorian, un misto tra un latrato e una voce dall'oltretomba, che si mescola al marasma generale. Anche la produzione è quella affascinante di sempre, forse un pelo migliore: antiquata, vecchia, sembra che Astorian sia tornato indietro nel tempo per compiere le registrazioni di questo disco. Le sonorità delle chitarre sembrano essersi fermate alla tecnologia precedente, e questo crea un certo contrasto con la maggiore modernità dei sintetizzatori. Astorian è unico nel suo modo antiquato di proporre l'avantgarde metal.

Valutazione: A dire il vero, Cogito Ergo Sum si apre in un modo che ha dell'agghiacciante. Se si dovesse valutarlo in base alla lunga intro si potrebbe credere che Astorian abbia sbagliato ad incidere il disco. Ma come? Compro un disco dei Traumatic Voyage e mi ritrovo in mano la musica di un dj di serie C2 girone B? La verità è che si tratta di una provocazione che si ripete in forma attenuata alla quinta traccia Grenzgang. Ciò è testimoniato dal ripetuto urlo “Open your mind!” che Astorian ivi ripete con enfasi, che se da un lato avrà a che fare col concept dell'album, dall'altro è sicuramente un riferimento a questa elettronica un po' troppo discotecara. Sembra quindi che Astorian abbia voluto sperimentare con l'elettronica in modo più spinto ed esplicito che mai. Peccato però che in questo caso si tratti di una sperimentazione fine a sé stessa. Tu, caro Astorian, potrai anche strillare soddisfatto a gran voce “Open your mind!”, ma io posso replicarti con altrettante ragioni “Open your ears!”, perché la sperimentazione elettronica – che del resto hai sempre praticato – è una cosa, mentre l'inserzione di piccoli episodi isolati con un tunz tunz in sottofondo è tutt'altro. Non c'entra nulla col resto dei brani, e non è difficile accorgersene.
Detto questo, il resto del disco è grande. Ogni brano è grande, ed ha una combinazione di riff e arpeggi che lo rende unico rispetto agli altri. Stavo riflettendo su quale brano citare come esempio, ma mi rendo conto che fare un esempio non avrebbe senso: uno qualsiasi dei sette – visto che tre dei dieci totali sono solo intermezzi strumentali – si presta egregiamente allo scopo. A ben vedere Astorian non è nuovo a scrivere musica in questo modo; ma stavolta è tutto come magnificato. A conti fatti, Cogito Ergo Sum non aggiunge nulla di realmente nuovo alla proposta dei Traumatic Voyage, ma al tempo stesso risulta a mia detta uno dei loro dischi migliori, più maturi. Del resto Astorian non è uno che dà l’impressione di voler proporre di volta in volta qualcosa di nuovo; la sua enorme innovazione consiste nello stile musicale che fin dall’inizio ha saputo plasmare con visionaria lungimiranza, ed ora pare più intento a dare forma musicale alle proprie visioni spirituali che non ad inventarsi qualcosa di nuovo. Questo, non si può negarlo, gli riesce benissimo: Cogito Ergo Sum è uno di quegli album così ricchi di suoni, noise, riff e idee che ogni volta che lo si riascolta si scopre sempre qualche nuova sfumatura.

Conclusione: Chiudendo un occhio sulle isolate provocazioni elettroniche fini a sé stesse, posso dire che Cogito Ergo Sum è un po' l'album della maturità artistica per Astorian e i suoi Traumatic Voyage, l'album in cui egli ha definitivamente consolidato ed affinato il suo stile stralunato. E in fondo, se riuscirete ad escludere quel dannato tunz tunz dalle vostre orecchie – che è molto più vomito che cogito –, anche l'intro non sarà poi così malvagia...che altro dire? Il quarto fantastico full-length da parte di una delle band genitrici dell'avantgarde metal, band che non solo era così sconosciuta ai tempi da doverselo produrre artigianalmente, ma che continua ad essere totalmente sconosciuta anche oggi. Spero nel mio piccolo che queste poche righe possano essere utili a qualcuno per entrare in contatto con qualcosa di antico ed esoterico il cui fascino perdura immutato.

