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giovedì 2 dicembre 2010

Agalloch - "Ashes Against The Grain"

The End Records, 2006
Dopo la pubblicazione dell'acclamato "The Mantle", che rappresentava un vero e proprio inno alle atmosfere bucoliche e alla bellezza della Madre Terra, c'era un pò di fermento in attesa che uscisse il nuovo album degli Agalloch. Fino all'arrivo di questo "Ashes Against The Grain", il gruppo si era fatto vivo solo con i due controversi mini album "The Grey" e "Tomorrow Will Never Come", che nella loro apparentemente insensata brevità rappresentavano una fuga sperimentale, circoscritta ad un momento particolare nel quale la band sentiva l'esigenza di sondare il terreno con nuove sonorità e nuove soluzioni stilistiche. Qualcuno, sentendo gli improbabili risultati di un disco come "The Grey", aveva paventato l'arrivo della caduta di stile, l'incidente di percorso che avrebbe rovinato la discografia sinora impeccabile della band: ma fortunatamente non è stato così, poichè le particolari sperimentazioni proposte negli extended play sono rimaste limitate a sè stesse, mentre l'album vero e proprio ha condensato nuovamente tutta la maestria degli Agalloch in un prodotto che non si può definire in altro modo che un capolavoro, una dimostrazione di quanto questa band sia fuoriclasse.

Come si può facilmente intuire, con "Ashes Against The Grain" è cambiato molto rispetto a prima. Ora sono le chitarre elettriche, e non più quelle acustiche, a dominare la scena, ma il nuovo e fondamentale mattone costitutivo è la psichedelia, l'influenza del post rock e le sonorità ambient, che entrano massicciamente a far parte delle composizioni conferendo loro un alone più misterioso ed enigmatico, molto più difficile da assimilare ai primi ascolti. Abbandonate le atmosfere rilassate e pacifiche di "The Mantle", così come la magica schiettezza del debutto "Pale Folklore", il suono diventa pesante, massiccio e severo, con muri di chitarre impenetrabili e sulfuree, chitarre che avvolgono in spire gelide, invece di pennellare scenari di sole e beatitudine. Ce ne accorgiamo subito ascoltando la nebulosa opener "Limbs": raramente avevamo sentito una pesantezza simile in una canzone degli Agalloch, e soprattutto un carattere così ipnotico e ossessivo, con quella costante sensazione di tensione che non riesce mai a trovare un compimento, continuando ad accumularsi. Dopo un'introduzione fischiante, gli strumenti si associano in un muro compatto che sostiene un cantato anch'esso diverso: il particolarissimo scream di John Haughm ha inasprito il proprio timbro, facendosi rabbiosa, disperata e per certi versi quasi allucinata ... ma cosa succede? Di colpo tutto tace e fa capolino una tristissima melodia di chitarra acustica, che commuove all'istante con la sua disarmante semplicità. Ma è solo un oasi di pace in mezzo alla tempesta: in un finale ancora una volta carico di pathos, il brano recupera quota e ci annichilisce nuovamente, lasciandoci senza fiato. Alla fine dei dieci minuti di questa intensa opera capiamo già che l'album sarà un macigno emotivo piuttosto difficile da digerire, ma ci viene in soccorso la veloce e ritmata "Falling Snow", una up - tempo rabbiosa e melodica nello stesso momento, che si apre con un riff di chitarra semplicemente entusiasmante per poi proseguire in un turbine di ritmi veloci e fughe chitarristiche pregevoli, ripetute mille volte senza per questo essere noiose.