Curiosità:
* Astorian si era sempre fatto gli artwork da solo – il che si vedeva lontano un miglio. Stavolta per la prima volta è stato aiutato dalla moglie, e, nonostante il risultato rimanga tedescamente rude e grossolano, il miglioramento è sensibile. Manna dal cielo.
* Esiste un video ufficiale per Sagarmatha girato amatorialmente – probabilmente dalla moglie, ancora lei! – il quale ritrae Astorian che vaga per bosco notturno brandendo una torcia.
* Il disco è stato ristampato nel 2008 dalla Merciless Records, ed è ora disponibile per l'acquisto.

01 - Cogito Ergo Sum (04:17)
02 - No Man's Land (08:29)
03 - Sagarmatha (Call Of The Mountain) (06:08)
04 - Behind Dead Eyes (10:25)
05 - Grenzgang (04:09)
06 - Entropie (05:00)
07 - Jenseit Des Fleisches (13:05)
08 - To Be Life... (08:37)
09 - Anachronismus (11:39)
10 - Tripnosis (05:28)

martedì 26 giugno 2012

Helloween - "The Dark Ride"

Nuclear Blast, 2000
Presentazione: Confesserò fin da subito di non essere un fan sfegatato degli Helloween, né tantomeno conosco la loro discografia in tutta la sua estensione. Quello che però ho potuto capire è che, dopo il grande successo sul finire degli anni '80, i colossi tedeschi hanno vissuto una seconda giovinezza nella seconda metà degli anni '90 dopo un periodo di esperimenti poco apprezzati. Ma poi anche gli anni '90 finirono, e fu la volta del nuovo millennio. E cosa c'è all'inizio del nuovo millennio? The Dark Ride, disco uscito proprio nel 2000.

Stile: Per essere sinceri, il titolo è assai fuorviante: tutto quello che questo disco ha di Dark sono i quarantacinque secondi dell'intro; finiti questi rimane solo The Ride, che è un normalissimo disco di power metal classico, riproposto sotto le mentite spoglie di sonorità più moderne che hanno il merito di valorizzare tutta la potenza delle chitarre distorte e della batteria. C'è l'opener veloce ed aggressiva (Mr. Torture), ci sono i due brani un po' più lenti e macchinosi (Escalation 666 e Mirror Mirror), ci sono le due immancabili ballad (If I Could Fly e Immortal), e il resto si divide in buoni brani e filler tracks. Non c'è davvero nulla che tenti il distacco dal classic power: i brani sono costruiti sulla classica struttura strofa-ritornello, e hanno una durata media di poco più di quattro minuti. L'unico episodio che schizza prepotentemente in rilievo rispetto a tutti gli altri è la conclusiva The Dark Ride, una poderosa suite abilmente composta di quasi nove minuti che fa rimpiangere la sua fine.

Valutazione: The Dark Ride – o meglio, The Ride – è un disco che vola via tra alti e bassi, senza particolari colpi di scena né cadute di stile, forse un po' troppo ancorato ai cliché del genere, ma tutto sommato piacevole. In mezzo a questa mediocrità sopra la media della mediocrità mi sembra doveroso spendere parole di elogio per il brano che rende il disco degno di attenzione: la titletrack The Dark Ride, la cavalcata finale che chiude il disco, un'imprevedibile suite ricchissima di soluzioni emozionanti che si susseguono in modo perfetto. Senza inventarsi niente di stravagante, e senza andare a pescare nel mondo del prog, gli Helloween sono riusciti a costruire un piccolo capolavoro che incastra in modo ottimale una serie di melodie dai sapori differenti in pieno power metal, un brano da cantare dall'inizio alla fine che si stampa in testa con euforico entusiasmo. Se per assurdo gli Helloween avessero strutturato questo album componendolo con sette o otto brani scritti in questo modo, ora saremmo qui a parlare di uno dei dischi power più belli di sempre. Ma del resto non lo fecero nemmeno ai tempi di quei due gloriosi quarti d'ora intitolati Halloween e Keeper Of The Seven Keys, quindi non ha senso recriminare sotto questo aspetto...

Conclusione: Ci siamo detti tutto quello che c'era da dire: album di buon livello di poco sopra la media – posto che sia realmente sopra la media – che incorpora tutte le caratteristiche tipiche del power più classico, il cui unico momento davvero indimenticabile è il grandioso brano conclusivo. Può darsi che i fan degli Helloween siano irritati dalla sufficienza con cui sto trattando i loro beniamini, ma la verità è che in ambito power ho sentito cose migliori – vedi Manticora, Kiuas e Bejelit, tanto per fare alcuni esempi illustri. Ciò non toglie che The Dark Ride rimane un album che ogni tanto ascolto ben volentieri, forte della trepidante attesa della cavalcata conclusiva...

...take a place on the dark ride, slowly creeping up, quickly coming down, take a spin on the dark ride, may too far from the other side...

01 - Beyond The Portal (00:45)
02 - Mr. Torture (03:28)
03 - All Over The Nations (04:54)
04 - Escalation 666 (04:25)
05 - Mirror Mirror (03:44)
06 - If I Could Fly (04:09)
07 - Salvation (05:43)
08 - The Departed (Sun Is Going Down) (04:36)
09 - I Live For Your Pain (04:00)
10 - We Damn The Night (04:06)
11 - Immortal (04:05)
12 - The Dark Ride (08:48)

lunedì 25 giugno 2012

Kroda - "Поплач Мені, Річко... (Cry To Me, River…)"

Stellar Winter Records, 2004
Presentazione: Sperduti in qualche angolo dell'affascinante Ucraina, dediti ad un misto tra folk e black dedicato alle bellezze e alla storia della loro terra nativa: è così che nacquero i Kroda, progetto condiviso dalle due menti compositrici di Eisenslav e Viterzgir. Ma a differenza dei loro più blasonati colleghi Ensiferum ed Eluveitie, tanto per citare due nomi tra i più noti, i Kroda non sembravano avere l'ambizione di arrivare ad un pubblico vasto. Essi si concentrarono piuttosto sulla loro musica, cercando di catturare le leggende pagane del loro paese in relazione alla bellezza della natura incontaminata prima che tale cultura venisse spazzata via dal cristianesimo, piuttosto che le aspettative di chi preferisce ascoltare qualcosa di più semplice ed orecchiabile. Pensate che quando esordirono nel 2004 col presente Cry To Me, River..., album dal titolo molto suggestivo, esso venne limitato a mille copie ed uscì addirittura in formato tape! Il disco vide poi una lunga serie di ristampe, fino a quella del 2012 targata Purity Through Fire che gli permise di pervenire nelle mie mani.

Stile: Un'introduzione in cui una bagpipe soffia leggera e sembra riportarci indietro nel tempo, viaggio magico condito da due soffici nacchere e un gong soffuso. Ma è solo l'inizio: una volta giunti sin nell'epoca dell'Ucraina pagana ecco che esplodono le infuriate, rozze, raschianti chitarre black metal. Si fa così strada a suon di spada un interessante mix tra pesanti stilettate in pagan black metal e melodie folk, alcune soavi, altre più battagliere. Un mix reso interessante anche – e soprattutto – grazie al songwriting, un songwriting di matrice tutta pagan black che ha quindi il grande merito di dare alle chitarre e al riffing lo spazio che si meritano. Questa equilibrata alternanza tra folk e pagan black genera brani cattivi, furiosi, famelici, ma al tempo stesso melodici e struggenti – in ciò anche il tremolo picking ha il suo bel merito, tecnica che purtroppo la maggior parte delle altre band folk dimentica per strada.

Valutazione: Considerare questo disco come un disco folk/pagan black sarebbe già sufficiente di per sé per ritenerlo un gran bel disco, di quelli da venerare e custodire gelosamente. Ma a mio giudizio il più grande merito dei Kroda è il loro personale modo di fare folk: il vasto uso di bagpipe e simili non limita in alcun modo il brillante svilupparsi del riffing, delle ritmiche, delle strutture, della musica insomma – contrariamente a quanto invece avviene con la maggior parte delle altre band folk, le quali sembrano curarsi unicamente di risultare orecchiabili grazie a qualche buona melodia. Io amo il folk, perché trovo che le sonorità degli strumenti nordici siano qualcosa di unico e sublime. Purtroppo però trovare una band folk che produca della musica completa e ben sviluppata sotto ogni aspetto si è rivelato proibitivo: per rintracciare qualcosa di ottimo che non fossero i Moonsorrow ho dovuto vagare in lungo e in largo, passando in rassegna una gran mole di band, fino a giungere con grande soddisfazione proprio ai Kroda. Finalmente! Alla luce di tutto ciò potete immaginare la mia soddisfazione il giorno che li scopersi. Brani come Endless Path Of Legends, Where The Peace And Calm Were Immortalized, Native Land, e soprattutto la stessa Cry To Me, River..., semplicemente fantastici, dotati di grande tatto, melodia e anche tanta adrenalina. Guarda te se c'era bisogno di andare a pescare un album uscito addirittura in formato tape per trovare un grande disco folk! Eppure ne è proprio valsa la pena. Un disco come Cry To Me, River... che riesce a fondere la squisitezza del folk con la rabbia e il songwriting del black merita di essere tenuto in ampia considerazione, alla stregua degli album migliori nel suo genere.