Un breve intermezzo ambient, che coerentemente con il titolo riporta alla mente l'immagine di un'immensa montagna innevata sulla quale avventurarsi in attesa della morte liberatrice, ci porta dunque a "Fire Above, Ice Below", dove ritroviamo finalmente la pace dell'uomo che si trova al cospetto della bellezza della natura, in un brano che cresce lentamente tra dolci sezioni acustiche e improvvise cavalcate elettriche. Armonie meravigliose, motivi chitarristici gementi e il classico growl sussurrato, quasi impalpabile, nel complesso rendono il pezzo uno dei più evocativi ed emozionanti mai scritti dagli Agalloch, un brano da rivivere millle e mille volte, trovandoci sempre qualcosa di nuovo ad ogni nuovo ascolto. La successiva "Not Unlike The Waves" è un altro pezzo stupefacente, probabilmente il vero capolavoro degli Agalloch ad oggi: un riff polveroso e instabile, ritmica cadenzata e marziale, alternanza tra sezioni ruvide e parti melodiche di ottima fattura, urla lancinanti (è ormai entrato nella storia della band il memorabile e disperato grido "Solstafir!", parola islandese che sta ad indicare i raggi solari al crepuscolo), il cantato pulito che qui diventa protagonista quasi assoluto e raggiunge vette di melodiosità degne dei migliori Ulver ... in sostanza, un brano perfetto, la consacrazione definitiva dell'estro della band, che assembla tutto ciò che sa fare meglio in un unico, indimenticabile e possente capolavoro.

Emotivamente quasi esausti, giungiamo infine alla trilogia finale composta dalle tre "Our Fortress Is Burning...", una sorta di ripresa della mitica "She Painted Fire Across The Skyline", che era anch'essa divisa in tre parti. Nel complesso è un pezzo quasi totalmente strumentale, nel quale si sentono maggiormente gli influssi post rock, finalmente liberi di sfogarsi come avrebbero voluto fare fin dall'inizio del disco, ma sapientemente trattenuti per lasciare all'ascoltatore la sorpresa finale. I tre pezzi potrebbero addirittura ricordare gli indimenticabili Isis di "Oceanic": lunghe sezioni strumentali che si sviluppano lentamente, in un fiume continuo che porta via con sè senza lasciare possibilità di uscirne, trascinati dalla corrente che non si ferma mai. La storia che vi sta dietro è drammatica, seppur recitata con pochi versi: la nostra fortezza (cioè il mondo intero) sta crollando, i cieli sono tinti di rosso, non c'è speranza per l'uomo, il suo Dio è stato un fallimento totale. I primi cinque rarefatti minuti ci trasportano nel vivo della scena con la drammatica "Bloodbirds", nella quale la depressione esistenziale raggiunge il culmine: essa è una cavalcata che potrebbe ricordare una battaglia, sostenuta da sofferti assoli di chitarra, una cavalcata che travolge tutto e tutti fino ad arrivare all'epilogo "The Grain": oltre sette minuti di minimalismo elettronico e sperimentazioni rumoriste, una perfetta conclusione per simboleggiare un mondo devastato nel quale non è rimasto nulla, solo distruzione e morte.

Per chi fosse tanto fortunato da avere la versione limitata su vinile, ci sarà anche una lunghissima bonus track strumentale: "Scars Of The Shattered Sky", un brano estremamente dilatato e rarefatto, onirico e perfino rilassante, dopo un'odissea così carica di emozioni. In conclusione, "Ashes Against The Grain" non è un album immediato e semplice da digerire: oltre ad essere molto variegato e ricco di influenze diverse, ha un carattere molto "chiuso", freddo, distaccato. Estremamente depressivo e sottotono, è un disco che ho ascoltato spesso nei momenti più tristi e vuoti della mia esistenza, per esempio la domenica pomeriggio, quando fuori piove o nevica, e la quieta immobilità del mondo suggerisce pensieri infelici e deprimenti. Non ho mai trovato una colonna sonora più adatta per accompagnare tali frammenti di vita: "Ashes Against The Grain" è sofferenza, è dolore sublimato, è l'irrimediabile solitudine dell'uomo. Bisogna entrare nel suo mondo poco alla volta, ma vale la pena fare questo piccolo sforzo, perchè quando le sue gelide note vi avranno avvolto il collo in una morsa, e avrete accettato con rassegnazione il suo freddo abbraccio, scoprirete che gli Agalloch hanno concepito un insuperabile capolavoro che merita di essere iscritto negli annali della musica di tutti i tempi.

Molto probabilmente, il loro miglior disco di sempre.

01 - Limbs (9:51)
02 - Falling Snow (9:38)
03 - This White Mountain On Which You Will Die (1:39)
04 - Fire Above, Ice Below (10:29)
05 - Not Unlike The Waves (9:16)
06 - Our Fortress Is Burning...I (5:25)
07 - Our Fortress Is Burning...II (Bloodbirds) (6:21)
08 - Our Fortress Is Burning...III (The Grain) (7:10)