Conclusione: Il grande folk con un grande songwriting: questa è la vera grande nota di merito dei Kroda, e forse al tempo stesso anche il motivo del mancato riconoscimento della loro classe, relegandoli a vivere all’ombra di band più blasonate. Ma la qualità della musica prodotta non è ben correlata con la notorietà della band che la propone: i Kroda sono un ottimo esempio di band eccellente e sconosciuta. E pensate che Cry To Me, River... non è altro che il loro disco d'esordio...credetemi, la loro discografia è ancora lunga e ricca di soddisfazioni. Cominciate a dare una possibilità a quest'album, e vedrete che tutto il resto verrà da sé.

Curiosità:
* Originariamente uscito in formato tape, limitato a 1000 copie.
* Il disco si chiude con una superba cover di Apocalypse degli Hypocrisy, brano di apertura del loro album The Fourth Dimension (1994). Nonostante il brano originale sia cantato, la cover dei Kroda è strumentale.

01 – Крода (Kroda) (01:38)
02 - Приданий Бесконечный Путь (Endless Path Of Legends) (07:27)
03 - Где Увековечен был Мир и Покой (Where The Peace And Calm Were Immortalized) (07:33)
04 - Иней Крови (Hoarfrost Of Blood) (05:01)
05 - Рідний Край (Native Land) (08:45)
06 - Грому Палиці Коряві (Gnarled Cudgels Of Thunder) (05:45)
07 - Поплач Мені, Річко... (Зрада Князя Володимира) (Cry To Me, River... (Betrayal Of Knjaz Volodymir)) (05:52)
08 - Apocalypse (Hypocrisy cover) (05:59)

mercoledì 20 giugno 2012

Primordial - "Storm Before Calm"

Hammerheart Records, 2002
Un riff turbinoso e gigantesco come una cascata, accompagnato da una batteria parossisticamente veloce e mitragliante; è questo lo storico incipit di questo stupendo album targato Primordial, vera icona della commistione tra epic, folk e black metal. Un disco che ormai ha compiuto dieci anni ma non soffre minimamente il passare del tempo, poiché la freschezza e la genuinità che racchiude non passano mai di moda, specialmente se sono supportate da ottime idee e da un songwriting longevo e interessante. Inutile dire che è esattamente il caso dei Primordial, i quali finora non mi hanno mai deluso.

Gli irlandesi sono progressivamente migliorati di disco in disco, e giunti alla quarta fatica discografica hanno secondo me prodotto quello che è il loro disco migliore, l'icona della loro consacrazione nel genere. "Storm Before Calm" unisce, con sapiente maestria, la grezza irruenta di "Imrama", le atmosfere oscure e decadenti di "A Journey's End" e le splendide linee melodiche di "Spirit The Earth Aflame", esaltando inoltre all'ennesima potenza l'alone epico e drammatico che fa sempre sembrare di essere nel corso di un'infuocata battaglia di lame e scudi. Non si tratta però unicamente di un'epicità assimilabile alle battaglie o al folklore in sè; la definirei più un'epicità "sofferta", nella quale vive un dramma cocente (il quale spesso si identifica con la caduta di valori dell'età moderna, tema della grandiosa e monumentale opener "The Heretics Age"). Il collante perfetto dell'album, nonché elemento indispensabile e caratterizzante, è la doppia voce di Alan Nemtheanga, vocalist dalla timbrica inconfondibile e dall'espressività imbarazzante, che sa perfettamente quando passare dal cantato pomposo e accorato allo screaming / growl feroce, e al contempo sa anche ammaliarci con dei sussurri quasi demoniaci; potrei dire che la sua è la più perfetta delle voci possibili per cantare in un disco epic (senza dimenticare la sua versatilità: quattro anni dopo lo sentiremo cantare addirittura negli apocalittici doomsters Void Of Silence, con risultati altrettanto fenomenali). Alan sono i Primordial, i Primordial sono Alan (senza nulla togliere ai bravissimi musicisti che lo accompagnano, ma è giusto dire che senza la sua voce i Primordial non sarebbero più gli stessi, un po' come se il cantante degli Opeth non fosse più Mikael Akerfeldt!).

Il disco non ha paura di esplorare strade differenti: i brani non ricalcano necessariamente lo stile di quelli che l'hanno preceduto, mostrando una buona varietà che tuttavia non va mai a sconfinare fuori da quella che è la proposta musicale della band. Coerenza invidiabile unita alla volontà di non suonare sempre uguali, questo è uno dei punti di forza della band irlandese. Grazie ad un'ottima produzione, alla pienezza delle partiture chitarristiche e soprattutto alle potentissime percussioni, l'effetto "dramma" è stato centrato in pieno: ecco quindi materializzarsi delle composizioni davvero interessanti come "Fallen To Ruin", tragica e ottimamente bilanciata tra la misteriosa introduzione acustica e la potenza dei riff e dei muri di chitarre che seguono marziali; "Cast To The Pyre", con il suo riff mellifluo e suadente; oppure "Sons Of The Morrigan", che con le sue melodie un po' contorte e la sua batteria sincopata pare sempre indecisa se voler esplodere o volersi trattenere, come lacerata da un dilemma interiore. Degne di nota anche l'aggressiva "Sun First Rays", che ci riporta un po' alle selvagge interpretazioni del debutto "Imrama" (con tanto di parolaccia al seguito di uno stop and go!!), e come controparte l'acustica e strumentale "What Sleeps Within", dove la band esplora la propria vena folkloristica, concedendole molto più spazio di quanto usualmente fa. Particolarissima è inoltre la conclusiva "Hosting Of The Sidhe", con le sue atmosfere quasi orientaleggianti, mistiche e ipnotiche; una voce sussurrata e un tappeto strumentale tremolante ci danno i brividi dall'inizio alla fine, specialmente nel finale che va lentamente a sfumare. Quando il CD smette di scorrere nel lettore, la sensazione è quella di aver compiuto un viaggio storico e appassionante nella civiltà umana, con tutte le sue vicende e le sue miserie; se questo era l'obiettivo dei Primordial, direi che l'hanno azzeccato in pieno. Non a caso, citano la Storia (quella con la S maiuscola) nel loro booklet, spiegando che l'album è nato proprio per permettere a ciascuno di reinterpretare liberamente il corso degli eventi, diventandone partecipe al cento per cento.

"Storm Before Calm" è in definitiva un album maturo, ben costruito e carico di significati. Evocativo, potente e ispirato, può tranquillamente essere considerato come un caposaldo dell'epic black, così come i Primordial possono essere considerati un gruppo ormai storico, una di quelle band presso le quali bisogna passare obbligatoriamente se ci si vuole avvicinare alle affascinanti sonorità di questo genere. Con questo album non si sbaglia, ve lo garantisco!

01 - The Heretics Age (6:18)
02 - Fallen To Ruin (9:31)
03 - Cast To The Pyre (7:08)
04 - Sun First Rays (5:05)
05 - What Sleeps Within (3:14)
06 - Sons Of The Morrigan (8:17)
07 - Hosting Of The Sidhe (7:10)

giovedì 7 giugno 2012

Drudkh - "Eternal Turn Of The Wheel"

Season Of Mist, 2012
Qualcuno pensava che con il precedente "Handful Of Stars", i Drudkh avessero esaurito tutto ciò che avevano da dire, contaminando irrimediabilmente la loro musica con sonorità più leggere e orecchiabili, e venendo quindi meno alle loro origini, saldamente impiantate in un black metal di stampo atmosferico e squisitamente a metà tra il grezzo e il melodico. I motivi per pensarlo c'erano tutti, dato che di solito una band, quando intraprende la strada del declino, tende a percorrerla andando sempre più verso il basso; e nonostante "Handful Of Stars" non fosse un brutto disco (almeno nell'opinione di chi scrive), dopo l'eccellente "Microcosmos" è diventata evidente un'involuzione del sound e del songwriting, specialmente se come termini di paragone si prendono i primi e obbligatori album del combo ucraino.

I Drudkh invece, dopo due anni dall'uscita di quel contestato album, ci sorprendono ancora una volta con questo "Eternal Turn Of The Wheel", che ha il compito di riportarci indietro ai tempi del primo, glorioso e mai troppo lodato "Forgotten Legends". Sì, avete capito bene: si ritorna alle origini, e per davvero. Il sound è tornato ad essere ruvido, come una pietra irregolare e solcata da torrenti impetuosi; le chitarre sono tornate ad essere delle taglienti lame di ghiaccio e le distorsioni occupano la quasi totalità del disco lasciando poco spazio agli interventi "tranquilli" (che comunque ci sono, centellinati ma ben contestualizzati); le atmosfere hanno lasciato completamente da parte la vena riflessiva post - rock e sono invece tornate ad essere malinconiche e depressive, di stampo prettamente autunnale e decadente. Un brano come "Breath Of Cold Black Soil" è un vero toccasana per chi considerava i Drudkh come un gruppo ormai spacciato, dato che contiene praticamente tutti gli elementi che hanno reso questa band così celebre nel suo ambiente. Chitarre sempre ronzanti e dal piglio triste si affiancano con decisione ad un tappeto tastieristico appena accennato, ma di grandissimo effetto, e perfino ai suoni di alcune lugubri campane che aumentano a dismisura la drammaticità del pezzo. E i pezzi successivi non fanno che migliorare ancora di più, raggiungendo momenti davvero epici (come nella cavalcata spaccacuore di "Farewell To Autumn's Sorrowful Birds"). Per quanto le linee melodico / armoniche siano diventate ancora più semplici e dirette (qui rasentiamo davvero un livello elementare), sono le atmosfere ad averci guadagnato immensamente, avendo riconquistato quel piglio "primordiale" e non rifinito che fece la fortuna dei grandi capolavori del gruppo. Dunque, poco importa se alla propria undicesima produzione discografica la band non riesce a produrre niente di particolarmente innovativo, niente che essa stessa non abbia già scritto in precedenza; ma abbiamo avuto la conferma che non si sono rammolliti, che sono ancora capaci di farci emozionare con un fraseggio di chitarra impetuoso, con una terrificante accelerazione in blast beat che lascia senza fiato, e soprattutto con una voce sofferente, animicamente distrutta, che declama il proprio dolore e lo fa piovere sulle nostre anime, come sale sparso sui campi. Tutti elementi che, mischiati assieme con una maestria ormai acquisita, trasformano poche note in un'esperienza valevole.

Quattro pezzi (più la brevissima introduzione acustica) che tecnicamente non valgono quasi nulla, che si basano su pochissimi elementi come da perfetta tradizione burzumiana, quattro pezzi musicalmente forse insignificanti; eppure, quattro pezzi che smuovono qualcosa dentro, che sanno toccare corde primitive e recondite, e sanno emozionare. Sembra una frase fatta da quattro soldi, ma è proprio così: l'acida tristezza che alberga in questi solchi è un qualcosa che volenti o nolenti ci cattura, durante l'ascolto. Tutto si può dire dei Drudkh, meno che siano freddi e macchinosi; e questo nuovo album è semplicemente arrivato come una conferma di tale fatto. E adesso aspettiamo il nuovo album...conoscendoli, arriverà molto presto!

01 - Eternal Circle (1:15)
02 - Breath Of Cold Black Soil (9:45)
03 - When Gods Leave Their Emerald Halls (9:21)
04 - Farewell To Autumn's Sorrowful Birds (7:48)
05 - Night Woven Of Snow, Winds And Grey - Haired Stars (8:00)

mercoledì 6 giugno 2012

If These Trees Could Talk - "Red Forest"

Mylene Sheath, 2012
Chiamatelo post - rock, chiamatelo rock atmosferico / strumentale, chiamatela musica sperimentale / progressiva: chiamate questo progetto come volete, sta di fatto che gli americani If These Trees Could Talk ci sanno davvero fare nel ricreare atmosfere soffuse e suggestive, che richiamano la natura e le sue mille sfaccettature, senza disdegnare nemmeno di svegliarsi ogni tanto e regalarci qualche cavalcata metallica che ci spedisce al tappeto con la sua potenza sonora. Ci eravamo gustati un superbo esempio di tale musica con il precedente disco "Above The Earth, Below The Sky"; ora i nostri sono tornati con un nuovo album per permetterci di assaggiare nuovamente quelle pregevoli sensazioni. Poco importa se seguono una strada già ampiamente battuta da altri: anche la musica classica, ai tempi, prese spunto dalla musica popolare già esistente. Per cui limitiamoci a parlare della qualità della musica qui presente.

Va subito detto che non c'è assolutamente nulla di nuovo rispetto a ciò che abbiamo già sentito nel precedente full length. Ancora una volta, atmosfere liquide e melodie sempre sfuggenti, raramente ben definite, si intersecano continuamente dando vita ad un interessante fusione di sonorità psichedeliche, melodiche e trasognate, grazie ad un superbo lavoro compiuto dai tre chitarristi (tre!) e da una sezione ritmica di tutto rispetto, con un basso ottimamente presente e una batteria in grado di accompagnare la musica con gusto e la necessaria discrezione. Il disco è ancora una volta interamente strumentale, scelta che mi sento di lodare: non hanno ceduto alla tentazione di aggiungere le linee vocali ad una musica che già di per sè è capace di dire tutto, grazie alla sua intensissima elaborazione stilistica e ai suoi continui sviluppi melodici. Per chi già conosce il gruppo, "Red Forest" non è altro che la naturale prosecuzione di ciò che era stato "Above The Earth...", quasi come se quel disco fosse uscito in doppio CD e questa ne fosse la seconda parte. Via libera quindi alla solita carrellata di effetti sognanti ed eterei, via libera a brani cangianti e variopinti che esplorano stati d'animo anche molto diversi tra loro, via libera ad una generale attitudine verso la meditazione e la contemplazione, più che verso l'aggressione sonora (che tuttavia, ripeto, in certi tratti non manca). Un suggestivo e magico viaggio nella natura, un disco che si potrebbe ascoltare camminando in un bosco, senza preoccuparsi del dove e del quando: la natura "progressiva" della musica fa sì che i riferimenti spazio - temporali diventino superflui, trasportandoci in un mondo dove dobbiamo semplicemente lasciarci andare alle sensazioni provocate dalla musica stessa. Non c'è inizio e non c'è fine, se non quelli intrinsecamente obbligatori che il CD racchiude; una musica simile potrebbe essere iniziata secoli fa e andare avanti all'infinito, come l'eterno fiume della vita. Noiosa, dite? Mai come in questo caso il giudizio di un ascoltatore è cosa soggettiva, a ciascuno spetta la propria musica. Va da sè che un disco come questo difficilmente può essere tacciato di banalità, e anche chi non riuscirà ad apprezzarlo non potrà dire che si tratta di musica che si ascolta tutti i giorni.

Per quanto riguarda la somiglianza con il precedente album, mi viene da dire: sì, è vero. Praticamente è tutto uguale. Uguale nei ritmi, nelle atmosfere, nei suoni, perfino nella durata. Ma mi viene anche da dire che non mi interessa. Quando la musica è di qualità, ascoltarla non stanca mai, e un disco del genere è in grado di darmi troppe belle sensazioni per poter stare a pensare ai dettagli. Del resto, gli AC/DC e i Motorhead pubblicano lo stesso disco da trent'anni, e nessuno ha mai niente da dire in proposito...perchè non possono farlo anche gli If These Trees Could Talk? Promossi dunque a pieni voti, acquisto caldamente consigliato agli amanti del genere, ma specialmente ai neofiti: per loro potrebbe davvero essere un colpo di fulmine.

01 - Breath Of Life (1:48)
02 - The First Fire (6:30)
03 - Barren Lands Of The Modern Dinosaur (5:57)
04 - They Speak With Knives (5:40)
05 - The Gift Of Two Rivers (1:11)
06 - Red Forest (8:25)
07 - The Aleutian Clouds (3:03)
08 - Left To Rust And Rot (5:24)
09 - When The Big Hand Buries The Twelve (9:38)

venerdì 1 giugno 2012

Wormhole - "The String Theory"

Ladymusicdistro, 2011
I lucani Wormhole nascono nel 2003 e si dedicano ad una musica che tenta di mescolare la durezza e la graniticità del metal con tematiche e sonorità tendenzialmente oscure, decisamente affini al gothic. Non sono gli ultimi arrivati, dato che hanno alle spalle già un discreto numero di produzioni tutte rigorosamente in proprio; questo disco è infatti nato grazie ai fondi raccolti con numerosi show dal vivo, in collaborazione con diverse band. Anche la line up ha avuto il tempo di mutare, fino ad arrivare alla formazione definitiva (Valentina Marvulli alla voce, Francesco Faniello e Andrea Canitano alle chitarre, Giuseppe Recchia al basso e Paolo Bitonto dietro le pelli e alle prese col sequencer). "The String Theory" è il loro primo album ufficiale, un concept diviso in due parti distinte, e che ora andiamo a scoprire.

Già dal titolo del disco si può capire che i ragazzi hanno una certa propensione verso le tematiche complesse e misteriose, come del resto viene spiegato nella biografia a proposito del loro nome: "Un wormhole rappresenta la metafora del collegamento tra idee, suoni, parole, contrasti solo in apparenza distanti tra loro, e che vengono messi in comunicazione alla stregua di dimensioni parallele. Il discorso testuale è anch’esso in linea con le scelte musicali: i testi della band trattano di contrasti tra le più disparate realtà, come Eros e Thanatos, natura ed evoluzione, candore ed erotismo". Tematiche da sempre care al gothic metal, che qui ben si sposano con un impianto musicale a tratti sconfinante in altri generi, come il doom e, per quanto riguarda i suoni, anche un po' di power e post - punk. Nella generale somiglianza con gruppi come i Lacuna Coil, i Nightwish o i Within Temptation, i Wormhole cercano di ritagliarsi uno spazio personale puntando molto sulla cantante Valentina, che irrompe prepotentemente sulla scena diventando la protagonista assoluta dei brani. Difficile, infatti, reperire lungo il CD una sezione puramente strumentale che duri più di venti secondi; la nostra vocalist canta praticamente sempre, con un timbro e un'interpretazione vocale a cavallo tra il teatrale, il misterioso e il grintoso. Nel complesso la sua prestazione è buona, mentre gli strumenti hanno un ruolo solamente marginale, dato che devono costantemente accompagnare la cantante. Non è che manchino le melodie, ma esse sono messe in secondo piano dalla preponderanza delle parti vocali (complice anche un mixaggio da rivedere). La rocciosità delle sezioni chitarristiche è comunque degna di nota e risulta essere uno degli elementi più caratteristici del cd, quello che distacca i Wormhole dalle gothic band che a volte tendono ad essere un po' troppo leggerine.

Forse è proprio questo scarso spazio dato alla sezione strumentale, insieme al mancato sviluppo dell'idea di suonare più aggressivi rispetto alla media, a rappresentare il punto debole del cd, che tende ad appiattirsi su una base abbastanza ripetitiva e punta tutto sul cantato per risultare convincente. Nonostante l'esecuzione sia di ottima fattura e alcuni riff sortiscano il sicuro effetto di incattivire gli animi con la loro potenza, avrebbe giovato un maggiore bilanciamento delle parti così da evitare quell'effetto "monocorde" che rende i pezzi piuttosto simili l'uno all'altro, senza grosse variazioni. Solo nel finale, con la lenta e melodica "Burning My Soul" la situazione cambia un po' e la band esplora nuovi lidi, ma consiglierei comunque al gruppo di rivedere il songwriting e di tirar fuori al 100% il proprio potenziale compositivo.  Concludendo, non posso certamente dire che "The String Theory" sia un brutto album; semplicemente mostra dei punti ancora da sgrezzare e da migliorare, ma si lascia ascoltare. Niente di nuovo sotto il sole, ma nemmeno una ciofeca; come debutto ci può stare, ora aspettiamo di vedere come si evolvono le cose in futuro.


01 - Your Mortal Remains (4:57)
02 - Autumn Leaves (4:23)
03 - Black Crows In Me (4:39)
04 - My Darkest Side (5:27)
05 - Storyteller (4:53)
06 - Poupeé de Porcelaine (4:01)
07 - Simon (5:16)
08 - Time Tilt (3:50)
09 - Burning My Soul (5:58)